Se la prima ha potuto reinventare, nella seconda metà del XX secolo, il progetto rivoluzionario indicato dalla seconda nel secoloprecedente, liberandolo dalle scorie passivizzanti che lo facevano dipendere da uno “sviluppo” del corso storico ancora in parte contemplato come oggettivamente necessario, ciò è esattamente dovuto a quanto di peculiare contiene, rispetto al progetto di realizzazione della filosofia, quello della realizzazione dell’arte.
Il rilancio immediato della parola d’ordine dei Consigli operai rivoluzionari nel ’68 era, d’altro canto, la figura concreta con la quale la lucidità e la sensibilità storica dell’I.S. mirava a spingere su un “piano inclinato”, verso quel progetto di civiltà, una situazione in cui nella società costituita si aprivano a catena i vasti crateri degli spazi pubblici, differenti e concomitanti, creati dagli operai di fabbrica, a partire dalla lotta contro l’organizzazione sempre più “infernale” del lavoro; quelli creati dai giovani frequentatori di licei e università, contro la sempre più stringente irregimentazione disciplinare ed economica degli studi; e quelli effimeri e convulsi creati dai blousons noir nelle strade, unico quanto ostile ambito di visibilità rimasto agli espulsi a vita dal lavoro in una società di lavoro.
Crateri che divennero voragine con l’innesco di un seguito incontrollabile di innumerevoli azioni gratuite, non nel senso futile del gesto capriccioso o dell’arbitrio “sovrano”, da cui erano totalmente aliene, ma nel senso del loro completo disinteresse, se rapportato alla moderna ideologia dell’interesse (senza, beninteso, rientrare per questo nell’ovile sacrificale cui i preteschi “militanti” retrogradi dei gruppuscoli, più o meno maoisti, volevano ricondurle). Moltitudini distrussero allegramente ogni investimento economico sul tempo futuro, sacrificarono con gioia lo spento e dubbio lustro differito e per procura, che una posizione o una funzione sociale prospettava loro, alla possibilità immediata di un grande gioco in cui era possibile splendere direttamente per chi si era.
Fu questa provocazione del dono aperto e irreversibile del proprio tempo e della propria iniziativa storica, in pura perdita, ad aprire una breccia irreparabile, quanto imprevedibile da ogni “scenario” di ingegneria socioeconomica, alla possibilità di una libera e radicale rigenerazione del rapporto interumano, tanto a lungo mutilato, distorto e atrofizzato dai processi della colonizzazione mercantile, burocratica e spettacolare.
Era un lusso inaudito di tempo quello che anzitutto si concedeva, e che offriva a tutti questo movimento creatosi interrompendo il flusso inarrestabile delle particelle temporali economizzate; e solo questo spiega lo sforzo spasmodico e coalizzato di tutti i poteri in cui si articola la logica del denaro, per indurlo a rinunciarvi, barattandolo con qualsiasi rivendicazione, fosse pure la più squalificata ed irrazionale.
“Noi non eravamo, come credevano gli imbecilli, intenti a segare il ramo dalle uova d’oro; ma avevamo cominciato a fare una immensa omelette con l’albero tutto intero (...) Ciò che ci raggruppava (...) era una specie di gran gioco di distruzione, di consumazione e di trasmutazione dei valori”, ha scritto recentemente uno dei protagonisti dello scandalo di Strasburgo; uno di coloro che impadronitisi della sezione di un sindacato studentesco allo scopo di chiuderla definitivamente, ne avevano dilapidato i fondi per stampare e distribuire gratuitamente un opuscolo che fece epoca. E così quelli che il 13 maggio 1968 occuparono una Sorbona, che era divenuta il centro al cui ascolto stavano le speranze di trasformazione radicale di tutta
(da M. Lippolis, Introduzione a Asger Jorn, La comunità prodiga - Critica della politica economica ed altri scritti, Editrice Zona)
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