Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

* * *

«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

* * *

«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

31 gennaio 2011

"Il lavoro rende liberi": liberiamoci dal lavoro salariato!

Lager, campi di concentramento, camere a gas: risorse estreme dell'inesauribile sete di profitto del mostro denominato “capitale”


«Esiste una notevole differenza tra storia e memoria. La storia conduce alla riflessione e, secondo percorsi razionali, rinvia al presente; la commemorazione a un processo di cristallizzazione che colloca il suo oggetto fuori del tempo.» (Georges Bensoussan, L’eredità di Auschwitz, Einaudi, Torino, 2002)

I soldati della Prima Armata del Fronte Ucraino, comandata dal maresciallo Koniev, entrarono nel campo di sterminio e scoprirono la “vergogna” di Auschwitz. In base alle indagini svolte immediatamente dopo la “scoperta” del lager, esperti inglesi, americani e russi, che lavorarono di comune accordo, stimarono in circa quattro milioni le persone che trovarono la morte nei forni crematori di Auschwitz-Birkenau.
L’avanzata delle truppe russe in Polonia, in direzione della Germania, obbligò i gerarchi hitleriani a evacuare i prigionieri da decine di lager e a distruggere gli impianti di sterminio, che secondo le stime più attendibili servirono complessivamente per il genocidio di circa sei milioni di ebrei europei.
L’ultimo trasporto dei prigionieri di ambo i sessi verso Auschwitz avvenne a piedi. Era il 18 gennaio. Nei giorni che precedettero la liberazione c’era nei prigionieri – secondo quanto riferirono i pochi sopravvissuti – una tensione drammatica. Nel campo si trovavano soprattutto coloro che non potevano camminare.
Quasi subito dopo l’ultimo trasporto, gli ufficiali delle SS cominciarono a bruciare i magazzini appiccando il fuoco con i vestiti imbevuti di benzina, strappati agli uomini uccisi nelle camere a gas. Il 20 gennaio le SS fecero esplodere i forni crematori numero 2 e 3, e la notte tra il 25 e il 26 anche il crematorio 5.
Come si è potuti arrivare a tanto orrore?
Nell'Europa dominata dalla Germania, durante la seconda guerra imperialistica mondiale (1939-45), ha preso corpo il terrificante “Nuovo Ordine” preannunciato da Hitler nelle pagine del “Mein Kampf”. Tale Nuovo Ordine, il cui presupposto ideologico è costituito dall'idea di una gerarchia razziale dei popoli da stabilire nel mondo, si basa, in sostanza, su uno sfruttamento brutale, a vantaggio del sistema capitalistico tedesco, di tutti i territori direttamente o indirettamente controllati dalla Germania, secondo criteri organizzativi diversi e a livelli diversi di intensità.
Un primo livello è quello dei popoli formalmente indipendenti ma considerati quali satelliti della Germania, perché la loro economia capitalistica è organizzata, dai loro regimi fascisti asserviti a quello nazista, per rispondere alle necessità dell'economia capitalistica tedesca. Si tratta dell'Italia (chiamata a fornire alla Germania sia quei beni industriali che essa non produce a sufficienza, sia alcuni prodotti agricoli), dell'Ungheria (fornitrice soprattutto di carbone, alluminio e farine), della Romania (fornitrice soprattutto di grano e petrolio), della Bulgaria (da cui i tedeschi prelevano piombo, zinco e semi oleosi), della Slovacchia (fornitrice di carni, latticini e pellami) e, nelle intenzioni di Hitler per il dopoguerra, anche della Spagna e del Portogallo.
Un secondo livello è quello dei popoli che, pur avendo un loro governo fascista, sono però sotto l'occupazione militare tedesca. Si tratta della Norvegia, della Croazia, dell'Olanda e della Francia, le cui condizioni sono miserrime perché la presenza dell'esercito tedesco significa il pagamento di tutte le spese dell'occupazione e l'influenza crescente dei movimenti di estrema destra locali, di ispirazione nazista e di comportamenti criminali.
Un terzo e infimo livello è infine quello dei cosiddetti protettorati, direttamente amministrati dai tedeschi mediante propri governatori, senza alcuna autorità locale. Si tratta della Boemia-Moravia, della Serbia, del Wartegau (Polonia), della Curlandia (che include anche Lituania, Livonia, Estonia e Russia Bianca) e dell'Ucraina. Tutti questi territori sono popolati da slavi, che secondo l'ideologia hitleriana, costituiscono, insieme ad ebrei e negri, una razza inferiore e subumana, di cui perciò sarebbe legittima, in questa aberrante prospettiva, un'utilizzazione in condizioni di schiavitù a profitto della razza superiore tedesca. Ed effettivamente tra il 1941 ed il 1943 il regime hitleriano comincia a mettere in pratica queste idee, facendo uccidere intere famiglie di proprietari terrieri dei protettorati, passando le loro terre a coloni fatti venire dalla Germania, e mettendo a disposizione di tali coloni, in cambio dell'obbligo loro imposto di inviare in Germania una parte dei prodotti agricoli delle loro nuove proprietà, squadre di schiavi slavi per ogni sorta di lavoro.
In condizioni di ancora più atroce schiavitù vengono posti i circa 3 milioni di prigionieri russi caduti in mano ai tedeschi nella campagna militare del 1941 ed i circa 9 milioni di ebrei rimasti nei territori controllati dalla Germania. Per costoro vengono creati nuovi lager oltre a quelli già esistenti in Germania da prima della guerra come Buchenwald e Dachau, tra cui i più grandi a Mathausen in Austria, a Flossenburg ed a Belsen in Boemia, ad Auschwitz ed a Treblinka in Polonia, affidati a reparti speciali delle SS con il compito di organizzare lo sfruttamento delle energie lavorative degli internati con il minimo costo (quindi distribuendo loro solo stracci per indumenti e solo scarti alimentari come cibo) e fino all'esaurimento (quindi assegnando loro mansioni massacranti ed uccidendoli non appena diano segno di essere malati od eccessivamente indeboliti). L'orrore di questi lager arriva al punto che vi è consentito persino l'uso degli internati come materia prima. Infatti, nella Germania di quegli anni vengono fabbricati saponi con grasso umano; pettini ed attaccapanni con ossa umane; borse, guanti e paralumi con pelli umane conciate. Altri internati sono usati come cavie di esperimenti chimici, chirurgici e farmacologici.
Né si deve credere che si tratti dell'universo demoniaco delle sole SS e dei più degenerati dei capi nazisti. Al contrario, il capitalismo tedesco è beneficiario dell'orrore dei lager e vi è coinvolto fino in fondo. “In previsione di ulteriori esperimenti con nuova droga chimica, vi saremo grati se ci poteste procurare 150 soggetti in buona salute“. “Gli esperimenti sono stati eseguiti. Tutti i soggetti sono morti. Ci metteremo presto in contatto con voi per una nuova ordinazione“. Queste frasi agghiaccianti si trovano in lettere commerciali spedite nel 1943 dal gruppo tedesco Farben, massimo gruppo chimico del paese, all'amministrazione del lager di Auschwitz. Altri gruppi industriali tedeschi si sono comportati nella stessa maniera, e particolarmente numerose, poi, sono state le industrie che, o per mancanza di operai (acutissima nella Germania dell'epoca, dopo che milioni di uomini sono stati chiamati alle armi, e non sono stati sostituiti che in parte da lavoratori stranieri fatti emigrare in Germania), o per effettuare risparmi sui salari, hanno stipulato veri e propri contratti di cessione di internati, da usare come schiavi per i lavori più pesanti e dequalificati, con amministrazioni delle SS.
Il sistema dei lager nazisti si rivela perciò, ad una attenta analisi storica, come prodotto non di una regressione ad un'ancestrale barbarie, ma di un determinato sviluppo, modernamente e disumanamente efficiente, del capitalismo tedesco che, per superare i suoi squilibri tra ricavi e costi, indotti da scarsità di capitale e alti prezzi di materie prime, costituisce alla propria periferia un sistema di rapporti sociali non capitalistici, e tuttavia funzionali al profitto capitalistico (non diversamente, se non per una maggiore efficienza disumanizzante, da quanto aveva fatto il primo capitalismo inglese con lo schiavismo negro delle piantagioni americane destinate a fornire le materie prime delle industrie tessili inglesi).
Nella prospettiva finale del cosiddetto Nuovo Ordine sognato da Hitler, del resto, l'intera Europa orientale slava avrebbe dovuto diventare una sorta di immenso lager che, fornendo alla Germania derrate alimentari gratuite, perché prodotte da schiavi, avrebbe aumentato il potere di acquisto dei salari tedeschi e consentito quindi al capitalismo industriale tedesco di accrescere i profitti riducendo ulteriormente i salari.
Ma i lager hanno anche un'altra funzione nel mondo hitleriano. Essi servono cioè come una sorta di laboratorii sociali in cui sperimentare nuove forme di dominio dell'uomo sull'uomo che possano risultare utili al sistema capitalistico per neutralizzare quanti esso rende marginali o considera ostili. Nei lager, infatti, non c'è disordine ma, al contrario, un ordine, per quanto perverso, formalistico e minuzioso. Gli internati sono suddivisi in categorie ordinate gerarchicamente e distinte da contrassegni visibili: più in basso di tutti, gli ebrei, segnati da un triangolo rosso; poi gli asociali (cioè zingari, omosessuali e lavoratori licenziati per infrazioni alla disciplina di fabbrica o di ufficio), segnati da un triangolo nero; poi i dissidenti religiosi (valdesi, testimoni di Geova, ecc.), segnati con un triangolo viola; e al vertice criminali comuni (per lo più i condannati dai tribunali per omicidio o violenza carnale), segnati con un triangolo verde. A questi ultimi viene affidato il compito di mantenere la disciplina quotidiana (implicante l'uccisione dei deboli e dei malati, lo smistamento delle cavie, ecc.), che essi eseguono solitamente con brutale e attenta efficienza, perché a questo prezzo essi hanno salva la vita. Ciò a cui mirano i nazisti, infatti, è che ogni lager produca lavoro, torture e morte autonomamente, con un intervento minimo delle SS, facendo collaborare al suo funzionamento, in cambio della vita o persino del differimento della morte, una parte degli stessi internati, in base alle loro gerarchie interne di cui si è detto, e spegnendo nell'altra parte ogni spirito di rivolta attraverso precise tecniche di distruzione anche psicologica.
In tal modo, il lager diventa il prototipo sperimentale di un futuro perimetro sociale in cui possano essere gradualmente annientati, senza pericolo di rivolte né necessità di impiego di grandi forze repressive e conseguente inevitabile pubblicità della repressione, tutti coloro, per quanto numerosi possano essere, che non sappiano accettare il posto loro assegnato nella società dal capitalismo (tedesco), nazista in tempo di guerra, ma anche eventualmente democratico in tempo di pace.

