Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

* * *

«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

* * *

«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

17 dicembre 2009

Brucino il fascismo, l'antifascismo democratico e tutte le ideologie...



Sia detto una volta per tutte: il nemico che combattiamo non si compone di individui  in carne e ossa – i quali ne costituiscono tutt’al più il vettore. Sia esso uno sbirro, un nazista, un padrone o un uomo di Stato, a repellerci in un individuo di tal fatta è la sua funzione sociale, la putrida ideologia di cui è portatore e attraverso la quale si conferma nel proprio ruolo. Ciò che combattiamo è piuttosto un insieme di relazioni sociali alienate che informano di sé, tendenzialmente, l’intera umanità.

Il vero nemico contro cui ci scagliamo, è la dittatura anonima del Capitale ormai definitivamente autonomizzato – poiché questo orrendo presente è intessuto, in primo luogo, dell’impersonalità di meccanismi economico-sociali che estendono il loro dominio a ogni ambito della vita, colonizzando corpi, relazioni e la (quasi) totalità dell'attività umana.  

Nessun pacifismo! Nessuna retorica “buonista”! Ma al contempo una critica serrata di qualsivoglia violenza dettata e pervertita dall’ideologia. La violenza è “umana” quando nasce, in modo consapevole, da un desiderio “strutturalmente” frustrato; quando è alimentata da quella rabbia che sorge ineluttabile dalla “fame” – di comunità, di senso, di un oggetto materiale: una rabbia dagli occhi bene aperti, che sa individuare lucidamente il proprio bersaglio, dirigendosi contro gli ostacoli che le impediscono il godimento; e limitandosi a rimuoverli. Altrimenti, la violenza rischia di diventare omologa a quella del potere.

Lo Stato – democratico, fascista o “socialista” –, da semplice “comitato d'affari della borghesia” e detentore del monopolio dell'uso della forza, dopo la Prima guerra mondiale è diventato, per definizione, entità totalitaria, come conseguenza della riorganizzazione della società sotto il segno del “dominio reale” del Capitale.

Oggi non esiste alcun “pericolo fascista”. Il fascismo, in quanto fenomeno storico, ha esaurito il proprio compito da tempo, traghettando lo Stato dalla sua fase liberale a quella dell'odierna democrazia totalitaria, là dove, per le loro peculiari caratteristiche, il Capitale e la borghesia nazionali abbisognavano dei suoi servigi (nella fattispecie, in Italia e Germania, dove negli anni Venti del secolo scorso l'assalto al cielo del proletariato rivoluzionario – in entrambi i casi represso nel sangue da governi democratici e “di sinistra” – aveva scosso non poco gli assetti politici e sociali).

Non vi è alcuna “svolta autoritaria” che incombe. La svolta autoritaria, in tutti i paesi a capitalismo avanzato, è stata già attuata diversi decenni or sono, e continua ad attuarsi non tanto sul terreno delle forme statuali, quanto nella sfera dei rapporti sociali, che assumono, di giorno in giorno, un carattere viepiù costrittivo.

Non fa alcuna differenza che ciascuno possa esprimere “liberamente” (entro certi limiti) le proprie opinioni: le “opinioni” non sono che idee separate dall'azione, e in quanto tali non hanno alcuna possibilità di incidere sul reale. (Si aggiunga che gli individui proletari, a causa delle molteplici mediazioni alienate che li rendono sempre più atomizzati e isolati – non ultime le tecnologie informatiche che hanno invaso le nostre esistenze –, sono privati in misura crescente degli strumenti che potrebbero consentire loro di colmare questo iato: in primo luogo l’azione collettiva autonoma).

Non fa alcuna differenza che ogni cittadino-suddito possa “liberamente” partecipare alla farsa elettorale, e altrettanto liberamente “scegliere” i battilocchi i quali – indipendentemente dal colore politico, dallo stile personale, e dalle  loro stesse illusioni (quelle che Marx ed Engels riunivano sotto la categoria di “cretinismo parlamentare”) – non potranno far altro che obbedire ciecamente agli “ordini” del moloch capitalistico, docili burattini nelle mani del processo di valorizzazione. Qualunque intensificazione della repressione, qualunque limitazione o sospensione delle “garanzie democratiche” legata alle contingenze, non modifica nella loro essenza la natura e la forma dello Stato.

Non solo non ha senso definire “fascista” ogni forma di repressione, ogni ideologia o comportamento razzista, xenofobo, sessista etc., con il quale siamo costretti a confrontarci, credendo in tal modo di conferire loro un’aura di negatività ancor più nauseabonda, e di poterli di conseguenza combattere più efficacemente. Ma è addirittura pericoloso, poiché ci impedisce di leggere correttamente la realtà, e di vedere come certe ideologie – e i relativi comportamenti – siano perfettamente compatibili con la democrazia, in quanto sono il prodotto non di una specifica forma politica, ma del Capitale stesso (il quale, avendoli in parte ereditati dalle  formazioni sociali precedenti, li ha funzionalizzati al proprio dominio). Questo errore di prospettiva rischia di condurci – se non nelle parole nei fatti – sul terreno dell’antifascismo democratico, del “frontismo”, della difesa delle istituzioni repubblicane etc. Su questo terreno, già troppe tragedie storiche si sono consumate, perché si possa ricadere nuovamente nei medesimi errori…

“Perfino il fascismo immondo è una volontà di vivere negata, ritorta, come la carne di una unghia incarnata, una volontà di vivere divenuta volontà di potenza, una volontà di potenza divenuta volontà di obbedienza passiva, una volontà di obbedienza passiva divenuta volontà di morte. Perché cedere di un pollice sul qualitativo è cedere sulla totalità di esso. Bruciare il fascismo e sia, ma che la stessa fiamma dia fuoco alle ideologie senza eccezione e ai loro valletti.” (Raoul Vaneigem)

