Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

* * *

«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

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«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

15 novembre 2010

Sulla politica

Jean Barrot (1973)


[«Le Mouvement Communiste», Parigi, n. 5, ottobre 1973; si veda anche, dello stesso autore, il più recente Contro la democrazia

«La loro intelligenza politica celava loro la radice della loro miseria sociale, falsava in loro la comprensione dei loro autentici scopi; è così che la loro intelligenza politica ingannava il loro istinto sociale». (Karl Marx, 1844).

Ogni sistema sociale è allo stesso tempo una forza personale e impersonale. Se si dimentica il primo termine, la società diventa solo un’entità al di sopra dei rapporti sociali; se si dimentica il secondo, non è possibile alcuna visione d’insieme, e non se ne comprende la dinamica. Inoltre, il capitale è contemporaneamente concorrenza e solidarietà, contraddizione e unità. Il suo movimento è al contempo centrifugo e centripeto. Il Libro III de Il Capitale non ha lo scopo di tappare un buco per motivi di semplice coerenza scientifica: Marx vi studia il «processo d’insieme» al fine di mettere in luce questo duplice movimento. Si è detto, giustamente, che Il Capitale non è un’opera di economia, ma una critica della scienza economica in quanto studio separato di un’attività separata. Infatti, non insiste sul livello economico se non al fine di situarlo in un insieme più vasto, di cui lo studio dello Stato e del mercato mondiale avrebbe dovuto costituire la conclusione, che Marx non ebbe né il tempo né la forza di elaborare (sia per ragioni materiali, sia perché non ne discerneva tutta la portata)[1]. Eppure, è a partire dallo studio del capitale, e dunque del Capitale, che si può affrontare la politica, riprendendo a) l’inizio del Libro I, e b) la sintesi parziale costituita dalle prime sezioni del Libro III. Uno stesso filo conduttore unisce l’analisi della merce a quella del processo globale del capitale.
Se l’Internationale Situationniste ha parlato di «società dello spettacolo», la prima sezione del Libro I fornisce gli elementi di un tema analogo, a proposito della nozione di rappresentazione. La questione ebraica, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, Critica del diritto statuale hegeliano e Glosse critiche in margine all’articolo «Il re di Prussia e la riforma sociale: osservazioni di un Prussiano» avevano abbozzato questa riflessione sulla separazione e sulla politica. La merce è la forma cellulare, l’elemento di base dell’economia del capitale. Ma, in un senso più ampio, il rapporto mercantile è l’archetipo del legame sociale nel mondo capitalista. Una merce si rapporta all'altra non in quanto bene, ma in funzione di ciò che quest'ultimo rappresenta, della quantità di lavoro astratto che vi è cristallizzata. Poco importa il contenuto reale dell’oggetto contro il quale la merce si scambia: a importare è solo ciò di cui esso è il «supporto». Allo stesso modo, gli individui che sono impegnati nello scambio, si guardano senza in realtà vedersi, giacché considerano l’altro solo come un mezzo per accrescere una somma di valore. Inoltre, ciascuno finisce per considerare anche se stesso come il supporto di qualcosa che è altro da sé: il lavoro è un mezzo per guadagnarsi la vita, anziché per viverla. L’attività è un mezzo per accedere a qualcosa d'altro, a qualcosa di esteriore al suo contenuto proprio. E questo «altro» – vedere gli amici, viaggiare, amare etc. – tende a sua volta a comportarsi come la riproduzione di un’immagine della vita, dunque come una rappresentazione che viene imposta dal capitale. Le merci, ma anche coloro che ne sono i possessori, percorrono una galleria di specchi nella quale possono esistere solo contemplandosi.

