Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

* * *

«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

* * *

«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)
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19 giugno 2011

Il battilocchio nella storia

"Il programma comunista" n. 7 del 1953


In una citazione di Engels fatta recentemente a proposito della valutazione marxista della rivoluzione russa riportammo la frase: "il tempo dei popoli eletti è finito". È poco probabile che giungano da molte parti a spezzar lance per la opposta tesi, dopo la scalogna che ha portato al nazismo tedesco; ed anche dopo la sorte toccata agli ebrei che scontano malaccio la incredibile incocciatura razzista plurimillenaria: stritolati prima dalla mania ariana di Hitler, poi dall'affarismo imperiale britannico, oggi dall'inesorabile apparato sovietico – domani, molto probabilmente, dalla cosmopolita, tollerante a chiacchiere, politica statunitense, che si fece buoni denti sulla carne nera.
Molto più difficile sarà stabilire che è passato il tempo degli individui eletti, degli "uomini del destino" – come Shaw chiamò Napoleone, ma soprattutto per sfotterlo coll'esibirlo in tenuta da notte – in una parola dei grandi uomini, dei condottieri e capi storici, delle supreme Guide dell'umanità.
Da tutte le bande infatti, e al suono di tutti i credi, cattolici o massonici, fascisti o democratici, liberali o socialistoidi, sembra che – in misura assai più estesa che per il passato – non si possa fare a meno di esaltarsi e di prostrarsi in ammirazione strofinatrice dinanzi al nome di qualche personaggio, ad esso attribuendo ad ogni piè sospinto il merito intiero del successo della "causa", di cui trattasi.
Tutti concordano nell'attribuire influenze determinanti, sugli eventi che passarono e che si attendono, all'opera, e per essa alle personali qualità dei capi che alla sommità si assisero: disputano fino alla noia se si debba farlo per scelta elettiva o democratica, o per imposizione di partito e addirittura per individuale colpo di mano del soggetto, ma concordano nel fare tutto pendere dall'esito di questa contesa, sia nel campo amico che in quello nemico.
Ora se questo generale criterio fosse vero, e noi non avessimo la forza di negarlo e minarlo, dovremmo confessare che la dottrina marxista è caduta nella peggiore bancarotta. Ed invece, al solito, fortifichiamo due posizioni: il marxismo classico aveva già messo senza riserve i grandi uomini in pensione; il bilancio dell'opera dei grandi uomini di recente messi in circolazione o tolti di mezzo conferma la teoria che sono cavatori di ragni dal buco.

IERI

Domande e risposte
Sono al riguardo interessanti le risposte di Federico Engels ai quesiti che gli furono posti su tale tema. Nella lettera del 25 gennaio 1894 parla dei grandi uomini il secondo comma della seconda domanda: ma sono ben poste entrambe.
Eccole:
1. Fino a qual punto le condizioni economiche influiscano causalmente (attenzione a non leggere casualmente).
2. Quale sia la parte rappresentata dal momento (se avessimo il testo credo potremmo meglio tradurre dal fattore) a) della razza; b) della individualità, nella concezione materialistica della storia di Marx e di Engels.
Ma interessa ugualmente la domanda cui rispondeva la precedente lettera del 21 settembre 1890: Come sia stato inteso da Marx ed Engels stesso il principio fondamentale del materialismo storico; se cioè, secondo loro, la produzione e riproduzione della vita reale siano esse sole il momento determinante, o soltanto la base fondamentale di tutte le altre condizioni.
La connessione tra i due punti: funzione della grande individualità nella storia e esatto legame tra condizioni economiche ed umana attività, è da Engels chiaramente spiegata nelle risposte, che egli modestamente afferma buttate giù in privato e non redatte con "quella esattezza" cui egli tendeva nello scrivere per il pubblico. Ed infatti egli si richiama alle trattazioni generali della concezione marxista storica che ha date nell'Antidühring (Parte I cap. 9 a 11, parte II cap. 2 a 4, parte III cap. 1) e soprattutto nel cristallino saggio su Feuerbach, del 1888. E quanto ad un esempio luminoso della specifica applicazione del metodo, rimanda al 18 Brumaio di Luigi Bonaparte di Marx, che descrive a tempera bruciante colui che può essere preso come prototipo del "battilocchio" – termine che presto andiamo a spiegare.

Continuità di vita
A costo di una digressione, che è anche un anticipo di un Filo la cui chiglia maestra sta da qualche tempo sugli scali del cantiere, vogliamo dare un bel bravo all'ignoto studente che avanzò la domanda della prima lettera. Al solito quelli che non hanno capito niente sono quelli che si atteggiano ad aver acquisito e digerito, colla pretesa di essere in grado di eruttarlo fuori, e salivar sentenze. I più semplici e seriamente impostati, invece, sono sempre convinti di dover meglio intendere, quando già hanno tocchi da maestri. Il giovane e per fortuna non onorevole interrogante adopera infatti al posto della normale espressione "condizioni economiche" quella esatta e bene equivalente alla prima: "produzione e riproduzione della vita fisica". Come allievi della successiva classe, cambiamo reale in fisica. L'aggettivo reale non ha lo stesso peso nelle lingue germaniche e latine.
Altra volta accennammo a passi dei maestri in cui si affiancano produzione e riproduzione, citando Engels dove definisce la riproduzione, ossia la sfera sessuale e generativa della vita, come la "produzione dei produttori".
Sarebbe inutile tracciare una scienza economica, perfino metafisica ossia con leggi immutabili, e tanto più se dialettica ossia volta a tracciare la teoria di una successione di fasi e di cicli, se esaminassimo un gruppo, una società di produttori, dediti sì ad atti lavorativi ed economici tendenti a soddisfare i loro bisogni conservando la loro esistenza e la loro forza produttiva fino al limite di tempo fisiologico, ma che fossero stati (poniamo da un capo razzista!) operati in modo da non potersi riprodurre, ed avere successori biologici.
Una tale condizione muterebbe, e lo ammetterà il seguace di qualunque scuola economica, fin dalla radice tutti i rapporti di produzione e distribuzione di questa stessa alquanto ipotetica comunità.
Ciò vale a rammentare che altrettanta importanza della produzione, che allestisce alimenti (ed altro) atti a conservare la vita fisica del lavoratore, ha, nello stabilire la trama delle relazioni economiche, la riproduzione biologica che prepara – con impegno rilevante di consumi e di sforzi produttivi – i sostituti futuri del lavoratore stesso.
Come vedremo a suo tempo con Engels e Marx contro Feuerbach, l'uomo non è tutto amore né tutto lotta. Comunque la integrale visione del doppio piedistallo economico della società vale a questo: il materialismo è ormai vittorioso finché tratta il campo della produzione: nessuno ivi contesta che vi predomini il criterio della somma materiale di risultati; e su ciò è facile fondare la teoria dell'attività di lotta passando dalle contese molecolari del preteso homo oeconomicus, che ha al posto del cuore non il ventricolo ma un ufficio di ragioniere, alla contesa delle classi, in cui si riassume, con l'economia, tutto il resto delle forme umane di attività. Ma è nel campo della genetica e della sessualità, in cui sembra ai pivelli più arduo realizzare la messa in fuga dei motivi trascendenti e mistici, e tradurre l'attrazione tra il maschio e la femmina – proprio nell'elevarla al di sopra delle sudicerie della moderna civiltà – in termini di causalità economica, che bisogna fondare i più robusti piloni della dottrina rivoluzionaria del socialismo.
Perché l'individuo, piccolo o grande a tenore del banale senso comune, tenda a profittare economicamente e concepisca eroticamente, è problema posto in modo miserabile e vuoto. Noi trasponiamo la dinamica del processo al corso della specie, ed affianchiamo lo sforzo per mantenerne vivi e validi gli elementi attivi, col procedere della sua moltiplicazione e continuazione, cicli entrambi assai più grandi di quelli in cui si avvolge l'idiota timore della morte, e la sciocca credenza nell'eternità del soggetto individuo. Son questi prodotti e connotati decisivi delle società infestate da classi dominanti e sfruttatrici, parassite nel lavoro e nell'amore.
La maledizione del sudore e del dolore, ideologia che definisce le società a dominio di classe, ossia fondate su monopoli dell'ozio e del piacere, sarà travolta via dal socialismo.

Natura e pensiero
La riduzione del problema qui direttamente messo in mira, ossia del problema delle personalità storiche, a quello generale della concezione materialista, appare immediata. Ammettete per un solo momento che il seguirsi, lo sviluppo, il futuro di una società o addirittura della umanità dipendano in modo decisivo dalla presenza, dalla apparizione, dal comportamento, di un uomo solo. Non vi sarà più possibile ritenere e sostenere che l'origine prima di tutta la vicenda sociale sia nei caratteri di date condizioni e situazioni economiche analoghe per grandi masse degli "altri" individui, quelli normali, quelli "piccoli".
Se infatti quel lungo e difficile cammino, che mai assumemmo ridurre ad una semplice automaticità, dal parallelismo delle posizioni nel lavoro e nel consumo, alla finale grande vicenda delle rivoluzioni sociali, del passaggio di potere da classe a classe, della rottura delle forme che determinavano quel parallelismo di rapporti produttivi, dovesse passare per la testa (critica, coscienza, volontà, azione) di un uomo solo, e ciò nel senso che costui sia un elemento necessario, ossia tale che in sua mancanza nulla si attui di tutto quel moto, allora non potrà negarsi che ad un certo momento tutta la storia stia "nel pensiero" e dipenda da un atto di questo. Qui vi è contraddizione insuperabile, poiché ciò concedendo, sarà forza soggiacere alla visione opposta alla nostra, che dice che nella storia non vi è causalità, non vi sono leggi, ma tutto è "accidentalità" imprevedibile, tutto casualità, che può studiarsi sì dopo, ma mai prima dell'accadimento. Si sarà fatto così, né più né meno, di cappello alla forca.
Come negare che sia una accidentalità la nascita di quel colosso, come evitare di ridurre tutto il campo della riproduzione ad un passo falso... di quello spermatozoo?
Abbiamo duramente lottato contro la concezione più razionale e moderna di quella "granduomistica", propria della borghesia illuminista, che voleva far passare preventivamente il fatto storico non per uno, ma per tutti i cervelli; anteponendo alla lotta rivoluzionaria la generale educazione e coscienza. Ma di questa concezione, incompleta e semilaterale, è ancor più insufficiente quella che tutto concentra nella scatola cranica singola, al che non si vede come altrimenti si provvederebbe se non con l'amplesso, tante volte rammentato nella tradizione, tra un essere divino e uno umano.
Abbiamo fatto a pezzi la teoria, ancora più sciocca di quella della coscienza popolare universale, che si basa sulla metà più uno dei cervelli per pilotare la storia, perché marxisticamente faceva pena e pietà; lasceremo vivere la teoria del cervello unico? Perché non allora quella del riproduttore unico, dello stallone umano, evidentemente meno balorda?
Ritorniamo infatti al quesito: Precedette la natura, o il pensiero? La storia della specie umana è un aspetto della natura reale, o una "partenogenesi" del pensiero?
Il breve scritto di Engels su Feuerbach, e meglio contro una apologia dello Starke (che egli al solito chiama: solo uno schizzo generale, al più alcune illustrazioni della concezione materialistica della storia) compendia una sintesi della storia della filosofia da un lato, e della storia delle lotte di classe dall'altro, magnifica per brevità e per vastità.

