"Il programma
comunista" n. 7 del 1953
In una citazione di
Engels fatta recentemente a proposito della valutazione marxista
della rivoluzione russa riportammo la frase: "il tempo dei
popoli eletti è finito". È poco probabile che giungano da
molte parti a spezzar lance per la opposta tesi, dopo la scalogna che
ha portato al nazismo tedesco; ed anche dopo la sorte toccata agli
ebrei che scontano malaccio la incredibile incocciatura razzista
plurimillenaria: stritolati prima dalla mania ariana di Hitler, poi
dall'affarismo imperiale britannico, oggi dall'inesorabile apparato
sovietico – domani, molto probabilmente, dalla cosmopolita,
tollerante a chiacchiere, politica statunitense, che si fece buoni
denti sulla carne nera.
Molto più difficile
sarà stabilire che è passato il tempo degli individui eletti, degli
"uomini del destino" – come Shaw chiamò Napoleone, ma
soprattutto per sfotterlo coll'esibirlo in tenuta da notte – in una
parola dei grandi uomini, dei condottieri e capi storici, delle
supreme Guide dell'umanità.
Da tutte le bande
infatti, e al suono di tutti i credi, cattolici o massonici, fascisti
o democratici, liberali o socialistoidi, sembra che – in misura
assai più estesa che per il passato – non si possa fare a meno di
esaltarsi e di prostrarsi in ammirazione strofinatrice dinanzi al
nome di qualche personaggio, ad esso attribuendo ad ogni piè
sospinto il merito intiero del successo della "causa", di
cui trattasi.
Tutti concordano
nell'attribuire influenze determinanti, sugli eventi che passarono e
che si attendono, all'opera, e per essa alle personali qualità dei
capi che alla sommità si assisero: disputano fino alla noia se si
debba farlo per scelta elettiva o democratica, o per imposizione di
partito e addirittura per individuale colpo di mano del soggetto, ma
concordano nel fare tutto pendere dall'esito di questa contesa, sia
nel campo amico che in quello nemico.
Ora se questo generale
criterio fosse vero, e noi non avessimo la forza di negarlo e
minarlo, dovremmo confessare che la dottrina marxista è caduta nella
peggiore bancarotta. Ed invece, al solito, fortifichiamo due
posizioni: il marxismo classico aveva già messo senza riserve i
grandi uomini in pensione; il bilancio dell'opera dei grandi uomini
di recente messi in circolazione o tolti di mezzo conferma la teoria
che sono cavatori di ragni dal buco.
IERI
Domande e risposte
Sono al riguardo
interessanti le risposte di Federico Engels ai quesiti che gli furono
posti su tale tema. Nella lettera del 25 gennaio 1894 parla dei
grandi uomini il secondo comma della seconda domanda: ma sono ben
poste entrambe.
Eccole:
1. Fino a qual punto le
condizioni economiche influiscano causalmente (attenzione a
non leggere casualmente).
2. Quale sia la parte
rappresentata dal momento (se avessimo il testo credo potremmo meglio
tradurre dal fattore) a) della razza; b) della individualità,
nella concezione materialistica della storia di Marx e di Engels.
Ma interessa ugualmente
la domanda cui rispondeva la precedente lettera del 21 settembre
1890: Come sia stato inteso da Marx ed Engels stesso il principio
fondamentale del materialismo storico; se cioè, secondo loro, la
produzione e riproduzione della vita reale siano esse sole il
momento determinante, o soltanto la base fondamentale di tutte le
altre condizioni.
La connessione tra i due
punti: funzione della grande individualità nella storia e
esatto legame tra condizioni economiche ed umana attività, è da
Engels chiaramente spiegata nelle risposte, che egli modestamente
afferma buttate giù in privato e non redatte con "quella
esattezza" cui egli tendeva nello scrivere per il pubblico. Ed
infatti egli si richiama alle trattazioni generali della concezione
marxista storica che ha date nell'Antidühring (Parte I cap. 9
a 11, parte II cap. 2 a 4, parte III cap. 1) e soprattutto nel
cristallino saggio su Feuerbach, del 1888. E quanto ad un esempio
luminoso della specifica applicazione del metodo, rimanda al 18
Brumaio di Luigi Bonaparte di Marx, che descrive a tempera
bruciante colui che può essere preso come prototipo del
"battilocchio" – termine che presto andiamo a spiegare.
Continuità di vita
A costo di una
digressione, che è anche un anticipo di un Filo la cui chiglia
maestra sta da qualche tempo sugli scali del cantiere, vogliamo dare
un bel bravo all'ignoto studente che avanzò la domanda della prima
lettera. Al solito quelli che non hanno capito niente sono quelli che
si atteggiano ad aver acquisito e digerito, colla pretesa di essere
in grado di eruttarlo fuori, e salivar sentenze. I più semplici e
seriamente impostati, invece, sono sempre convinti di dover meglio
intendere, quando già hanno tocchi da maestri. Il giovane e per
fortuna non onorevole interrogante adopera infatti al posto della
normale espressione "condizioni economiche" quella esatta e
bene equivalente alla prima: "produzione e riproduzione della
vita fisica". Come allievi della successiva classe, cambiamo
reale in fisica. L'aggettivo reale non ha lo
stesso peso nelle lingue germaniche e latine.
