[Prefazione a «Endnotes»
n.1 – Materiali preliminari per un bilancio del XX secolo. Trad. it. a cura
di Faber]
Bring out
your dead!(1)
«La tradizione
di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei
viventi[…]La rivoluzione sociale del secolo decimonono non può
trarre la propria poesia dal passato, ma solo dall’avvenire. Non può cominciare
a essere se stessa prima di aver liquidato ogni fede superstiziosa nel passato.
Le precedenti rivoluzioni avevano bisogno di reminiscenze storiche per farsi
delle illusioni sul proprio contenuto. Per prendere coscienza del proprio
contenuto, la rivoluzione del secolo
decimonono deve lasciare che i morti seppelliscano i loro morti. Prima la frase
sopraffaceva il contenuto; ora il contenuto trionfa sulla frase. »(2)
Se queste considerazioni erano valide all’epoca in cui
Marx scriveva, quando ancora non si poteva parlare di comunismo se non in una prospettiva
futura, lo sono a maggior ragione oggi, ora che anarchici e comunisti possono
parlare delle rispettive “storie” – e parlano certamente poco d’altro. Il
marxismo stesso è ormai una tradizione che appartiene alle generazioni passate
e persino i situazionisti tardivi sembrano avere non poche difficoltà a «lasciarsi
alle spalle il XX secolo»(3).
Sia chiaro, non scriviamo queste considerazioni con
una particolare ammirazione per il presente, né a partire da un qualsivoglia
desiderio conseguente di mettere la teoria comunista “al passo coi tempi”. Il
XXI secolo – tanto quanto il precedente – è modellato dalla contraddizione tra
capitale e lavoro, dalla separazione tra lavoro e «vita» e dal dominio delle
forme astratte del valore su ogni cosa. Tuttavia, [...] il «XX secolo» che era
familiare ai situazionisti, i contorni dei rapporti di classe che lo
caratterizzavano, la sua temporalità progressiva e i suoi orizzonti
post-capitalisti, sono già chiaramente alle nostre spalle. E se siamo stanchi di
tutte le teorie sul «nuovo» – dal post-modernismo al post-fordismo, a ciascuna
delle nuove produzioni teoriche partorite dal mondo accademico – non è tanto
perché esse abbiano mancato di cogliere una continuità essenziale, quanto
perché la ristrutturazione capitalista degli anni ’70-’80 non è ormai più una
novità.
Questo primo numero di «Endnotes» raccoglie una serie di testi (in buona sostanza un confronto tra due gruppi comunisti francesi)
inerenti le rivoluzioni del XX secolo. Come emerge dai testi stessi, la storia
di queste rivoluzioni è stata una storia di fallimenti e di sconfitte; non solo
nella misura in cui esse furono schiacciate dalla controrivoluzione
capitalista, ma perché le loro stesse «vittorie» finirono per assumere i
contorni della controrivoluzione: instaurando dei sistemi sociali che ponevano
a proprio fondamento lo scambio monetario e il lavoro salariato, esse non
riuscirono ad andare oltre il capitalismo. Tuttavia questa aberrazione non fu semplicemente
frutto di un «tradimento», non più di quanto altre sconfitte furono il
risultato di «errori strategici» o di «condizioni storiche» avverse. Laddove
poniamo la questione dello scacco delle rivoluzioni del passato, non possiamo
ricorrere a dei «se» ipotetici – deplorando quali cause della disfatta ogni
genere di fattore (capi, forme organizzative, idee fallaci, condizioni
immature) e dimenticando i movimenti rivoluzionari stessi, il loro contenuto
determinato. E’ proprio sulla natura di tale contenuto che verte il confronto
teorico che qui presentiamo.
Pubblicando dei testi di taglio «storico», non
desideriamo incoraggiare un astratto interesse per la storia in quanto tale, né
risvegliare una passione per la storia delle rivoluzioni e del movimento
operaio in particolare. Speriamo altresì, prendendo in esame il contenuto delle
lotte del secolo scorso, di contribuire a scalzare l’illusione che, in un modo
o nell’altro, esse siano parte del «nostro» passato e che questo vada pertanto preservato
e difeso. Il precetto di Marx ci rammenta la necessità di disfarsi del peso morto
della tradizione. Aggiungeremo persino che, fatta eccezione per il
riconoscimento della rottura storica che ci separa da esse, non abbiamo nulla
da imparare dalle rivoluzioni del passato – nessun bisogno di analizzarle per
scoprirne gli «errori» o decantarne le «verità» – che sarebbe in ogni caso
impossibile ripetere. Stilando il bilancio di questa storia, assumendo il suo
superamento, noi tracciamo una linea che privilegia le lotte attuali.
Le due parti in causa dello scambio che qui pubblichiamo,
Troploin e Théorie Communiste, vengono entrambe da una tendenza che,
all’inizio degli anni ’70, sulla base dei nuovi
tratti assunti dalla lotta di classe, si era appropriata criticamente
tanto l’elaborazione della sinistra comunista storica, nelle sue varianti
tedesco-olandese (comunismo dei consigli) e italiana (bordighismo), quanto
quella più recente dell’Internazionale Situazionista e di Socialisme ou Barbarie. Prima di poter introdurre i testi, dunque,
dobbiamo delineare il contesto comune che li ha prodotti.
Dal rifiuto
del lavoro alla «comunizzazione»
Allorché Guy Debord, nel 1954, scriveva sul muro di un
viale della rive gauche «Ne travaillez jamais» [«Non lavorate mai»,
ndt], lo slogan – ripreso da Rimbaud(4) – era ancora pesantemente debitore del
surrealismo e della sua progenie di artisti d’avanguardia. Questo per dire che
esso evocava, almeno in parte, una visione romantica della bohème della fine del XIX secolo – un mondo di artisti declassati e
di intellettuali, schiacciati tra i tradizionali rapporti clientelari e il
nuovo mercato culturale, sul quale erano ora costretti vendere le loro
produzioni. L’attitudine negativa di costoro verso il lavoro era ad un tempo
un’espressione di questa condizione polarizzata e una rivolta contro di essa:
sospesi tra il disprezzo aristocratico per i «professionisti» e il risentimento
piccolo-borghese verso le altre classi sociali, essi giunsero a concepire il
lavoro, anche il proprio, come qualcosa di avvilito e di avvilente.
Questa posizione di rifiuto fu politicizzata dai
surrealisti, che trasformarono l’attitudine nichilista di Rimbaud, di Lautréamont
e dei dadaisti, in un appello rivoluzionario per una «guerra contro il lavoro». I surrealisti, in sintonia con altri
rivoluzionari eterodossi (Lafargue, alcuni elementi degli IWW, lo stesso
giovane Marx), relegavano d’altronde l’abolizione del lavoro entro un orizzonte
utopico: essa costituiva l’altra faccia di una rivoluzione, che, nella sua
immediatezza, era definita dal programma socialista, incentrato sulla emancipazione
del lavoro – la quale implicava il
trionfo del movimento operaio e l’accesso della classe operaia alla posizione
di classe dominante. Il fine dell’abolizione del lavoro si sarebbe quindi
raggiunto, paradossalmente, attraverso la soppressione preliminare di tutto ciò
che lo limita (il capitalista in quanto parassita, i rapporti di produzione in
quanto ostacolo allo sviluppo delle forze produttive, etc.), generalizzando la
condizione del lavoratore («chi non lavora non mangia») e ricompensando equamente
quest’ultimo del valore che produce (attraverso differenti schemi di
computazione del lavoro).