«Reso estraneo al prodotto del suo lavoro, alla sua attività vitale, al suo essere generico, l’uomo diventa estraneo all’uomo. Quando gli si trova di fronte, è l’altro che è presente davanti a lui. Ciò che è vero circa il rapporto dell’uomo con il suo lavoro, con il prodotto del suo lavoro e con se stesso, è vero circa il suo rapporto con l’altro, così come con il lavoro e l’oggetto del lavoro altrui. In maniera generale, la tesi secondo cui l’uomo è reso estraneo al suo essere generico significa che gli uomini sono resi estranei gli uni agli altri, e che ciascuno è reso estraneo rispetto alla specie umana.» [2]

Il rapporto con l’altro non ha valore in quanto tale, ma ha per scopo l’autovalorizzazione, sia essa reale o simbolica. Questo movimento si approfondisce con il passaggio dall’economia mercantile semplice all’economia mercantile capitalista, ma il suo fondamento permane. Quegli uomini mercificati che sono i venditori di forza-lavoro, non si rapportano gli uni agli altri se non in funzione della loro valorizzazione sociale [3]. Ogni merce s’interessa solo al valore di scambio delle altre merci, non al loro valore d’uso; e soprattutto considera il proprio valore d’uso, il proprio stesso essere, solo come supporto del proprio valore di scambio. Si hanno relazioni con gli altri solo per ciò che essi rappresentano, non per ciò che sono. Negli Stati Uniti, dove Marx notava già nel secolo scorso l’indifferenza del lavoratore verso il contenuto del proprio lavoro, l’isolamento degli individui genera una «vita sociale» in cui si presume che il «buon americano» appartenga a diversi club e associazioni, dove di volta in volta impersona il ruolo che ci si attende da lui: buon cristiano, buon cittadino, buon padre etc. A livello individuale, il senso dei propri atti sfugge: nulla di ciò che faccio ha un legame con la ragione per cui lo faccio. Credo di agire, ma sono in realtà agito dalla società. A livello dei gruppi sociali, una classe, agli occhi dell'altra, è solo il supporto della propria esistenza. Ma in primo luogo, se il valore impone la propria legge, è alla società stessa che sfugge la logica dei propri atti.
Nella misura in cui l’unità è svanita, la società dev’essere riorganizzata, e questa diventa l'attività privilegiata, e persino principale. La gestione diventa il problema, e la decisione il momento privilegiato dell’azione. Siccome l’azione è divisa e frammentata, la decisione se ne distacca e diventa il compito di un apparato, di un’istituzione specializzata. Il potere si costituisce come attività e funzione separata, soltanto perché l’attività sociale è essa stessa separata. Il problema del potere, nell'accezione ristretta del termine, sorge nel momento in cui gli uomini hanno perso il potere di agire e di trasformarsi.
La filosofia greca, cercando di definire un modello di società in cui l’élite si occupi di amministrare il potere, di gestire la società, teorizza e idealizza un’alienazione dolorosa, di cui tenta peraltro il superamento sul piano artistico; ma in entrambi i casi si tratta già di uno sforzo per fondare delle mediazioni, dal momento che la relazione immediata è scomparsa. Non è solo a causa delle lotte di classe che c’è bisogno di una struttura incaricata di mantenere l’unità della società. Più esattamente, la «lotta» di classe non è che un aspetto – l’elemento attivo – di una realtà più vasta. C’è contraddizione tra i gruppi sociali così come tra le attività. La logica mercantile s’impone all’equilibrio sociale. Le minacce che gravano sulla vita del Pianeta ne sono la prova, e confermano ciò che si chiama (unilateralmente) la prospettiva catastrofica del comunismo teorico. Ma il mondo antico conosceva già, seppur in forme diverse, questo problema, e le costruzioni politiche di Platone e Aristotele hanno essenzialmente l’obiettivo di preservare un equilibrio tra le classi, messo in pericolo dallo sviluppo della ricchezza. L’originalità dell’Africa Nera risiede nell'avere tentato a lungo, spesso fino al XIX secolo, di conservare un equilibrio stabile tra a) i resti delle antiche comunità, fondate sui legami di parentela e sulla globalità della vita sociale, e b) lo sviluppo delle attività mercantili. Il mondo nero ha limitato, senza tuttavia poterlo impedire, lo sviluppo della politica in quanto attività specialistica di unificazione nella separazione, e del potere in quanto istituzione preposta a questa funzione.