Fuori le carte!
Ce ne sarebbe abbastanza per un'esposizione-ruscello (ormai le sedute fiume si computano a giorni) di un paio di mezze giornate, con un adatto commento. Limitiamoci a rilevarne i soli connotati per provare l' identità.
Storicamente, rammenta l'autore, dall'idealista Hegel, la cui filosofia aveva potuto essere presa a base dalla destra conservatrice e reazionaria tedesca, derivò il materialista Feuerbach, e sotto l'influenza del materialismo e della Rivoluzione Francese, possenti antesignani. Da Feuerbach in certo senso derivarono le ulteriori e ben diverse concezioni di Marx e di Engels, dopo un'onda di ammirazione intorno al 1840 e all'uscita dell' Essenza del Cristianesimo, e dopo una critica non meno radicale di quella che Feuerbach aveva applicata ad Hegel, compendiata nelle famose tesi di Marx del 1845, per oltre quarant'anni rimaste ignote, che concludono con la undicesima: i filosofi non han fatto che interpretare variamente il mondo; si tratta ora di mutarlo.
Hegel aveva portato in primo piano l'umana attività, ma alla premessa non aveva potuto dare sviluppo rivoluzionario nel campo storico, per l'assolutezza del suo idealismo. La società futura col suo disegno e modello sarebbe già stata contenuta ab aeterno nella assoluta idea: fatta dalla mente di un filosofo questa scoperta e questo sviluppo, con norme proprie del puro pensiero, trasmessi tali risultati nel sistema del diritto e nell'organismo dello Stato, l'integrale realizzazione dell'Idea era compiuta. In che questo è da noi inaccettabile? In due posizioni, che sono le due facce dialettiche della stessa. Rifiutiamo la possibilità di un punto di arrivo, di un approdo definitivo e insorpassabile. Rifiutiamo la possibilità che fossero già date le proprietà e le leggi del pensiero, prima che il ciclo della natura e della specie si aprisse.
Ma citiamo dunque! "Al pari della conoscenza, non può la storia trovare una conclusione finale in uno Stato perfetto del genere umano: una società perfetta, uno Stato perfetto sono cose che possono sussistere solo nella fantasia; al contrario tutti gli Stati storici che si susseguono sono solo fasi transitorie nell'infinito cammino della società umana".
Hegel ha superato tutti i filosofi precedenti nel porre innanzi la dinamica dei contrasti di cui si compone il lungo cammino fino ad oggi. Purtroppo, come tutti gli altri filosofi, e come tutti i possibili filosofi, questo vivente ribollir di contrasti incapsulò e raggelò nel suo "sistema". "Eliminati che siano tutti i contrasti, una volta per tutte, siamo giunti alla cosiddetta verità assoluta; la storia universale è alla fine, e tuttavia essa deve procedere, benché non le rimanga più altro da fare; un nuovo insuperabile contrasto".
In questo passo Engels fa cadere l'obiezione vecchia, e risollevata da Croce poco prima della morte (vedi la confutazione in Prometeo n. 4 della II Serie) che proprio il materialismo marxista faccia finire la storia, per aver detto che quella tra proletariato e borghesia sarà l'ultima delle lotte di classe. Nel suo antropomorfismo insuperabile, ogni idealista scambia la fine della lotta tra classi economiche con la fine di ogni contrasto e di ogni sviluppo nel mondo, nella natura e nella storia, né può vedere, chiuso nei limiti che per lui sono luce e per noi tenebra, di una scatola cranica, che il comunismo sarà a sua volta un'intensa e imprevedibile lotta della specie per la vita, che ancora nessuno ha raggiunta, dato che vita non merita essere chiamata la sterile e patologica solitudine dell'Io, come il tesoro dell'avaro non è ricchezza, nemmen personale.

Lo spirito e l'essere
Giunge Feuerbach ed elimina la antitesi. La natura non è più la estrinsecazione dell'Idea (lettore: tieni stretto il Filo, che non è spezzato, andiamo verso la tesi che la storia non è l'estrinsecazione del Battilocchio!), non è vero che il pensiero è l'originario e la natura il derivato. Il materialismo viene, tra l'entusiasmo dei giovani, e anche del giovane Marx, rimesso sul trono. "La natura esiste indipendentemente da ogni filosofia, essa è la base su cui noi uomini, suoi prodotti, siamo cresciuti; oltre alla natura e agli uomini nulla esiste: gli esseri elevati che creò la fantasia religiosa sono solo il riflesso fantastico della nostra propria essenza". Ed Engels, fin qui, plaude anche da vecchio, solo si ferma a deridere il contrapposto che, per l'attività pratica, l'autore erige al posto dell'imperativo morale di Kant: l'amore. Non si tratta qui del fatto sessuale, ma della solidarietà, della fratellanza "innata" che lega uomo a uomo. Su questo si fondò il "vero socialismo" borghese e prussiano dell'epoca, impotente a vedere l'esigenza dell'attività rivoluzionaria, della lotta tra le classi, dell'eversione delle forme borghesi.
È questo il punto in cui Engels riepiloga la costruzione che conserva il fondamento materialista liberandolo dalla pastoia metafisica e dall'impotenza dialettica, che lo immobilizzavano, per altra via, nella stessa "glacialità storica" dell'idealismo, per rivestito che questo fosse apparso di volontà e di attività pratica.
Engels riporta la chiarificazione del problema alla formazione delle figure del pensiero fin dai popoli primitivi. Qui non possiamo che spigolare, ai fini di un angolo visuale più acuto, mentre sarebbe utile al movimento integrare ed allargare (indubbiamente vi provvederà il futuro) specie nei trapassi in cui Engels raffronta il suo dedurre con gli apporti delle varie scienze positive.
"La questione del rapporto tra il pensiero e l'essere, lo spirito e la natura... poteva essere posta nella sua forma più tagliente, poteva acquistare per la prima volta tutta la sua importanza, quando la società europea si destò dal lungo sonno del Medio Evo cristiano. La questione: qual è il primordiale, lo spirito o la natura? – Questa questione si acuì, rimpetto alla Chiesa, così: Ha Dio creato il mondo, o il mondo esiste dall'eternità?
"Questa questione, che nelle varie epoche si scrive in termini diversi, divide con le due risposte i due campi: materialismo e idealismo. Chi considera la natura (l'essere) come primordiale, è materialista, chi lo spirito (il pensare) è idealista. Ma allora occorre l'atto creativo, ed è notevole qui rilevare l'apprezzamento marxista dell'idealismo in questa drastica osservazione: "Questa creazione spesso è presso i filosofi, per esempio presso Hegel, ancora più ingarbugliata ed impossibile, che nel cristianesimo".
Chiarita questa separazione dei due gruppi di filosofi, non finisce la questione dei rapporti tra essere e pensiero. Sono essi estranei o compenetrabili? Può il pensiero degli uomini conoscere e descrivere appieno la naturale essenza? Vi sono filosofi che hanno contrapposto e separato i due elementi: l'oggetto e il soggetto; tra questi è Kant con la sua inafferrabile "cosa in sé". Hegel supera l'ostacolo, ma da idealista, ossia assorbe la cosa e la natura nell'Idea, che quindi ben può ravvisare e comprendere la sua emanazione. Ciò Feuerbach denunzia e combatte: "L'esistenza hegeliana delle 'categorie logiche' prima che esistesse il mondo materiale, non è altro che un fantastico avanzo della credenza in un creatore oltremondano". Ciò non basta che al compito di demolizione critica.
In una chiara esposizione Engels rimprovera a quell'atteggiamento, oltre il quale non aveva saputo andare la cultura tedesca, l'incapacità ad intendere la vita della società umana come un movimento e un processo incessante, al che Hegel aveva pure messo le basi. Tale antistorica concezione condannava il Medio Evo come una specie di parentesi inutile ed oscura (un analogo apprezzamento devono fare i marxisti della recente impostazione insensata della lotta e della critica antifascista e antinazista) e non ne sapeva inserire al suo posto le cause e gli effetti, scorgerne i grandi progressi e gli apporti immensi al corso futuro.
"Tutti i progressi realizzati nelle scienze naturali servirono loro solo come argomenti dimostrativi contro l'esistenza del creatore"... "Essi meritavano la derisione che fu rivolta ai primi socialisti riformisti francesi: dunque, l'ateismo è la vostra religione!".

Dramma ed attori
Segue la presentazione organica della dottrina materialista storica, forse la migliore che mai si sia scritta. Viene fatto il passo che Feuerbach non osò: sostituire "il culto dell'uomo astratto" con "la scienza dell'uomo reale e del suo sviluppo storico".
Con ciò si ritorna un momento ad Hegel: egli aveva instaurata (non scoperta) la dialettica, ma per lui era "l'evoluzione autonoma del concetto". In Marx essa diviene "il riflesso nella coscienza umana del moto dialettico del mondo reale". Come nella celebre frase, viene raddrizzata e poggiata sui piedi, non sulla testa.
Comincia la trattazione della scienza della società e della storia con metodo che coincide con quello applicato alla scienza della natura. Ma nessuno ignora i caratteri di questo particolare "campo" della natura, che è il vivere della specie uomo. Urgendo giungere alle "risposte" engelsiane, riportiamo solo qualche passo essenziale. "Nella natura vi sono agenti inconsapevoli... al contrario nella storia della società quelli che operano sono evidentemente dotati di consapevolezza, uomini operanti con riflessione o passione, tendenti a scopi determinati... Ma questa intenzione, sia comunque importante per l'indagine storica, specialmente di singole epoche ed avvenimenti, nulla può togliere al fatto che il corso della storia è dominato da intime leggi generali...Solo di rado avviene ciò che è voluto... tutti gli urti delle innumerevoli volontà e singole azioni portano ad uno stato di cose, che è assolutamente analogo a quello imperante nella natura inconsapevole. Gli scopi delle azioni sono voluti, ma i risultati che seguono da queste azioni non sono quelli voluti, o, in quanto sembrino corrispondere allo scopo voluto, hanno in conclusione conseguenze affatto diverse da quelle volute... Gli uomini fanno la loro storia, come che essa riesca, mentre ognuno persegue i fini suoi propri... i risultati di queste molteplici volontà agenti in diversa direzione e delle loro molteplici azioni sul mondo esterno, sono appunto la storia... Ma se si tratta di indagare le forze impellenti che – consapevolmente o inconsapevolmente, e veramente assai spesso inconsapevolmente – stanno dietro i motivi degli uomini operanti nella storia, e costituiscono i veri ultimi propulsori di essa, non si può trattare tanto dei motivi determinanti singoli, se anche di uomini eminenti, ma piuttosto di quelli che mettono in movimento grandi masse, interi popoli, intere classi; ed anche questi non momentaneamente, a modo di un fugace fuoco di paglia rapido ad accendersi e spegnersi, bensì a modo di un'azione durevole che mette capo ad una grande trasformazione storica".
Qui alla parte filosofica segue la parte storica fino al grande moto proletario moderno. A questo punto è messa fine alla filosofia nel campo della storia come in quello della natura. "Non importa più escogitare nessi nella mente, bensì scoprirli nei fatti".

Limpidi oracoli
Ricordate i quesiti, e sentite le risposte, non oscure e non ambigue come quelle dell'oracolo antico, ma trasparenti, a conferma delle nostre posizioni.
Alla questione ultima riferita, del 1890.
"Il momento che in ultima istanza è decisivo nella storia, è la produzione e riproduzione della vita materiale".
"La situazione economica è la base, ma i diversi momenti dell'edificio – forme politiche della lotta di classe e suoi risultati, costituzioni fissate dalla classe vittoriosa dopo le battaglie vinte, forme del diritto, e perfino i riflessi di tutte queste vere lotte nel cervello dei partecipanti, teorie politiche, giuridiche, opinioni religiose e loro ulteriore sviluppo in sistemi dogmatici – tutto ciò esercita anche la sua influenza sull'andamento delle lotte storiche, e in certi casi ne determina la forma. È nella vicendevole influenza di tutti questi momenti (= fattori) che, attraverso l'infinito numero di accidentalità... si compie alla fine il movimento economico".
Alla prima domanda della lettera del 1894 sull'influenza causale delle condizioni economiche: "Come condizioni economiche, che consideriamo base determinante della storia della società, intendiamo il modo con cui gli uomini producono i loro mezzi di esistenza e scambiano i loro prodotti (fino a che esiste divisione di lavoro). Tutta la tecnica della produzione e del trasporto è quindi compresa... Ciò determina la ripartizione della società in classi, le condizioni di padronanza e servitù, lo Stato, la politica, il diritto, ecc.".
"Se come ella dice la tecnica dipende in grandissima parte dalla scienza a maggior ragione questa dipende dalle condizioni e dalle esigenze della tecnica... Tutta l'idrostatica (Torricelli, ecc.) fu generata dal bisogno che l'Italia sentì nei secoli XVI e XVII di regolare i corsi d'acqua scendenti dalle montagne" (Cfr. vari scritti del nostro giornale e rivista sulla precocità dell'impresa agricola capitalista in Italia, e sulla degenerazione della tecnica di difesa idraulica moderna nell'inondazione del Polesine).
Sul comma a) della seconda domanda: il momento rappresentato dalla razza, diamo il solo bruciante apoftegma (a filare): "La razza è un fattore economico". Non avevate udito: produzione e riproduzione? La razza è una materiale catena di atti riproduttivi.
Ed infine il comma b), che riguarda il battilocchio, e col quale lasciamo il magnifico Federico.
"Gli uomini fanno essi la loro storia, ma finora non con una volontà generale e secondo un piano generale, neppure in una data società limitata. Le loro aspirazioni si contrariano; ed in ogni simile società prevale appunto per questo la necessità, di cui l'accidentalità è il complemento e la forma di manifestazione. Ed allora appaiono i cosiddetti grandi uomini. Che un dato grand'uomo, e proprio quello, sorga in quel determinato tempo e in quel determinato luogo, è naturalmente un puro caso. Ma, se noi lo eliminiamo, c'è subito richiesta di un sostituto, e questo sostituto si trova, tant bien que mal, ma alla lunga si trova. Che Napoleone fosse proprio questo corso, questo dittatore militare che la situazione della repubblica francese, estenuata dalle guerre, rendeva necessario, è un puro caso, ma che in mancanza di Napoleone ci sarebbe stato un altro ad occuparne il posto, ciò è provato dal fatto che ogni qualvolta ce n'era bisogno l'uomo si è trovato sempre: Cesare, Augusto, Cromwell, ecc.".
Marx! Engels sentiva ben l'urlo della platea: il benservito anche a lui: Thierry, Mignet, Guizot scrissero storie inglesi inclinando al materialismo storico, Morgan vi arrivò per conto suo, "i tempi erano maturi e quella scoperta doveva (stavolta non è nostro il corsivo) essere fatta".
Eppure in una nota al Feuerbach Engels dice: Marx era un genio; noi soltanto dei talenti. Sarebbe deplorevole che da tutta la dimostrazione taluno non avesse capito che differenze fortissime corrono da uomo a uomo come per la forza dei muscoli così per il potenziale della macchina-cervello.
Ma il fatto è che, avendo come massimo esempio liquidato proprio lo shawiano "uomo del destino", non possiamo illuderci di esserci tolti dai piedi i "fessi del destino", poveri autocandidati a coprire il vuoto, che la storia avrebbe pronto per loro, e pieni di preoccupazione per l'eventualità di mancare all'appello, e di imboscarsi alla gloria.