22 gennaio 2011

"Il lato cattivo"

Chi siamo, cosa vogliamo, a chi ci rivolgiamo


"È il lato cattivo a produrre il movimento che fa la storia, determinando la lotta."
(Karl Marx, Miseria della filosofia) 

Il lato cattivo” è un'aggregazione, del tutto informale e provvisoria, di un esiguo numero di individui, incontratisi a Bologna nel corso del 2010 sulla base delle rispettive esperienze di lotta più o meno militante, maturate nei milieu dell'Autonomia e dell'anarchismo radicale. Ciò che ci ha spinti a incontrarci e interagire, è stato il bisogno di una riflessione teorica, prodotto delle esperienze pratiche passate, sul comunismo come movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.

In netta rottura con l'ideologia “post-modernista” dominante, noi crediamo che l'epoca della lotta di classe non sia conclusa, e che, al contrario, la società nella quale viviamo, cioè il capitalismo, sia ancora fondata sullo sfruttamento del lavoro, sull'estrazione di plusvalore, sull'esistenza delle classi. Pensiamo che oggi l'unica prospettiva reale di trasformazione per la specie umana sia quella della distruzione del capitalismo; che la lotta di classe sia l'unica dinamica possibile di tale distruzione; e che quest'ultima, poiché il capitalismo è un sistema mondiale, sarà anch'essa mondiale o non sarà affatto.

Lungi dal credere che il proletariato e la borghesia siano scomparsi, riteniamo, al contrario, che siano tuttora le due classi fondamentali che strutturano la società nel suo complesso. Il proletariato non ha cessato di essere il soggetto storico della rivoluzione, poiché nella misura in cui rende possibile, attraverso il lavoro, il processo di valorizzazione del capitale, per lo stesso motivo lo può anche distruggere. Gli operai non sono scomparsi; a partire da un più alto livello di sviluppo capitalistico, è piuttosto la controsocietà operaia – quell'insieme di costumi, luoghi, miti e riti che caratterizzavano la vita (e la riproduzione materiale) della forza-lavoro del passato – ad estinguersi. Per questo, ancor meno di ieri, la rivoluzione potrebbe essere oggi l'estensione di un contropotere già esistente, l'affermazione di ciò che i proletari sono all'interno della società del capitale; viceversa, essa sarà la negazione di tutto ciò che che li riproduce come tali: un processo di autonegazione del proletariato e di dissoluzione di tutte le classi.

Dunque, non concepiamo il comunismo come un'emancipazione del lavoro, da realizzarsi attraverso una dittatura di classe (partito o consigli) e una fase di transizione più o meno lunga; né come mera riappropriazione e socializzazione di ciò che già esiste, dal telefonino alla fabbrica di arbre-magique. I rapporti sociali capitalistici sono inscritti nella materia, incorporati negli strumenti tecnologici di cui facciamo uso nel lavoro e nel tempo libero, incistati nella forma delle abitazioni e nell'urbanistica, così come nei saperi e nelle relazioni interpersonali. Tali i rapporti sociali, tali gli individui. Altri rapporti sociali produrranno individui differenti, con bisogni e desideri che non saranno evidentemente gli stessi di oggi. Perciò, pensiamo che l'insurrezione e la distruzione necessariamente violenta dello Stato e di tutti gli apparati repressivi (polizia, galere etc.) non possano lasciarsi alle spalle il vecchio mondo, se rimanderanno alle calende greche la creazione di rapporti sociali differenti, cioè se non porranno allo stesso tempo in essere delle misure per cambiare realmente la vita. D'altra parte, rapporti sociali differenti non possono essere creati in ogni tempo e luogo, tramite un semplice atto di volontà, magari con la fuga in micro-mondi alternativi, mentre ovunque regnano la disfatta e la controrivoluzione; il problema si pone soltanto quando la lotta di classe deborda in un sommovimento più generalizzato. Solo la sinergia dei due aspetti, che chiamiamo comunizzazione, può spingere al salto verso l'ignoto sociale.

Per questo, riteniamo che il proletariato occupato sia non tanto la sorgente unica della trasformazione, quanto il suo centro d'attrazione. Il movimento comunista si inscrive in una dimensione che è allo stesso tempo classista e umana. Esso fa leva sul ruolo centrale degli operai proletari senza essere un operaismo, e anela a una comunità umana senza essere un umanismo. Non solo laddove si presenta una ripresa della lotta di classe, i proletari salariati non sempre sono i primi a muoversi, ma non sono nemmeno gli unici. Sono però coloro che possono, più degli altri, interdire la riproduzione del capitale. La forza di un movimento di classe si può stimare verosimilmente dalla sua capacità di rivolgersi al luogo di lavoro senza perciò rinchiudervisi; ovvero di cogliere, articolare e superare praticamente la contraddizione tra la dimensione classista e quella umana.

Non elaboriamo ricette per le osterie dell'avvenire. Il comunismo non è un modo di produzione “superiore” al capitalismo: in effetti, non è nemmeno un modo di produzione. Il mondo, quale sarà oltre il capitalismo, non è oggi chiaramente descrivibile; in ogni caso, non attraverso le categorie che utilizziamo per criticare il capitalismo. Oggi, possiamo solo dire che sarà distruzione dell'economia, radicale non-contabilità di ciò che si produce e di ciò di cui si fruisce, soppressione di ogni mediazione sociale tra gli individui (famiglia, patria, chiesa, comunità etnica o politica etc.).

Il partito comunista è per noi quel filo storico anonimo, irriducibile a ogni formalizzazione, colore, simbolo, bandiera o “personaggio”, che lega, dal passato al futuro, tutti i comunisti del mondo. Siamo nondimeno convinti che negli ultimi due secoli di lotte di classe, raggruppamenti e singoli che non si definivano tali, abbiano difeso la prospettiva comunista assai meglio di tanti altri somari; e che gli individui si giudicano da ciò che sono, cioè da ciò che fanno, e non da ciò che credono di essere.

Non ci prefiggiamo come scopo quello di “organizzare” i proletari. Pensiamo, piuttosto, che qualsiasi organizzazione permanente che si definisca rivoluzionaria, sia essa preesistente o posteriore alle lotte, vada necessariamente incontro al proprio fallimento. La rivoluzione non è più quella. L'autorganizzazione è il suo primo momento. Ma questa ha cessato di essere il principio di qualsivoglia rifondazione societaria, non è più la prefigurazione della comunità futura; l'autonegazione del proletariato non può che esserne il superamento.

Nemmeno è nostra intenzione “educare” chicchessia: la coscienza, per noi, non si identifica con un corpus definito e “inoculabile” dato una volta per tutte, ma è un prodotto delle lotte e dei comportamenti di classe, che nasce, cambia, si sviluppa e tramonta con esse. La nostra stessa produzione teorica, conflittuale e complementare con altre formulazioni, tutte egualmente imbarcate nella medesima fase di lotta e nei suoi limiti, non è che un momento assai parziale e marginale di questa coscienza in gestazione, la quale si trova ancora disarmata di fronte a numerose questioni. Gli uomini (e noi con essi) entrano in rapporto fra loro in condizioni che non scelgono; vogliono prima di sapere perché vogliono e agiscono prima di sapere perché agiscono. La teoria comunista sa che la coscienza è quel qualcosa di cui il mondo deve appropriarsi. Dicendo questo, essa pone il problema; ma non lo può risolvere d'anticipo, poiché sa anche che la soluzione risiede nell'auto-attività e nell'auto-riflessione dei proletari, giammai nella delega a pretesi specialisti della rivoluzione, “teorici” o “pratici” che siano. Non per questo riteniamo giustificabili quelle posizioni anti-teoriche, le quali contraddistinguono, a nostro avviso, un atteggiamento auto-disfattista.