«Di conseguenza, a partire pressappoco dal 1450, il problema centrale della politica imperiale sta nel bisogno di trovare un equilibrio fra gli interessi delle città – con i loro mercanti, i funzionari e il crescente interesse per l’accumulazione – e gli interessi contrari della campagna, estesamente egualitaria» [4].

Le prime tre sezioni del Libro III mostrano il meccanismo d’insieme del capitale. Concorrenza e centralizzazione sono i due momenti del suo movimento. Il processo attraverso il quale si stabilisce un tasso medio di profitto, è anche quello attraverso cui il capitale si organizza come forza sociale, nel mentre si concentra ed elimina gli elementi meno produttivi. Marx parla di un comunismo capitalista [5]. Partita dalla cellula elementare del capitalismo, l’analisi giunge alla sua regolazione generale. La dinamica è duplice. Da una parte, il capitale si unifica tanto economicamente quanto socialmente, dandosi i mezzi per affrontare, a tutti i livelli, sia i suoi concorrenti sia il proletariato. Dall’altra, questa unità può esistere soltanto come tendenza, sintesi sempre da rifare. Vi sono contemporaneamente concentrazione e dispersione.
Anche la politica è duplice nel mondo capitalista. Da un lato, è il capitale stesso ad assicurare sempre più l’unificazione della società. I differenti programmi non sono che varianti di un medesimo programma fondamentale. Da un altro lato, il perdurare delle difficoltà del capitale fa rinascere i problemi politici, di organizzazione e riorganizzazione della società – persino negli Stati Uniti [6]. La politica non è morta. La sua integrazione al capitale, conseguenza delle contraddizioni capitaliste, non è sinonimo di scomparsa. Sarebbe altrettanto assurdo affermare il «primato della politica» che negare la sua realtà, vedendovi una semplice ideologia. Ogni teoria che parta dalla politica è sterile, e sfocia in una ricerca del potere: invece di mirare a un cambiamento, anche limitato, dei rapporti sociali, si vuole organizzare gli altri in vista di un qualche fine. A questa separazione se ne accompagna un’altra, interna all’individuo stesso, nel momento in cui si trasforma in militante. Si paragonino i dibattiti tra i gauchistes sulla sessualità con questa lettera di Karl a Jenny Marx:

«Io mi sento di nuovo un uomo, perché provo una grande passione, e la molteplicità in cui lo studio e la cultura moderna ci impigliano, e lo scetticismo con cui necessariamente siamo portati a criticare tutte le impressioni soggettive e oggettive, sono fatti apposta per renderci tutti piccoli e deboli e lamentosi e irrisoluti. Ma l’amore non per l’uomo di Feuerbach, non per il metabolismo di Moleschott, non per il proletariato, bensì l’amore per l’amata, per te, fa dell’uomo nuovamente un uomo» [7].

Il militante crede di elevarsi al di sopra delle costrizioni sociali mentre ne è vittima a un grado ben più elevato, rispetto al salariato ordinario. Infatti, il militante interiorizza la lacerazione e la spoliazione costitutive dell’uomo moderno. Il militante è il cittadino compiuto. L’uomo normale assume la propria separazione politica solo nel momento in cui partecipa «attivamente» alla politica (elezioni). Il militante ne fa una regola di vita.

«Nell’individuo si mostra cos’è la legge generale: la società civile e lo Stato sono separati. Dunque il cittadino nello Stato e il cittadino come semplice membro della società civile sono egualmente separati. Bisogna dunque ch’egli operi una rottura essenziale con se stesso […]. Il cittadino deve dismettere il suo stato, lo stato civile, lo stato privato, per acquistare significato e attività politici […]» [8].