L’evidente contraddizione tra mezzi e fini, posta in
rilievo dalle relazioni agitate tra i surrealisti e il Pcf, fu tipica delle teorie
rivoluzionarie durante l’intera fase di ascesa del movimento operaio. Dagli
anarco-sindacalisti agli stalinisti, tutto l’ampio spettro del movimento
operaio riponeva le proprie speranze di rovesciamento del capitalismo e, in
generale, della società divisa in classi, nell’ascesa al potere della classe
operaia all’interno del modo di produzione capitalista; a un dato momento, il
poter operaio si sarebbe dovuto impossessare dei mezzi di produzione, dando
avvio ad un «periodo di transizione» verso il comunismo o l’anarchia – una fase
che non avrebbe visto l’abolizione della condizione operaia, bensì la sua
generalizzazione. In tal modo, il fine ultimo della soppressione della società
di classe coesisteva con una larga varietà di mezzi rivoluzionari fondati sulla
sua perpetuazione.
L’Internazionale Situazionista (IS) ereditò dai
surrealisti questa opposizione tra i mezzi politici concreti dell’emancipazione
del lavoro e il fine utopico della
sua abolizione. Il suo merito principale fu quello di ricondurre un’opposizione
esteriore, mediata dal programma socialista, ad un’attività interna, più
adeguata alla propria concezione della rivoluzione. Quest’ultima consisteva in
una rielaborazione radicale della liberazione del lavoro, attraverso la quale si sottolineava il rifiuto di ogni
separazione tra l’azione rivoluzionaria e la trasformazione totale della vita –
un’idea già presente, seppure in modo implicito, nel progetto originario della
«costruzione di situazioni». L’importanza di questo sviluppo non deve essere
sottostimata, nella misura in cui la «critica della separazione» implicava sia una
negazione di qualsivoglia iato temporale tra mezzi e fini (e dunque dell’idea
stessa di «periodo di transizione»), sia il rifiuto – incentrato sulla
partecipazione universale, diretta, democratica all’azione rivoluzionaria – di
ogni mediazione sincronica. In virtù di questa capacità di ripensare lo
spazio-tempo della rivoluzione, il superamento da parte dell’IS
dell’opposizione tra liberazione e abolizione del lavoro si sostanziava, in
definitiva, nella riunificazione dei due poli in un unità immediatamente
contraddittoria, che trasponeva l’opposizione tra mezzi e fini in una
opposizione tra forma e contenuto.
Dopo l’incontro con il gruppo neo-consiliarista Socialisme ou Barbarie, all’inizio degli
anni ’60, l’IS aderì anima e corpo al programma rivoluzionario del comunismo
dei consigli, esaltando la forma-consiglio – lo strumento attraverso il quale
gli operai realizzerebbero l’autogestione della produzione e si impossesserebbero
dell’intera potenza sociale – quale «forma infine compiuta» della rivoluzione proletaria. Da quel momento, tutti
i limiti e le potenzialità dell’IS furono inscritti nella tensione tra
l’appello ad «abolire il lavoro» e lo slogan fondamentale: «tutto il potere ai consigli operai!». Da
un lato, il contenuto della rivoluzione coincideva dunque per l’IS con una
rimessa in causa del lavoro in quanto tale (e non semplicemente della sua
organizzazione), il cui fine doveva essere il superamento della separazione tra
lavoro e tempo libero; dall’altro lato, la forma della rivoluzione era ricondotta
all’appropriazione e alla gestione democratica delle fabbriche da parte degli
operai(6). Ciò che ha impedito all’IS di sciogliere questa contraddizione è il
fatto che le due polarità di forma e contenuto, nella teoria situazionista,
rimanevano entrambe ancorate alla prospettiva dell’affermazione del movimento
operaio e della emancipazione del
lavoro.
L’IS, pur avendo fatto propria la preoccupazione del
giovane Marx (che si riflette nelle inchieste sociologiche di Socialisme ou Barbarie) rispetto all’alienazione
del lavoro, individuava il fondamento che rendeva possibile la critica
dell’alienazione nella prosperità tecnologica propria del capitalismo moderno
(«la società dei divertimenti» generata dalle potenzialità dell’automazione) e
nella forza del movimento operaio, capace tanto di indirizzare – attraverso le
lotte quotidiane – quanto di appropriarsi – mediante i consigli rivoluzionari –
questi progressi tecnici. Era dunque sulla base del potere operaio all’interno
dei luoghi della produzione che, per l’IS, l’abolizione del lavoro, da un punto
di vista tecnico e organizzativo, diventava possibile. Trasferendo le tecniche
dei cibernetici e le attitudini degli anti-artisti bohémien nelle mani callose e agguerrite della classe operaia
organizzata, i situazionisti furono in grado di immaginare l’abolizione del
lavoro come risultato immediato della liberazione del lavoro; vale dire di immaginare il superamento dell’alienazione
dell’attività come prodotto di una ristrutturazione tecnico-creativa della
fabbrica da parte dei lavoratori stessi.
In questo senso, l’IS rappresenta l’ultimo sincero
atto di fede in una concezione dell’autogestione intesa come parte integrante
del programma di emancipazione del lavoro.
La sua critica del lavoro, d’altronde, sarà ripresa e rielaborata, nel corso
degli anni ’70 – allorché la prospettiva programmatica entrava irreversibilmente
in crisi – da coloro che cercarono di dare espressione teorica alle nuove lotte.
Questi ultimi ancorarono la critica del lavoro non più all’affermazione del
movimento operaio, bensì alle nuove forme di lotta che coincidevano con la sua
decomposizione. Nondimeno, negli scritti di Invariance,
La Vieille Taupe,
Le Mouvement Communiste e altri, il tentativo di risolvere la
contraddizione fondamentale dell’IS si tradurrà innanzitutto in una critica del
«formalismo» – della preminenza della
forma sul contenuto – proprio dell’ideologia consiliarista.
La critica
del consiliarismo
Contrariamente alle prescrizioni dell’IS, gli operai
che presero parte agli scioperi di massa del Maggio ’68, in Francia, non si
impadronirono dei mezzi di produzione, né si organizzarono in consigli e
tentarono di porre le fabbriche sotto il proprio controllo(7). Nella stragrande
maggioranza delle fabbriche occupate, i lavoratori si accontentarono di
lasciare l’intera organizzazione della produzione nelle mani dei delegati
sindacali – i quali ebbero il loro bel da fare a convincere gli operai a
presentarsi alle assemblee di occupazione per votare la prosecuzione dello
sciopero(8). All’interno delle lotte di classe più importanti che
caratterizzarono gli anni seguenti, in modo particolare in Italia, la
forma-consiglio, che aveva costituito il paradigma della radicalità proletaria
durante il ciclo di lotte precedente (Germania 1919, Italia 1921, Spagna 1936,
Ungheria 1956) fu notoriamente assente. Nondimeno, quegli anni videro una
ripresa dell’ideologia consiliarista, laddove la percezione di una classe
operaia sempre più incontrollabile e la sempre minore vitalità delle vecchie
organizzazioni sembravano indicare che la sola cosa che facesse difetto alle
nuove lotte fosse una forma organizzativa adeguata al loro carattere spontaneo
e anti-gerarchico. In questo contesto, gruppi come Informations Correspondance Ouvrières (ICO) in Francia, Solidarity in Gran Bretagna, Root and Branch negli Stati Uniti e, in
minor misura, la corrente operaista in Italia, si adoperarono per rianimare un
interesse verso la sinistra comunista tedesco-olandese, attribuendo ai vecchi
nemici del consiliarismo – i partiti di sinistra e i sindacati: i «burocrati»,
nel linguaggio dell’IS – la responsabilità della sconfitta di ogni nuova
insurrezione operaia. Non passò molto tempo prima che questa prospettiva fosse
messa alla prova; questa prova assumerà inizialmente le sembianze di una
ripresa dell’altra tradizione della sinistra comunista.