Altra volta accennammo a
passi dei maestri in cui si affiancano produzione e
riproduzione, citando Engels dove definisce la riproduzione,
ossia la sfera sessuale e generativa della vita, come la "produzione
dei produttori".
Sarebbe inutile
tracciare una scienza economica, perfino metafisica ossia con leggi
immutabili, e tanto più se dialettica ossia volta a tracciare la
teoria di una successione di fasi e di cicli, se esaminassimo un
gruppo, una società di produttori, dediti sì ad atti lavorativi ed
economici tendenti a soddisfare i loro bisogni conservando la loro
esistenza e la loro forza produttiva fino al limite di tempo
fisiologico, ma che fossero stati (poniamo da un capo razzista!)
operati in modo da non potersi riprodurre, ed avere successori
biologici.
Una tale condizione
muterebbe, e lo ammetterà il seguace di qualunque scuola economica,
fin dalla radice tutti i rapporti di produzione e distribuzione di
questa stessa alquanto ipotetica comunità.
Ciò vale a rammentare
che altrettanta importanza della produzione, che allestisce alimenti
(ed altro) atti a conservare la vita fisica del lavoratore,
ha, nello stabilire la trama delle relazioni economiche, la
riproduzione biologica che prepara – con impegno rilevante
di consumi e di sforzi produttivi – i sostituti futuri del
lavoratore stesso.
Come vedremo a suo tempo
con Engels e Marx contro Feuerbach, l'uomo non è tutto amore né
tutto lotta. Comunque la integrale visione del doppio
piedistallo economico della società vale a questo: il materialismo è
ormai vittorioso finché tratta il campo della produzione:
nessuno ivi contesta che vi predomini il criterio della somma
materiale di risultati; e su ciò è facile fondare la teoria
dell'attività di lotta passando dalle contese molecolari del preteso
homo oeconomicus, che ha al posto del cuore non il ventricolo
ma un ufficio di ragioniere, alla contesa delle classi, in cui si
riassume, con l'economia, tutto il resto delle forme umane di
attività. Ma è nel campo della genetica e della sessualità, in cui
sembra ai pivelli più arduo realizzare la messa in fuga dei motivi
trascendenti e mistici, e tradurre l'attrazione tra il maschio e la
femmina – proprio nell'elevarla al di sopra delle sudicerie della
moderna civiltà – in termini di causalità economica, che bisogna
fondare i più robusti piloni della dottrina rivoluzionaria del
socialismo.
Perché l'individuo,
piccolo o grande a tenore del banale senso comune, tenda a profittare
economicamente e concepisca eroticamente, è problema posto in modo
miserabile e vuoto. Noi trasponiamo la dinamica del processo al corso
della specie, ed affianchiamo lo sforzo per mantenerne vivi e validi
gli elementi attivi, col procedere della sua moltiplicazione e
continuazione, cicli entrambi assai più grandi di quelli in cui si
avvolge l'idiota timore della morte, e la sciocca credenza
nell'eternità del soggetto individuo. Son questi prodotti e
connotati decisivi delle società infestate da classi dominanti e
sfruttatrici, parassite nel lavoro e nell'amore.
La maledizione del
sudore e del dolore, ideologia che definisce le società a dominio di
classe, ossia fondate su monopoli dell'ozio e del piacere, sarà
travolta via dal socialismo.
Natura e pensiero
La riduzione del
problema qui direttamente messo in mira, ossia del problema delle
personalità storiche, a quello generale della concezione
materialista, appare immediata. Ammettete per un solo momento che il
seguirsi, lo sviluppo, il futuro di una società o addirittura della
umanità dipendano in modo decisivo dalla presenza, dalla
apparizione, dal comportamento, di un uomo solo. Non vi sarà più
possibile ritenere e sostenere che l'origine prima di tutta la
vicenda sociale sia nei caratteri di date condizioni e situazioni
economiche analoghe per grandi masse degli "altri"
individui, quelli normali, quelli "piccoli".
Se infatti quel lungo e
difficile cammino, che mai assumemmo ridurre ad una semplice
automaticità, dal parallelismo delle posizioni nel lavoro e nel
consumo, alla finale grande vicenda delle rivoluzioni sociali, del
passaggio di potere da classe a classe, della rottura delle forme che
determinavano quel parallelismo di rapporti produttivi, dovesse
passare per la testa (critica, coscienza, volontà, azione) di
un uomo solo, e ciò nel senso che costui sia un elemento necessario,
ossia tale che in sua mancanza nulla si attui di tutto quel moto,
allora non potrà negarsi che ad un certo momento tutta la storia
stia "nel pensiero" e dipenda da un atto di questo. Qui vi
è contraddizione insuperabile, poiché ciò concedendo, sarà forza
soggiacere alla visione opposta alla nostra, che dice che nella
storia non vi è causalità, non vi sono leggi, ma tutto è
"accidentalità" imprevedibile, tutto casualità,
che può studiarsi sì dopo, ma mai prima dell'accadimento.
Si sarà fatto così, né più né meno, di cappello alla forca.
Come negare che sia una
accidentalità la nascita di quel colosso, come evitare di ridurre
tutto il campo della riproduzione ad un passo falso... di
quello spermatozoo?