Per contro, identificando politica e capitale, si finisce in un vicolo cieco. Infatti, che cos’è il capitale? Non esiste e non può esistere un capitale universale. Chi dice capitale dice lotta; chi dice lotta dice regolazione periodica delle condizioni di questa lotta. Non si può ridurre la politica al capitale: si può solo sviluppare l’analisi della politica a partire da quella del capitale.
Si può ottenere una visione d’insieme del capitalismo sviluppando i diversi significati della nozione di rappresentazione. Nella rappresentazione intesa come spettacolo, lo scambio, e ancor più lo scambio capitalista, fa vivere gli individui nell’immagine della trasformazione. Anche quando si agisce, non si trasforma più. Nel senso datole da Marx all’inizio del Libro I, beni e persone lavorano solo in vista di altro dal lavoro stesso: si lavora per ciò che il lavoro rappresenta, ovvero il valore. Infine, la società mercantile può vivere solo creando una struttura di totalizzazione; non può esistere come totalità, perché le relazioni sociali che la compongono minacciano di farla esplodere. La totalità costituita dai rapporti economici (cfr. Libro III) esige, a causa delle contraddizioni che l’animano, una struttura incaricata di conservarla. È questa la prova di una lacerazione nel seno della società, così come l’esistenza e il relativo successo terapeutico della psicanalisi attestano la lacerazione interna all’individuo.
È questo il senso della critica di Marx alla teoria hegeliana del diritto: se la società ha bisogno di un elemento che la rappresenti, per essere tale, se non basta a sé medesima, se non può essere se stessa, questa menomazione prova la sua natura profondamente contraddittoria. La società mercantile crea la propria totalità non da se stessa ma al di là di se stessa. Non che la politica sia esterna alla società: lo Stato rappresenta la società (in tutte le accezioni del verbo «rappresentare»), la simbolizza. E il senso comune non immagina nemmeno una società senza Stato; idem per i politici, giacché esso dà loro da vivere. Come scriveva «France nouvelle», settimanale centrale del PCF, il 15 maggio 1973: «Ogni Stato è fatto della fatica degli uomini, dei loro sacrifici, delle loro lotte, delle loro realizzazioni». Questo elogio poetico e interessato non deve far dimenticare la realtà dello Stato. Se la società crea lo Stato, e non l’inverso, non ne discende che lo Stato sia un'illusione. La società, e innanzitutto la classe dominante, lo incarica di risolvere problemi affatto reali. La separazione si costituisce in realtà, diventa essa stessa la realtà per eccellenza. La statolatria ridicolizzata da Amadeo Bordiga funziona come il feticismo della merce. Lo Stato viene visto come una cosa, un essere, e non un rapporto. Questa inversione ricalca il rovesciamento che accompagna lo scambio: si vede una creazione dove c’è una mediazione, un soggetto dove c’è un oggetto.

«Più lo Stato è potente, più un Paese è dunque politico etc. etc.» [9].

Lo critica rivoluzionaria non disvela l’onnipotenza della politica per rinfacciargliela, bensì al contrario la sua debolezza. Vi vede una forma impotente, il cui contenuto è altrove, e che vive solo della difficoltà della società ad autoconservarsi. Ma la politica non è mistificazione, non è alcunché di inconsistente. Nella misura in cui si cristallizza nello Stato, diventa una forza sociale, e i considerevoli mezzi di repressione a disposizione degli Stati ne attestano la realtà. Ma la tendenza ineluttabile dello Stato contemporaneo a dominare la totalità della vita, è solo una risposta alla crisi del capitale manifestatasi dopo il 1914, sia sul piano economico sia su quello sociale.
La politica non riguarda solo i politici. I politicanti fanno leva sulla tendenza intrinseca all’uomo contemporaneo, all’uomo del capitale, a cercare la verità e la soluzione della sua condizione in un altrove, al di là dei rapporti sociali. Non è per una coincidenza storica che la religione, la filosofia e la politica sono state criticate da Marx simultaneamente o, più precisamente, in un medesimo movimento critico; in ciascuno dei tre casi, ci si trasferisce a un altro livello: invece di trasformare la realtà, la si disloca. I politici servono solo da mediatori tra i rapporti sociali e questa realtà altra che è la regolazione delle contraddizioni. Si costituiscono come gestori della mediazione. Se la gestione operaia è conservatrice perché fa partecipare il salariato al proprio sfruttamento, l’autogestione della politica da parte di tutti è un asservimento ben più profondo.