Sotto la guida intellettuale di Amadeo Bordiga, la Sinistra comunista
italiana aveva a lungo criticato il comunismo dei consigli (che, nell’Estremismo, Lenin aveva associato alla
Sinistra italiana stessa), sia per la preminenza che esso assegnava alla forma
rispetto al contenuto, sia per la mancanza di una concezione critica della
democrazia(9). E’ precisamente questo tipo di posizione, mediata dall’influenza
della rivista bordighista dissidente Invariance,
che sottende la critica del comunismo dei consigli che Gilles Dauvé avanza in Leninisme et Ultra-Gauche(10) , uno dei testi che sono all’origine
della tendenza di cui qui trattiamo. Dauvé accusa il comunismo dei consigli di
formalismo per due ordini di ragioni: 1) in quanto l’approccio dei
consiliaristi al problema dell’organizzazione pone nella forma organizzativa il
fattore decisivo (sulla base di una sorta di «leninismo rovesciato»); 2) perché
la loro concezione della società post-rivoluzionaria fa della forma (il
consiglio) il contenuto del socialismo, riducendo quest’ultimo ad un mero
problema di gestione. Per Dauvé, così come per Bordiga, il problema risulta in
tal modo mistificato, poiché il capitalismo non è un modo di gestione, bensì un
modo di produzione, nell’ambito del quale i «gestori», siano essi capitalisti,
burocrati o gli stessi operai, non sono che
gli agenti attraverso i quali si dispiega la legge del valore. Come mostreranno
in seguito anche Pierre Nashua (La Vieille
Taupe) e Carsten Juhl (Invariance), un tale privilegiamento della forma rispetto al
contenuto rimuove il fine comunista della distruzione dell’economia, riducendolo
ad una semplice opposizione alla gestione di quest’ultima da parte della classe
borghese(11).
La critica
del lavoro, bis
La critica del comunismo dei consigli non poteva non
condurre a una rielaborazione delle stesse tesi canoniche della Sinistra comunista
italiana, tanto attraverso una critica immanente (Invariance), quanto con lo sviluppo di una sorta di ibrido
italo-tedesco (Le Mouvement Communiste).
Ma ciò che fornì, in primo luogo, l’impulso ad una nuova concezione della
rivoluzione e del comunismo, intesi come comunizzazione, non fu soltanto una migliore
comprensione del contenuto del comunismo derivante da una lettura serrata di
Marx e Bordiga, ma anche l’influenza dell’ondata di lotte di classe che
caratterizzarono il periodo a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 e che diedero un
nuovo significato al «rifiuto del lavoro» in quanto contenuto della
rivoluzione.
All’inizio degli anni ’70, giornalisti e sociologi
iniziarono a parlare di un «rivolta contro il lavoro», che coinvolgeva
un’intera nuova generazione di operai delle industrie tradizionali e che si
concretizzava tanto in un crescente tasso di assenteismo e nel moltiplicarsi
degli episodi di sabotaggio, quanto in un rifiuto diffuso dell’autorità del
sindacato. I commentatori individuavano le cause del fenomeno, che elenchiamo
qui alla rinfusa, nel sentimento di superfluità e di insicurezza indotto
dall’automazione; nella baldanza crescente delle minoranze tradizionalmente
oppresse; nell’influenza di una controcultura anti-autoritaria; nel potere e
nel sentimento di legittimità apportato dal «boom» prolungato del secondo
dopo-guerra e dalla conquista, seguita ad un’aspra lotta, del «salario sociale».
Quale che sia la ragione di questi sviluppi, ciò che sembrava caratterizzare le
nuove lotte era una rottura con le forme tradizionali del conflitto, attraverso
cui, in passato, gli operai avevano cercato di ottenere il controllo del
processo di lavoro, cui si sostituivano ora nuove forme che erano invece espressione
di un apparente desiderio di lavorare di meno.
Per molti di coloro che erano stati influenzati
dall’IS, questo nuovo «assalto proletario» era caratterizzato da un «rifiuto
del lavoro» finalmente epurato degli elementi tecno-utopici e
artistico-bohèmien di cui l’IS non era riuscita a sbarazzarsi. Gruppi come Négation e Intervention Communiste sostennero che queste lotte non avevano
minato soltanto il potere dei sindacati, ma l’intero programma marxista e
anarchico incentrato sull’emancipazione del
lavoro e sul trionfo del «potere operaio». Lungi dal liberare il lavoro,
riportandolo sotto il proprio controllo e utilizzandolo per prendere il
controllo dell’intera società, attraverso l’autogestione delle fabbriche,
durante il Maggio francese e il susseguente «Maggio strisciante» italiano, la
«critica del lavoro» si materializzò nella diserzione delle fabbriche da parte
di centinaia di migliaia di operai. La mancata formazione dei consigli
operai fu allora colta, piuttosto che
come un sintomo di debolezza delle
lotte, come l’espressione di una rottura con quello che verrà definito «il
vecchio movimento operaio».
Il concetto
di comunizzazione
Oltre al suo indubbio peso rispetto all’elaborazione
della critica del consiliarismo, la rivista bordighista dissidente Invariance fu un importante precursore
della riflessione critica sulla storia e sul ruolo del movimento operaio in
generale. Secondo Invariance, il
vecchio movimento operaio era stato partecipe di uno sviluppo che aveva
condotto il capitalismo dallo stadio del «dominio formale» a quello del
«dominio reale». Le sconfitte subite dal movimento operaio erano dunque frutto
di necessità, poiché il capitale era costitutivo del suo stesso principio organizzativo:
«Gli esempi
della rivoluzione tedesca, e soprattutto di quella russa, mostrano che il
proletariato fu abbondantemente atto a destrutturare un ordine sociale che era
d’ostacolo allo sviluppo delle forze produttive, e dunque al divenire del
capitale; ma nel momento in cui si trattò di fondare un’altra comunità, esso
restò prigioniero della logica della razionalità dello sviluppo di quelle forze
produttive e si rinchiuse nel problema della loro gestione»(12).
Così, un esito che per Bordiga era connesso ad un
errore teorico e organizzativo, veniva a definire, per Camatte, il ruolo
storico del movimento operaio in quanto tale all’interno del capitalismo: l’auto-emancipazione
della classe operaia non poteva che coincidere con lo sviluppo delle forze
produttive, poiché la classe operaia stessa costituiva la più importante forza
produttiva. Non è necessario seguire Camatte nel deserto(13), per condividere
questa asserzione: dopotutto, alla fine degli anni ’70, risultava chiaro che
nei Paesi dell’Est il movimento operaio era stato parte in causa, almeno inizialmente,
di un aumento senza precedenti della capacità produttiva degli stati
socialisti; mentre, a Occidente, le lotte operaie a favore di migliori condizioni
di lavoro avevano giocato un ruolo chiave nel determinare il «boom» del
dopoguerra e l’espansione globale del
modo di produzione capitalista che ne era risultata.