Pensiamo che il comunismo sia non una necessità storica, bensì una possibilità, presente oggi non meno di ieri; e che rimarrà tale finché il lavoro, il capitale e le classi esisteranno. Fare la teoria del comunismo, non significa dimostrare “scientificamente” la necessità oggettiva di una rivoluzione inscritta nelle leggi dell'economia capitalistica; e ancor meno dimostrare la sua necessità soggettiva (più o meno etica o morale) a fini di propaganda, facendo l'inventario di tutte le sciagure causate dall'attuale ordinamento sociale. Significa, invece, interrogarsi e mostrare a quali condizioni la rivoluzione si può affermare. Nondimeno essa stessa è praxis, elemento attivo nella lotta di classe.

La questione della crisi è sociale. Perciò ci interessano, più dell'analisi economica in quanto tale, i cambiamenti nei rapporti di classe, l'assetto delle forze in campo.

Non aderiamo ad alcuna “tradizione” particolare del movimento rivoluzionario; perseguiamo, invece, un'acquisizione critica di tutte le esperienze teorico-pratiche delle lotte anticapitaliste del passato e del presente, in vista di una sintesi possibile, necessariamente sempre da fare e da rifare. Diffidiamo tanto delle adesioni acritiche a dottrine preconfezionate, quanto del “libero pensiero” e dell'“autogestione mentale”. La teoria comunista trapassa questi opposti, per mostrare la loro sostanziale solidarietà, e non abdica di fronte alla necessità di coerenza e di rigore.

Non ci preme minimamente fare proseliti. Ciò che invece ci interessa, è entrare in contatto con individui o gruppi che condividano già la gran parte degli orientamenti qui espressi, al fine di individuare e percorrere sentieri che sono ancora tutti da tracciare.

Per il resto, partecipiamo e diamo il nostro contributo alle lotte di oggi, laddove ve ne sono, tali quali sono, senza le fregole dell'attivismo e dell'avanguardia.

Bologna, gennaio 2011

19 gennaio 2011

La NEP di "Classe Operaia"

Per una critica dell'operaismo tronto-negriano

di Raffaele Sbardella (1980)


[Il presente saggio fu originariamente pubblicato sulla rivista “Classe”, n. 17, Giugno 1980 e venne poi ribubblicato sul n.8 di “Vis-à-Vis – Quaderni per l'autonomia di classe”, 2000. Sullo stesso tema, si veda anche Claudio Albertani, Impero e i suoi tranelli. La sconcertante parabola dell'operaismo italiano: I Parte e II Parte]

La sinistra non ha mai preso seriamente in considerazione le matrici filosofiche del trontismo e della ideologia di quei compagni che, dopo la rottura con i “Quaderni Rossi”, si riunirono attorno alla rivista “Classe Operaia”: questo è un fatto. Questo, naturalmente, anche un errore, poiché l’ideologia operaista di questi compagni ha diffuso nel movimento letture mistificanti della realtà e comportamenti politici mai del tutto adeguati ai livelli reali delle lotte. Non abbiamo mai preso seriamente e criticamente in considerazione la natura idealistica, o meglio gentiliana, del pensiero di Tronti; non abbiamo sottolineato in modo sufficientemente chiaro la negatività di quella assolutizzazione dell’idea di Soggettività che ha introdotto e seguita a introdurre nel movimento reale guasti considerevoli [Nota: Una cosa però va detta con chiarezza: che di fronte all’oggettivismo passivizzante della tradizione ideologica terzointernazionalista e togliattiana, questi compagni, anche se nella forma idealizzata, posero con forza il problema del primato della soggettività collettiva e dei rapporti di produzione, mostrando la possibilità di un altro ascolto della realtà sociale (la nuova composizione di classe, l’operaio-massa, il rapporto fabbrica-società, le nuove caratteristiche delle sviluppo capitalistico, la politicità delle lotte sul salario, la lotta contro il “lavoro”, il bisogno di comunismo ecc.).]. La stessa rottura con Panzieri, può essere compiutamente spiegata solo se teniamo presente la natura idealistica e attualistica del pensiero di Tronti. D’altra parte anche la coerenza e la continuità del pensiero di questo autore, la non contraddittorietà tra la teoria della «rude razza pagana» e quella della «autonomia del Politico», possono emergere in tutta la loro dimensione, soltanto se l’analisi riesce a percorrere criticamente questo cammino teorico. Continuità e coerenza che, a loro volta, rendono comprensibile la stessa storia di “Classe operaia”: l’uscita, prima, del gruppo genovese, la rottura, dopo, lo stesso scioglimento del gruppo, di quei compagni più vicini alle posizioni di Toni Negri. In questo modo può essere spiegato, con sufficiente chiarezza, il rifiuto, all’interno di una medesima concezione idealistica della classe operaia, delle mediazioni che Tronti, al fine di dominare le nuove realtà del “riflusso” e dare una valenza soggettiva a ciò che soggettivo non era, andava man mano introducendo nel suo discorso politico.
Molti compagni sono tuttora convinti che le tesi contenute in Operai e Capitale siano valide scientificamente e autenticamente rivoluzionarie, e da contrapporre per questo, non senza imbarazzo, alle attuali posizioni di Tronti. Noi, al contrario, pensiamo che, se si vuole veramente costruire un partito del tutto calato dentro l’attuale composizione di classe – un partito-strumento che abbia fatta propria la critica della politica, i nuovi comportamenti e bisogni dei soggetti collettivi – si deve seriamente e teoricamente fare i conti con l'ideologia operaista di “Classe operaia”.

13 gennaio 2011

Sciopero del 28 gennaio: una farsa annunciata?


Lo sciopero dei metalmeccanici del 28 gennaio segue di diversi mesi l'unico sciopero (di ben 4 ore!) indetto sin qui dalla FIOM-CGIL contro il famigerato "piano Marchionne". Lo sciopero del 28, oltre a essere stato indetto con quasi 20 giorni d'anticipo (consentendo così alle aziende di recuperare preventivamente la produzione perduta), non prevede né picchetti "duri" ai cancelli delle fabbriche, né blocco delle merci. Se non saranno gli operai stessi a prendere l'iniziaiva, scavalcando le burocrazie sindacali, la cosiddetta mobilitazione si risolverà nell'ennesima farsa (e in una giornata di salario perduta).

Nel frattempo l'attenzione di tutti, complice il bombardamento mediatico, si concentra sull'esito del referendum di Mirafiori (sì/no, legittimità/non legittimità); come se da una consultazione del genere, quale che sia il risultato finale della votazione, potesse emergere qualche cosa di diverso dalla banale sanzione dei rapporti di forza esistenti. Potenza della mistificazione democratica!

Alcune tesi su operai e comunismo

A proposito di «rivoluzione informatica» e «lavoro mentale»

di Raffaele Sbardella (1986)


[Tratto da AA.VV (a cura di Marco Melotti), Macchine e utopia, Dedalo, Bari, 1986. Si veda anche, dello stesso autore, Astrazione e capitalismo. Note su Marx; e, di Roberto Finelli, Classi, fantasmi e postmodernità. Istruzioni per l'uso]

Nel macchinario informatico il lavoro oggettivato, il lavoro morto, si contrappone materialmente al lavoro vivo come il potere che lo domina capillarmente, in modo invisibile e quasi senza residui; si contrappone ad un lavoro vivo scisso oramai del tutto da ogni abilità manuale e da ogni concretezza, ad un lavoro vivo residuale che, in quanto esclusivamente mentale, vive, di fronte all’immane potenza del lavoro morto e alle infinite abilità del macchinario, tutta la sua insignificanza e subordinazione, l’estrema astrattezza della sua funzione, il suo essere, in quanto attività lavorativa, costantemente dominato e controllato dall’occhio immateriale del sistema. [...]