Note:
[1] Vedi il piano di Marx del 1857, in Opere Complete.
[2] Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere Complete.
[3] Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, in Opere Complete.
[4] Basil Davidson, La civiltà africana, Einaudi, Torino, 1972, p. 197.
Tra crescita dello scambio e sviluppo della politica e dello Stato non si dà né parallelismo evolutivo né automatismo. Non esiste un modello universale di sviluppo lineare delle società. Oltre alla distinzione necessaria tra scambio mercantile e scambio rituale o cerimoniale, esistono società in cui lo scambio è relativamente bloccato, e che tuttavia conoscono un notevole sviluppo statale: per esempio nel modo di produzione asiatico. Ciò che è vero è che la politica si autonomizza solo se il valore si autonomizza, se lo scambio mercantile si estende.
[5] Karl Marx, Il Capitale, Libro III. Si veda anche il § 4, «La legge del valore», in Jean Barrot, Contributo alla critica della ideologia ultrasinistra, Edizioni G.d.C., Caserta, 1973.
[6] Tale questione fu affrontata, nel 1967, nell’introduzione a un opuscolo di Pouvoir Ouvrier: Impérialisme et bureaucratie face aux révolutions dans le tiers-monde. Si veda anche Paul Mattick, Marx e Keynes, De Donato, Bari, 1972.
[7] Karl Marx a Jenny Marx, 21 giugno 1856, in Opere complete.
[8] Karl Marx, Critica del diritto statuale hegeliano, in Opere complete.
[9] Karl Marx, Glosse critiche in margine all’articolo «Il re di Prussia e la riforma sociale: osservazioni di un Prussiano», in Opere Complete.

11 novembre 2010

Internazionale Situazionista. Il questionario.

«Internationale Situationniste», n. 9, agosto 1964*


Che cosa significa la parola "situazionista"?

Definisce un'attività che intende "fare" le situazioni, non "riconoscerle", come valore esplicativo o altro. Questo a tutti i livelli della pratica sociale, della storia individuale. Noi sostituiamo alla passività esistenziale la costruzione dei momenti della vita, al dubbio l'affermazione ludica. Sino ad ora, i filosofi e gli artisti non hanno fatto altro che interpretare le situazioni; si tratta ora di trasformarle. Dato che l'uomo è il prodotto delle situazioni che attraversa, è importante creare delle situazioni umane. Dato che l'individuo è definito dalla sua situazione, vuole il potere di creare delle situazioni degne del suo desiderio. In questa prospettiva devono fondersi e realizzarsi la poesia (la comunicazione come realizzazione di un linguaggio in situazione), l'appropriazione della natura, la liberazione sociale completa. Il nostro tempo sostituirà la frontiera fissa delle situazioni-limite, che la fenomenologia si è compiaciuta nel descrivere, con la creazione pratica delle situazioni; sposterà permanentemente questa frontiera con il movimento della storia della nostra realizzazione. Noi vogliamo un fenomeno-prassi. Non dubitiamo affatto che questa sarà la banalità primaria del movimento di liberazione possibile del nostro tempo. Cosa si tratta di mettere in situazione? A differenti livelli, può essere questo pianeta, o l'epoca (una civiltà nel senso di Burckhardt, per esempio), o un momento della vita individuale. Inizino le danze! I valori della cultura passata, le speranze di realizzare la ragione nella storia, non hanno un altro prosieguo possibile. Tutto il resto si decompone. Il termine situazionista, nell'accezione dell'Internazionale Situazionista, è esattamente il contrario di ciò che attualmente in portoghese si chiama "situazionista", vale a dire un difensore della situazione esistente, in quel caso del salazarismo.

L'Internazionale Situazionista è un movimento politico?