Per molti, d’altra parte, la crisi delle istituzioni
del movimento operaio dimostrava che questa funzione puramente capitalista era
anch’essa entrata in crisi e che i lavoratori sarebbero stati ora in grado di
abbandonare il fardello di questa storia. Per Le Mouvement Communiste, Négation, Intervention Communiste e altri ancora,
la rottura con il vecchio movimento operaio andava celebrata, non tanto perché
i dirigenti corrotti delle organizzazioni operaie non avrebbero avuto più la
possibilità, d’ora in avanti, di ingabbiare l’autonomia delle masse, quanto
perché un tale mutamento trascendeva la funzione storica del movimento operaio
e segnava la riemersione del movimento comunista, il «movimento reale che
abolisce lo stato di cose presente»(14). Tale passaggio si dava in termini
immediati, poiché le sommosse e gli scioperi selvaggi che caratterizzarono il
periodo, erano percepiti da questi gruppi come l’espressione di un rifiuto radicale
di tutte le mediazioni del movimento operaio; non già in favore di qualche altra
mediazione più «democratica» – quale
sarebbe potuta essere quella dei consigli operai – ma in guisa tale che la produzione immediata
di relazioni comuniste era ormai posta come il solo orizzonte rivoluzionario
possibile. Così, laddove il comunismo, prima d’allora, era stato concepito come
qualcosa che si sarebbe dovuto costruire dopo
la rivoluzione, adesso la rivoluzione era definita niente di meno che come la produzione
immediata di rapporti comunisti (abolizione del lavoro salariato e dello
Stato). La nozione di «periodo di transizione» apparteneva ormai al passato(15).
In un testo recente, Gilles Dauvé riassume così la
valutazione che veniva (e viene) data del vecchio movimento operaio:
«Il movimento
operaio del Novecento non è stato schiacciato dalla repressione fascista né
corrotto dai transistor e dai frigoriferi, ma si è autodistrutto in quanto
forza di cambiamento, poiché esso mirava a conservare la condizione proletaria
piuttosto che a superarla […] Il fine del movimento operaio era quello di
impadronirsi del vecchio mondo e di gestirlo in modo nuovo: mettere gli
improduttivi al lavoro, sviluppare la produzione, instaurare (quantomeno in
teoria) la democrazia operaia. Soltanto una piccola minoranza, «anarchica» o
«marxista», affermava che una nuova società avrebbe dovuto implicare la
distruzione dello Stato, della merce e del lavoro salariato, benché soltanto
raramente abbia definito tale distruzione come un processo, rappresentandosela,
piuttosto, come un programma da mettere in pratica attraverso la conquista del
potere […]»(16).
Contro tale approccio programmatico, gruppi come Le Mouvement Communiste, Négation e La Guerre
Sociale elaborarono una concezione della rivoluzione che
prevedeva la distruzione immediata dei rapporti di produzione capitalisti, ovvero
la «comunizzazione» di tutte le relazioni sociali. Come vedremo, il concetto di
comunizzazione differiva da gruppo a gruppo, ma in buona sostanza esso stava ad
indicare l’applicazione di misure immediatamente comuniste all’interno della
rivoluzione – come condizione della sua sopravvivenza e sua arma principale
contro il capitale. Ogni «periodo di transizione» era visto, dunque, come intrinsecamente
contro-rivoluzionario, non soltanto nella misura in cui esso implicherebbe una
struttura di potere alternativa che finirebbe col «conservarsi declinando» (si
pensi alle critiche di parte anarchica alla «dittatura del proletariato»), né
semplicemente in quanto manterrebbe inalterati, nei loro aspetti fondamentali, i
rapporti di produzione attuali; ma anche perché il «potere operaio», sulla base
del quale tale transizione si dovrebbe realizzare, veniva adesso visto come un
elemento estraneo alle lotte. Il potere operaio non é che l’altra faccia del
potere del capitale, il potere di riprodurre gli operai in quanto operai. A
partire da questo momento, l’unica prospettiva rivoluzionaria concepibile
diventa quella dell’abolizione di questo rapporto di reciproca implicazione(17).
Comunizzazione
e ciclo di lotte: Troploin e Théorie Communiste
Il milieu
all’interno del quale si è affermata l’idea della comunizzazione non è mai
stato monolitico e le divisioni, col tempo, non hanno fatto che moltiplicarsi.
Alcuni finirono con l’abbandonare il rifiuto della forma-partito proprio dei
consiliari e tornarono nell’alveo della Sinistra comunista italiana,
raggruppandosi attorno a sette fuori dal tempo, come la Corrente Comunista
Internazionale (CCI). Altri giunsero alla conclusione che la messa in
discussione del vecchio movimento operaio e della prospettiva dei consigli imponesse
di interrogarsi circa lo stesso potenziale rivoluzionario della classe operaia.
Questo tipo di discorso, nella sua forma più estrema – che trovò espressione
sulle pagine della rivista Invariance
– portò i suoi sostenitori ad abbandonare la «teoria del proletariato» e a
rimpiazzarla con l’indicazione puramente normativa di «abbandonare questo
mondo» – un mondo dove la comunità del
capitale, attraverso il dominio reale, ha ormai soppiantato la comunità umana.
Anche tra coloro che non si spinsero così lontano, si affermò l’idea in base
alla quale, fino a quando le lotte fossero rimaste legate ai luoghi della
produzione, esse non avrebbero potuto esprimersi se non come difesa della
condizione operaia.
Nonostante i loro differenti approcci, Le Mouvement Communiste, La Guerre Sociale,
Négation e i loro eredi, rivendicarono le rivolte operaie degli anni ’70 e
il numero crescente di lotte che si sviluppavano attorno al nodo della
riproduzione, nella misura in cui esse
sembravano sottrarsi ai vincoli dell’identità operaia, liberando la «classe per
sé» dalla «classe in sé», e dunque rivelando il loro potenziale di
comunizzazione, di realizzazione della vera comunità umana. Alcuni individui
appartenenti a questa corrente (in particolare Pierre Guillaume e Dominique
Blanc) estremizzeranno la critica dell’antifascismo – in certa misura condivisa da tutti coloro che
difendevano la tesi della comunizzazione – e saranno implicati, alla fine degli anni’70,
nell’«affaire Faurisson»(18).
Un altra tendenza, rappresentata da Théorie Communiste (TC), tentò di
storicizzare la tesi stessa della comunizzazione, cercando di coglierla nei
termini di un mutamento dei rapporti di classe, mutamento individuabile nel
processo di erosione delle istituzioni del movimento operaio e dell’identità
della classe operaia in quanto tale. Essa continuerà a concepire tale
cambiamento come elemento di una ristrutturazione fondamentale del modo di
produzione capitalista, coincidente con la fine di un cilco di lotte e l’emersione,
mediata da una contro-rivoluzione vittoriosa, di un nuovo ciclo. Il tratto
distintivo di questo nuovo ciclo di lotte, per TC, è il fatto che esso include
il potenziale di comunizzazione come limite della contraddizione di classe,
situata, d’ora innanzi, a livello della riproduzione […](19).
Laddove TC sviluppò la sua analisi della
ristrutturazione alla fine degli anni ’70, altri la seguirono sulla stessa
strada negli anni ’80 e ’90; lo stesso gruppo Troploin (costituito principalmente da Gilles Dauvé e Karl Nésic)
ha recentemente tentato un’operazione del genere nei testi Wither the World ? e In
for a Storm(20). La differenza tra le due impostazioni è, tuttavia, molto
marcata; e non soltanto perché la seconda sembra essersi sviluppata, almeno in
parte, in opposizione alla prima.