Mentre nel lavoro artigiano il rapporto dell’uomo con l’oggetto del suo lavoro è mediato semplicemente dall’utensile, o meglio, se si considera quest'ultimo come un prolungamento specializzato della sua mano, è un rapporto diretto in cui le finalità coscienti sono possedute integralmente da chi lavora, ed è praticamente assente ogni forma di cooperazione; nelle prime forme di produzione capitalistica, quella manifatturiera, il rapporto con l’oggetto del lavoro incomincia ad essere mediato dalle prime macchine utensili, e il lavoro ad essere suddiviso in tante fasi parziali: compaiono le prime forme della cooperazione operaia sotto il tetto di uno stesso stabilimento. Già in questa fase il lavoro perde la sua caratteristica intenzionale, il fine si separa e si aliena. La cooperazione tra gli operai è diretta e ognuno e legato all’altro da una relazione interna e immediata. Con la grande industria il rapporto muta radicalmente: in questo caso è l'operaio che media il rapporto della macchina con l’oggetto del lavoro, è tutto interno a questo rapporto, appendice vivente (e non cosciente come molti credono) di un sistema automatico di macchine rigidamente connesso e mosso da una forza motrice centrale: qui il lavoro mostra un grado maggiore di astrattezza, è totalmente inintenzionale (è soltanto dell'operaio in quanto essere umano vivente che ha bisogno questo sistema di macchine), e la cooperazione degli operai tra loro è mediata dalla macchina, dai suoi ritmi e dai suoi bisogni. Soltanto con la nuova «organizzazione del lavoro», caratteristica del processo produttivo informatizzato, l'operaio è espulso dal rapporto: macchina e oggetto del lavoro non sono più mediati, il rapporto è diretto ed esclusivo, e sono ora le macchine a cooperare tra loro; il lavoro operaio ricompare soltanto all’interno di questo rapporto specifico tra macchine. La cooperazione delle macchine tra loro è ora mediata dal lavoro intenzionale degli operai. Infatti – come già abbiamo visto – solo le capacità intenzionali del nuovo lavoro operaio possono vagliare e togliere gli infiniti imprevisti, mettere in relazione le macchine tra loro, gli insiemi di macchine, i settori, le fabbriche disseminate sul territorio: in tutti gli infiniti punti di mediazione (poiché si riprodurranno all'infinito), quando le parti del sistema incontrano la morta cosa della loro origine e non riescono più a comunicare tra loro, il sistema nel suo complesso ha bisogno di ciò che non è programmabile e che non può essere incorporato nelle sue memorie periferiche o centrali; deve necessariamente usare la forza-intenzione operaia, cioè disporre di una attività lavorativa che sola sa intervenire con scelte e decisioni appropriate trasformando finalisticamente la materia prima dell'informazione e rendendo cosi possibile la cooperazione tra macchine.

7 gennaio 2011

Alla guerra imperialista il proletariato oppone...

...la ferma volontà di raggiungere i suoi obiettivi storici
"Prometeo" n. 1, novembre 1943*
La nostra via
La crisi scoppiata fulminea su la scena politica italiana dopo venti anni di regime fascista, ha posto in luce la gravità del malessere sociale che investiva ormai in pieno non solo la responsabilità di questo o quell'uomo politico, questo o quell'organismo, ma il sistema intero nella sua classe dirigente, nelle sue istituzioni e nella sua struttura economica e politica. Era cioè visibile anche all'occhio meno esperto nell'analisi dei fenomeni sociali, che l'ossatura capitalistica era stata colpita a morte, mentre le sue forze politiche andavano esaurendosi ignominiosamente in una spassosissima sequela di tradimenti, di viltà e corruzione.
Il proletariato sentiva finalmente ruinare attorno a sé l'impalcatura oppressiva dell'organizzazione borghese e vedeva, forse per la prima volta, spezzati i suoi centri nervosi quali l'esercito, la magistratura e la pubblica sicurezza! Sembrava la fine non solo del fascismo, ma del sistema economico che l'aveva reso possibile, eppure non si trattava che del primo atto di un dramma sociale nel quale il proletariato avrebbe infine potuto giocare il ruolo di grande protagonista vittorioso. Abbiamo detto sembrava, perché lo sfacelo abbattutosi sul nostro paese, pur mostrando in atto quel processo di decomposizione e di sfaldamento, condizione prima ed essenziale alla ripresa dei conflitti di classe, tuttavia non esprimeva, né poteva esprimere sul piano politico, la forza rivoluzionaria capace di sfruttare ai propri fini una evidente e pur così rara situazione di favore. E non poteva esprimerla non perché la crisi non fosse assai profonda e la situazione non sufficientemente rivoluzionaria, né perché facesse difetto il suo elemento soggettivo, cioè il proletariato con la sua forza fisica e la sua intelligenza e volontà di lotta, ma soltanto perché i rapporti di forza erano obiettivamente tutt'ora in netto favore dell'avversario di classe.
Non si è voluto capire che, a somiglianza dell'episodio spagnolo, nella prima fase di questo cozzo di imperialismi il nostro paese si è trovato ad essere improvvisamente il banco di prova, l'arena tragica al secondo atto della stessa immane competizione. Era perciò vana illusione pensare alla eliminazione del fascismo con una congiura di palazzo, rimanendo in piedi e in casa nostra il colosso tedesco.
Ogni ripresa di classe, ogni lotta per la libertà e l'emancipazione del proletariato doveva necessariamente tener conto di questa dura realtà, costituita da una parte dalle forze armate tedesche con bandiera fascista e dall'altra dalle forze armate alleate con bandiera democratica. Finzione in entrambi i casi e semplice espediente tattico, necessario ai dominatori capitalisti per neutralizzare e conquistare masse sempre più vaste di proletari. La guerra moderna ha bisogno di braccia e coscienze come di carbone e di ferro.
Una condotta classista della lotta avrebbe dovuto condurre i partiti proletari, dopo una analisi approfondita della reale natura del presente conflitto, a porre sul piano ideologico e quindi politico la definizione di entrambi i belligeranti come facce diverse di una stessa realtà borghese, da combattere entrambi perché intimamente legati, ad onta delle apparenze, alla stessa ferrea legge della conservazione del privilegio capitalista e quindi lotta a fondo, mortale, contro il vero, comune nemico: il proletariato.
Invece che cosa è avvenuto? Perfettamente il contrario. Nel momento in cui era più evidente l'impossibilità per la borghesia nostrana di continuare la sua guerra, e si manovrava nelle alte sfere per evitare che la crisi aperta spingesse in primo piano il proletariato, ecco provvidenziale il blocco dei partiti antifascisti quale fattore decisivo, per tre quarti consapevole, della manovra di aggiramento e di narcotizzazione. Gli assertori dell'internazionalismo si fanno banditori della difesa nazionale (ma solo contro i tedeschi!); gli esponenti della lotta di classe disposti a considerare l'imperialismo inglese quale alleato provvisorio del proletariato. Proprio come i socialisti del '14 che Lenin bollò come traditori. Le masse attonite e sgomente hanno abboccato all'amo della crociata anti-tedesca obbedendo in parte alla voce atavica dell'odio contro l'oppressore tedesco, sedimento lontano e incosciente formatosi nell'animo di tanti italiani e che i rivoluzionari debbono però saper individuare e vincere, perché è proprio su di esso che tutte le reazioni hanno fatto fin qui leva per le loro guerre di rapina e di sterminio.
Noi soli abbiamo osato andare contro corrente. Il nostro partito, già all'epoca della guerra civile spagnola, aveva analizzato quel moto partendo da premesse di classe, senza lasciarsi influenzare dal sentimento e da quel falso "atavismo" ribelle sempre ai limiti del pensiero marxista, che porta ad esaltare l'azione piegando all'opportunismo le idee e la teoria della rivoluzione. Solo il nostro partito riconobbe allora il carattere del moto spagnolo, destinato però ad esaurirsi se un partito rivoluzionario non fosse stato espresso a tempo dalla crisi stessa, e osò dire con rudezza che il tentativo repubblicano d'incanalare i combattenti sorti dalle barricate nelle file di un esercito repubblicano in contrapposizione a quello nazionale di Franco, significava snaturare il movimento, spostare cioè l'asse del conflitto armato dal suo terreno originario di classe a quello dell'imperialismo, su cui si erano già più o meno apertamente schierate le forze fasciste da un lato, e quelle anglo-franco-russe dall'altro. E il partito vide giusto, allora, perché la sua critica e il conseguente suo atteggiamento si facevano forti e si facevano garantiti dalla giusta interpretazione del pensiero marxista.
Ma non a caso abbiamo accennato all'analogia tra la situazione odierna del nostro paese e quella spagnola.
Riteniamo infatti che lo sfacelo borghese del nostro paese, determinato dall'andamento della guerra, non offra seria possibilità alla lotta finale del proletariato finché rimarranno sul nostro suolo truppe di occupazione, qualunque esse siano, per le quali una eventuale soluzione rivoluzionaria della crisi, che tali forze controllano, significherebbe rinuncia allo sfruttamento economico e strategico del paese.
Riteniamo d'altro canto nostro compito urgente sganciare le masse dalle influenze ideologiche e sentimentali verso questo o quel belligerante, ciò che implica lotta aperta contro i partiti tradizionali socialisti e centrista [PCI], che del fermento anti-tedesco e antifascista ha fatto motivo di collaborazione imperialista e di tradimento del proletariato.
Anche ora siamo soli a combattere la rude e difficile battaglia di classe e, fedeli alla intransigenza ideale e alla tradizione del movimento marxista internazionalista, ci prepariamo alle lotte assai prossime apprestando organi e spiriti per il trionfo del proletariato, lasciando ai rivoluzionari... della difesa nazionale il compito ben più facile d'aspettare dagli inglesi la vittoria sui tedeschi e sul fascismo, e la tanto agognata ricompensa di un governo popolare.