OGGI

Posta recente
Calza con l'argomento una lettera rivolta ad una compagna operaia che, scusandosi a torto di esposizione imperfetta, seppe porre il quesito in modo assai espressivo. Riportiamo il testo di parte della risposta.
Tu scrivi: "dici bene che un marxista deve guardare i principii e non gli uomini... noi diciamo gli uomini non contano e lasciamoli fuori, ma sino a che punto si può far ciò? Se sono gli uomini che determinano in parte i fatti? Se gli uomini sono in parte la causa che determinò lo scompiglio, noi non possiamo dimenticarli del tutto". Non si tratta per nulla di modo traballante di arrivare alla questione; anzi, offri una via molto utile per farlo.
I fatti e gli atti sociali di cui ci occupiamo come marxisti sono operati da uomini, hanno come attori gli uomini. Verità indiscussa; e senza l'elemento umano la nostra costruzione non regge. Ma questo elemento era tradizionalmente considerato in modo diversissimo da quello che il marxismo ha introdotto.
La tua semplice espressione si può enunciare in tre modi; ed allora si vede il problema nella sua profondità, a cui hai il merito di esserti avvicinata. I fatti sono operati da uomini. I fatti sono operati dagli uomini. I fatti sono operati dall'uomo Tizio, dall'uomo Sempronio, dall'uomo Caio.
Non ci distingue solo dagli "altri" la nozione che (essendo l'uomo da un lato un animale, dall'altro un essere pensante) essi dicono che l'uomo pensa prima, e poi dagli effetti di questo pensiero si risolvono i suoi rapporti di vita materiale, e anche animale – noi diciamo che a base di tutto stanno i rapporti fisici, animali, nutrimento, ecc.
La questione appunto non si pone uomo per uomo, ma nella realtà dei complessi sociali e dei loro fenomeni che si concatenano.
Ora quelle tre formulazioni del modo come gli uomini intervengono, scusa i paroloni, nella storia, sono queste.
I tradizionali sistemi religiosi o autoritari dicono: un grande Uomo o un Illuminato dalla divinità pensa e parla: gli altri imparano e agiscono.
Gli idealisti borghesi più recenti dicono: la parte ideale, sia pure comune a tutti gli uomini civilizzati, determina certe direttive, in base alle quali gli uomini sono condotti ad agire. Anche qui campeggiano ancora taluni determinati uomini: pensatori, agitatori, capitani di popolo, che avrebbero data la spinta a tutto.
I marxisti poi dicono: l'azione comune degli uomini, o se vogliamo quanto di comune e non di accidentale e particolare è nell'azione degli uomini, nasce da spinte materiali. La coscienza e il pensiero vengono dopo e determinano le ideologie di ciascun tempo.
E allora? Per noi come per tutti sono gli atti umani che divengono fattori storici e sociali: chi fa una rivoluzione? Degli uomini, è chiaro.
Ma per i primi era fondamentale l'Uomo illuminato, sacerdote o re.
Per i secondi: la coscienza e l'Ideale che conquistò le menti.
Per noi: l'insieme dei dati economici e la comunità di interessi.
Anche per noi gli uomini non si riducono, da protagonisti che creano o recitano, a marionette i cui fili sono tirati... dall'appetito. Sulla base della comunanza di classe si hanno gradi e strati diversi e complessi di disposizioni ad agire, e tanto più di capacità di sentire ed esporre la comune teoria.
Ma il fatto nuovo è che a noi non sono indispensabili, come alle precedenti rivoluzioni, neppure col compito di simboli, uomini determinati, con una determinata individualità e nome.

Inerzia della tradizione
Il fatto è che appunto in quanto le tradizioni sono le ultime a sparire, molto spesso gli uomini si muovono per la sollecitazione suggestiva della passione per il Capo. Allora perché non "utilizzare" questo elemento, che si capisce non muta il corso della lotta di classe, ma può favorire lo schieramento, il precipitare dell'urto?
Ora a me pare che il succo delle dure lezioni di tanti decenni sia questo: rinunziare a smuovere gli uomini e a vincere attraverso gli uomini non è possibile, e proprio noi sinistri abbiamo sostenuto che la collettività di uomini che lotta non può essere tutta la massa o la maggioranza di essa, deve essere il partito non troppo grande, e i cerchi di avanguardia nella sua organizzazione. Ma i nomi trascinatori hanno trascinato in avanti per dieci, e poi rovinato per mille. Freniamo quindi questa tendenza e in quanto praticamente possibile sopprimiamo, non certo gli uomini ma l'Uomo con quel dato Nome e con quel dato Curriculum vitae...
So la risposta che facilmente suggestiona gli ingenui compagni. Lenin. Bene, è certo che dopo il 1917 guadagnammo molti militanti alla lotta rivoluzionaria perché si convinsero che Lenin aveva saputa fare e fatta la rivoluzione: vennero lottarono e poi approfondirono meglio il nostro programma. Con questo espediente si sono mossi proletari e masse intere che forse avrebbero dormito. Ammetto. Ma poi? Collo stesso nome si va facendo leva per la totale corruzione opportunista dei proletari: siamo ridotti al punto che l'avanguardia della classe è molto più indietro che prima del 1917, quando pochi sapevano quel nome.
Allora io dico che nelle tesi e nelle direttive stabilite da Lenin si riassume il meglio della collettiva dottrina proletaria, della reale politica di classe; ma che il nome come nome ha un bilancio passivo. Evidentemente si è esagerato. Lenin stesso di gonfiature personali aveva le scatole pienissime. Sono solo gli ometti da nulla a credersi indispensabili alla storia. Egli rideva come un bambino a sentire tali cose. Era seguito, adorato, e non capito.
Sono riuscito a darti in queste poche parole l'idea della questione? Dovrà venire un tempo in cui un forte movimento di classe abbia teoria e azione corretta senza sfruttare simpatie per nomi. Credo che verrà. Chi non ci crede non può essere che uno sfiduciato della nuova visione marxista della storia, o peggio un capo degli oppressi affittato dal nemico.
Come vedi l'effetto storico dell'entusiasmo per Lenin non l'ho messo in bilancio con l'effetto nefasto dei mille capi rinnegati, ma con gli stessi effetti negativi del nome stesso, né sono sceso sul terreno insidioso del: se Lenin non fosse morto. Stalin era anche lui un marxista con le carte in regola e un uomo d'azione di prim'ordine. L'errore dei trotzkisti è cercare la chiave di questo grandioso rivolgimento della forza rivoluzionaria nella sapienza o nel temperamento di uomini.

Figuri dell'attualità
Perché abbiamo chiamata la teoria del grand'uomo teoria del battilocchio?
Battilocchio è un tipo che richiama l'attenzione e nello stesso tempo rivela la sua assoluta vuotaggine. Lungo, dinoccolato, curvo per celare un poco la testa ciondolante ed attonita, l'andatura incerta ed oscillante. A Napoli gli dicono battilocchio con riferimento allo sbattito di palpebre del disorientato e del filisteo; a Bologna, tanto per sfuggire alla taccia di localismo, gli griderebbero dì ben sò fantesma.
La storia e la politica contemporanea di questa data 1953 (in cui tutto risente del fatto generale e non accidentale che una forma semiputrefatta non riesce a crepare: il capitalismo) ne circondano di costellazioni di battilocchi. Il marasma proprio di tale fase diffonde a masse ammiranti e lucidanti la convinzione assoluta che ad essi, e ad essi solo, guardar si debba, che si tratta da ogni lato dei battilocchi del destino, e che soprattutto il cambio della guardia nel corpo battilocchiale sia il momento (poveri noi, o Federico!) che determina la storia.
Tra i capi di Stato, per l'assoluta mancanza di ogni nuova parola e perfino di ogni originale posa, ve ne è un terzetto ineffabile: Franco, Tito, Peron. Questi campioni, questi Oscar di bellezza storica, hanno spinto al nec plus ultra l'arte suprema: togliersi tutti i connotati. Altro che dinastici nasi; che occhi d'aquila!
Quanto ad Hitler e Mussolini buonanime, il primo fa pensare ad uno stato maggiore formidabile di non battilocchi che lo attorniava, elevati per tanto grado di criminali, che non solo facevano storia, ma usavano violenza carnale su di essa a piacer loro! Il secondo si fa perdonare per lo strato ineffabile di sottobattilocchi che lo inguaiava, e che ha dato cambio della guardia, in quel del 1944-45, ad uno stuolo di equipollenti sodali, oggi nostra delizia.
Una terna bellissima che si schiera non nello spazio ma nel tempo, con la prova provata che ogni successione per morto o per elezione produce effetto storico misurato da zero via zero, è quella Delano, Harry, Ike. Le forze americane che occupano il mondo giustificherebbero la definizione di questo periodo come la calata dei battilocchi.