Lo scambio tra i due gruppi che qui presentiamo, ha avuto
luogo nel corso degli ultimi dieci anni e mette in rilievo due differenti
concezioni della ristrutturazione capitalista e interpretazioni opposte della
fase attuale. Il primo testo, Quand
meurent les insurrections, è basato sull’introduzione precedentemente scritta
da Gilles Dauvé per una antologia di articoli sulla guerra civile spagnola,
tratti dalla rivista della Sinistra comunista italiana «Bilan». Dauvé cerca di mostrare come l’ondata di rivolte proletarie
che caratterizzarono la prima metà del XX secolo fu schiacciata tanto dalle vicende
della guerra quanto dall’ideologia. Così, se in Russia la rivoluzione viene
sacrificata alla guerra civile e soffocata dal consolidamento del potere
bolscevico, in Italia e in Germania gli operai sono traditi dai partiti e dai
sindacati e irretiti dalla menzogna democratica; mentre, in Spagna, ancora una
volta, sono le marce di guerra – al suono dell’antifascismo – a suggellare il
destino di un intero ciclo di lotte, intrappolando la rivoluzione proletaria
tra i due opposti fronti borghesi. Dauvé non interroga le lotte degli anni ’60
e ’70, ma risulta evidente che le analisi di quel periodo, ad esempio quelle
inerenti la natura del movimento operaio, arricchiscono le considerazioni rispetto
a ciò che è «mancato» nel ciclo di lotte precedente.
Nella sua
critica al testo di Dauvé (21), TC attacca quella che essa considera una
prospettiva di tipo «normativo», nella quale le rivoluzioni reali vengono
contrapposte a ciò che esse sarebbero potute essere – prospettiva che implica
la definizione, mai esplicitamente enunciata, di una «vera» rivoluzione
comunista. TC concorda pienamente con la concezione della rivoluzione delineata
da Dauvé, vale a dire la comunizzazione; ma critica l’approccio di
quest’ultimo, nella misura in cui esso sovrappone, in forma anti-storica,
questa concezione alle lotte rivoluzionarie del passato, servendosene come
metro di paragone dei loro successi e dei loro fallimenti – senza prendere
dunque in considerazione la storicità della tesi stessa della comunizzazione. Ne
consegue, secondo TC, che la sola spiegazione che Dauvé riesca a dare della
sconfitta delle rivoluzioni del passato sia quella, in definitiva tautologica,
per cui esse non sono andate abbastanza lontano – «le rivoluzioni proletarie sono fallite perché
i proletari hanno fallito nel fare la rivoluzione»(22). Al contrario, TC
sostiene di poter rendere conto in forma rigorosa, grazie alla sua teoria,
dell’intero ciclo rivoluzione - controrivoluzione - ristrutturazione, nel cui
contesto è possibile dimostrare come ogni rivoluzione includa la propria
contro-rivoluzione, in quanto limite intrinseco del ciclo di lotte all’interno
del quale essa è sorta ed è stata portata a termine(23).
Nei testi che seguono (due di Troploin e uno di TC) (24), vengono esplorate alcune controversie,
tra cui, in particolare, quella riguardante il ruolo dell’«umanismo» e del
«determinismo» nelle concezioni della comunizzazione sviluppate rispettivamente
dai due gruppi (la Postfazione, oltre a
chiarificarne gran parte dei termini, espone la nostra interpretazione di
alcune di tali questioni). Tuttavia, l’aspetto più interessante di questo
confronto, la ragione che ci ha spinti a
pubblicarlo, è il fatto che esso costituisce il tentativo più nitido da noi finora
incontrato, di porre l’eredità dei movimenti rivoluzionari del XX secolo nei
termini di una concezione del comunismo, inteso non come ideale né come
programma, bensì come movimento inerente il mondo del capitale, movimento cioè che
abolisce i rapporti sociali capitalisti sulla base delle condizioni esistenti.
Postfazione
Il dibattito tra Théorie
Communiste (TC) e Troploin
(G.Dauvé e K.Nesic), che abbiamo qui riprodotto, si sviluppa attorno ad una
questione fondamentale: «come teorizzare la storia e l’attualità della lotta di
classe nell’epoca capitalista». Come abbiamo evidenziato nella nostra Prefazione, i protagonisti di questa
discussione provengono dal medesimo milieu
politico francese, costituitosi in seguito agli avvenimenti del 1968. I due
gruppi condividono a tutt’oggi una comprensione del movimento che abolisce lo
stato di cose presenti come movimento di comunizzazione. Sulla base di questo
punto di vista, la transizione verso il
comunismo non è qualche cosa che sopravviene dopo la rivoluzione. Al contrario, la rivoluzione, in quanto comunizzazione, è essa
stessa la dissoluzione dei rapporti sociali capitalisti, per mezzo delle misure
comuniste prese dal proletariato, che determinano l’abolizione della
forma-impresa, della forma-merce, dello scambio, del denaro, del valore, del
lavoro salariato e che distruggono lo Stato. La comunizzazione, così definita,
non è che la produzione immediata di comunismo: l’auto-soppressione del
proletariato per mezzo dell’abolizione del capitale e dello Stato.
Tuttavia, le rispettive posizioni si differenziano
sulla base del modo in cui TC e Troploin
teorizzano la produzione (storica) del movimento comunizzatore. Né i primi né i
secondi fondano la possibilità di una rivoluzione vittoriosa su una decadenza
«oggettiva» del capitalismo; nondimeno la concezione della storia della lotta
di classe sviluppata da Troploin, e
comune a larga parte dell’ultra-gauche,
definisce un antagonismo fluttuante tra le classi, che si accompagna alle
contingenze di ciascuna congiuntura storica. In questa larga accezione, la
lotta rivoluzionaria del proletariato, in taluni momenti della storia, si
inabissa (o pare inabissarsi), per riemergere successivamente in un nuovo
«punto culminante» (1848, 1871, 1917-21, 1936, 1968-69). Da questo punto di
vista, per lo meno nei paesi a capitalismo avanzato, noi vivremmo attualmente
una fase di prolungata recessione della lotta di classe, un periodo di attesa in vista della prossima riemersione
del movimento comunista, con la quale il proletariato rivoluzionario riprenderà la propria attività
sovversiva: «Ben scavato, vecchia talpa!»(25). Dunque, secondo Troploin, il comunismo in quanto
comunizzazione è una possibilità che, per quanto talvolta non risulti visibile,
è sempre presente; nonostante non esista alcuna garanzia della sua
realizzazione, essa costituisce un’invariante dell’epoca capitalista.
Viceversa, TC vede nella comunizzazione la forma specifica che la rivoluzione deve
assumere all’interno dell’attuale ciclo
di lotte. Dunque, a differenza di Troploin,
può fondare la propria concezione della comunizzazione, in forma
autoriflessiva, su una comprensione della storia dei cicli di lotta nella
società capitalista.
Cicli di
lotta e fasi dell’accumulazione
TC storicizza la contraddizione capitale-proletariato
sulla base della categoria della sussunzione
del lavoro al capitale. Questa periodizzazione definisce i cicli di lotta
sulla base dei cambiamenti qualitativi intervenuti nel rapporto di
sfruttamento. Essa comprende tre fasi: 1) la sussunzione formale (fino al
1900); 2) la prima fase della sussunzione reale (1900-1970); 3) la seconda fase
della sussunzione reale (dal 1970 ad oggi).