Abbiamo duramente
lottato contro la concezione più razionale e moderna di quella
"granduomistica", propria della borghesia illuminista, che
voleva far passare preventivamente il fatto storico non per
uno, ma per tutti i cervelli; anteponendo alla lotta
rivoluzionaria la generale educazione e coscienza. Ma di
questa concezione, incompleta e semilaterale, è ancor più
insufficiente quella che tutto concentra nella scatola cranica
singola, al che non si vede come altrimenti si provvederebbe se non
con l'amplesso, tante volte rammentato nella tradizione, tra un
essere divino e uno umano.
Abbiamo fatto a pezzi la
teoria, ancora più sciocca di quella della coscienza popolare
universale, che si basa sulla metà più uno dei cervelli per
pilotare la storia, perché marxisticamente faceva pena e pietà;
lasceremo vivere la teoria del cervello unico? Perché non allora
quella del riproduttore unico, dello stallone umano, evidentemente
meno balorda?
Ritorniamo infatti al
quesito: Precedette la natura, o il pensiero? La storia della specie
umana è un aspetto della natura reale, o una "partenogenesi"
del pensiero?
Il breve scritto di
Engels su Feuerbach, e meglio contro una apologia dello Starke (che
egli al solito chiama: solo uno schizzo generale, al più alcune
illustrazioni della concezione materialistica della storia) compendia
una sintesi della storia della filosofia da un lato, e della storia
delle lotte di classe dall'altro, magnifica per brevità e per
vastità.
Fuori le carte!
Ce ne sarebbe abbastanza
per un'esposizione-ruscello (ormai le sedute fiume si computano a
giorni) di un paio di mezze giornate, con un adatto commento.
Limitiamoci a rilevarne i soli connotati per provare l' identità.
Storicamente, rammenta
l'autore, dall'idealista Hegel, la cui filosofia aveva potuto essere
presa a base dalla destra conservatrice e reazionaria tedesca, derivò
il materialista Feuerbach, e sotto l'influenza del materialismo e
della Rivoluzione Francese, possenti antesignani. Da Feuerbach in
certo senso derivarono le ulteriori e ben diverse concezioni di Marx
e di Engels, dopo un'onda di ammirazione intorno al 1840 e all'uscita
dell' Essenza del Cristianesimo, e dopo una critica non meno
radicale di quella che Feuerbach aveva applicata ad Hegel,
compendiata nelle famose tesi di Marx del 1845, per oltre
quarant'anni rimaste ignote, che concludono con la undicesima: i
filosofi non han fatto che interpretare variamente il mondo; si
tratta ora di mutarlo.
Hegel aveva portato in
primo piano l'umana attività, ma alla premessa non aveva potuto dare
sviluppo rivoluzionario nel campo storico, per l'assolutezza del suo
idealismo. La società futura col suo disegno e modello sarebbe già
stata contenuta ab aeterno nella assoluta idea: fatta
dalla mente di un filosofo questa scoperta e questo sviluppo, con
norme proprie del puro pensiero, trasmessi tali risultati nel sistema
del diritto e nell'organismo dello Stato, l'integrale realizzazione
dell'Idea era compiuta. In che questo è da noi inaccettabile? In due
posizioni, che sono le due facce dialettiche della stessa. Rifiutiamo
la possibilità di un punto di arrivo, di un approdo
definitivo e insorpassabile. Rifiutiamo la possibilità che fossero
già date le proprietà e le leggi del pensiero, prima che il ciclo
della natura e della specie si aprisse.
Ma citiamo dunque! "Al
pari della conoscenza, non può la storia trovare una conclusione
finale in uno Stato perfetto del genere umano: una società perfetta,
uno Stato perfetto sono cose che possono sussistere solo nella
fantasia; al contrario tutti gli Stati storici che si susseguono sono
solo fasi transitorie nell'infinito cammino della società umana".
Hegel ha superato tutti
i filosofi precedenti nel porre innanzi la dinamica dei contrasti di
cui si compone il lungo cammino fino ad oggi. Purtroppo, come tutti
gli altri filosofi, e come tutti i possibili filosofi, questo vivente
ribollir di contrasti incapsulò e raggelò nel suo "sistema".
"Eliminati che siano tutti i contrasti, una volta per tutte,
siamo giunti alla cosiddetta verità assoluta; la storia universale è
alla fine, e tuttavia essa deve procedere, benché non le rimanga più
altro da fare; un nuovo insuperabile contrasto".
In questo passo Engels
fa cadere l'obiezione vecchia, e risollevata da Croce poco prima
della morte (vedi la confutazione in Prometeo n. 4 della II
Serie) che proprio il materialismo marxista faccia finire la
storia, per aver detto che quella tra proletariato e borghesia
sarà l'ultima delle lotte di classe. Nel suo antropomorfismo
insuperabile, ogni idealista scambia la fine della lotta tra classi
economiche con la fine di ogni contrasto e di ogni sviluppo nel
mondo, nella natura e nella storia, né può vedere, chiuso nei
limiti che per lui sono luce e per noi tenebra, di una scatola
cranica, che il comunismo sarà a sua volta un'intensa e
imprevedibile lotta della specie per la vita, che ancora
nessuno ha raggiunta, dato che vita non merita essere chiamata la
sterile e patologica solitudine dell'Io, come il tesoro
dell'avaro non è ricchezza, nemmen personale.