Slavati diadochi
Una costellazione non meno espressiva dello stadio presente, ci è data dai capi nazionali recenti e presenti, e spesso drasticamente spostati, dei paesi e dei partiti che si collegano alla Russia, e non si sa dove meglio scoprir battilocchi, se in fondo alla Balcania o tra le gonne di Marianna. Quando il grande Alessandro morì, l'impero macedone che si era esteso su due continenti fu frammentato in Stati minori affidati ai vari generali di lui, che in non lungo ciclo sparirono senza traccia. Chi ne ricordasse i nomi, ci darebbe molti punti in fatto di storia.
Quando dunque la storia chiama il grande uomo lo trova. Può ben darsi che lo trovi con una testa a basso potenziale. Ma quando chiama battilocchi può avvenire anche che il posto sia coperto da uomini di valore. Non stiamo, allo stato, dando del fesso a nessuno.
Il fatto è che, in Italia ad esempio, il concorso aperto per le grandi personalità si riferisce a posti già occupati da colossi storici. Si tratta infatti di recitare la parodia di una tragedia che ebbe già il suo svolgimento solenne. In occasione del sessantesimo compleanno di Togliatti, e con un cerimoniale bassamente passatista, dopo aver largamente riportato il suo curriculum vitae ed i suoi scritti, sono pervenuti alla definizione in sintesi: un grande patriota.
La controfigura è ormai svuotata da un secolo, e offre poche speranze di non battilocchiesca grandezza. La storia ha già trovato i suoi eroi, senza troppo cercare. Mazzini, Garibaldi, Cavour, e tanti altri, non scenderanno di scanno. Di patria a vero dire ce ne resta pochina, ma di patrioti ne abbiamo una sporta. L'autobus della gloria rivoluzionaria è al completo. Ciò non diffama le qualità del soggetto odierno: i suoi scritti che hanno riesumati dal 1919 (quando si ebbe il torto di non dare ad essi la dovuta attenzione) gli fanno onore: non ha mai cessato di essere un marxista, poiché non lo era mai divenuto. Sosteneva allora quello che oggi sostiene, la missione della patria. Grandissimo, se volete, patriota: come una grandissima diligenza nel tempo dell'elettrotreno e dell'aereo a reazione.
Se, dopo aver dibattuto di Lenin, non abbiamo fatto cenno di Stalin, da poco scomparso, non è per tema che dopo una spedizione punitiva il nostro scalp vada ad adornare il mausoleo, prassi a cui vi è buona speranza di giungere. Stalin è ancora il pollone di un ferreo ambiente anonimo di partito che costruì sotto non accidentali spinte storiche un moto collettivo, anonimo, profondo. Sono reazioni della base storica, e non casi fortuiti della bassa corsa al successo, che determinano lo svolto traverso il quale in una fiamma termidoriana lo stuolo rivoluzionario dovette bruciare sé stesso, e sebbene un nome può essere un simbolo anche quando una persona non conta nulla per la storia, il nome di Stalin resta come simbolo di questo straordinario processo: la forza proletaria più possente piegata schiava alla rivoluzionaria costruzione del capitalismo moderno, sulla rovina di un mondo arretrato ed inerte.
Ben deve la rivoluzione borghese avere un simbolo ed un nome, per quanto sia anche essa in ultima istanza fatta da forze anonime e rapporti materiali. Essa è l'ultima rivoluzione che non sa essere anonima: perciò la ricordammo romantica.
È la nostra rivoluzione che apparirà quando non vi saranno più queste prone genuflessioni a persone, fatte soprattutto di viltà e di smarrimento, e che come strumento della propria forza di classe avrà un partito fuso in tutti i suoi caratteri dottrinali organizzativi e combattenti, cui nulla prema del nome e del merito del singolo, e che all'individuo neghi coscienza, volontà, iniziativa, merito o colpa, per tutto riassumere nella sua unità a confini taglienti.

Morfina e cocaina
Lenin prese da Marx la definizione, da molti combattuta come banale, che la religione è l'oppio del popolo. Il culto dell'entità divina è dunque la morfina della rivoluzione, di cui addormenta le forze agenti; e non per niente nel lutto recente si è pregato in tutte le chiese dell'URSS.
Il culto del capo, dell'entità e persona non più divina, ma umana, è uno stupefacente sociale ancora peggiore, e noi lo definiremo la cocaina del proletariato. L'attesa dell'eroe che infiammi e travolga alla lotta è come l'iniezione di simpamina: i farmacologi hanno trovato il termine adatto: eroina. Dopo una breve esaltazione patologica di energie, sopravviene la prostrazione cronica e il collasso. Non vi sono iniezioni da fare alla rivoluzione che esita, ad una società turpemente gravida da diciotto mesi, e tuttora infeconda.
Buttiamo via la volgare risorsa di trarre successo dal nome dell'uomo di eccezione, e gridiamo un'altra formula del comunismo: esso è la società che ha fatto a meno di battilocchi.



15 aprile 2011

Per i funerali delle vittime del «Diana»

«Il comunista», 30 marzo 1921


Riproponiamo il bel Manifesto che il Comitato Esecutivo del Partito Comunista d'Italia pubblicò in occasione dell'attentato milanese del 1921 al cinema Diana. È un esempio di fierezza e gagliardia di quello che fu il partito rivoluzionario del proletariato italiano. Riportiamo inoltre quanto nel 1951 venne scritto, in quello che era allora il nostro giornale [Battaglia comunista], come introduzione alla riproposizione del Manifesto [da Avantibarbari!].

Nel marzo 1921, quando in tutta Italia già s'era scatenata l'azione fascista tendente ad applicare metodi di terrore verso le organizzazioni e le sedi del movimento proletario e rivoluzionario, si verificò a Milano un episodio che fece enorme impressione.
Durante uno spettacolo nel cinematografo «Diana» una carica di esplosivo, collocato sotto le seggiole, scoppiava nel buio, ferendo vari spettatori, alcuni dei quali decedevano e determinando un panico spaventoso.
Gli autori non furono scoperti, ma l'opinione borghese vide nel fatto una manifestazione contro-terroristica di elementi estremisti che avrebbero voluto così protestare contro le incursioni e le uccisioni fasciste.
Le vittime erano elementi indifferenti ed alcune di modesta condizione sociale. Era ovvio il piano di suscitare l'indignazione generale e nello stesso tempo di riversare le responsabilità sugli estremisti e provocarne pietose scuse e proteste di incapacità di nuocere.
Stava per prodursi nelle file proletarie lo smarrimento che, dopo le revolverate nel consiglio comunale di Bologna, aveva determinato lo schiacciamento del movimento estremista in quella rossa città, e l'inginocchiarsi dei partiti dei lavoratori.
A Milano, il Partito Comunista, da poco costituito a Livorno, reagì con il manifesto che riportiamo. Esso sollevò la vana incanata di tutti gli avversari, social-democratici compresi, si capisce; sollevò anche qualche esitazione di compagni che volevano includere almeno una frase che deprecasse come non marxista il metodo dell'atto individuale e del terrore per il terrore, ma fu contributo importantissimo alla salvezza del proletariato di Milano, che non permise alle squadre terroriste nere, prima e dopo l'ottobre 1922, di passeggiare impunemente per le vie della grande città rivoluzionaria e di vedere i lavoratori nascosti o assenti.

(Battaglia comunista, n. 10, 10-23 maggio 1951).

Per i funerali delle vittime del "Diana"

Lavoratori milanesi!

Sugli avvenimenti di questi ultimi giorni i partiti della classe borghese impostano un'evidente speculazione, alla quale dobbiamo prepararci a rispondere.
Minoranze audaci ed organizzate per l'azione controrivoluzionaria, che dovrebbe contrastare il passo all'avanzata della classe lavoratrice verso gli obbiettivi della sua lotta, che sono quelli fissati nel programma comunista, tentano di sfruttare facili motivi sentimentali per trascinare dietro di sé la massa grigia delle classi intermedie e di tutti gl'incerti ed i senza partito, per montare nella cosiddetta pubblica opinione della nostra città uno stato d'animo ostile al proletariato rivoluzionario.
Questa manovra, in parte riuscita altrove soprattutto per l'insufficienza e l'inettitudine di certi dirigenti delle masse, non può e non deve riuscire in Milano e noi comunisti, sicuri della coscienza della massa operaia milanese, sentiamo il dovere di additarvi il gioco degli avversari e gli errori in cui si potrebbe cadere, se di fronte ad esso si agisse nella maniera errata che già accennano ad adottare i dirigenti socialdemocratici.
Si vuol ripetere qui quanto si fece a Bologna dopo l'uccisione di un consigliere comunale borghese ad opera di sconosciuti. I dirigenti del movimento proletario locale sentirono il bisogno di sconfessare con pubbliche dichiarazioni un atto di cui non venivano accusati che per inscenare una speculazione politica su di un cadavere. Essi credettero di far cadere la speculazione protestando la distanza tra i propri metodi politici e quelli degli autori di tale atto, ma non riuscirono che a spargere il disfattismo tra i lavoratori e ad agevolare la manovra degli avversari che, approfittando del disorientamento e della fuga generale dai posti di responsabilità del partito proletario, imbaldanzirono in un'offensiva che, trovando i lavoratori disorganizzati e delusi della forza dei loro organismi, si vantò di facili vittorie; che schiaffeggiarono la fierezza della classe lavoratrice e spezzarono le sue conquiste.
Sulle vittime dell'altra notte si vuol ripetere la speculazione cinica e turpe per colpire la compattezza della massa operaia. La borghesia non si commuove sul serio per i morti e i feriti del Diana – chiude per l'imposizione fascista le sue botteghe, ma per continuare sotto le saracinesche semialzate la caccia al profitto in cui sta tutta la sua morale di classe. Ma intanto la montatura si va completando. Ma intanto da taluni vostri dirigenti vengono parole che l'avversario attende per non tenerne altro conto che quello di vantarle come vittoria del suo intervento punitore e rintuzzatore delle idealità rivoluzionarie.

Proletari comunisti!

Ben, altra sia la nostra, la vostra parola. L'incanata avversaria non c'impegna a dire un nostro giudizio su atti che essa sceglie ad argomento gradito delle sue manovre. Il nostro programma è noto; non va rabberciato o scusato per dare spiegazioni all'insolenza della stampa antiproletaria e della propaganda controrivoluzionaria.
L'accendersi di una lotta che dà luogo a tragici episodi non si giudica da noi col dare sanzioni o rifiutarne. Le nostre responsabilità risultano chiare dalle nostre dichiarazioni programmatiche. Pel resto, noi vediamo riconfermata la grande verità storica proclamata dal comunismo, che alla situazione non v'è altra uscita che la vittoria rivoluzionaria dei lavoratori in un nuovo ordine veramente civile, o l'infrangersi di ogni forma di convivenza sociale in un ritorno alla barbarie più tetra.
La borghesia piuttosto che scomparire dalla storia vuole la generale rovina della società umana. Le bande bianche, che si formano per spezzare l'avanzata emancipatrice dei lavoratori, lavorano per questa seconda tenebrosa soluzione. Noi speriamo e crediamo che saranno spezzate dalla forza cosciente del proletariato, ma anche se ciò non fosse, in nessun caso esse salveranno dalla rovina finale il fradicio ordinamento borghese.
Il proletariato milanese non deve dunque in questi momenti lasciarsi impressionare dall'abile messa in scena di un simulato cordoglio da volgere in odio contro i lavoratori ed in sopraffazioni del suo movimento. L'avversario non deve avere la soddisfazione di vederlo associarsi alle sue attitudini di ipocrisia, il che sarebbe la prima tappa della via di prepotenze che si propone.
Si facciano dunque i [funerali] delle vittime. Noi saremo estranei ad una manifestazione, cui si dà artatamente un carattere antiproletario, e colla quale si vuole ancora una volta realizzare una solidarietà di classe che cela l'agguato e la libidine di dominio della classe privilegiata. Ma se la manifestazione farà un passo solo sulla via dell'aggressione al proletariato e ai suoi istituti, dell'oltraggio alle nostre e vostre idealità rivoluzionarie, allora, lavoratori milanesi, risponderemo con tutta la nostra e la vostra energia. Il piano dei controrivoluzionari non dovrà riuscire. Il proletariato milanese, non dimentico del suo passato, sarà al suo posto per difendersi, per difendere l'onore della sua rossa bandiera, le sorti dell'offensiva di domani, con cui prenderà il suo posto tra i compagni d'Italia e del mondo nella vittoria della rivoluzione sociale.

Il Comitato Esecutivo del Partito Comunista
La Federazione Provinciale Comunista Milanese
La Sezione Comunista Milanese
Il Comitato Esecutivo della Federazione Giovanile Comunista d'Italia
La Federazione Provinciale Giovanile Comunista
Il Fascio Giovanile Comunista Milanese.