Ciò che conta, nella prospettiva di TC, è che la
sussunzione del lavoro sotto il capitale non è semplicemente un problema di organizzazione del lavoro relativo
al processo di produzione immediato – che, nella sussunzione formale
corrisponde all’estrazione di plusvalore assoluto attraverso il prolungamento
della giornata lavorativa) e nella sussunzione reale all’estrazione di
plusvalore relativo, mediante l’incremento della produttività dovuto
all’introduzione di nuove tecniche produttive, che consentono agli operai di
ridurre il tempo nel quale riproducono il valore della propria forza-lavoro e
di erogare così, entro una giornata lavorativa di lunghezza fissata, una maggiore
quantità di pluslavoro. Secondo TC, il carattere, l’estensione e il grado della
sussunzione del lavoro al capitale è anche, o forse essenzialmente, determinata
dalla modalità in cui i due poli del rapporto capitale/lavoro, vale a dire
capitale e proletariato, sono legati l’uno all’altro in quanto classi della
società capitalista. In tal modo, la chiave della storia del capitale diventa
il modo mutevole in cui si determina la riproduzione dei rapporti sociali
capitalisti, in base allo sviluppo dialettico dei rapporti di classe.
Beninteso, questi ultimi sono a loro volta connessi alle necessità
dell’estrazione del plusvalore. In breve, secondo TC la sussunzione del
capitale al lavoro media ed è mediata dal carattere specificamente storico dei rapporti di classe a livello della
società considerata nel suo complesso.
Vi è, a nostro avviso, un aspetto problematico nel
modo in cui TC utilizza il concetto di sussunzione
per periodizzare il capitalismo, in quanto esso occulta parzialmente uno degli
aspetti maggiormente significativi dello sviluppo dei rapporti di classe che,
per altri versi, la teoria di TC mette invece in luce. A voler essere rigorosi
i concetti di sussunzione formale e reale si riferiscono soltanto al processo
di produzione immediato. In che senso, ad esempio, si può affermare che
qualcosa al di fuori del processo lavorativo è sussunto realmente al capitale
piuttosto che semplicemente da esso dominato o trasformato?(26) Nondimeno, TC
cerca di teorizzare, sotto la categoria della sussunzione, il carattere dei
rapporti di classe in sé stessi, piuttosto che il modo in cui il processo
lavorativo diventa realmente il processo di valorizzazione del capitale.
Eppure, è proprio attraverso questo uso discutibile di talune categorie(27) che
può sviluppare una nuova concezione dello sviluppo storico dei rapporti di
classe. All’interno di tale periodizzazione, il grado di integrazione dei
circuiti di riproduzione della forza-lavoro e del capitale è di un’importanza
decisiva. La chiave di volta della periodizzazione storica che viene così
elaborata si fonda sulla misura dell’integrazione della riproduzione della forza-lavoro,
e dunque del proletariato in quanto classe, al circuito di autopresupposizione
del capitale(28).
La «fase della sussunzione formale», secondo TC, è
caratterizzata da un rapporto non mediato, esteriore, tra il capitale e il
proletariato: la riproduzione della classe operaia non è ancora completamente
integrata nel ciclo della valorizzazione capitalista. Durante questa fase, il
proletariato, in quanto polo del rapporto, ha una realtà positiva e può
affermare la sua autonomia vis-à-vis
il capitale, nel momento stesso in cui si trova confermato nella propria ascesa
dallo sviluppo capitalista. Nondimeno, l’ascesa della classe operaia all’interno
della società del capitale e l’affermazione della sua autonomia entrano
inevitabilmente in contraddizione l’una con l’altra. Nel quadro delle
rivoluzioni e delle controrivoluzioni del primo dopoguerra e dell’annientamento
dell’autonomia operaia, questa contraddizione si risolve in un rafforzamento
della classe che si rivela non essere altro che lo sviluppo capitalista stesso.
Questo cambiamento qualitativo nei rapporti di classe segna la fine della
transizione dall’epoca della sussunzione formale alla prima fase della
sussunzione reale. A partire da questo momento, la riproduzione della
forza-lavoro è pienamente integrata, anche se in forma certamente mediata, all’economia
capitalista e il processo di produzione viene rimodellato dalle nuove esigenze
della valorizzazione del capitale. Il rapporto tra proletariato e capitale, in
questa fase, diventa un rapporto di internità, seppure mediato dallo Stato,
dalla divisione dell’economia mondiale in zone nazionali, dalla ripartizione
dell’accumulazione tra due grandi aree, Est e Ovest (ciascuna con il suo
modello si sviluppo del “Terzo mondo”), dalla contrattazione collettiva nel
quadro del mercato del lavoro nazionale e dal compromesso fordista, che lega
l’aumento dei salari a quello della produttività.
La positività del polo proletario, che caratterizza i
rapporti di classe durante il periodo della sussunzione formale e la prima fase
della sussunzione reale, trova la sua espressione in ciò che TC definisce il
«programmatismo» del movimento operaio, le cui organizzazioni, partiti e
sindacati (non importa se socialdemocratici, comunisti, anarchici o
sindacalisti-rivoluzionari)
rappresentano in questo contesto il potere crescente del proletariato ed
esprimono il programma incentrato sull’emancipazione del lavoro e l’autoaffermazione della classe operaia. Il carattere
dei rapporti di classe proprio di questa fase, determina quindi la rivoluzione
comunista come autoaffermazione del proletariato in quanto polo del rapporto
capitale/lavoro. In tal modo, la rivoluzione comunista non distrugge il
rapporto, ma si limita a modificarne i termini; dunque porta in sé stessa la
controrivoluzione, sotto forma di gestione operaia dell’economia e
perpetuazione dell’accumulazione del capitale. La gestione decentralizzata della
produzione per mezzo dei consigli operai, da un lato, e la pianificazione
centralizzata incarnata dallo Stato operaio, dall’altro, sono le due facce
della stessa medaglia, due forme per il medesimo contenuto: il potere operaio
in quanto espressione al contempo rivoluzionaria e controrivoluzionaria.
Questo ciclo di lotte si chiude, secondo TC, con i
movimenti del quinquennio 1968-1973, che segnano l’obsolescenza del programma
incentrato sulla liberazione del
lavoro e l’autoaffermazione del proletariato. La ristrutturazione capitalista
seguita a queste lotte e la crisi del rapporto capitale-proletariato fanno a
pezzi e spazzano via le istituzioni del vecchio movimento operaio. I conflitti
di questo periodo determinano, così, l’innesco di un nuovo ciclo di accumulazione
e di lotte, che coincide, nella periodizzazione di TC, con la seconda fase
della sussunzione reale, caratterizzata dalla ristrutturazione capitalista (o
controrivoluzione) del periodo 1974-1995, che trasforma radicalmente la natura
del rapporto tra capitale e proletariato. Sono soppressi, allora, i vincoli
all’accumulazione del capitale – tutti gli ostacoli alla fluidità e alla
mobilità internazionale del capitale – rappresentati dalle rigidità dei mercati
nazionali del lavoro, dai benefici sociali, dalla divisione del mercato
mondiale nei due blocchi sorti dalla «guerra fredda» e dallo sviluppo nazionale
protetto che, alla «periferia» dell’economia mondiale, questo stato di cose rendeva
possibile.
La crisi del modello sociale fondato sul paradigma
produttivo fordista e sullo Stato-provvidenza keynesiano, hanno condotto alla
finanziarizzazione del capitale, allo smantellamento e alla rilocalizzazione
della produzione industriale, alla distruzione del potere operaio, alla deregulation, alla fine della
contrattazione collettiva, alle privatizzazioni, all’imporsi di forme di lavoro
temporanee e flessibili, alla proliferazione di nuove imprese di servizi. La
ristrutturazione capitalista su scala globale – con la formazione di un mercato
del lavoro mondiale sempre più unificato, l’attuazione di politiche
neoliberiste, la liberalizzazione dei mercati, e la tendenza internazionale
alla riduzione dei salari e al peggioramento delle condizioni di lavoro –
rappresenta una vera e propria contro-rivoluzione, il cui risultato consiste
nel fatto che capitale e proletariato si confrontano adesso direttamente su
scala globale. I circuiti della riproduzione
del capitale e della forza-lavoro – mediante i quali lo stesso rapporto
di classe viene riprodotto – sono a partire da questo momento pienamente
integrati, ovvero immediatamente interconnessi. La contraddizione tra capitale
e lavoro si disloca ora al livello della loro riproduzione in quanto classi;
ciò che è in gioco, in questa nuova fase, è cioè la riproduzione del rapporto
di classe in quanto tale.