Lo spirito e l'essere
Giunge Feuerbach ed
elimina la antitesi. La natura non è più la estrinsecazione
dell'Idea (lettore: tieni stretto il Filo, che non è spezzato,
andiamo verso la tesi che la storia non è l'estrinsecazione del
Battilocchio!), non è vero che il pensiero è l'originario e la
natura il derivato. Il materialismo viene, tra l'entusiasmo dei
giovani, e anche del giovane Marx, rimesso sul trono. "La
natura esiste indipendentemente da ogni filosofia, essa è la base su
cui noi uomini, suoi prodotti, siamo cresciuti; oltre alla natura e
agli uomini nulla esiste: gli esseri elevati che creò la fantasia
religiosa sono solo il riflesso fantastico della nostra propria
essenza". Ed Engels, fin qui, plaude anche da vecchio, solo si
ferma a deridere il contrapposto che, per l'attività pratica,
l'autore erige al posto dell'imperativo morale di Kant: l'amore.
Non si tratta qui del fatto sessuale, ma della solidarietà, della
fratellanza "innata" che lega uomo a uomo. Su questo si
fondò il "vero socialismo" borghese e prussiano
dell'epoca, impotente a vedere l'esigenza dell'attività
rivoluzionaria, della lotta tra le classi, dell'eversione delle forme
borghesi.
È questo il punto in
cui Engels riepiloga la costruzione che conserva il fondamento
materialista liberandolo dalla pastoia metafisica e dall'impotenza
dialettica, che lo immobilizzavano, per altra via, nella stessa
"glacialità storica" dell'idealismo, per rivestito che
questo fosse apparso di volontà e di attività pratica.
Engels riporta la
chiarificazione del problema alla formazione delle figure del
pensiero fin dai popoli primitivi. Qui non possiamo che spigolare, ai
fini di un angolo visuale più acuto, mentre sarebbe utile al
movimento integrare ed allargare (indubbiamente vi provvederà il
futuro) specie nei trapassi in cui Engels raffronta il suo dedurre
con gli apporti delle varie scienze positive.
"La questione del
rapporto tra il pensiero e l'essere, lo spirito e la natura... poteva
essere posta nella sua forma più tagliente, poteva acquistare per la
prima volta tutta la sua importanza, quando la società europea si
destò dal lungo sonno del Medio Evo cristiano. La questione: qual è
il primordiale, lo spirito o la natura? – Questa questione si acuì,
rimpetto alla Chiesa, così: Ha Dio creato il mondo, o il mondo
esiste dall'eternità?
"Questa questione,
che nelle varie epoche si scrive in termini diversi, divide con le
due risposte i due campi: materialismo e idealismo. Chi considera la
natura (l'essere) come primordiale, è materialista, chi lo spirito
(il pensare) è idealista. Ma allora occorre l'atto creativo, ed è
notevole qui rilevare l'apprezzamento marxista dell'idealismo in
questa drastica osservazione: "Questa creazione spesso è presso
i filosofi, per esempio presso Hegel, ancora più ingarbugliata ed
impossibile, che nel cristianesimo".
Chiarita questa
separazione dei due gruppi di filosofi, non finisce la questione dei
rapporti tra essere e pensiero. Sono essi estranei o
compenetrabili? Può il pensiero degli uomini conoscere e descrivere
appieno la naturale essenza? Vi sono filosofi che hanno contrapposto
e separato i due elementi: l'oggetto e il soggetto; tra questi è
Kant con la sua inafferrabile "cosa in sé". Hegel supera
l'ostacolo, ma da idealista, ossia assorbe la cosa e la natura
nell'Idea, che quindi ben può ravvisare e comprendere la sua
emanazione. Ciò Feuerbach denunzia e combatte: "L'esistenza
hegeliana delle 'categorie logiche' prima che esistesse il mondo
materiale, non è altro che un fantastico avanzo della credenza in un
creatore oltremondano". Ciò non basta che al compito di
demolizione critica.
In una chiara
esposizione Engels rimprovera a quell'atteggiamento, oltre il quale
non aveva saputo andare la cultura tedesca, l'incapacità ad
intendere la vita della società umana come un movimento e un
processo incessante, al che Hegel aveva pure messo le basi. Tale
antistorica concezione condannava il Medio Evo come una specie di
parentesi inutile ed oscura (un analogo apprezzamento devono fare i
marxisti della recente impostazione insensata della lotta e della
critica antifascista e antinazista) e non ne sapeva inserire al suo
posto le cause e gli effetti, scorgerne i grandi progressi e gli
apporti immensi al corso futuro.
"Tutti i progressi
realizzati nelle scienze naturali servirono loro solo come argomenti
dimostrativi contro l'esistenza del creatore"... "Essi
meritavano la derisione che fu rivolta ai primi socialisti riformisti
francesi: dunque, l'ateismo è la vostra religione!".
Dramma ed attori
Segue la presentazione
organica della dottrina materialista storica, forse la migliore che
mai si sia scritta. Viene fatto il passo che Feuerbach non osò:
sostituire "il culto dell'uomo astratto" con "la
scienza dell'uomo reale e del suo sviluppo storico".
Con ciò si ritorna un
momento ad Hegel: egli aveva instaurata (non scoperta) la dialettica,
ma per lui era "l'evoluzione autonoma del concetto". In
Marx essa diviene "il riflesso nella coscienza umana del moto
dialettico del mondo reale". Come nella celebre frase, viene
raddrizzata e poggiata sui piedi, non sulla testa.