3 aprile 2011

La classe dominante italiana e il suo Stato nazionale

da "Prometeo" n. 2 del 1946

Formazione dell'unità italiana

Le parole d'ordine politiche affacciate da tutti i partiti nella fase attuale, non diversamente da quelle del precedente regime, presentano come un patrimonio comune a tutte le classi del popolo italiano la ricostituzione della unità nazionale realizzatasi attraverso il Risorgimento e le guerre dell'indipendenza.
I partiti che pretendono richiamarsi al proletariato accettano in pieno la impostazione politica secondo la quale il fascismo avrebbe assunto la portata di una demolizione delle conquiste del Risorgimento ed il compito storico di oggi sarebbe quello di rifare e ripercorrere la via del risorgimento nazionale. Per conseguenza, ogni contrasto economico di interessi e conflitto politico di classi dovrebbe tacere dinanzi alle esigenze della vita della nazione e della sacra unione di tutti gli italiani.
È bene ripercorrere a larghissimi tratti la storia della formazione dello Stato borghese italiano, per concludere che, mentre è assurda la tesi che tutto questo ciclo debba essere o possa essere ripercorso e rivissuto nelle diversissime condizioni odierne, d'altra parte il preteso patrimonio e le vantate conquiste consistono in ori falsi e merci avariate.
La formazione in Italia di uno Stato unitario e la costituzione del potere della borghesia, pur inquadrandosi nella concezione generale di tali processi stabilita dal marxismo, presentano aspetti particolari e speciali, che soprattutto ne hanno ritardato il processo rispetto a quello presentato dalle grandi nazioni europee, dissimulando in parte la schietta manifestazione delle forze classiste.
Le cause sono ben note, ed anzitutto geografiche oltre che etniche e religiose. L'Italia, tanto continentale che peninsulare, ha costituito per molti secoli, dopo che la diffusione della civiltà oltre i limiti del mondo romano le aveva tolto la posizione centrale rispetto ai territori mediterranei, una via di passaggio delle forze militari dei grandi agglomerati formatisi attorno ad essa, ed un facile ponte per le invasioni e le stesse migrazioni di popoli da tutti i lati. Le varie zone del territorio furono a molte riprese occupate, organizzate e dominate da stirpi conquistatrici venute dall'Est e dall'Ovest, dal Sud e dal Nord. E nessuna di queste poté talmente rompere l'equilibrio a suo favore da costituire uno stabile regime con egemonia su tutta l'estensione del territorio. Quindi, nel periodo medievale feudale, non si gettò la base di uno Stato dinastico, aristocratico, teocratico, unitario, come avvenne negli altri grandi paesi i cui confini geografici e la cui posizione rispetto al giuoco delle forze europee meglio si prestavano a tale stabilizzazione. Influì su questo la presenza del centro della Chiesa con le sue lotte contro il prevalere eccessivo delle caste feudali e delle signorie dinastiche, e quindi si determinò la situazione correntemente definita come dipendenza dallo straniero e suddivisione in molteplici staterelli semi-autonomi.
Alla vigilia del prevalere del capitalismo nell'economia europea, per quanto questo avesse in Italia salde radici e secolari inizi, non era affatto compiuta l'evoluzione statale che poteva permettere alla borghesia italiana di trovare un centro statale solido di cui impadronirsi per accelerare al massimo il ritmo della trasformazione sociale.
Tuttavia l'Italia, per il fatto stesso che nelle pianure del Nord si combattevano e talvolta decidevano le grandi guerre europee e per l'accessibilità dal mare delle sue parti periferiche, subì con stretto legame le influenze della più classica tra le rivoluzioni capitalistiche, quella francese, e vi fu, se non proprio una repubblica borghese italiana unitaria, un'Italia Napoleonica. La borghesia ricevette l'idea dell'unità nazionale dall'esterno, la elaborò ideologicamente e socialmente, la diffuse tra le classi medie, e non meno di altrove si servì delle classi lavoratrici come strumento per realizzarla. Ma tale realizzazione fu più che in ogni altro paese infelice e contorta, e la sua fama riposa sull'immenso uso di falsa retorica, di cui fu infarcito tutto il cammino obliquo e opportunista del sorgere dello Stato borghese italiano.
Dopo aver lungamente esitato fra tutte le forme politiche, dalla teocrazia nazionale alla repubblica federale, alla repubblica unitaria, alla monarchia cosiddetta costituzionale, la soluzione che la storia trovò al giuoco delle forze aveva inizialmente un basso potenziale e una portata disgraziata.
Lo staterello piemontese, gonfiatosi a nazione italiana, non era che un servo sciocco dei grandi poteri europei e la sua monarchia dalle pretese glorie militari una ditta per affittare capitani di ventura e noleggiare, a vicenda, carne da cannone a francesi, spagnoli, austriaci; in ogni caso, al militarismo più prepotente o al miglior pagatore. Solo a questi patti un paese posto in così critica posizione poteva esibire per molti secoli una apparente continuità politica.
Tuttavia il processo, che condusse la dinastia e la burocrazia statale piemontesi a conquistare tutta l'Italia, sfruttò le forze positive della classe borghese, che, attraverso le molto fortunate e per nulla gloriose guerre di indipendenza, riuscì ad attuare la sua rivoluzione sociale, spezzò i predomini feudali e clericali, e, secondo la classica funzione della borghesia mondiale, seppe farsi del proletariato il più efficace alleato, e costruirgli nel nuovo regime lo sfruttamento più esoso. L'operaio italiano fu tradizionalmente il più ricco di libertà retoriche e il più straccione del mondo.
Attraverso questo processo convenzionalmente definito come la conquista dell'indipendenza, dell'unità e dell'uguaglianza politica per tutti gli italiani, i gruppi più progrediti della classe capitalistica industriale del Nord assoggettarono a sé l'economia della penisola, conquistandosi utili sbocchi e mercati e venendo in molte zone a paralizzare lo sviluppo economico-industriale locale, che, sebbene ritardato, si sarebbe esplicato efficacemente sotto un diverso rapporto di forze politiche.
D'altra parte, non solo la classe dei proprietari terrieri del centro e del Sud non esitò affatto a porsi sotto l'egida del nuovo Stato – sempre a conferma della nessuna sopravvivenza di orientamenti feudalistici fra questi strati – ma anche la cosiddetta e famigerata classe dirigente del Mezzogiorno, composta di intellettuali, professionisti ed affaristi, si unì al potere dello Stato italiano in una perfetta simbiosi basata sul concorde sfruttamento dei lavoratori e dei contadini, i quali, mentre dovettero sostenere pesi fiscali sconosciuti ai vecchi regimi per rinsanguare i bilanci del nuovo Stato, furono la materia prima per le manovre dell'elettoralismo, prestandosi a fornire ai ministeri le fedelissime maggioranze ottenute attraverso il mercato tra piccoli signorotti e gerarchi locali, irreggimentatori di voti, e i favori dei poteri centrali.
Questo sistema di scambi di servizi, a cui non fu mai estraneo fin dai tempi del giolittismo l'impiego della reazione di polizia ed anche di mazzieri irregolari, mascherò in realtà una dittatura che anticipava di decenni quella di Mussolini, e si prestò magnificamente all'insediamento del fascismo, realizzato senza colpo ferire dopo il debellamento dei centri proletari e rurali del Nord e delle poche cittadelle rosse del resto dell'Italia.
La via politico-militare del Risorgimento, se può rappresentare un ottimo esempio di abilità politica, percorre tappe segnate sistematicamente dalla sconfitta militare e dal tradimento politico.
La classe dominante italiana, riuscita nel saper intuire a tempo da che parte era il più forte cambiando audacemente di posto nei conflitti tra gli Stati esteri, coerentemente seguì questo sistema nel periodo fascista, ma, quando il sistema venne per la prima volta meno, determinando la catastrofe, non seppe trovare altra via di uscita che un ennesimo tentativo di aggiogarsi al carro del vincitore.

Teoria delle gloriose disfatte

Il Piemonte, schiacciato dall'Austria nel '48 e nel '59 riesce (sotto la guida del vero capostipite dell'italico ruffianesimo, Camillo Cavour) ad approfittare della vittoria della Francia e a guadagnare la Lombardia, volgendosi quindi verso il Sud. Gli è facile liquidare gli staterelli vassalli dell'Austria, ma deve sostare dinanzi agli Stati del Papa per ordine del Padrone Francese. Tuttavia ha l'abilità di impadronirsi senza colpo ferire di tutto il Sud d'Italia occupato da Garibaldi, sotto pretesto di avergli mercanteggiato l'appoggio inglese ed offrendogli la solita cortese alternativa tra la figura di eroe nazionale e la nuova galera monarchica.
Per avere il Veneto occorre, dopo Magenta e Solferino vinte dai francesi, attendere Sadowa vinta dai Prussiani, malgrado le dure batoste di Custoza e di Lissa. Infine, il retorico e pomposo coronamento dell'unità con Roma capitale è realizzato, ancora una volta, non certo attraverso la buffonesca breccia di Porta Pia, ma grazie alle armi prussiane di Sedan.
Il nuovo Stato fece anche i suoi esperimenti sulla via del colonialismo, pur essendo in questo campo l'ultimo venuto e non potendo pretendere di riattaccare i suoi timidi tentativi, tra gli stentati permessi delle Cancellerie di Europa, alle tradizioni delle Repubbliche marinare italiane. Tanto per non fare eccezione al solito metodo, la conquista della colonia del mar Rosso è segnata dalla tremenda sconfitta militare di Adua. La successiva conquista della Libia viene fatta, anche tra gravi errori ed insuccessi militari, a spese della Turchia, colta in una fase di crisi dall'incalzare delle guerre balcaniche.
Già da questa fase di imperialismo a scartamento ridotto sono evidenti nell'economia e nella politica capitalistica italiana i sintomi del nuovo indirizzo sociale che precorrono l'evoluzione fascista del capitalismo. Sorgono gruppi nazionalistici, che vengono a costituire la destra borghese in sostituzione del tradizionale aggruppamento "clericale-moderato" e, prendendo uno spiccato carattere anti-proletario, enunciano le parole d'ordine che saranno poi del fascismo, mentre la loro stampa è direttamente alimentata dall'industria pesante interessata a speculare sulla guerra e sulle imprese d'oltremare. Già l'economia italiana conteneva germi non trascurabili di monopolismo e di protezionismo e lo Stato alimentava con la legislazione fiscale o doganale industrie parassitarie, come ad esempio quella degli zuccheri e degli alcool. In economia, dunque, come in politica, la borghesia italiana, povera rispetto alle altre in senso quantitativo, vari decenni prima di Mussolini evolveva verso la sua fase fascista. L'espressione politica caratteristica di questo metodo borghese fu il Giornale d'Italia, coi Bevione, Federzoni, Bergamini, a cavallo tra il liberalismo e il nazionalismo (il che non toglie che taluno di essi sia oggi considerato un esponente antifascista). Era una corrente più sfrontatamente e modernamente audace di quella del liberalismo economico e politico classico del Corriere della Sera.
Il giuoco politico della classe dominante italiana continua nella Triplice Alleanza con "l'odiato tedesco" dei libri di scuola.
Nel 1914, i vari consulenti della politica dinastica esitarono a pesare il pro e il contro circa l'orientamento in cui andava indirizzato il classico calcio dell'asino. È notevole rilevare che i gruppi nazionalistici dipendenti dall'industria pesante passarono audacemente dal sostenere l'intervento triplicista alla più accesa campagna per l'intervento contro l'Austria, il che dimostra che, per la moderna borghesia industriale, i fini della guerra sono materiali e non ideologici. La clamorosa conversione non impedì agli interventisti della sinistra democratica, socialistoidi o repubblicani, di accogliere a braccia aperte questi alleati nella campagna guerrafondaia del 1915, comprovando così che la genesi del fascismo ebbe la sua incubazione nella storia politica della classe dominante in Italia, fin dalla costituzione nazionale.
Nella guerra europea, con un primo tradimento il Re Italiano resta neutrale, con un secondo interviene contro i suoi alleati, che a Caporetto gli danno la meritata lezione. Ma invano, poiché, grazie al famoso stellone, l'Italia dei Savoia esce dalla guerra ancora ingrandita delle province adriatiche e trentine. Tanto per chiudere il ciclo della cosiddetta politica estera, dopo il magro trattamento fatto più che logicamente alla classe dominante italiana dalle potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale, la borghesia sabauda ha realizzato ancora una volta il tradimento a danno dei suoi alleati e dei riscattatori delle sue sconfitte sui campi di battaglia, calcolando che nella guerra successiva la bilancia avrebbe traboccato a favore della rinascente potenza del militarismo tedesco. Sorse così l'Asse, che era tanto poco necessariamente condizionato dalla fase fascista, quanto era una ripetizione della politica del '66 e di quella triplicista. Attraverso la calcolata vittoria della forza germanica, l'Italia del Risorgimento e dei Savoia, dopo avere strappato in anticipo, con una condotta come sempre non priva di audacia nel senso del rischio nel giuoco sulla forza altrui, il simulacro di Impero africano, presumeva, seguitando a cantare il falso ritornello dell'irredentismo, di arrotondarsi ancora. Tunisi, Corsica, anche Nizza e Savoia, abilmente vendute nel 1859 dal vecchio Papà imbroglione e maestro del giuoco, dovevano impinguare ancora il grande Stato Italiano.
Ma la continuità indiscutibile di questo giuoco è stata spezzata brutalmente dal corso degli eventi. La vittoria, questa volta, si è messa dalla parte opposta a quella in cui la scaltrita borghesia italiana si era schierata, è sopravvenuta la strepitosa disfatta e l'invasione, anzi la doppia invasione. Questa volta, da una parte e dall'altra, le due coalizioni in conflitto si son dimostrate decise a strappare tutte le residue penne al gonfio pavone dell'Italia Sabauda, di cui egualmente disprezzavano l'impotenza militare.
Eppure, ancora una volta questa borghesia calpestata e travolta dalla storia, ha riproposto il suo gioco, e invece di contare le ammaccature e mettere in sesto le ossa, ha avuto l'impudenza di offrirsi per combattere, di parlare ancora di combinazioni da pari a pari, di alleanze, di sforzi bellici, e di ripetere il suo stupido grido di "Vinceremo", invece di confessare finalmente di avere per sempre perduto.