Le parole "movimento politico" definiscono oggi l'attività specializzata dei capi di gruppi e di partiti, che attingono dalla passività organizzata dei loro militanti la forza oppressiva del loro potere futuro. L'Internazionale Situazionista non vuole avere niente in comune con il potere gerarchizzato, sotto qualunque forma si ponga. L'Internazionale Situazionista quindi non è né un movimento politico, né una sociologia della mistificazione politica. L'Internazionale Situazionista si propone di essere il più alto grado della coscienza rivoluzionaria internazionale. È per questo che si sforza di chiarire e di coordinare i gesti di rifiuto ed i segni di creatività che definiscono i nuovi contorni del proletariato, la volontà irriducibile di emancipazione. Incardinata sulla spontaneità delle masse, una simile attività è incontestabilmente politica, a meno che non si neghi tale qualità agli agitatori stessi. Nella misura in cui delle nuove correnti radicali appaiono in Giappone (l'ala estremista del movimento Zengakuren), in Congo, nella clandestinità spagnola, l'Internazionale Situazionista fornisce a loro un appoggio "critico", e dunque si adopera ad aiutarli praticamente. Ma contro tutti i "programmi transitori" della politica specialistica, l'Internazionale Situazionista si riferisce ad una rivoluzione permanente della vita quotidiana.

L'Internazionale Situazionista è un movimento artistico?

Una gran parte della critica situazionista dedicata alla società dei consumi consiste nel mostrare a che punto gli artisti contemporanei, abbandonando la ricchezza di superamento contenuta, se non proprio sfruttata, nel periodo 1910-1925, si siano in maggioranza condannati a fare arte così come si fanno affari. I movimenti artistici, da allora, non sono che le ricadute immaginarie di un'esplosione che non ha mai avuto luogo, che minacciava e minaccia ancora le strutture della società. La coscienza di un simile abbandono e delle sue implicazioni contraddittorie (il vuoto e la volontà di ritornare alla violenza iniziale) fa dell'Internazionale Situazionista il solo movimento che possa, inglobando la sopravvivenza dell'arte nell'arte di vivere, rispondere al progetto dell'artista autentico. Siamo degli artisti soltanto in quanto non siamo più degli artisti: stiamo realizzando l'arte.

L'Internazionale Situazionista è una manifestazione nichilista?

L'Internazionale Situazionista rifiuta il ruolo, che tutti sono pronti a concederle, nello spettacolo della decomposizione. L'aldilà del nichilismo passa per la decomposizione dello spettacolo ed è per questo che l'Internazionale Situazionista intende fortemente adoperarsi. Tutto quello che viene elaborato e costruito al di fuori di una simile prospettiva non ha bisogno dell'Internazionale Situazionista per crollare da sé; ma è anche vero che, ovunque nella società dei consumi, le aree dismesse del crollo spontaneo offrono ai valori nuovi un campo di sperimentazione di cui l'Internazionale Situazionista non può non tener conto. Non possiamo costruire che sulle rovine dello spettacolo. D'altronde, la previsione, perfettamente fondata, di una distruzione totale obbliga a non costruire mai se non alla luce della totalità.

Le posizioni situazioniste sono utopiche?

La realtà supera l'utopia. Tra la ricchezza delle possibilità tecniche attuali e la povertà del loro uso da parte dei dirigenti di ogni tipo, non c'è più da lanciare un ponte immaginario. Noi vogliamo mettere l'attrezzatura materiale a disposizione della creatività di tutti, come ovunque le masse si sforzano di farlo nel momento della rivoluzione. È un problema di coordinamento, o di tattica, come si vuole. Tutto ciò di cui noi trattiamo è realizzabile, sia immediatamente, sia a breve termine, dal momento in cui si comincino a mettere in pratica i nostri metodi di ricerca, di attività.

Giudicate necessario chiamarvi così, "situazionisti"?

Nell'ordine esistente, in cui la cosa prende il posto dell'uomo, ogni etichetta è compromettente. Tuttavia quella che abbiamo scelto porta in sé la sua propria critica, magari sommaria, per il fatto che si oppone a quella di "situazionismo" che gli altri scelgono per noi. D'altronde sparirà quando ciascuno di noi sarà situazionista interamente, e non più proletario che lotta per la fine del proletariato. Nell'immediato, per quanto ridicola sia l'etichetta, ha il merito di segnare una cesura tra l'antica incoerenza ed una esigenza nuova. Quel che più era mancato all'intelligenza da alcune decine di anni era per l'appunto questa cesura.