* Organo del Partito Comunista Internazionalista (1943-52)

L'annientamento del proletariato spagnolo

 Bilan”, n.12, ottobre 1934*

Esistono due criteri per la comprensione degli avvenimenti: due opposte piattaforme sulle quali si effettua la concentrazione della classe operaia. Solo così potremo analizzare le ultime ecatombi nelle quali sono periti migliaia di proletari della Penisola Iberica, fucilati, mitragliati, bombardati dalla "Repubblica dei lavoratori spagnoli". O la Repubblica, le libertà democratiche, non sono che un potente diversivo sollevato dal nemico quando gli è impossibile impiegare la violenza e il terrore per annientare il proletariato. O la Repubblica e le libertà democratiche rappresentano un male minore e perfino una condizione favorevole alla marcia vittoriosa del proletariato, che avrebbe il dovere di appoggiarle per favorire il suo attacco ulteriore volto a liberarsi dalle catene del capitalismo.
Il terribile massacro di questi ultimi giorni in Spagna dovrebbe escludere la piccola combine del "dosaggio", secondo la quale la Repubblica è sì una "conquista operaia" da difendere, ma sotto "certe condizioni" e, soprattutto, nella "misura" in cui non è ciò che è, alla condizione che "divenga" ciò che non può divenire, e, infine, "se" lungi dall'avere il significato e gli obiettivi che ha, si accinga a diventare l'organo del dominio della classe lavoratrice.
Questo piccolo gioco diventa ugualmente molto difficile per quanto concerne le situazioni che hanno preceduto la guerra civile in Spagna, dove il capitalismo ha dato la misura della sua forza contro il proletariato. In effetti, dalla sua fondazione nell'aprile del 1931 fino al dicembre 1931, la "marcia a sinistra" della Repubblica Spagnola, la formazione del governo Azana-Caballero-Lerroux, l'amputazione della sua ala destra, rappresentata da Lerroux, nel dicembre 1931, non determina in nessun caso delle condizioni favorevoli all'avanzamento delle posizioni di classe del proletariato o alla formazione di organismi capaci di dirigerne la lotta rivoluzionaria. E qui non si tratta proprio di vedere ciò che cosa avrebbe dovuto fare il governo repubblicano e radical-socialista per la Salute della... rivoluzione comunista, ma si tratta di capire se questa conversione a sinistra o all'estrema sinistra del capitalismo, questo unanime concerto che andava dai socialisti fino ai sindacalisti per la difesa della repubblica, ha creato, sì o no, le condizioni per lo sviluppo di conquiste operaie e della marcia rivoluzionaria del proletariato. O ancora, meglio, se questa conversione a sinistra non fosse dettata dalla necessità, per il capitalismo, di ubriacare gli operai agitati da un profondo slancio rivoluzionario, perché non si orientassero verso la lotta rivoluzionaria, perché la via che la borghesia doveva prendere nell'ottobre 1934 era troppo rischiosa nel 1931 e gli operai, in quel periodo, avrebbero potuto vincere in un momento in cui il capitalismo non era nella possibilità di reclutare gli eserciti della repressione feroce.
D'altra parte, il separatismo catalano o basco, che era stato considerato come una breccia aperta nell'apparato di dominio del nemico, breccia che bisognava allargare fino alle sue conseguenze più estreme per fare in seguito progredire il corso della rivoluzione proletaria, non aveva forse dato la misura della sua forza erigendo una Repubblica Catalana... per qualche ora (Repubblica che sparì dolorosamente sotto i colpi dello stesso generale Batlet che Companys invitava alla difesa della Catalogna che proclamava la sua indipendenza)? E, nelle Asturie, le forze dell'esercito, della polizia, dell'aviazione non si sono gettate, per settimane, contro i minatori e gli operai privi di ogni guida nella loro lotta eroica? Il separatismo basco, che con le sue proteste degli ultimi mesi non aveva fatto che annunciare la tormenta che si avvicinava, lascerà annientare le lotte delle Asturie e, in più, i battaglioni del terrore governativo saranno diretti da un separatista che domani farà, senza dubbio, un nuovo giuramento di fedeltà alla Repubblica e alle autonomie regionali.
Dal 1930 al 1934 una coerenza d'acciaio stabilisce la logica degli avvenimenti. Nel 1930 Berenguer è chiamato da re Alfonso XIII che spera di poter ripetere la manovra del 1923, quando giunse a contenere nel quadro della legalità monarchica le conseguenze del disastro marocchino. Nel 1923, Primo de Rivera sostituisce Berenguer, considerato come il responsabile del disastro in Marocco, e questa modifica governativa permette di allontanare l'attacco delle masse che, evidentemente, dovevano fare le spese dell'operazione governativa che si concludeva con sette anni di dittatura clerico-agraria. Ma, nel 1930, la situazione economica era profondamente sconvolta dall'apparizione della crisi e non era più sufficiente far ricorso a delle semplici manovre governative. Nel febbraio 1931 le condizioni erano già mature per dei movimenti proletari ed esisteva la minaccia di un sciopero dei ferrovieri: bisogna allora fare ricorso ai grandi colpi teatrali e si offrono alle masse le teste di Berenguer e del re. Per intervento del monarchico Guerra e d'accordo con il repubblicano Zamora è organizzata la partenza del re prima dell'uscita degli operai dalle fabbriche.
Il movimento di allargamento verso la sinistra continua fino alla fine del 1931 ed è solo così che si metteranno le masse di fronte ad una estrema difficoltà per forgiarsi l'organismo della vittoria: il proprio partito di classe. Dato che non era possibile sopprimere i conflitti di classe, il capitalismo non poteva che porre questi conflitti in tali condizioni che essi non potessero condurre che alla confusione senza uscita. E la Repubblica serve a questo fine. All'inizio del 1932, il governo di sinistra fa la sua prima prova e passa al violento attacco contro lo sciopero generale proclamato dai sindacalisti. In questo momento la concentrazione del capitalismo avviene attorno alla sua ala sinistra e il reazionario Maura potrà rendere plebiscitario il governo Azana-Caballero per le Cortes repubblicane. Lo slancio delle masse, prodotto dalle circostanze economiche, fu spezzato, dopo essersi smarrito nei sentieri della Repubblica e della democrazia, dalla violenza reazionaria del governo radical-socialista.
Da ciò risultò una opposta conversione della borghesia verso la sua ala destra: nell'agosto del 1932 avremo la prima scaramuccia di Sanjurjio per la concentrazione delle forze della destra. Qualche mese dopo, nel dicembre 1933, è il massacro degli operai durante il nuovo sciopero deciso dai sindacalisti, nel momento in cui le elezioni danno l'occasione per spostare a destra l'orientamento della Repubblica Spagnola. Di conseguenza, l'ottobre 1934 segna la battaglia frontale per annientare tutte le forze e le organizzazioni del proletariato spagnolo. E come triste e crudele epilogo delle orme seguite dai sindacalisti, giungeremo, in presenza di un tale massacro, all'astensione della Confederazione del Lavoro Anarchica [CNT] che ritiene di non potersi mischiare a dei movimenti politici...
Sinistra-destra; repubblica-monarchia; appoggio alla sinistra e alla repubblica contro la destra e la monarchia per la rivoluzione proletaria; ecco i dilemmi e le posizioni che hanno difeso le diverse correnti che agiscono in seno alla classe operaia. Ma il dilemma era diverso e consisteva nell'opposizione: capitalismo-proletariato, dittatura della borghesia per l'annientamento del proletariato, o dittatura del proletariato per l'erezione di un bastione della rivoluzione mondiale in vista della soppressione degli Stati e delle classi.
Benché l'economia spagnola abbia potuto beneficiare dei vantaggi acquisiti durante la guerra per la sua posizione di neutralità, la struttura di questo capitalismo offriva una resistenza troppo debole ai contraccolpi della crisi economica. Un settore industriale troppo limitato rispetto a un'economia agraria troppo estesa e ancora dominata da forze e da forme di produzione non industrializzate. Tali fondamenti spiegano perché le regioni industriali sono il teatro di movimenti separatisti privi di sbocco e che devono acquistare un significato reazionario, per il fatto che la classe al potere è il capitalismo, che estende su tutto il territorio il marchio di organismi bancari dove si concentrano – attorno a grandi magnati – il prodotto del plusvalore dei proletari e del plusvalore dei contadini. Una tale base economica lascia intravedere la prospettiva che si apre alla classe operaia spagnola, che si trova in condizioni analoghe a quelle conosciute dagli operai russi: di fronte a una classe che non può stabilire il suo dominio che con una dittatura di ferro e di sangue, non potrà battere questo feroce dominio che con il trionfo della sua insurrezione.
E la tragedia spagnola, come quella austriaca, si svolgerà nella disattenzione del proletariato mondiale immobilizzato dall'azione controrivoluzionaria dei centristi e dei socialisti. Una semplice offerta da parte dell'IC, che sarà rifiutata dall'Internazionale socialdemocratica con il pretesto che il momento favorevole è già passato. Come se, dopo la vittoria di Hitler, quando il momento favorevole era, anche questa volta, passato, l'Internazionale socialdemocratica non avesse indirizzato delle proposte di azione comune all'IC! Ma la putrefazione e la corruzione di organismi che osano ancora proclamarsi operai sono tali che, sui cimiteri di proletari, i traditori di ieri e di domani non faranno che abbozzare una manovra che permetta loro di continuare l'opera di tradimento, fino al giorno in cui gli operai non giungeranno a spazzar via con la classe che li opprime, tutte le forze che li tradiscono. Le migliaia di operai spagnoli non sono morti invano, perché dal sangue di cui si è bagnata la Repubblica spagnola, germinerà la lotta per la rivoluzione comunista, abbattendo tutti i diversivi che il nemico non cesserà di opporre alla marcia liberatrice della classe operaia.