I rapporti delle forze sociali e politiche

Quali sono i riflessi di queste vicende storiche, per quanto riguarda, nell'ambito dell'Italia, il giuoco delle forze sociali e la lotta dei partiti?
Il proletariato all'inizio non poteva non rispondere all'appello di alleanza che, più che la sotterranea borghesia, gli lanciavano le classi intellettuali, perché sentiva di dover collaborare alla distruzione delle impalcature feudali e delle influenze chiesastiche per poter assurgere ad un suo compito ulteriore.
Quindi, forse più che altrove, per molti decenni gli operai e i contadini italiani camminano sotto le bandiere delle ideologie borghesi giacobine, danno la mano alla scapigliata sinistra borghese, si imbevono delle parole e delle posizioni mentali della democrazia avanzata. Fino al 1900, gli importantissimi movimenti di lavoratori urbani e rurali, nel Sud e nel Nord, pur configurandosi sempre più in una fisionomia classista, appaiono come il settore avanzato del blocco dei cosiddetti partiti popolari. Il Partito Socialista si sviluppa, ma è soprattutto la forza animatrice della classica estrema sinistra parlamentare, che lotta nella piazza come un blocco solo nell'urto avvenuto nel 1898 tra le forze di destra e di sinistra della borghesia, o meglio nel primo esempio storico di un tentativo della borghesia liberale di rivedere i suoi metodi e schierarsi dinanzi al prorompere del movimento sociale sotto l'aspetto della forza armata dello Stato.
Gli stessi quadri del movimento socialista e proletario sono educati alla scuola magniloquente quanto vaniloquente della democrazia carducciana in letteratura, boviana-cavallottiana in politica, torneo di onesti Don Chisciotte in ritardo, tuonanti in nome della Libertà, dell'Onesta, della Umanità e di simili gloriose ombre.
Molto più seriamente, nel sottosuolo della vita politica, la borghesia lavora all'imprigionamento ideologico e materiale delle gerarchie proletarie con la sua organizzazione più reazionaria e più adatta a fronteggiare lo spettro della lotta di classe, la Massoneria. Questo organismo ha in quell'epoca un'influenza dominante, e talvolta decisiva, nell'aggiogare al carro dell'opportunismo i primi tentativi di azione autonoma della classe operaia.
La stessa origine spuria della borghesia in Italia spiega il ritardo con cui la teoria rivoluzionaria marxista si diffonde fra le masse e il largo prevalere delle tendenze anarchiche, che non costituiscono che l'esasperazione, per nove decimi letteraria, del liberalismo borghese e dell'individualismo illuminista. Ciò spiega anche come, prima di una solida tendenza marxista, si delineino nel proletariato correnti da un lato riformiste e collaborazioniste, dall'altro di indirizzo sindacalista sul tipo francese soreliano.
Su tutto sovrasta ancora il mito dell'anticlericalismo.
La guerra a base di artiglierie retoriche e convenzionali contro la sottana nera del prete è presentata in quest'epoca come il fatto centrale della storia e il suo successo è un postulato dinanzi al quale deve cedere ogni altro; il padrone borghese più esoso può divenire un fratello del lavoratore sfruttato se si degna di lanciare qualche ingiuria al buon Dio ed al suo vicario in terra. La lotta per uscire dalla rete vischiosa di questo inganno anticlassista fu lunga e difficile e prese aspetti che oggi possono apparire secondari: intransigenza alle elezioni politiche di primo e secondo grado, rottura dei blocchi anticlericali amministrativi, incompatibilità tra PS e Massoneria. Contemporaneamente, il partito, lottando contro i due revisionismi riformista e sindacalista, si orientava sulla base marxista, e la sua direzione, al momento dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, era nelle mani della frazione intransigente rivoluzionaria. Capo di questa frazione, dopo la espulsione degli opportunisti di destra, Bonomi e Cabrini (fautori della collaborazione con la monarchia, che si era volta con entusiasmo alla politica massonizzante di sinistra) e Podrecca (apologista della guerra di conquista imperialista in Libia), fu Benito Mussolini, direttore dell' Avanti!. Egli, non senza qualche sospetta esagerazione in senso volontaristico e blanquistico, aveva diffuso parole di sfida rivoluzionaria alla borghesia dominante, che associava tradizionalmente alle orge letterarie di liberalismo avanzato la repressione senza riguardi, poliziesca e armata, delle rivolte degli affamati e che, tradizionalmente, e prima che fosse celebre il nome di manganello, tutelava con squadre di mazzieri le ladrerie amministrative e la frode nelle cagnare elettorali.

I socialisti e la guerra. Le lotte del dopoguerra

La preparazione classista degli ultimi anni consentì al proletariato d'Italia di reagire meglio che in altri paesi all'opportunismo di guerra.
La coscienza politica della classe lavoratrice permise di resistere al dilagare delle tre menzogne fondamentali della propaganda interventista destinata a far tacere ogni palpito di azione e di lotta di classe: la difesa della Democrazia contro l'imperialismo teutonico, il trionfo del principio di nazionalità con la liberazione dei fratelli irredenti, la difesa del sacro suolo della patria contro l'invasione straniera. Ma, se non capitolarono il proletariato ed il suo partito, capitolò da solo proprio il "capo degli intransigenti", a dimostrazione di quanto valgano i "capi" nel gioco delle forze sociali. Il tradimento di Benito Mussolini verso il proletariato e la rivoluzione porta la data del 18 ottobre 1914; il 23 marzo 1919 e il 28 ottobre 1922 egli non commise un'aggravante di reato, ma seguì il logico impulso delle leggi storiche e politiche in conseguenza alla premessa di allora.
Passato il ciclone della guerra, il proletariato socialista, che aveva dovuto subirla, ebbe un potente ritorno di combattività classista e tentò di porsi il problema di scaraventare giù dal potere, malgrado la sua vittoria di guerra, la classe che lo opprimeva.
Ma le armi materiali e politiche per questo compito non erano appieno forgiate e la intransigenza anticollaborazionista, come la opposizione alla guerra che la centrale del PS aveva contenuto nella sterile formula "né aderire né sabotare", erano piattaforma insufficiente ad intendere e realizzare il postulato storico della conquista insurrezionale del potere e della instaurazione della dittatura proletaria. Non tutto il partito seppe quindi raccogliere l'impulso storico formidabile che veniva dalla Rivoluzione di Russia e che fondeva per la prima volta la teoria politica e l'azione di combattimento rivoluzionario del proletariato mondiale.
Pur nel loro magnifico rifiorimento, le battaglie isolate (date con scioperi vittoriosi sul terreno sindacale, con i grandi scioperi politici delle principali città, seguiti dall'occupazione delle fabbriche e di altri centri della vita sociale) non si fusero utilmente in un unico assalto al potere centrale della borghesia.
Questa, a vero dire, comprese la tempesta e seppe affrontarla con sufficiente coscienza del momento storico e realismo di vedute. Nella prima fase del dopoguerra (1919), la politica della classe dominante fu quella tradizionale di diluire lo slancio classista nella parziale soddisfazione delle richieste economiche ed in un'orgia comiziaiola e cartacea di parlamentarismo. Nitti, uno degli abilissimi della casta politica italiana, fece senza esitazione rovesciare nel Parlamento 150 deputati socialisti, mentre il furbo reuccio sculettava di simpatia per la loro ala destra, nella speranza di attrarla in una combinazione di gabinetto.
Successivamente, il vecchio e più consumato Giolitti, senza certo ammainare il bandierone della democrazia, cominciò a preparare le trincee della resistenza armata. Senza nessun timore, l'oculato e furfante maestro della politica italiana lasciò entrare gli operai nelle fabbriche tenendo bene in pugno le questure. La sua formula era stata sempre che l'Italia si governava dal Ministero dell'Interno; il potere del liberalismo italiano è stato sempre affare di polizia.

Il fascismo. I fattori della sua vittoria

Frattanto, il complice di avanguardia della classe dominante italiana, Benito Mussolini, provvedeva a impersonare la riscossa delle forze conservatrici e fondava il movimento fascista. La politica fascista, caratteristica del moderno stadio borghese, faceva in Italia il primo classico esperimento. Col fascismo la borghesia, pur sapendo che lo Stato ufficiale con tutte le sue impalcature è il suo comitato di difesa, cerca di adattare il classico suo individualismo a una coscienza e a un'inquadratura di classe.
Essa ruba così al proletariato il suo segreto storico, e in tale bisogna i suoi migliori pretoriani sono i transfughi dalle file rivoluzionarie. Nella inquadratura fascista, la borghesia italiana seppe in effetti impegnare sé stessa e i suoi giovani personalmente nella lotta, lotta per la vita e per la salvezza dei suoi privilegi di sfruttamento. Ma, naturalmente, il fascismo consisté anche nell'inquadrare nelle file di un partito e di una guardia di combattimento civile, gli strati di altre classi tormentate dalla situazione, non esclusi alcuni elementi proletari delusi dalla falsa apparenza dei partiti che da anni parlavano di rivoluzione, ma rivelavano la loro palese impotenza.
Il compito immediato del fascismo è la controffensiva all'azione di classe proletaria, avente scopo non puramente difensivo, secondo il compito tradizionale della politica di stato, ma distruttivo di tutte le forme autonome di organizzazione del proletariato. Quando la situazione sociale è matura nel senso rivoluzionario, sia pure con un processo difficile e pieno di scontri, ogni organo delle classi sfruttate che lo Stato non riesca ad assorbire per irretirlo nella sua pletorica impalcatura, e che seguiti a vivere su una piattaforma autonoma, diventa una posizione di assalto rivoluzionario. La borghesia nella fase fascista comprende che tali organismi, sebbene tollerati dal diritto ufficiale, devono essere soppressi e, non essendo conveniente inviare a farlo i reparti armati statali, crea la guardia armata irregolare delle squadre d'azione e delle camicie nere.
La lotta si ingaggiò tra i gruppi di avanguardia del proletariato e le nuove formazioni del fascismo e, come è ben noto, fu perduta dai primi. Ma questa sconfitta e la vittoria fascista furono possibili per l'azione di tre concomitanti fattori.
Il primo fattore, il più evidente, il più impressionante nelle manifestazioni esteriori, nelle cronache e nei commenti politici, nelle valutazioni in base ai criteri convenzionali e tradizionali, fu appunto la organizzazione fascista mussoliniana, con le sue squadre, i gagliardetti neri, i teschi, i pugnali, i manganelli, i bidoni di benzina, l'olio di ricino e tutto questo truce armamentario.
Il secondo fattore, quello veramente decisivo, fu l'intera forza organizzata dell'impalcatura statale borghese, costituita dai suoi organismi. La polizia, quando la vigorosa reazione proletaria (così come da principio avveniva molto spesso) respingeva e pestava i neri, ovunque interveniva attaccando e annientando i rossi vincitori, mentre assisteva indifferente e soddisfatta alle gesta fasciste quando erano coronate da successo. La magistratura, che nei casi di delitti sovversivi e "agguati comunisti" distribuiva trentine di anni di galera ed ergastolo in pieno regime liberale, assolveva quei bravi ragazzi degli squadristi di Mussolini, pescati in pieno esercizio di rivoluzione e di assassinio. L'esercito, in base ad una famosa circolare agli ufficiali del ministro della guerra Bonomi, era impegnato ad appoggiare le azioni di combattimento fascista; e da tutte le altre istituzioni e caste (dinastia, Chiesa, nobiltà, alta burocrazia, parlamento) l'avvento dell'unica forza venuta ad arginare l'incombente pericolo bolscevico era accolto con plauso e con gioia.
Il terzo fattore fu il gioco politico infame e disfattista dell'opportunismo socialdemocratico e legalitario. Quando si doveva dare la parola d'ordine che all'illegalismo borghese dovesse rispondere (non avendo potuto o saputo precederlo e stroncarlo sotto le sporche vesti democratiche) l'illegalismo proletario, alla violenza fascista la violenza rivoluzionaria, al terrore contro i lavoratori il terrore contro i borghesi e i profittatori di guerra fin nelle loro case e nei luoghi di godimento, al tentativo di affermare la dittatura capitalista quello di uccidere la libertà legale borghese sotto i colpi di classe della dittatura proletaria, si inscenò invece la imbelle campagna del vittimismo pecorile, si dette la parola della legalità contro la violenza, del disarmo contro il terrore, si diffuse in tutti i modi tra le masse la propaganda insensata che non si dovesse correre alle armi, ma si dovesse attendere l'immancabile intervento dell'Autorità costituita dello Stato, la quale avrebbe ad un certo momento, con le forze della legge e in ossequio alle varie sue carte, garanzie e statuti, provveduto a strappare i denti e le unghie all'illegale movimento fascista.
Come dimostrò l'eroica resistenza proletaria, come attestano le porte delle Camere del Lavoro sfondate dai colpi d'artiglieria attraverso le piazze su cui giacevano i cadaveri degli squadristi, come provarono i rioni operai delle città espugnati, come a Parma dall'esercito, come in Ancona dai carabinieri, come a Bari dai tiri della flotta da guerra, come dimostrò il sabotaggio riformista e confederale di tutti i grandi scioperi locali e nazionali fino a quello dell'agosto 1922 (che, a detta dello stesso Mussolini, segna la decisiva affermazione del fascismo, giacché la pagliaccesca marcia su Roma in vagone letto del 28 ottobre fu fatta solo per i gonzi), senza il gioco concomitante di questi tre fattori il fascismo non avrebbe vinto. E se nella storia ha un senso parlare di fatti non realizzati, la mancata vittoria del fascismo avrebbe significato non la salvezza della democrazia, ma il proseguire della marcia rivoluzionaria rossa e la fine del regime della classe dominante italiana. Questa, ben comprendendolo, in tutti i suoi esponenti, conservatori e social-riformisti, preti e massoni, plaudì freneticamente al suo salvatore.
Se questo giustamente rappresentò il primo dei tre fattori della vittoria, al secondo, la forza dello Stato, vanno dati i nomi dei partiti e degli uomini che governarono l'Italia dal 1910 al 1922, i liberali come Nitti e Giolitti, i social-riformisti come Bonomi e Labriola, i clericali in via di democratizzazione come Meda e Rodinò, i radicali come Gasparotto e così via. Al terzo fattore, costituito dalla politica disfattista dei capi proletari, vanno dati i nomi dei D'Aragona e Baldesi, Turati e Treves, Nenni e compagni, che giunsero, a nome dei loro partiti e dei loro sindacati, a firmare il patto di pacificazione col fascismo, patto che comportava il disarmo di ambo le parti, ma naturalmente valse soltanto a disarmare il proletariato.