Qual è l'originalità dei situazionisti in quanto gruppo delimitato?

Ci sembra che tre punti notevoli giustifichino l'importanza che noi ci attribuiamo come gruppo organizzato di teorici e di sperimentatori. In primo luogo, noi facciamo, per la prima volta, una nuova critica, coerente, della società, che si sviluppa "attualmente", da un punto di vista rivoluzionario; questa critica è profondamente radicata nella cultura e nell'arte di questo tempo, ne detiene le chiavi (evidentemente questo lavoro è piuttosto lungi dall'essere portato a termine). In secondo luogo, noi pratichiamo la rottura completa e definitiva con tutti coloro che ci obbligano a farlo, e una rottura a "catena". Ciò è prezioso in un epoca in cui le diverse forme di rassegnazione subdolamente sono imbricate e solidali. In terzo luogo, noi inauguriamo un nuovo stile di rapporti con i nostri "sostenitori"; rifiutiamo assolutamente i discepoli. Ci interessiamo soltanto alla partecipazione al più alto livello, ed a lanciare nel mondo persone autonome.

Perché non si parla dell'Internazionale Situazionista?

Se ne parla abbastanza spesso, fra i possessori specializzati del pensiero moderno in liquefazione, ma se ne scrive molto poco. Nel senso più generale, è perché rifiutiamo il termine "situazionismo", che sarebbe la sola categoria capace di introdurci nello spettacolo regnante, integrandoci sotto forma di dottrina fossilizzata contro noi stessi, sotto forma di ideologia nel senso di Marx. È normale che lo spettacolo che noi rifiutiamo, ci rifiuti. Si parla più volentieri dei situazionisti in quanto individui, per tentare di separarli dalla contestazione d'insieme, senza la quale, d'altra parte, non sarebbero neppure degli individui "interessanti". Si parla dei situazionisti "da quando smettono di esserlo" (le varietà rivali di "nashismo", in diversi paesi, hanno questa sola celebrità in comune, di rivendicare bugiardamente una qualsiasi relazione con l'Internazionale Situazionista). I cani da guardia dello spettacolo riprendono, senza dirlo, dei frammenti di teoria situazionista, per rivolgerla contro di noi. Se ne ispirano, com'è normale, nella loro lotta per la sopravvivenza dello spettacolo. È loro necessario quindi celare la fonte, vale a dire la coerenza di simili "idee". Non è soltanto per vanità di plagiari. Inoltre, molti intellettuali esitanti non osano parlare apertamente dell'Internazionale Situazionista perché parlarne implica un minimo di presa di posizione: dire nettamente quello che si rifiuta, rispetto a quello che se ne assume. Molti credono, assai a torto, che fingere intanto l'ignoranza li libererà più tardi dalle loro responsabilità.

Che appoggio date al movimento rivoluzionario?

Sfortunatamente non ce n'è. La società, certo, contiene delle contraddizioni e cambia. Cosa che rende, in un mondo sempre nuovo, possibile e necessaria un'attività rivoluzionaria che attualmente non esiste più, o non ancora, nella forma di un movimento organizzato. Non si tratta quindi di "appoggiare" un simile movimento, ma di farlo: di definirlo e, in maniera inseparabile, di sperimentarlo. Dire che non c'è movimento rivoluzionario è il primo gesto, indispensabile, a favore di un tale movimento. Tutto il resto è ridicola riverniciatura del passato.

Siete marxisti?

Tanto quanto Marx quando diceva: "Non sono marxista".

C'è un rapporto tra le vostre teorie ed il vostro modo di vita reale?

Le nostre teorie non sono null'altro se non la teoria della nostra vita reale e del possibile sperimentato o intravisto in essa. Per quanto parcellari siano i campi di attività disponibili, sino a nuovo ordine, in essi non ci comportiamo al meglio. Trattiamo il nemico da nemico, ed è un primo passo che raccomandiamo a tutti come apprendimento accelerato del pensiero. D'altra parte, va da sé che sosteniamo incondizionatamente tutte le forme di libertà dei costumi, tutto ciò che la canaglia borghese o burocratica chiama dissolutezza. È evidentemente escluso che noi prepariamo la rivoluzione della vita quotidiana con l'ascetismo.