* “Bilan”, organo della Frazione italiana della Sinistra comunista internazionale. Cfr. [Philippe Bourrinet], La sinistra comunista italiana. 1927-1952, CCI, 1984.


La vita delle Frazioni della Sinistra comunista internazionale

Octobre”, n. 1, febbraio 1938*


La Frazione italiana
La Frazione italiana si costituì ufficialmente alla Conferenza di Pantin, nel 1928, allorché l’Internazionale Comunista giunse, dopo innumerevoli esclusioni di comunisti internazionalisti in tutti i Paesi, alle decisioni del VI Congresso che sancì l’incompatibilità tra l’appartenenza al Comintern e la difesa delle posizioni rivoluzionarie. In realtà, la Frazione italiana poté costituirsi nel corso della guerra civile, che rivestì forme molto aspre in Italia, e di una lotta assai forte contro il centrismo. Verso la fine della Prima Guerra mondiale, in seno al Partito Socialista Italiano diretto dagli opportunisti del famoso "né aderire, né sabotare la guerra" (che andarono a Zimmerwald), apparve la corrente degli "astensionisti" con a capo Bordiga e la Federazione di Napoli, che pubblicava "Il Soviet".
Nella forma dell’astensionismo parlamentare faceva la sua apparizione la prima frazione marxista solidale con la Rivoluzione russa, non a parole, ma con l’elaborazione di posizioni comuniste, che ne dovevano fare la capofila della scissione con i traditori e l’artefice principale della fondazione del Partito Comunista d’Italia. Si sa che Lenin, nell’Estremismo, malattia infantile del comunismo, rese un pessimo servizio ai comunisti italiani, giudicandoli, sulla base di un’informazione frammentaria e incompleta, unicamente per il loro astensionismo parlamentare e accreditando gli opportunisti dell’"Ordine Nuovo" di Torino. L’astensionismo, che era un aspetto della differenziazione tra comunisti e socialisti legati allo Stato capitalista, non era allora una questione di principio, bensì una posizione analoga a quella difesa dai bolscevichi nel 1906, all’epoca del boicottaggio della Duma, poco dopo l’assalto rivoluzionario degli operai russi. Del resto, nel 1924, all’epoca dell’ascesa fascista, la Sinistra di Bordiga raccomandò la partecipazione elettorale.
Nel gennaio 1921, a Livorno, la frazione astensionista, appena separatasi dal Partito Socialista diretto da Serrati, fondò il Partito Comunista d'Italia. La situazione italiana era già pregiudicata dal tradimento socialista, che aveva liquidato il gigantesco movimento delle occupazioni di fabbrica, e dallo scatenamento dell’attacco sanguinoso del fascismo, unito alla repressione dello Stato capitalista. Socialisti e capitalisti disarmavano gli operai italiani, mentre fascisti e forze statali passavano all’eliminazione fisica e alla distruzione delle organizzazione operaie.
Un anno dopo, al secondo congresso, il Partito Comunista – ove erano riunite le migliori energie del proletariato italiano – adottava le "Tesi di Roma", che sintetizzavano i princìpi del primo partito di classe degli operai italiani. La natura organica del partito, i suoi rapporti con la classe e le altre organizzazioni, la sua tattica nella fase delle guerre e delle rivoluzioni si trovano consegnate in queste Tesi, che il centrismo sembrò accettare, nel 1923, in Italia, per rigettarle appena poté farlo impunemente con l’aiuto dell’Internazionale Comunista. Queste Tesi, che proseguivano il cammino storico di Lenin dal 1903 al 1917, incontrarono l’opposizione dell’Internazionale. Quest’ultima, tuttavia, fino alla morte di Lenin, non le respinse mai apertamente, sebbene obbligasse gli Spartachisti tedeschi a seguire la linea opposta, costringendoli alla fusione con i Socialisti Indipendenti.
Al III e al IV Congresso del Comintern, il partito italiano, diretto dalla Sinistra, si oppose alle direttive che avrebbero condotto alla disfatta tedesca del 1923 e che avevano tuttavia ricevuto l’appoggio di Lenin e, in particolare, di Trockij. Fu su esplicita richiesta di Lenin che Bordiga e la Sinistra rinunciarono a dimettersi dalla direzione del partito, benché maggioritari al Congresso, giacché per dei marxisti non era possibile risolvere i problemi della rivoluzione in un Paese essendo minoritari a livello internazionale.
Al V Congresso, svoltosi dopo la sconfitta del ’23, la Sinistra rifiutò il mercanteggiamento propostole da Zinov’ev, che le offriva la direzione del partito in cambio dell’appoggio alla campagna anti-trockijsta in Russia. Su molti problemi, essa era in disaccordo con Trockij, il quale però rappresentava quantomeno una reazione internazionale al centrismo, e ciò bastava per imporre una totale solidarietà. La Sinistra, peraltro ancora maggioritaria nel partito, si dimise dunque da tutti gli incarichi, e dette inizio alla lotta ideologica che, con la formazione di una corrente, avrebbe condotto alla nascita della Frazione di Sinistra. Nel 1926, la corrente marxista che, con Bordiga, si era opposta, in Italia, alle avventure del centrismo (p. es., la secessione dell’Aventino nel 1924) e che, sul piano internazionale, lottava contro il "socialismo in un solo Paese", la "bolscevizzazione", il Comitato Anglo-Russo, elaborò un documento programmatico che fu presentato al [III] Congresso del Partito Comunista d’Italia [Lione, 1926, ndr]. Questo documento è conosciuto come "Piattaforma della Sinistra".
Le "Tesi di Roma" (ripudiate dai centristi) e la "Piattaforma" furono i documenti di base per la formazione, a Pantin, della Frazione Italiana; il suo organo in lingua italiana era "Prometeo" (tutt’ora esistente).
Quando, nel 1930, si costituì l’Opposizione Internazionale di Sinistra, diretta da Trockij esiliato in Turchia, la Frazione Italiana vi partecipò rivendicando i propri documenti fondativi. Trockij salutò la "Piattaforma" del 1926 come uno dei migliori documenti dell’opposizione, il che non gli avrebbe impedito di scatenare una lotta di manovre e intrighi per piegare la Frazione alla sua politica.
Fin dal gennaio 1932, la crisi profonda dell’Opposizione Internazionale di Sinistra aveva acuito le divergenze tra la Frazione e Trockij, che usava metodi burocratici per formare e dividere i gruppi, dissolvendo e spiazzando la direzione internazionale, attaccando la Frazione che si rifiutava di partecipare a questo gioco, che impediva la costituzione di organismi comunisti nei diversi Paesi. L’opposizione tra la fedeltà ai "primi quattro Congressi dell’Internazionale Comunista" – credo del trockijsmo – e l’analisi marxista degli avvenimenti del dopoguerra – che vedeva il trionfo internazionale del centrismo – trovò la sua espressione non solo nell’opposizione tra la politica di "raddrizzamento dei partiti" e quella della costituzione di frazioni agenti nel partito e solo canale del pensiero marxista, ma anche nell’opposizione tra "le parole d’ordine democratiche" che avrebbero fatto di Trockij il campione della guerra imperialista in Spagna e in Cina e le tesi classiste, per le quali il proletariato e le sue posizioni sono le sole parole d’ordine adeguate alla situazione del dopoguerra.
Alla fine del 1932, alla vigilia dell’ascesa al potere di Hitler, la separazione aveva luogo sulla base di una proposta di esclusione della Frazione, fatta da Trockij (Gourov) che, parallelamente, intravedeva una possibilità di vittoria in Germania, anche con Thällman.
Nel 1935, dopo l’aperto tradimento del centrismo – che faceva seguito alla morte definitiva dell’Internazionale Comunista e all’ingresso della Russia nella Società delle Nazioni –, la Frazione Italiana si trasformava e, da Frazione del Partito Comunista d’Italia, diventava la Frazione del nuovo partito che le eruzioni rivoluzionarie avrebbero permesso di fondare [Frazione italiana della Sinistra Comunista Internazionale, ndr]. Ciò avveniva in un momento in cui l’imperialismo italiano scatenava la guerra d’Abissinia, e il Congresso si concentrò sui problemi della trasformazione della Frazione in Partito, che il tradimento del centrismo e l’apertura della fase delle guerre imperialiste ponevano imperiosamente. Si affermava una corrente che voleva sostituire al processo reale delle lotte di classe – fecondatore delle condizioni necessarie per la formazione del partito – un volontarismo generatore di opportunismo e di revisione del programma comunista. I principali dirigenti di questa corrente dovevano formare la minoranza che nel corso degli avvenimenti spagnoli avrebbe sostenuto la guerra imperialista, passando dall’altra parte della barricata.
Alla fine del 1932, la Frazione italiana decideva un lavoro comune con la Ligue des Communistes Internationalistes de Belgique, sulla base di una convergenza nella critica alle posizioni dell’Opposizione Internazionale (trockijsta), critica contenente le questioni centrali del movimento operaio: lo Stato e il partito.