Comincia la trattazione
della scienza della società e della storia con metodo che coincide
con quello applicato alla scienza della natura. Ma nessuno ignora i
caratteri di questo particolare "campo" della natura, che è
il vivere della specie uomo. Urgendo giungere alle "risposte"
engelsiane, riportiamo solo qualche passo essenziale. "Nella
natura vi sono agenti inconsapevoli... al contrario nella storia
della società quelli che operano sono evidentemente dotati di
consapevolezza, uomini operanti con riflessione o passione, tendenti
a scopi determinati... Ma questa intenzione, sia comunque importante
per l'indagine storica, specialmente di singole epoche ed
avvenimenti, nulla può togliere al fatto che il corso della storia è
dominato da intime leggi generali...Solo di rado avviene ciò che
è voluto... tutti gli urti delle innumerevoli volontà e singole
azioni portano ad uno stato di cose, che è assolutamente analogo
a quello imperante nella natura inconsapevole. Gli scopi delle
azioni sono voluti, ma i risultati che seguono da queste azioni non
sono quelli voluti, o, in quanto sembrino corrispondere allo
scopo voluto, hanno in conclusione conseguenze affatto diverse
da quelle volute... Gli uomini fanno la loro storia, come che
essa riesca, mentre ognuno persegue i fini suoi propri... i risultati
di queste molteplici volontà agenti in diversa direzione e delle
loro molteplici azioni sul mondo esterno, sono appunto la storia...
Ma se si tratta di indagare le forze impellenti che –
consapevolmente o inconsapevolmente, e veramente assai spesso
inconsapevolmente – stanno dietro i motivi degli uomini operanti
nella storia, e costituiscono i veri ultimi propulsori di essa,
non si può trattare tanto dei motivi determinanti singoli, se
anche di uomini eminenti, ma piuttosto di quelli che mettono in
movimento grandi masse, interi popoli, intere classi; ed anche
questi non momentaneamente, a modo di un fugace fuoco di paglia
rapido ad accendersi e spegnersi, bensì a modo di un'azione
durevole che mette capo ad una grande trasformazione storica".
Qui alla parte
filosofica segue la parte storica fino al grande moto proletario
moderno. A questo punto è messa fine alla filosofia nel campo
della storia come in quello della natura. "Non importa più
escogitare nessi nella mente, bensì scoprirli nei fatti".
Limpidi oracoli
Ricordate i quesiti, e
sentite le risposte, non oscure e non ambigue come quelle
dell'oracolo antico, ma trasparenti, a conferma delle nostre
posizioni.
Alla questione ultima
riferita, del 1890.
"Il momento che in
ultima istanza è decisivo nella storia, è la produzione e
riproduzione della vita materiale".
"La situazione
economica è la base, ma i diversi momenti dell'edificio – forme
politiche della lotta di classe e suoi risultati, costituzioni
fissate dalla classe vittoriosa dopo le battaglie vinte, forme del
diritto, e perfino i riflessi di tutte queste vere lotte nel cervello
dei partecipanti, teorie politiche, giuridiche, opinioni religiose e
loro ulteriore sviluppo in sistemi dogmatici – tutto ciò esercita
anche la sua influenza sull'andamento delle lotte storiche, e in
certi casi ne determina la forma. È nella vicendevole influenza di
tutti questi momenti (= fattori) che, attraverso l'infinito numero di
accidentalità... si compie alla fine il movimento economico".
Alla prima domanda della
lettera del 1894 sull'influenza causale delle condizioni
economiche: "Come condizioni economiche, che consideriamo base
determinante della storia della società, intendiamo il modo con cui
gli uomini producono i loro mezzi di esistenza e scambiano i loro
prodotti (fino a che esiste divisione di lavoro). Tutta la tecnica
della produzione e del trasporto è quindi compresa... Ciò determina
la ripartizione della società in classi, le condizioni di padronanza
e servitù, lo Stato, la politica, il diritto, ecc.".
"Se come ella dice
la tecnica dipende in grandissima parte dalla scienza a maggior
ragione questa dipende dalle condizioni e dalle esigenze della
tecnica... Tutta l'idrostatica (Torricelli, ecc.) fu generata dal
bisogno che l'Italia sentì nei secoli XVI e XVII di regolare i
corsi d'acqua scendenti dalle montagne" (Cfr. vari scritti
del nostro giornale e rivista sulla precocità dell'impresa agricola
capitalista in Italia, e sulla degenerazione della tecnica di difesa
idraulica moderna nell'inondazione del Polesine).
Sul comma a) della
seconda domanda: il momento rappresentato dalla razza, diamo
il solo bruciante apoftegma (a filare): "La razza è un
fattore economico". Non avevate udito: produzione e
riproduzione? La razza è una materiale catena di atti riproduttivi.
Ed infine il comma b),
che riguarda il battilocchio, e col quale lasciamo il
magnifico Federico.