Con la ristrutturazione e la conseguente dissoluzione
di tutte le mediazioni all’interno della relazione di classe sopravviene
l’impossibilità, per il proletariato, di rapportarsi positivamente a sé stesso
nel quadro dello scontro con il capitale: l’impossibilità dell’autonomia
proletaria. Da polo positivo della relazione, in quanto interlocutore o
antagonista della classe capitalista, il proletariato si trasforma in polo
negativo. Il suo stesso essere, in quanto proletariato, la cui riproduzione è
pienamente integrata al ciclo del capitale, gli diviene esteriore. Ciò che definisce
l’attuale ciclo di lotte e che lo distingue da quello precedente, è la natura
del rapporto che il proletariato intrattiene con sé stesso, che è, d’ora in
avanti, immediatamente il suo rapporto con il capitale(29). Questa
trasformazione fondamentale della relazione di classe determina una
trasformazione del carattere delle lotte e conduce il proletariato a rimettere
in questione la propria stessa esistenza in quanto classe del modo di
produzione capitalista. In tal modo, per TC, la rivoluzione come comunizzazione è un prodotto storicamente determinato: essa
è l’orizzonte dell’attuale ciclo di lotte(30).
Un
superamento prodotto
Per TC il rapporto tra capitale e proletariato non è
la relazione tra due soggetti distinti, ma è sostanziato da un’implicazione
reciproca nella quale i due estremi del rapporto si costituiscono come momenti
di una totalità auto-differenziantesi. È questa stessa totalità – questa
contraddizione in processo – che produce il proprio superamento, attraverso
l’azione rivoluzionaria del proletariato contro il suo stesso essere-classe e
dunque contro il capitale. Questa concezione immanente, dialettica,
dell’evoluzione storica dei rapporti di classe capitalistici, soppianta le
vecchie antinomie oggettivismo/soggettivismo, spontaneismo/volontarismo, che
avevano invece caratterizzato, la quasi totalità della teoria marxista del XX
secolo, fino ai giorni nostri. La dinamica e il carattere mutevole di questo
rapporto sono allora colti non semplicemente come un succedersi di offensive
proletarie e contro-offensive capitaliste, bensì come un processo unitario.
Secondo TC, sono le trasformazioni qualitative a
livello dei rapporti di classe a determinare l’orizzonte rivoluzionario
dell’attuale ciclo di lotte come comunizzazione. Per quanto ci riguarda,
pensiamo che, a un livello più generale di astrazione, il rapporto
contraddittorio tra capitale e proletariato abbia sempre contenuto la tendenza
ad andare oltre sé stesso, nella misura in cui - a partire dalle proprie stesse
origini – esso ha prodotto il proprio superamento in quanto orizzonte immanente
delle lotte reali. Questo orizzonte, tuttavia, è inscindibile dalla forme
storiche, concrete, che la contraddizione, mutando, assume. È dunque soltanto
in questo senso molto preciso che possiamo parlare del comunismo in forma
metastorica (vale a dire come movimento che attraversa l’intera storia del modo
di produzione capitalista). Il movimento comunista, inteso non come
particolarizzazione della totalità – come movimento di comunisti o come movimento
di classe – bensì come la totalità stessa, è allo stesso tempo metastorico e
mutevole, nella misura in cui si modella sulle configurazioni storicamente
specifiche dei rapporti di classe. Ciò che determina il movimento comunista –
la rivoluzione comunista – ad assumere la forma specifica della comunizzazione,
all’interno dell’attuale ciclo di lotte, è appunto la dialettica
dell’integrazione dei circuiti di riproduzione del capitale e della
forza-lavoro(31). E’ questa integrazione a produrre la negatività radicale del
rapporto del proletariato rispetto a sé stesso nel confronto con il capitale.
In questa fase, sbarazzandosi delle sue «catene radicali», il proletariato non
generalizza la propria condizione estendendola all’insieme della società, ma
dissolve immediatamente il proprio essere-classe attraverso l’abolizione dei
rapporti sociali capitalisti.
Note:
(1)
Riferimento
alla famosa sequenza del film dei Monthy Python, Il Sacro Graal, nella quale un carrettiere, collettore di cadaveri,
percorre le strade della città gridando «Bring
Out Your Dead!».
(2)
Karl Marx
(1852), Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte,
Roma, Editori Riuniti, 2006.
(3)
Cristopher Gray (a cura di), Leaving the 20th
Century : The Incomplete Work of the Situationist International, London, Free Fall,
1974 .
(4)
«Jamais nous ne
travaillerons, ô flots de feux!» [Mai noi lavoreremo, o marosi infuocati !],
A. Rimbaud, Qu’est-ce que nous, mon cœur,
mai 1871, in Œuvre-vie, Arléa, 1991, p. 181
(5)
«La révolution surréaliste», n.4, 1925.
Nella pratica, il rifiuto surrealista del lavoro era riferito sovente al solo
ambito degli artisti, attraverso la denuncia della nefasta influenza del lavoro
salariato sulla creatività e la rivendicazione di sussidi pubblici per
garantire loro il sostentamento. Lo stesso testo di André Breton e Leon
Trotzkji, Per un’arte rivoluzionaria
indipendente, sembra distinguere tra due diversi regimi rivoluzionari, uno
per gli artisti e gli intellettuali e l’altro per gli operai. « Se, in vista dello lo sviluppo delle forze produttive materiali,
la rivoluzione è tenuta ad erigere un regime socialista di pianificazione
centralizzata, per la creazione intellettuale essa deve sin dall'inizio
instaurare ed assicurare un regime anarchico di libertà individuale». In tal
modo, la ragione per cui i surrealisti hanno trascurato la contraddizione tra
liberazione e abolizione del lavoro potrebbe essere legata al fatto che essi vi
vedevano un problema altrui.
(6)
I situazionisti erano consapevoli
di questa critica potenziale e cercarono di prevenirla. Nel testo Preliminari sui consigli e l’organizzazione
consiliare, IS n.12, 1969 [in AA.VV. (a cura di Isabella de Caria e Riccardo d’Este), Internazionale situazionista 1958-1969,
Nautilus, Torino, 1994], René Riesel scrive: «Si sa che noi non abbiamo alcuna
propensione verso l’operaismo, sotto qualsiasi forma esso si presenti», ma
continua a sottolineare come gli operai organizzati in consigli restino la
«forza centrale» della rivoluzione. Quando giunsero più da presso a
interrogarsi sull’affermazione del lavoro, nel quadro della teoria dell’«autogestione
generalizzata», i situazionisti toccarono il massimo dell’incoerenza: «Solo il
proletariato precisa, negandosi, il progetto di autogestione generalizzata,
poiché lo porta in sé oggettivamente e soggettivamente» (Raoul Vaneigem, Avviso ai civilizzati, ibid.). Se il proletariato porta «in sé
stesso» il progetto dell’autogestione, ne consegue che esso, «autonegandosi»,
debba negare anche tale progetto.
(7)
L’IS rivelerà
più tardi la portata della propria disillusione, affermando retrospettivamente che
gli operai erano stati «oggettivamente, in diversi momenti, a un’ora»
dall’instaurazione dei consigli, durante gli avvenimenti del Maggio (L’inizio di un’epoca, ibid.).