Gli avvenimenti spagnoli dovevano determinare una crisi in seno alla Frazione e nei suoi rapporti con la Ligue belga, al cui interno appariva d’altra parte una corrente marxista confluente con quella maggioritaria nella Frazione. L’esclusione dalla Frazione Italiana della minoranza che sfuggiva alla discussione, avrebbe poi preceduto la rottura con la Ligue ove si sarebbe verificata una scissione (vedi la risoluzione della C. E., "Bilan", n. 42). Nel novembre 1933, parallelamente alla collaborazione con la Ligue belga, la Frazione iniziò a pubblicare una rivista teorica, al fine d’intraprendere un lavoro di chiarificazione internazionale che doveva spingere i gruppi di avanguardia che avevano rotto con Trockij a seguire il cammino della formazione di frazioni di sinistra. [Tale rivista era "Bilan" - nota di Jean Barrot]
A quell’epoca tutti i tentativi della Frazione volti alla costituzione di un Bureau International si scontravano con la passività e la confusione dei gruppi esistenti, tra i quali solo la Ligue sembrava disposta ad affrontare una discussione internazionale seria.
Con la guerra di Spagna, tutte le divergenze con la Ligue e gli altri gruppi sfociarono in una rottura che segnava la caduta di questi "comunisti di sinistra" nella palude delle ideologie capitaliste. Una nuova fase si apriva, quella della formazione di frazioni di sinistra contro tutti i gruppi esistenti, sulla base delle nozioni programmatiche sullo Stato e sul partito proclamate dalla Frazione, insieme alla minoranza della Ligue belga. Questo sforzo ricevette la sua consacrazione con la formazione del Bureau delle Frazioni di Sinistra e la trasformazione di "Bilan" in "Octobre".
Attualmente, la Frazione Italiana pubblica "Prometeo" e "Il Seme", organo di discussione, in lingua italiana, che serve da strumento di preparazione teorica per il Congresso della Frazione. In una prossima cronaca, parleremo delle divergenze esistenti oggi nella Frazione, dei problemi discussi e che trovano la loro espressione in "Prometeo" e ne "Il Seme".
La Frazione Belga
Il 21 febbraio 1937, la Conferenza Nazionale della Ligue des Communistes Internationalistes de Belgique dichiara incompatibile l’appartenenza all’organizzazione con l’adesione alla risoluzione pubblicata da Jehan nel suo "Bulletin". Si trattava della contrapposizione tra i partecipazionisti alla guerra imperialista spagnola e gli internazionalisti sostenitori delle posizioni classiste.
Pertanto una minoranza – l’insieme del gruppo di Bruxelles, eccetto tre compagni (tra cui Hennaut) – lasciava la Ligue. Il 15 aprile appariva il primo numero del suo bollettino mensile, contenente i documenti di base concernenti la costituzione della Frazione Belga della Sinistra Comunista Internazionale. Non si trattava, come Hennaut voleva far credere, di un’emanazione della Frazione Italiana, ma della conclusione di tutto un processo nel corso del quale il proletariato belga era arrivato, per la prima volta, a gettare le basi per la costruzione di un autentico partito di classe.
Si sa che il Partito Comunista Belga fu creato dalla gioventù socialista che, al richiamo della Rivoluzione russa, lasciò il Pob. In Belgio la sua costituzione non fu preceduta da eventi sociali, poiché la borghesia riuscì, grazie al compromesso di Lophem, ad arginare con delle "riforme sociali" l’ondata proletaria che rifluì verso le organizzazioni del Pob. Molto presto, il giovane nucleo comunista fu imbrigliato in una fusione, imposta dal Comintern, con il gruppo della sinistra socialista di Jacquemotte. Nondimeno, nel 1928, la maggioranza del partito passava all’Opposizione che, dopo la scissione di Anversa, aveva con sé tutti i militanti di avanguardia del movimento operaio belga. L’Opposizione si mosse a tentoni tra la moltitudine di problemi che si ponevano alla sinistra marxista. L’assenza di grandi movimenti sociali e l’impressione generale di stagnazione, incisero non poco nello scoramento che rapidamente la pervase. Bisognava agire come partito o come frazione? Questi problemi erano dibattuti al suo interno senza esito, allorché era evidente che unicamente un lavoro come frazione – seppur escluso dall’Opposizione – avrebbe permesso di approcciare i problemi della degenerazione centrista e di elaborare le posizioni che avrebbero consentito, al momento del tradimento del centrismo, di evolvere verso la costituzione del nuovo partito. Trockij, dal suo esilio, pose imperativamente i termini del problema ("raddrizzamento dei partiti" contra frazioni di sinistra) e senza attendere una discussione internazionale, senza comprendere le difficoltà inevitabili dell’Opposizione Belga, provocò sulla questione dell’Est Cinese (la ferrovia venduta da Stalin alla Cina) una scissione che disgregò definitivamente l’Opposizione Belga. Quest’ultima si scisse in due tronconi: il primo (la Federazione di Charleroi) creò il gruppo trockijsta ufficiale che sarebbe andato a finire nel Pob, per poi uscirne con elementi della sinistra e costituire il Partito Socialista Rivoluzionario; il secondo diede vita alla Ligue des Communistes Internationalistes de Belgique che vegetò fino al 1932. Nel momento in cui il gruppo trockijsta degenerava, escludeva gli elementi internazionalisti e rompeva con la Sinistra italiana, la Ligue appariva come il solo gruppo classista sopravvissuto.
Nel mentre opponeva all’idea reazionaria del "raddrizzamento" l’idea confusa di "nuovi partiti", la Ligue ammetteva tuttavia che non esistevano le condizioni storiche e la preparazione ideologica per costituirli. D’altra parte, riguardo a "democrazia e fascismo", sul piano dei princìpi, dava una risposta soddisfacente (benché oggi l’abbia rivista per appoggiare i repubblicani spagnoli) e non riteneva possibile accontentarsi dei "primi quattro Congressi dell’Internazionale Comunista".
La sua collaborazione con la Frazione Italiana, che ne determinava un allargamento della base di lavoro, e l’arrivo di nuovi elementi rimasti in posizione di attesa o provenienti dal gruppo trockijsta, avrebbero determinato un’atmosfera di discussione in cui erano affrontati i problemi essenziali del movimento comunista, tanto sul piano internazionale che su quello specificamente belga. Nel corso di queste discussioni, che avevano per oggetto l’evoluzione della Russia e la nuova situazione internazionale e belga, apparvero delle divergenze che si cristallizzarono poco a poco in due correnti che trovavano ancora, comunque, una base comune di lavoro. Le divergenze vertevano sulla Russia, sul problema della guerra (guerra d’Abissinia), sulla democrazia (plebiscito della Saar), sulle elezioni, sulla sinistra socialista e, infine, sul problema del partito e sul processo della sua formazione in Belgio, e furono esposte nel "Bulletin" della Ligue e nei "Cahiers" (soprattutto in "Bilan").
Al termine di questa evoluzione, gli avvenimenti spagnoli misero le due correnti di fronte alla necessità di dare un’espressione politica alle loro divergenze e si manifestò un’opposizione di principio. Il problema dello Stato e del Partito vedeva sorgere due posizioni contrapposte, di cui una conduceva alla guerra imperialista e l’altra alla lotta per la rivoluzione proletaria. La scissione s’imponeva ed ebbe luogo.
Nel processo di evoluzione della corrente che avrebbe formato la Frazione belga, la Frazione italiana intervenne attivamente, ma in quanto acceleratore di una tendenza classista in via di definizione e come sostegno internazionalista del proletariato italiano al proletariato belga trascinato nell’appoggio alla guerra imperialista.
Se, dunque, dal punto di vista formale, non c’è legame storico tra la Frazione Belga e il primo nucleo comunista che formò il partito, in realtà, tale legame esiste dal punto di vista dell’evoluzione storica del proletariato belga, giacché la Frazione attuale non è che il compimento dello sforzo realizzato dal proletariato in tutti i Paesi dopo il 1917: la creazione delle basi del partito di classe.
Il n. 1 di "Communisme", organo mensile della Frazione Belga, ha pubblicato una sua dichiarazione, punto di partenza per l’elaborazione della sua piattaforma, che s’ispira agli stessi princìpi della Frazione Italiana. Nei suoi bollettini, ha già pubblicato una serie di risoluzioni sui problemi centrali della situazione attuale e al suo interno la discussione prosegue su di un insieme di problemi che analizzeremo nel nostro prossimo numero.
* "Octobre", organo mensile del Bureau International des Fractions de la Gauche Communiste, n. 1, febbraio 1938. Sulla storia delle Frazioni belga e italiana della Sinistra comunista, si veda [Philippe Bourrinet], La sinistra comunista italiana. 1927-1952, CCI, 1984.