"Gli uomini fanno
essi la loro storia, ma finora non con una volontà generale e
secondo un piano generale, neppure in una data società limitata. Le
loro aspirazioni si contrariano; ed in ogni simile società prevale
appunto per questo la necessità, di cui l'accidentalità è
il complemento e la forma di manifestazione. Ed allora appaiono i
cosiddetti grandi uomini. Che un dato grand'uomo, e
proprio quello, sorga in quel determinato tempo e in quel
determinato luogo, è naturalmente un puro caso. Ma, se noi lo
eliminiamo, c'è subito richiesta di un sostituto, e questo sostituto
si trova, tant bien que mal, ma alla lunga si trova. Che
Napoleone fosse proprio questo corso, questo dittatore militare che
la situazione della repubblica francese, estenuata dalle guerre,
rendeva necessario, è un puro caso, ma che in mancanza di Napoleone
ci sarebbe stato un altro ad occuparne il posto, ciò è
provato dal fatto che ogni qualvolta ce n'era bisogno l'uomo si è
trovato sempre: Cesare, Augusto, Cromwell, ecc.".
Marx! Engels
sentiva ben l'urlo della platea: il benservito anche a lui: Thierry,
Mignet, Guizot scrissero storie inglesi inclinando al materialismo
storico, Morgan vi arrivò per conto suo, "i tempi erano maturi
e quella scoperta doveva (stavolta non è nostro il corsivo)
essere fatta".
Eppure in una nota al
Feuerbach Engels dice: Marx era un genio; noi soltanto dei talenti.
Sarebbe deplorevole che da tutta la dimostrazione taluno non avesse
capito che differenze fortissime corrono da uomo a uomo come per la
forza dei muscoli così per il potenziale della macchina-cervello.
Ma il fatto è che,
avendo come massimo esempio liquidato proprio lo shawiano "uomo
del destino", non possiamo illuderci di esserci tolti dai piedi
i "fessi del destino", poveri autocandidati a coprire il
vuoto, che la storia avrebbe pronto per loro, e pieni di
preoccupazione per l'eventualità di mancare all'appello, e di
imboscarsi alla gloria.
OGGI
Posta recente
Calza con l'argomento
una lettera rivolta ad una compagna operaia che, scusandosi a torto
di esposizione imperfetta, seppe porre il quesito in modo assai
espressivo. Riportiamo il testo di parte della risposta.
Tu scrivi: "dici
bene che un marxista deve guardare i principii e non gli uomini...
noi diciamo gli uomini non contano e lasciamoli fuori, ma sino a che
punto si può far ciò? Se sono gli uomini che determinano in parte i
fatti? Se gli uomini sono in parte la causa che determinò lo
scompiglio, noi non possiamo dimenticarli del tutto". Non si
tratta per nulla di modo traballante di arrivare alla
questione; anzi, offri una via molto utile per farlo.
I fatti e gli atti
sociali di cui ci occupiamo come marxisti sono operati da uomini,
hanno come attori gli uomini. Verità indiscussa; e senza l'elemento
umano la nostra costruzione non regge. Ma questo elemento era
tradizionalmente considerato in modo diversissimo da quello che il
marxismo ha introdotto.
La tua semplice
espressione si può enunciare in tre modi; ed allora si vede il
problema nella sua profondità, a cui hai il merito di esserti
avvicinata. I fatti sono operati da uomini. I fatti sono
operati dagli uomini. I fatti sono operati dall'uomo Tizio,
dall'uomo Sempronio, dall'uomo Caio.
Non ci distingue solo
dagli "altri" la nozione che (essendo l'uomo da un lato un
animale, dall'altro un essere pensante) essi dicono che
l'uomo pensa prima, e poi dagli effetti di questo pensiero si
risolvono i suoi rapporti di vita materiale, e anche animale – noi
diciamo che a base di tutto stanno i rapporti fisici, animali,
nutrimento, ecc.
La questione appunto non
si pone uomo per uomo, ma nella realtà dei complessi sociali e dei
loro fenomeni che si concatenano.
Ora quelle tre
formulazioni del modo come gli uomini intervengono, scusa i paroloni,
nella storia, sono queste.
I tradizionali sistemi
religiosi o autoritari dicono: un grande Uomo o un Illuminato dalla
divinità pensa e parla: gli altri imparano e agiscono.
Gli idealisti borghesi
più recenti dicono: la parte ideale, sia pure comune a tutti gli
uomini civilizzati, determina certe direttive, in base alle quali gli
uomini sono condotti ad agire. Anche qui campeggiano ancora taluni
determinati uomini: pensatori, agitatori, capitani di popolo,
che avrebbero data la spinta a tutto.
I marxisti poi dicono:
l'azione comune degli uomini, o se vogliamo quanto di comune e non di
accidentale e particolare è nell'azione degli uomini, nasce da
spinte materiali. La coscienza e il pensiero vengono dopo e
determinano le ideologie di ciascun tempo.
E allora? Per noi come
per tutti sono gli atti umani che divengono fattori storici e
sociali: chi fa una rivoluzione? Degli uomini, è chiaro.
Ma per i primi era
fondamentale l'Uomo illuminato, sacerdote o re.
Per i secondi: la
coscienza e l'Ideale che conquistò le menti.
Per noi: l'insieme dei
dati economici e la comunità di interessi.
Anche per noi gli uomini
non si riducono, da protagonisti che creano o recitano, a marionette
i cui fili sono tirati... dall'appetito. Sulla base della comunanza
di classe si hanno gradi e strati diversi e complessi di disposizioni
ad agire, e tanto più di capacità di sentire ed esporre la comune
teoria.
Ma il fatto nuovo è che
a noi non sono indispensabili, come alle precedenti rivoluzioni,
neppure col compito di simboli, uomini determinati, con una
determinata individualità e nome.