La liquidazione dei complici del fascismo

Assurto al potere, il nuovo movimento politico della classe dominante italiana trovò la migliore intesa col Re democratico massone e socialisteggiante e non trovò difficoltà a scegliersi servitori tra i parlamentari giolittiani, liberali, radicali e cattolico-popolari. L'estirpazione di ogni residuo movimento autonomo operaio continuò in forme che potevano ormai rivestire di aspetti ufficiali l'illegalismo.
Ben presto il nuovo sistema, di cui la chiave evidente era la sostituzione del partito unitario borghese al complesso ciarlatanesco dei partiti borghesi tradizionali (prima realizzazione della tendenza del mondo moderno, per cui in tutti i grandi Stati del capitalismo in fase imperiale amministrerà il potere un'unica organizzazione politica) passò alla liquidazione del personale delle vecchie gerarchie politiche, e questi complici del primo periodo furono liquidati ed espulsi a pedate dalla scena politica. L'episodio centrale della resistenza di questo strato che troppo tardi si accorgeva dello sviluppo degli eventi, ma che storicamente mai avrebbe cambiato strada (perché cambiarla a tempo avrebbe significato rinunziare al sabotaggio della rivoluzione) fu costituito dalla lotta sorta dopo l'uccisione di Matteotti.
Questo gruppo ignobile di traditori invocò e pretese l'appoggio e l'alleanza del proletariato per rovesciare il fascismo, ma nello stesso tempo non cessò dal piatire il legale intervento della dinastia, dal fare l'apologia della legge, del diritto e della morale, tutte armi che non scalfivano per niente la grandeggiante inquadratura fascista, e dal deprecare ogni violenza di masse.
L'avanguardia cosciente del proletariato in tale momento non doveva avere lacrime per la violata libertà di questi sporchi servi del fascismo, ma, dopo avere virilmente sostenuta la bufera della controrivoluzione, ben poteva compiacersi della sorte di questi miserandi relitti delle cricche parlamentari. Da allora, invece, comincia a sorgere il prodotto più nauseante del fascismo, l'antifascismo bolso, incosciente, privo di connotati, incapace di classificare storicamente il suo avversario, incapace di capire che, se questo ha potuto vincere, è perché le vecchie risorse della politica borghese erano fruste e fradicie, incapace di intendere che solo la rivoluzione può superare la fase fascista, e che contrapporvi il nostalgico desiderio del ritorno alle istituzioni e alle forme statali del periodo che la precedette è veramente la più reazionaria delle posizioni.
Durante il suo primo periodo, il fascismo sedò le resistenze, liquidò i residui delle vecchie organizzazioni politiche, impostò la sua non originale e non risolutiva soluzione delle questioni sociali prendendo a prestito dai programmi del socialismo riformista la inserzione nello Stato degli organismi sindacali e la creazione di un meccanismo arbitrale centrale, che, al fine supremo della conservazione dello sfruttamento padronale, compensava i guadagni e le rimunerazioni dei lavoratori contenendo a grandi sforzi in un piano economico generale la speculazione capitalistica.
Ma questo primo esperimento di amministrazione politica totalitaria della vita sociale, nell'ambiente economico italiano di scarso potenziale intrinseco, dette risultati assai meschini, e l'apparente solidità del regime si mantenne solo con l'abuso smodato di una retorica parolaia, che fu la continuazione fedele della vuotaggine del tradizionale parlamentarismo italiano.
Dal punto di vista convenzionale e borghese, il fascismo segnò una nuova era rispetto al ciclo precedente della classe dominante italiana, nelle sue vicende di politica interna ed estera. Contro la concorde, benché opposta affermazione di questa antitesi da parte dei dottrinari da operetta del fascismo e dell'antifascismo, una valutazione marxista riconosce la logica e coerente continuità e responsabilità storica nell'opera e nella funzione della classe dominante italiana prima e dopo il 28 ottobre 1922. Tutto ciò che è stato perpetrato e consumato dopo trova le sue premesse necessarie in quanto si svolse nei precedenti decenni.
Lo stesso movimento fascista, con la pseudo-teoria che mai seppe prendere corpo, nasce con continuità di atteggiamenti, di consegne, di organizzazioni e di capi, dal movimento dei fasci interventisti del 1914, a cui si richiamano quasi tutti i movimenti che si vantano antifascisti.
La diretta continuità di movimenti tra il periodo parlamentare, quello fascista e quello post-fascista odierno, può leggersi nel processo di liquidazione della tradizione anti-vaticana. Quando la sinistra proletaria ripudiava l'anticlericalismo di maniera, le veniva rimproverato di favorire il pericolo clericale. Ma in realtà, non solo la politica indipendente proletaria si giustificava con la valutazione che tale pericolo non era più grave di quello di snaturare nella collaborazione massonica la fisionomia classista del partito proletario, ma con la certezza che quel pericolo era uno spettro fittizio, e che, in un avvenire non lontano, per quanto allora presentato come ingombrante paurosamente tutto l'orizzonte storico-politico, sarebbe stato disinvoltamente e sfrontatamente dimenticato.
Parallelamente all'intelligente politica del Pontificato verso i nuovi rapporti sociali di classe del mondo borghese, l'intransigente partito clericale si mutava all'indomani della guerra nel "Partito Popolare Italiano", oggi "Democrazia Cristiana", operante nell'ambito della costituzione parlamentare italiana.
Il movimento cattolico era stato, come quello socialista, contro la guerra, il Papa Benedetto XV aveva trovata la potente invettiva dell'inutile strage, e dicono fosse morto anzitempo nello spettacolo dei cristiani massacrantisi in nome di Dio. Seguì alla guerra una politica di realismo opportunista. Come tutte le forze borghesi, i cattolici videro con gioia l'azione fascista sventare il pericolo rosso ed al fascismo offrirono nei primi ministeri diretta collaborazione. Liquidati, insieme agli altri servi sciocchi, nella crisi 1924-25, i popolari cattolici operarono la lenta conversione che li presenta oggi come uno dei pilastri d'angolo dell'antifascismo.
Frattanto il Vaticano proseguiva senza interruzione la sua politica di liquidazione delle intransigenze anti-italiane, e, malgrado la polemica teorica contro la pseudo ideologia fascista deificante i concetti di Patria, di Stato, di Razza che esso non poteva tollerare, perveniva alla completa conciliazione, vecchio sogno di tutti i conservatori italiani, attuando all'apogeo del ciclo fascista il Concordato del 1929 e chiudendo la fase storica di conflitto aperta nel 1870.
La dinastia sabauda, al tempo stesso bigotta ed atea, pietista e massonica, credeva di consolidare ulteriormente, con questa conquista, la sua base politica. La rinascente pretesa democrazia di oggi, intenta stupidamente a disfare pietruzza per pietruzza l'edificio fascista, non ha trovato una frase né una parola contro il concordato di Ratti e Mussolini, o per far rivivere, sia pure a scopo commemorativo, la gloria della sua passata retorica anti-vaticana. Quando il dominatore che Re e Papi temettero ed elevarono a loro pari con Collari e Croci, fu travolto da altre forze, la gerarchia del Quirinale e quella del Vaticano furono concordi nella politica di presentarsi come nemiche e demolitrici del potere di Mussolini. Se nel guazzabuglio politico dei partiti dell'antifascismo, qualche timida obiezione sorge alla pretesa di verginità antifascista dei Savoia, o almeno di Vittorio Emanuele III, è quasi completo il silenzio nei confronti dell'analoga manovra politica compiuta dal pontificato attuale. Sta a spiegare, questa differenza di comportamento, insieme alla congenita vigliaccheria dei politicanti italiani, il fatto che, mentre le azioni del re sabaudo sono poi precipitosamente cadute, la curia vaticana è tuttavia una forza storica di assoluta efficienza, non scossa, e forse anzi rinvigorita, dalle vicende della guerra.
E la posizione di questa forza nei rapporti del conflitto tra le classi sociali dimostra ancora una volta la continuità e la rispondenza tra le posizioni borghesi fasciste e quelle antifasciste, che, malgrado la diversità delle presentazioni retoriche, fanno fulcro sui concetti di collaborazione delle classi e sulla propaganda di economie pseudo collettive, che salvano il principio dello sfruttamento borghese tentando di evitare l'opposta pressione dell'organizzazione proletaria.
Il pontificato oggi, nelle comunicazioni fatte nel corso della guerra, se talvolta, quando l'esito di questa era indeciso, è giunto ad enunciare una critica delle sue cause che ne riporta l'origine ad epoca assai più remota del sorgere dei regimi di Mussolini e di Hitler, denunziando le tremende sperequazioni tra le fortune plutocratiche e la miseria operaia caratteristiche della moderna società, nel suo programma positivo, economico e politico, riecheggia i motivi reazionari del corporativismo fascista e della democrazia progressiva, oggi in voga. Fondare in politica la democrazia su qualità morali dei governanti e dello strato professionale governativo, è parola storica tanto retriva quanto l'invocazione di una economia di frammentazione della ricchezza, di polverizzazione della proprietà, che vuol dare agli oppressi economicamente l'illusione che il capitalismo, anziché spingersi sempre più follemente verso i vortici delle disparità economiche, si possa volgere ad un regime dove tutti al tempo stesso saranno lavoratori e proprietari.
Non diversamente parlò alle masse sfruttate il fascismo, e non è meraviglia che gli economisti delle democrazie politiche e sindacali accettino le parole economiche vaticane, convergendo nel piano della socializzazione dei latifondi e dei monopoli, che non maschera altro che il divenire monopolistico e fascistico del capitalismo statale.
Clericali ed anticlericali ieri, fascisti ed antifascisti oggi, i borghesi, nel mondo come in Italia, sono veduti dal metodo storico proletario percorrere un unico ciclo ed una crisi parallela.