5 gennaio 2011

Alcuni documenti sulla Fiat di Pomigliano

2008-2010


Non siamo servi!

Non siamo servi!, ha detto un operaio di Pomigliano, ma è proprio quello il senso del “Piano Marchionne”: trasformare i lavoratori salariati in servi. Le clausole imposte dalla FIAT sono micidiali: passaggio dai 15 ai 18 turni, sabato lavorativo obbligatorio (si lavorerà quindi su 6 giorni anziché 5, turno notturno obbligatorio); aumento delle ore di straordinario obbligatorie annuali (da 40 a 120!); spostamento della pausa mensa a fine turno; riduzione della pausa sulle linee meccanizzate da 40 a 30 minuti; recupero delle fermate tecniche; introduzione del sistema Ergo-Uas che punta a tagliare i tempi morti e ad aumentare la “saturazione” della forza-lavoro; incremento dei ritmi produttivi per ogni lavoratore del 30%; taglio di 500 operai (attraverso la mobilità) che si aggiungono ai precari ai quali non è stato rinnovato il contratto; stretta sui permessi, non pagamento dell’integrazione all’indennità di malattia Inps per assenze giudicate “anomale”; divieto di sciopero in casi “particolari” e sanzioni per i lavoratori che violano i punti dell’accordo, fino al licenziamento. E’ un accordo infame, che impone il ritorno a condizioni di lavoro “ottocentesche” o tipiche del lavoro nero, dove il padrone può fare tutto ciò che vuole; un “Piano” che farà da apripista a tutto il padronato.

[...]

La FIOM ha detto no al piano Marchionne. Ma è un “no” solo apparentemente netto, visto che è disposta ad accettare l’impostazione generale del piano e i 18 turni. Perché accettare — in ogni caso — un peggioramento delle condizioni degli operai? Perché non pensare anche alle condizioni dei precari licenziati, dei lavoratori dell’indotto e del futuro degli operai polacchi? Perché non proclamare uno sciopero generale almeno del settore metalmeccanico per il 22 [giugno 2010], giorno del referendum, convogliando una manifestazione nazionale davanti ai cancelli della FIAT. Sarebbe stato, se non altro, un segnale forte, per non lasciare soli Pomigliano e l’indotto. Sappiamo bene, però, che la FIOM non farà mai cose del genere, perché anche la FIOM accetta le compatibilità “del Paese”, cioè del profitto padronale. Ma sono proprio quelle compatibilità che i lavoratori devono scavalcare; per questo, una lotta vera non verrà dai sindacati. Le vere lotte possono emergere solo se i lavoratori, direttamente, troveranno la forza di organizzarle, andando oltre il sindacato. Fin da subito la Fiat ha detto: prendere o lasciare, accettate il piano o si chiude lo stabilimento. Non c’è margine per mediare! Non c’è quindi spazio per un sindacato, organismo di mediazione. La vera lotta non può essere delegata o rappresentata da nessun sindacato. La nostra difesa passa attraverso la lotta, quella vera, e passa quindi attraverso protagonismo diretto di noi lavoratori.

Gli operai di Pomigliano sono stati di esempio quando, nel 2008, lottarono contro l’esternalizzazione di alcuni lavoratori al reparto confino di Nola [vedi oltre]. Il punto di forza di quella lotta furono proprio la messa da parte delle bandiere sindacali, la creazione di un comitato di lotta e uno sciopero ad oltranza gestito dalle assemblee operaie fuori la fabbrica. È da quella esperienza che bisogna ripartire.

Invitiamo innanzitutto gli operai più combattivi di Pomigliano e Nola ad abbandonare le residue speranze nel sindacato, a dare vita ad un organismo di lotta proprio dei lavoratori, che svolga un lavoro di organizzazione e agitazione tra tutti gli altri lavoratori. Un punto di partenza, che punti ad una lotta estesa anche all’indotto e gestita dalle assemblee operaie. Noi, come in passato, lotteremo assieme a voi.

Lavoratori del P.C.Internazionalista — Battaglia comunista

* * *

Aprile 2008: una lotta operaia censurata


Alle origini del "piano Marchionne"

A metà aprile [2008], in pieno clima elettorale, 316 operai della Fiat di Pomigliano d’Arco (Napoli) vengono, di fatto, esternalizzati e trasferiti nel nuovo stabilimento di Nola.

Ma i 316, insieme agli altri operai dello stabilimento non ci stanno e bloccano per 2 giorni l’entrata e l’uscita merci!

La reazione padronale e’ immediata e feroce.

Ripetute cariche della polizia per rimuovere i blocchi operai, ed elicotteri per tirare fuori le merci intrappolate dai blocchi.

I sindacati, da quelli venduti e di regime (Fiom, Fim, Uilm, Fismic) a quelli di base (Slai Cobas, Fmlu, Cub) sono compatti nel frenare lo slancio e la rabbia degli operai che chiedono il blocco ad oltranza, che rifiutano la trattativa e non ci stanno ad ingoiare l’ennesimo boccone di merda impacchettato da confetto! [Vedi oltre]

Esternalizzazioni e trasferimenti sono l’anticamera dei licenziamenti.

A Pomigliano lo sanno tutti, ma i sindacati fingono di cercare un’impossibile intesa — che l’azienda fiat rifiuta a suon di manganellate — ed iniziano a litigare tra di loro e nessuno indice più scioperi!

Solo un gruppo di operai continua a lottare fino a che i trasferimenti non saranno definitivi.

Nel vergognoso silenzio di tv e giornali, occupati a fare le sirene di vincitori e vinti della campagna elettorale, gli operai di Pomigliano (inizialmente tutti e poi solo un gruppo più deciso e consapevole) hanno lottato da soli contro il gigante Fiat, che ha potuto utilizzare la polizia di stato per i suoi interessi privati.

La battaglia è stata persa ma i morsi della crisi fanno sentire le prime avvisaglie della guerra di classe.

Ancora una volta, come i tramvieri a fine 2003, come gli operai Fiat di Melfi nel 2004, come gli operatori del call center di Atesia fino al 2007, dei lavoratori hanno trovato la forza di lottare a viso aperto contro i padroni, senza i sindacati,  che sono ormai solo un ingombrante freno alle lotte operaie!

Hanno lottato ma hanno perso, perchè quasi nessuno in ambito operaio ha saputo in tempo reale della loro lotta, nessun sindacato ha posto la questione a livello nazionale, non c’è stata, ancora una volta, la sperata solidarietà di classe. [...]


* * *

Aprile 2008: battuta d'arresto alle mobilitazioni di Pomigliano
 
Ieri (23 aprile) assemblea al primo e secondo turno, la presenza complessiva è stata inferiore alle 1000 unità. I sindacati non hanno affisso in fabbrica nemmeno i comunicati, al fine boicottare questa assemblea.
 
All'assemblea hanno fatto di tutto per dividere ulteriormente gli operai continuando a 1) sostenere che gli operai hanno paurta di lottare, gli unici a lottare sarebbero i delegati e i sindacalisti etc.; 2) non proponendo nessuna iniziativa pratica di mobilitazione (sempre con la scusa che gli operai non vogliono perdere salario etc.); 3) tutti i sindacati di base e non sono allineati con questa posizione: lo Slai cobas boicotta le iniziative di lotta portando avanti la vertenza legale e basta; Rdb, Flmu, Cub continuano a prendere tempo. Tutti questi sindacati, da quando è iniziata la lotta NON HANNO PROCLAMATO NEMMENO UN'ORA DI SCIOPERO. Questo è il dato reale e concreto. l'unico. Hanno fatto solo una cosa, fin dall'inizio: SEMINARE DIVISIONI, PAURA E DEMORALIZZAZIONE.
 
La loro più grande preoccupazione è stata: a) eliminare il comitato operaio spontaneo rimettendo le bandiere sindacali (e rilanciando quindi la divisione tra parrocchie all'interno del corpo operaio); non è un caso, infatti, che la forza operaia sia stata rotta proprio il giorno in cui le merdose bandiere sindacali sono riapparse, spezzando l'unità operaia e permettendo agli sbirri di fare il loro sporco lavoro; b) far togliere i picchetti quanto prima e prendere tempo. L'unica presenza classista è quella del gruppo operaio che utilizza il cobas come copertura/strumento, pur non riconoscendosi nella sua linea sindacale.
 
Sono questi gli unici ad aver continuato a proclamare sciopero su sciopero, garantendo la copertura sindacale a chi aderiva. La frammentazione condotta dal sindacato, però ha fatto il suo gioco. Ai cancelli non c'è stata la forza sufficiente per dare il via alla nuova tornata di lotte. Mentre stamattina alle 4.30, 2 camionette con 20 celerini ognuna erano pronte ai cancelli per intimidire i lavoratori ed intervenire in caso di blocchi. Nonostante una guerra impari ed in isolamento, questi operai più combattivi stanno, di fatto, superando le logiche parrocchiali e di delega del sindacato. Una nuova generazione di militanti operai sta crescendo. A loro tutta la nostra solidarietà, appoggio, stima.
 
Contro le divisioni ed i tatticismi sindacali, per un nuovo movimento operaio.
 
Mentre già si dice che una volta (il 5 maggio!!!) che questi operai saranno a Nola partiranno altre 400 lettere per una nuova esternalizzazione, i sindacati non trovano di meglio da fare che convocare una nuova assemblea per stabilire un nuovo percorso di lotta. Lunedì... tutti crediamo che faranno saltare anche questa nuova assemblea, facendo passare tempo senza indire lotte, fino al fatidico 5 maggio.
 
La nostra posizione è una ed univoca: le assemblee devono essere partecipate e gestite dai lavoratori in quanto tali, non da sindacati e sindacalisti. Bisogna recuperare lo spirito del comitato operaio – senza bandiere sindacali – che ha dato vita al grande sciopero (100%) del 10 e 11 aprile ed al successivo blocco delle merci; bisogna formare su saldi principi classisti ed internazionalisti questa nuova generazione di militanti operai.