I situazionisti sono all'avanguardia della società dei divertimenti?

La società dei divertimenti è un'apparenza che copre un certo tipo di produzione-consumo dello spazio-tempo sociale. Se il tempo del lavoro produttivo propriamente detto si riduce, l'esercito di riserva della vita industriale lavorerà nel consumo. Tutti sono successivamente operai e materia prima nell'industria delle vacanze, dei divertimenti, dello spettacolo. Il lavoro esistente è l'alfa e l'omega della vita esistente. L'organizzazione dei consumi più l'organizzazione dei divertimenti deve equilibrare esattamente l'organizzazione del lavoro. Il "tempo libero" è una misura ironica del corso di un tempo prefabbricato. Rigorosamente, "questo" lavoro non potrà dare che "questo" divertimento, sia per l'élite oziosa - di fatto, sempre più semi-oziosa - sia per le masse che accedono ai divertimenti momentanei. Nessuna barriera di piombo può isolare né un pezzo del tempo, né il tempo completo di un pezzo di società, dalla radioattività diffusa dal lavoro alienato; se non altro perché esso forgia la totalità dei prodotti e della vita sociale, "così" e non altrimenti.

Chi vi finanzia?

Siamo sempre stati finanziati, in maniera estremamente precaria, soltanto dal nostro proprio lavoro nell'economia culturale dell'epoca. Questo impiego è sottoposto a questa contraddizione: abbiamo delle tali capacità creative che possiamo "riuscire" in tutto quasi a colpo sicuro; abbiamo una così rigorosa esigenza di indipendenza e di perfetta coerenza tra il nostro progetto e ciascuna delle nostre realizzazioni presenti (…) che risultiamo quasi totalmente inaccettabili per l'organizzazione dominante della cultura, anche in questioni assai secondarie. Lo stato delle nostre risorse discende da questa componente. A questo proposito, si veda quel che abbiamo scritto sul numero 8 della nostra rivista sui "capitali che non mancheranno mai alle imprese nashiste" e, al contrario, sulle nostre condizioni.

Quanti siete?

Un po' meno del nucleo iniziale della guerriglia nella Sierra Maestra, ma con meno armi. Un po' meno dei delegati che erano a Londra nel 1864 per fondare l'Associazione Internazionale dei Lavoratori, ma con un programma più coerente. Altrettanto risoluti dei greci alle Termopili ("Passante, vai a dire a Lacedemone..."), ma con un più bell'avvenire.

Che valore potete attribuire ad un questionario?

A questo? Si tratta manifestamente di una forma di dialogo fittizio, che oggi diviene ossessiva con tutte le psicotecniche dell'integrazione allo spettacolo (la passività gioiosamente assunta sotto un travestimento grossolano da "partecipazione", da attività mascherata). Ma noi possiamo sostenere, a partire da un'interrogazione incoerente, reificata, delle posizioni esatte. Di fatto, queste posizioni non "rispondono", in quanto non rinviano alle domande: rinviano le domande. Sono delle risposte tali che dovrebbero "trasformare le domande". Così il vero dialogo potrebbe cominciare dopo queste risposte. Nel presente questionario, tutte le domande sono "false", e tuttavia le nostre risposte sono vere.

[* Ora in Aa.Vv. (a cura di Isabella de Caria e Riccardo d’Este), Internazionale Situazionista 1958-1969, Nautilus, Torino, 1994 (raccolta completa dei dodici numeri della rivista); cfr. l'Introduzione: L'Internazionale sconosciuta di Mario Lippolis. Per una critica delle tesi situazioniste, cfr. Jean Barrot, Le Roman de nos origines: alle origini della critica radicale (paragrafo 3) e Endnotes, Dal rifiuto del lavoro alla comunizzazione]