Il ridicolo "bis" del Risorgimento

È per tutto questo che l'odierna parola della ripetizione e della restaurazione delle conquiste del Risorgimento nazionale italiano risulta molto più reazionaria delle stesse parole d'ordine del fascismo. Non solo un "bis" di questo genere è storicamente un non-senso, ma la via del Risorgimento non è altro che la via che ha condotto al regime fascista come al suo sbocco storico.
L'idea che il fascismo vada considerato diversamente da tutti gli altri processi sociali e storici, come una malattia, o se si vuole, come una distrazione della storia, come una parentesi bruscamente aperta e bruscamente chiusa, come un'alzata e calata di sipario su uno spettacolo ributtante, equivale a ritenere che tale fase storica non abbia le sue radici in tutti gli eventi che la precedettero e che gli eventi ad essa successivi possano non essere influenzati da essa. Tale idea è l'opposto della concezione scientifica e marxista della storia, e va da questa spietatamente respinta. Tale idea, infine, equivale a ristabilire ed esaltare, sotto pretesto di radicalismo antifascista, le cause stesse della generazione del fascismo, ed è la più forcaiola delle idee che la politica di questi tempi abbia potuto mettere in circolazione. La coscienza politica del proletariato respinge dunque l'invito a dare alla classe dei suoi sfruttatori nuovo appoggio e nuova alleanza per ripercorrere insieme la strada che ha condotto alla presente situazione, e rifiuta di prendere anche per un momento sul serio la presentazione della borghesia italiana sotto la luce romantica che pretendeva irradiarla nelle prime sue manifestazioni cospirative ed insurrezionali di un secolo addietro. Accreditare la classe dominante italiana con questo colossale trucco storico e politico è meno facile che presentare come candida verginella la più esperta e matura professionista del meretricio.
Comunque, la situazione succeduta al fascismo è di tale miseria politica, che non contiene nemmeno gli elementi retorici che rispondono a queste banali riesumazioni, alla nuova rivoluzione liberale ed al Risorgimento seconda edizione.
Come si può dire che il più disgraziato e pernicioso prodotto del fascismo è l'antifascismo quale oggi lo vediamo, così può dirsi che la stessa caduta del fascismo, il 25 luglio '43, coprì nel medesimo tempo di vergogna il fascismo stesso, che non trovò nei suoi milioni di moschetti un proiettile pronto ad essere sparato per la difesa del Duce, ed il movimento antifascista nelle sue varie sfumature, che nulla aveva osato dieci minuti prima del crollo, nemmeno quel poco che bastasse per poter tentare la falsificazione storica di averne il merito.
Vi furono negli anni del fascismo ed in quelli di guerra opposizioni, resistenze e rivolte, come vi sono state nelle zone tenute dai fascisti e dai tedeschi lotte condotte da partigiani armati. Ma mentre il politicantismo borghese è riuscito a dare a questi movimenti le sue false etichette liberali e patriottarde, nella realtà sociale tutti quei conati generosi vanno attribuiti a gruppi proletari, che, se nella coscienza politica non si sono saputi svincolare dalle mille menzogne dell'antifascismo ufficiale, nella loro battaglia esprimono il tentativo di una rivincita di classe, di una manifestazione autonoma di forze rivoluzionarie tendenti a schiacciare tutte le forze nemiche degli strati sociali dominanti e sfruttatori.
Il tracollo decisivo del regime fascista è derivato dalla sconfitta militare, dalla logica politica di guerra degli alleati, che, conoscendo la fragilità dell'impalcatura statale militare italiana, hanno localizzato presso di noi i primi formidabili colpi d'ariete della loro riscossa contro i successi tedeschi. Quando il territorio italiano era largamente invaso, il fascismo perse la partita non per il gioco dei suoi rapporti di forza coi partiti italiani antifascisti, ma per il gioco di rapporti di forza tra l'organismo statale militare italiano e quelli nemici.

La crisi della sconfitta e la parodia antifascista

Poiché la crisi culminante dello Stato borghese italiano (e non del solo fascismo che non era che la sua ultima incarnazione) non coincideva affatto nel tempo con la crisi dell'organismo militare tedesco, si determinò la situazione di liquidazione catastrofica di tutta la forza storica della classe dominante italiana. Questa, nel suo tentativo di gettare a mare l'alleato facendosene un merito agli occhi del vincitore, percorse una via rovinosa, perché in realtà non aveva più forza per costituire una seria pedina nel gioco dell'uno o dell'altro dei contendenti. Cercò di non confessarlo, e tutti gli attuali partiti dell'antifascismo furono complici nella responsabilità di questa vergognosa per quanto vana truffa politica.
Monarchia, Stato Maggiore, burocrazia, dapprima gettano a mare Mussolini, ma, non avendo nulla preparato di positivo per affrontare non tanto il fascismo, quanto il suo alleato tedesco, sono costretti a vivere l'ignobile farsa dei 45 giorni, in cui dicono corna di Mussolini ma proclamano che il popolo italiano deve seguitare a combattere la guerra tedesca. Preparano, poi, non il cambiamento di fronte, impossibile ad un popolo e ad un esercito ormai incapaci di combattere e stanchi di sacrificarsi dopo tutte le vicende passate, ma esclusivamente il loro salvataggio di classe, di casta e di gerarchie, poco curandosi che tale salvataggio di responsabili e complici inveterati della politica fascista duplicasse l'amarezza del calvario del popolo lavoratore italiano.
In questo quadro di clamoroso fallimento corrono a rioccupare i loro posti i partiti della pretesa sinistra antifascista, e quelli che sfruttano i vecchi nomi dei partiti della classe proletaria italiana. Ma nessuno di essi rifiuta la corresponsabilità di questa colossale manovra di inganni e di menzogna.
L'Italia che aveva vissuto per 22 anni di bugie politiche convenzionali, rimane nella stessa atmosfera, aggravata dal disastro economico e sociale. Nessuno dei partiti antifascisti trova la forza di contrapporre alla retorica della immancabile vittoria della banda mussoliniana, l'accettazione coraggiosa della realtà della sconfitta. Essi si pongono sul terreno banale della parola antitedesca cercando invano di presentare ai vincitori una Italia che, facendo per quattro anni la guerra contro di essi, fosse in realtà una loro alleata, e promettendo ciò che nessun partito italiano poteva mantenere, cioè un apporto positivo alla guerra contro la Germania, ed in realtà anche dal punto di vista nazionale non riescono ad un salvataggio parziale ma cadono in un peggiore disfattismo.
Le parole dei giornali dei partiti che si dicono rivoluzionari, echeggianti completamente quelle fasciste – unità nazionale, tregua di classe, esercito, guerra, vittoria – parole altrettanto false quanto allora, mascherano soltanto la libidine di dominio delle classi privilegiate, pronte ancora una volta ad un mercato fatto sulla carne e sul sangue dei lavoratori, e rispondono al tentativo di salvare alla borghesia italiana una posizione di classe economica dominatrice, sia pure vassalla di aggruppamenti statali infinitamente più forti, mediante l'offerta della vita, degli sforzi, del lavoro della classe operaia, a vantaggio prima della guerra, poi del peso titanico della ricostruzione. La borghesia italiana, la stessa che si servì di Mussolini, che plaudì a lui, che lo seguì nella guerra finché fu fortunata, firma coi suoi nemici un armistizio che non può pubblicare, perché con esso ha tentato di risalire dal vortice che la inghiotte a tutte spese di quelle classi che da decenni ha ignobilmente sfruttate e che spera di poter seguitare ad opprimere, se non come padrona assoluta, come aguzzina di nuovi padroni. Di questo segreto contratto e del suo spietato carattere di classe sono volontariamente corresponsabili tutti i partiti che agiscono oggi nel campo politico italiano, che accettarono di coprire la manovra con l'adozione delle false parole dell'alleanza, dell'armamento, della guerra, e che non osano, pur abbeverandosi ad un'orgia di liberalismo, avanzare nessuna timida eccezione critica alla dittatura di queste colossali menzogne.
Ritornando alla tesi-base dell'antifascismo di tutte le sfumature, secondo cui il fascismo fu ritorno reazionario di regimi pre-borghesi e feudali, e dopo la sua caduta si pone il postulato di ricominciare la rivoluzione ed il Risorgimento borghese con la solidarietà di tutte le classi, dalla borghesia al proletariato, e dopo di aver dimostrato l'enorme falsità storica e politica di questa posizione, deve concludersi che, se per un momento la tesi fosse vera, la rinascente borghesia avrebbe dovuto ricominciare il suo ciclo nelle forme iniziali che gli furono proprie, forme di dittatura di classe, di direzione totalitaria del potere, e non di tolleranza liberale.
Lo stesso fatto che le gerarchie politiche oggi prevalenti sono state incapaci a scorgere la necessità, per estirpare il fascismo, di una fase di dittatura e di terrore politico, dimostra che tra il fascismo ed esse – come insegna la valutazione fatta secondo le direttive marxiste – non vi è antitesi storica e politica, che il fascismo nei suoi risultati non è storicamente sopprimibile da parte di correnti politiche borghesi o collaboranti, che gli antifascisti di oggi, sotto la maschera della sterile ed impotente negazione, sono del fascismo i continuatori e gli eredi, e prendono atto passivamente di quanto il periodo fascista ha determinato e mutato nell'ambiente sociale italiano.
E a conclusione di quelli che sono gli aspetti internazionali della commedia e della tragica farsa che va dal 25 luglio all'8 settembre, va ribadito che l'armistizio italiano non fu vero armistizio.
È mancato quel mercato militare che è la base del fatto giuridico di armistizio. Era inutile stipularlo, e bastava proclamare ovunque la consegna dei frammenti di territorio italiano alla forza del primo occupante straniero. Il mercato è stato politico e di classe; quei gruppi, espressione della classe dominante, hanno tentato di barattare il privilegio di governare e sfruttare l'Italia, ossia la classe lavoratrice di questo paese, contro la firma di una serie di condizioni di servitù politica ed economica, che la forza del vincitore era ben libera di realizzare col suo diritto storico, ma che tuttavia la sua propaganda può oggi presentare come giuridicamente garantite.
Con l'armistizio, la casta militare italiana, nella immensa maggioranza, non invertì le direttrici del tiro, ma si preoccupò solo di rubare e vendere il contenuto dei depositi, dopo aver buttato via armi e divise. I fascisti, evidentemente, lo facevano per sabotare l'alleato, gli antifascisti per sabotare i tedeschi. Soltanto a tale risultato poteva condurre il capolavoro della tremenda opposizione antifascista italiana che, con la doppia manovra 25 luglio-8 settembre, coronò degnamente il corso della classe dominante italiana in un secolo di storia. Da allora questo metodo geniale ha preso il nome di "doppio gioco" con la caratteristica della sua miserabilità, e con quella che esso non è servito nemmeno ad ingannare il padrone, da nessuno dei due fronti.

Il collasso delle classi dirigenti in Italia e il proletariato

Se nell'andare alla rovina la classe dominante in Italia avesse lasciato superstite qualche suo gruppo dotato di forza sociale e politica autonoma, o almeno di una residua coscienza culturale ed intellettuale, lo si sarebbe sentito da ambe le parti del fronte lanciare la parola, sia pure utopistica, della liberazione del territorio da qualunque straniero, e accusare di tradimento della patria tutti i partiti e gli uomini del 25 luglio, dell'8 settembre e del mostruoso blocco antifascista avallatore dell'armistizio, come i fascisti che nel Nord si sono asserviti all'altro campo dell'imperialismo straniero.
Lasciando al loro disastro tutti i relitti borghesi, sia quelli che sono sopravvissuti nel professato vassallaggio ai due grandi contendenti della guerra, sia eventualmente gli ultimi mistici non venduti di una indipendenza e di una patria italiana, il partito nuovo della classe operaia italiana, impostando le sue soluzioni sulle forze internazionali di classe, dovrà in ogni caso sconfessare i due armistizi consumati nel disastro della guerra italiana e condurre la sua lotta politica contro tutti i gruppi che si sono schierati nei due governi della penisola e che hanno parlato di una collaborazione alle forze di guerra da entrambe le parti.
Soprattutto, vinta la guerra da parte degli Alleati, il proletariato italiano non ha alcun interesse a sostenere le rivendicazioni che i gruppi del governo di Roma avanzano per le loro "benemerenze", in quanto ogni concessione a questi da parte del vincitore sarà pagata dallo sfruttamento dei lavoratori d'Italia, e si porrà contro il loro cammino verso l'emancipazione.
La parola contraria, che vuole invece poggiare tali rivendicazioni sull'unità solidale delle classi e dei partiti d'Italia, deve essere dal proletariato respinta come disfattista e controrivoluzionaria.