Inerzia della
tradizione
Il fatto è che appunto
in quanto le tradizioni sono le ultime a sparire, molto spesso gli
uomini si muovono per la sollecitazione suggestiva della passione per
il Capo. Allora perché non "utilizzare" questo elemento,
che si capisce non muta il corso della lotta di classe, ma può
favorire lo schieramento, il precipitare dell'urto?
Ora a me pare che il
succo delle dure lezioni di tanti decenni sia questo: rinunziare a
smuovere gli uomini e a vincere attraverso gli uomini non è
possibile, e proprio noi sinistri abbiamo sostenuto che la
collettività di uomini che lotta non può essere tutta la massa o la
maggioranza di essa, deve essere il partito non troppo grande,
e i cerchi di avanguardia nella sua organizzazione. Ma i nomi
trascinatori hanno trascinato in avanti per dieci, e poi rovinato per
mille. Freniamo quindi questa tendenza e in quanto praticamente
possibile sopprimiamo, non certo gli uomini ma l'Uomo con quel
dato Nome e con quel dato Curriculum vitae...
So la risposta che
facilmente suggestiona gli ingenui compagni. Lenin. Bene, è
certo che dopo il 1917 guadagnammo molti militanti alla lotta
rivoluzionaria perché si convinsero che Lenin aveva saputa fare e
fatta la rivoluzione: vennero lottarono e poi approfondirono
meglio il nostro programma. Con questo espediente si sono mossi
proletari e masse intere che forse avrebbero dormito. Ammetto. Ma
poi? Collo stesso nome si va facendo leva per la totale
corruzione opportunista dei proletari: siamo ridotti al punto che
l'avanguardia della classe è molto più indietro che prima del 1917,
quando pochi sapevano quel nome.
Allora io dico che nelle
tesi e nelle direttive stabilite da Lenin si riassume il meglio della
collettiva dottrina proletaria, della reale politica di classe; ma
che il nome come nome ha un bilancio passivo. Evidentemente si è
esagerato. Lenin stesso di gonfiature personali aveva le scatole
pienissime. Sono solo gli ometti da nulla a credersi indispensabili
alla storia. Egli rideva come un bambino a sentire tali cose. Era
seguito, adorato, e non capito.
Sono riuscito a darti in
queste poche parole l'idea della questione? Dovrà venire un tempo in
cui un forte movimento di classe abbia teoria e azione corretta senza
sfruttare simpatie per nomi. Credo che verrà. Chi non ci crede non
può essere che uno sfiduciato della nuova visione marxista della
storia, o peggio un capo degli oppressi affittato dal nemico.
Come vedi l'effetto
storico dell'entusiasmo per Lenin non l'ho messo in bilancio con
l'effetto nefasto dei mille capi rinnegati, ma con gli stessi effetti
negativi del nome stesso, né sono sceso sul terreno insidioso del:
se Lenin non fosse morto. Stalin era anche lui un marxista con
le carte in regola e un uomo d'azione di prim'ordine. L'errore dei
trotzkisti è cercare la chiave di questo grandioso rivolgimento
della forza rivoluzionaria nella sapienza o nel temperamento di
uomini.
Figuri dell'attualità
Perché abbiamo chiamata
la teoria del grand'uomo teoria del battilocchio?
Battilocchio è un tipo
che richiama l'attenzione e nello stesso tempo rivela la sua assoluta
vuotaggine. Lungo, dinoccolato, curvo per celare un poco la testa
ciondolante ed attonita, l'andatura incerta ed oscillante. A Napoli
gli dicono battilocchio con riferimento allo sbattito di palpebre del
disorientato e del filisteo; a Bologna, tanto per sfuggire alla
taccia di localismo, gli griderebbero dì ben sò fantesma.
La storia e la politica
contemporanea di questa data 1953 (in cui tutto risente del fatto
generale e non accidentale che una forma semiputrefatta non riesce a
crepare: il capitalismo) ne circondano di costellazioni di
battilocchi. Il marasma proprio di tale fase diffonde a masse
ammiranti e lucidanti la convinzione assoluta che ad essi, e ad essi
solo, guardar si debba, che si tratta da ogni lato dei battilocchi
del destino, e che soprattutto il cambio della guardia nel corpo
battilocchiale sia il momento (poveri noi, o Federico!) che
determina la storia.
Tra i capi di Stato, per
l'assoluta mancanza di ogni nuova parola e perfino di ogni originale
posa, ve ne è un terzetto ineffabile: Franco, Tito, Peron. Questi
campioni, questi Oscar di bellezza storica, hanno spinto al nec
plus ultra l'arte suprema: togliersi tutti i connotati. Altro che
dinastici nasi; che occhi d'aquila!
Quanto ad Hitler e
Mussolini buonanime, il primo fa pensare ad uno stato maggiore
formidabile di non battilocchi che lo attorniava, elevati per tanto
grado di criminali, che non solo facevano storia, ma usavano violenza
carnale su di essa a piacer loro! Il secondo si fa perdonare per lo
strato ineffabile di sottobattilocchi che lo inguaiava, e che ha dato
cambio della guardia, in quel del 1944-45, ad uno stuolo di
equipollenti sodali, oggi nostra delizia.