(8)
Bruno
Astarian, Les grèves en France en mai-juin
1968, «Echanges et Mouvement»,
2003.
(9)
«Le formule
di controllo operaio e gestione operaia perdono ogni senso […] Il
contenuto (se si vuole usare questa bolsa espressione) del socialismo non sarà
l'autonomia, il controllo e la gestione del proletariato, ma la sparizione
del proletariato. Del salariato. Dello scambio, anche
dell'ultimo: quello tra moneta e forza-lavoro. E infine, dell'azienda.
Nulla vi sarà da controllare e gestire, nessuno rispetto a cui chiedere autonomia» (Amadeo Bordiga, I fondamenti del
comunismo rivoluzionario marxista, in «Il Programma Comunista»,
n.13-14-15, 1957).
(10)
Il testo
citato, la cui prima versione risale al 1969, é incluso nella raccolta di saggi
in lingua inglese di Gilles Dauvé (alias Jean Barrot), Eclipse and Re-Emergence of the Communist Movement, Black &
Red, Detroit, USA, 1974 [Ndt].
(11)
Pierre Nashua (Pierre Guillaume), Perspectives sur les conseils, la gestion ouvrière, et la gauche
allemande, La Vieille Taupe,
Paris, 1974 ; Carsten Juhl, La
révolution allemande et le spectre du prolétariat, in Invariance, Serie II, n.5, 1974.
(12)
J.Camatte, Prolétariat
et révolution, in Invariance,
Série II, N°6, p. 40.
(13)
Jacques Camatte,
soprattutto attraverso l’influenza esercitata su Fredy Perlman, diventerà la
principale fonte di ispirazione del pensiero
primitivista. Cfr. This World
We Must Leave and Other Essays, Autonomedia, 1995. [Cfr. J.Camatte, Questo mondo che bisogna abbandonare,
in J.Camatte, Verso la comunità umana,
Jaca Book, Milano, 1978, Ndt].
(14)
Karl Marx,
Friederich Engels, L’ideologia tedesca,
Roma, Editori Riuniti, 1991
(15)
L’idea di un
«periodo di transizione», che notoriamente si trova negli scritti politici di
Marx e Engels, è stata condivisa pressoché da tutte le tendenze del movimento
operaio. Si supponeva che gli operai, durante tale periodo, dovessero
appropriarsi gli apparati politici (leninismo) o economici (sindacalismo) e
dirigerli sulla base dei propri interessi. Questa prospettiva corrispondeva
all’idea secondo cui gli operai sarebbero stati in grado di gestire le fabbriche
meglio dei loro padroni, e che perciò impossessarsi della produzione
equivalesse a svilupparla (superando le inefficienze, gli elementi di
irrazionalità e le ingiustizie). Collocando la questione del comunismo (la
questione pratica dell’abolizione del lavoro salariato, dello scambio e dello
Stato) oltre il periodo di transizione, il fine immediato della rivoluzione
diventava il semplice superamento di certi «cattivi» aspetti del capitalismo (l’ineguaglianza,
la tirannia di una classe parassitaria, l’«anarchia» del mercato,
l’«irrazionalità» delle attività «improduttive», etc.), che tuttavia preservava
la produzione capitalista in forma più «razionale» ed «equa» (uguaglianza dei
salari, obbligo al lavoro, garanzia del pieno godimento del proprio prodotto da
parte di ciascuno, previa la deduzione dei «costi sociali»).
(16)
G.Dauvé, Out of
the Future, in Eclipse and
Reemergence of the Communist Movement, op.cit.
(17)
Occorre
notare come qualcosa di simile ad una teoria della comunizzazione sia stata
elaborata indipendentemente, negli anni’80, da Alfredo Bonanno e da altri
«anarchici insurrezionalisti». Essi la concepirono allora come uno schema da
applicare ad ogni lotta particolare. Come Debord osservava riguardo
all’anarchismo in generale, una simile metodologia idealista e normativa
«abbandona il terreno storico», in quanto postula che le forme adeguate del
passaggio alla pratica siano già state tutte trovate (Guy Debord, La società dello spettacolo, Massari,
Roma, 2002). Come un orologio guasto, questo tipo di anarchismo è sempre in
grado di segnare l’ora giusta, ma soltanto a un momento dato, cosicché quando
infine il momento arriva, non fa molta differenza che esso sia finalmente
preciso.
(18)
Robert
Faurisson é uno storico borghese che, verso la fine degli anni ’70, riuscì ad
attirare l’attenzione su di sé negando l’esistenza delle camere a gas nel lager di Auschwitz (ma non lo sterminio
sistematico dei civili da parte dei nazisti). Per questa ragione venne
processato. Per motivazioni solo a lui note, Pierre Guillaume divenne uno
strenuo difensore di Faurisson e convinse diversi membri de La
Vielle Taupe e de «La
Guerre Sociale» (in particolare Dominique Blanc) ad
aderire alla sua causa. Da qui una polemica intestina alla ultra-gauche parigina, che si protrasse per oltre un decennio.
(19)
Altri gruppi,
sorti negli anni ’70 e ’80, si possono
collocare nella filiazione di questa tendenza, così come l’abbiamo
sommariamente definita: La
Banquise, L’Insécurité Sociale, Le Brise-Glace, Le
Voyou, Crise Communiste, Hic Salta, La Matérielle, Temps Critiques.
(20)
G.Dauvé –
K.Nesic, Bisognerà ancora attendere, La Giovane Talpa, 2006;
In for a storm, in «Troploin Newsletter #5», giugno 2007, reperibile all’indirizzo web:
(21)
Théorie Communiste, Normative History and the Communist Essence
of the Proletariat, reperibile al seguente indirizzo web:
(22)
Si veda la Postfazione
al presente volume.
(23)
Per una
discussione più dettagliata sulle differenti tesi esposte nell’ambito di questo
scambio, si veda la Postfazione.
(24)
I testi cui si fa
riferimento sono: Théorie Communiste, Much Ado About
Nothing; G.Dauvé, Human, All Too
Human?; G.Dauvé – K.Nesic, Love of Labour? Love of Labour Lost.
(25)
Karl Marx
(1852), Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte,
op. cit.
(26)
Approfondiremo
tali questioni nel secondo numero di Endnotes.
(27)
I redattori
usano qui il termine «discutibile», ma è per l’appunto l’equivocità che pone
dei problemi [Nota del traduttore
francese].
(28)
Per
«autopresupposizione del capitale» TC intende il modo in cui il capitale pone
sé stesso come condizione e risultato del suo stesso processo. Questo concetto
è espresso nell’uso che TC fa, sulla base della traduzione francese del Capitale, del termine «doppio mulinello», che sta ad indicare due cicli
intersecantisi.
(29)
Questa
negatività fondamentale della relazione che il proletariato intrattiene con sé
stesso, nel quadro del rapporto con il capitale, è espresso da TC col termine «écart» (scarto). Questo concetto esprime
il fatto che l’azione del proletariato in quanto classe costituisce il limite
di questo ciclo di lotte; nella misura in cui le lotte del proletariato non
hanno altro orizzonte se non la sua stessa riproduzione in quanto classe, esso
risulta incapace di porsi come tale.
(30)
Per una
discussione di queste problematiche legate alle lotte concrete, si veda L’auto-organisation est le premier acte de
la révolution, la suite s’effectue contre elle, in Meeting n.3, 2006 (http://meeting.senonevero.net/).
Approfondiremo questi temi nel prossimo numero di Endnotes