Una terna bellissima che
si schiera non nello spazio ma nel tempo, con la prova provata che
ogni successione per morto o per elezione produce effetto storico
misurato da zero via zero, è quella Delano, Harry, Ike. Le forze
americane che occupano il mondo giustificherebbero la definizione di
questo periodo come la calata dei battilocchi.
Slavati diadochi
Una costellazione non
meno espressiva dello stadio presente, ci è data dai capi nazionali
recenti e presenti, e spesso drasticamente spostati, dei paesi e dei
partiti che si collegano alla Russia, e non si sa dove meglio scoprir
battilocchi, se in fondo alla Balcania o tra le gonne di Marianna.
Quando il grande Alessandro morì, l'impero macedone che si era
esteso su due continenti fu frammentato in Stati minori affidati ai
vari generali di lui, che in non lungo ciclo sparirono senza traccia.
Chi ne ricordasse i nomi, ci darebbe molti punti in fatto di storia.
Quando dunque la storia
chiama il grande uomo lo trova. Può ben darsi che lo trovi con una
testa a basso potenziale. Ma quando chiama battilocchi può avvenire
anche che il posto sia coperto da uomini di valore. Non stiamo, allo
stato, dando del fesso a nessuno.
Il fatto è che, in
Italia ad esempio, il concorso aperto per le grandi personalità si
riferisce a posti già occupati da colossi storici. Si tratta infatti
di recitare la parodia di una tragedia che ebbe già il suo
svolgimento solenne. In occasione del sessantesimo compleanno di
Togliatti, e con un cerimoniale bassamente passatista, dopo aver
largamente riportato il suo curriculum vitae ed i suoi
scritti, sono pervenuti alla definizione in sintesi: un grande
patriota.
La controfigura è ormai
svuotata da un secolo, e offre poche speranze di non battilocchiesca
grandezza. La storia ha già trovato i suoi eroi, senza troppo
cercare. Mazzini, Garibaldi, Cavour, e tanti altri, non scenderanno
di scanno. Di patria a vero dire ce ne resta pochina, ma di patrioti
ne abbiamo una sporta. L'autobus della gloria rivoluzionaria è al
completo. Ciò non diffama le qualità del soggetto odierno: i suoi
scritti che hanno riesumati dal 1919 (quando si ebbe il torto di non
dare ad essi la dovuta attenzione) gli fanno onore: non ha mai
cessato di essere un marxista, poiché non lo era mai divenuto.
Sosteneva allora quello che oggi sostiene, la missione della patria.
Grandissimo, se volete, patriota: come una grandissima
diligenza nel tempo dell'elettrotreno e dell'aereo a reazione.
Se, dopo aver dibattuto
di Lenin, non abbiamo fatto cenno di Stalin, da poco scomparso, non è
per tema che dopo una spedizione punitiva il nostro scalp vada
ad adornare il mausoleo, prassi a cui vi è buona speranza di
giungere. Stalin è ancora il pollone di un ferreo ambiente anonimo
di partito che costruì sotto non accidentali spinte storiche
un moto collettivo, anonimo, profondo. Sono reazioni della base
storica, e non casi fortuiti della bassa corsa al successo, che
determinano lo svolto traverso il quale in una fiamma termidoriana lo
stuolo rivoluzionario dovette bruciare sé stesso, e sebbene un nome
può essere un simbolo anche quando una persona non conta nulla per
la storia, il nome di Stalin resta come simbolo di questo
straordinario processo: la forza proletaria più possente piegata
schiava alla rivoluzionaria costruzione del capitalismo moderno,
sulla rovina di un mondo arretrato ed inerte.
Ben deve la rivoluzione
borghese avere un simbolo ed un nome, per quanto sia anche essa in
ultima istanza fatta da forze anonime e rapporti materiali. Essa è
l'ultima rivoluzione che non sa essere anonima: perciò la ricordammo
romantica.
È la nostra
rivoluzione che apparirà quando non vi saranno più queste prone
genuflessioni a persone, fatte soprattutto di viltà e di
smarrimento, e che come strumento della propria forza di classe avrà
un partito fuso in tutti i suoi caratteri dottrinali organizzativi e
combattenti, cui nulla prema del nome e del merito del singolo, e che
all'individuo neghi coscienza, volontà, iniziativa, merito o colpa,
per tutto riassumere nella sua unità a confini taglienti.
Morfina e cocaina
Lenin prese da Marx la
definizione, da molti combattuta come banale, che la religione è
l'oppio del popolo. Il culto dell'entità divina è dunque la morfina
della rivoluzione, di cui addormenta le forze agenti; e non per
niente nel lutto recente si è pregato in tutte le chiese dell'URSS.
Il culto del capo,
dell'entità e persona non più divina, ma umana, è uno stupefacente
sociale ancora peggiore, e noi lo definiremo la cocaina del
proletariato. L'attesa dell'eroe che infiammi e travolga alla lotta è
come l'iniezione di simpamina: i farmacologi hanno trovato il termine
adatto: eroina. Dopo una breve esaltazione patologica di energie,
sopravviene la prostrazione cronica e il collasso. Non vi sono
iniezioni da fare alla rivoluzione che esita, ad una società
turpemente gravida da diciotto mesi, e tuttora infeconda.
Buttiamo via la volgare
risorsa di trarre successo dal nome dell'uomo di eccezione, e
gridiamo un'altra formula del comunismo: esso è la società che ha
fatto a meno di battilocchi.