24 settembre 2009

Maggio 1937. Piombo, mitraglia, prigione



[Estratti da «Bilan», n.41, maggio-giugno 1937. «Bilan» era il bollettino pubblicato, in Francia e in Belgio, dalla Frazione italiana della Sinistra comunista internazionale, usualmente, ma scorrettamente, indicata col termine “bordighista”. Al di là dei riferimenti al "partito di classe" quale presupposto indispensabile della rivoluzione comunista, l'analisi di questi compagni ci sembra lucida e ineccepibile nel suo nucleo centrale: la denuncia della falsa opposizione fascismo-democrazia quale strumento atto a disarmare  ideologicamente e militarmente i proletari dinnanzi al loro nemico di classe, convogliandone le energie rivoluzionarie nello scontro militare tra opposti campi imperialisti e preparando, così, massacri come quello del maggio 1937, a Barcellona (massacro in cui le responsabilità della CNT e del POUM - data la loro internità alla logica frontista - non possono essere taciute). A questo proposito, riportiamo un brano tratto dallo stesso numero di «Bilan»: « Il proletariato di tutto il mondo saluta in Berneri uno dei suoi, e il suo sacrificio all’ideale anarchico è ancora una protesta contro una scuola politica che è sprofondata nel corso degli avvenimenti spagnoli: è sotto la direzione di un governo a partecipazione anarchica che la polizia ha ripetuto sul corpo di Berneri l’impresa di Mussolini sul corpo di Matteotti!»]

PIOMBO, MITRAGLIA, PRIGIONE. COSI’ RISPONDE IL FRONTE POPOLARE AGLI OPERAI DI BARCELLONA CHE OSANO RESISTERE ALL’ATTACCO CAPITALISTA

Proletari!

[…]

Il 19 luglio, i proletari di Barcellona sono una forza invincibile. La loro lotta di classe, libera da legami con lo stato borghese, si ripercuote nel seno dei reggimenti di Franco, li disgrega e risveglia nei soldati l’istinto di classe: è lo sciopero che arresta i fucili e i cannoni di Franco e rompe la sua offensiva.

La storia non registra che intervalli fuggitivi nel corso dei quali il proletariato può acquistare la sua completa autonomia di fronte allo stato capitalista. Qualche giorno dopo il 19 luglio il proletariato catalano arriva al crocevia: o entra nella fase superiore della sua lotta per la distruzione dello stato borghese o il capitalismo ricostituisce le maglie del suo apparato di dominio. A questo stadio della lotta, quando l’istinto di classe non è più sufficiente e quando la coscienza diventa il fattore decisivo, il proletariato non può vincere se non dispone del capitale teorico accumulato con pazienza e accanimento dalle sue frazioni di sinistra erette in partito sotto l’incalzare degli avvenimenti. Se oggi il proletariato spagnolo vive una tragedia così cupa, ciò è dovuto alla sua immaturità nel forgiare il suo partito di classe: il cervello che, solo, può dargli forza vitale.

In Catalogna, dal 19 luglio, gli operai creano spontaneamente, sul proprio terreno di classe, gli organi autonomi della loro lotta. Ma subito sorge l’angosciante dilemma: o ingaggiare a fondo la battaglia politica per la distruzione dello stato capitalista e ultimare così i successi economici e militari, o lasciare in piedi l’apparato oppressivo del nemico e permettergli allora di snaturare e di liquidare le conquiste operaie.

Le classi lottano con i mezzi che sono loro imposti dalle situazioni e dal grado di tensione sociale. Di fronte al divampare della lotta di classe, il capitalismo non può pensare di ricorrere ai metodi classici della legalità. Ciò che lo minaccia è l’indipendenza della lotta proletaria che condiziona l’altra tappa rivoluzionaria verso l’abolizione del dominio borghese. Il capitalismo deve dunque rinnovare le fila del suo controllo sugli sfruttati. Queste fila che prima erano la magistratura, la polizia, le prigioni, divengono nella situazione estrema di Barcellona i Comitati delle milizie, le industrie socializzate, i sindacati operai che gestiscono i settori fondamentali dell’economia, le pattuglie di vigilanza, ecc.

Così nella Spagna, la Storia ripropone il problema che, in Italia e in Germania, è stato risolto con l’annientamento del proletariato: gli operai mantengono per la propria classe gli strumenti che essi stessi creano nel fuoco della lotta finché li dirigono contro lo stato borghese. Gli operai armano i loro boia di domani se, non avendo la forza di abbattere il nemico, si lasciano ancora attirare nelle insidie del suo dominio. La milizia operaia del 19 luglio è un organismo proletario. La “milizia proletaria” della settimana seguente è un organismo capitalista appropriato alla situazione del momento. E, per realizzare il suo piano controrivoluzionario, la borghesia può fare appello ai centristi, ai socialisti, alla C.N.T., alla FAI, al POUM che, tutti, fanno credere agli operai che lo stato cambia natura quando il personale che lo gestisce cambia colore. Dissimulato tra le pieghe della bandiera rossa il capitalismo affila pazientemente la spada della repressione che, il 4 maggio, è preparata da tutte le forze che, il 19 luglio, avevano spezzato la spina dorsale di classe del proletariato spagnolo. Il figlio di Noske (1) e della Costituzione di Weimar è Hitler, il figlio di Giolitti e del “controllo della produzione” è Mussolini; il figlio del Fronte antifascista spagnolo, delle “socializzazioni”, delle “milizie proletarie” è la carneficina di Barcellona del 4 maggio 1937.

Solo il proletariato russo rispose alla caduta dello zarismo con l’Ottobre 1917 perché, solo, esso giunse a costruire il suo partito di classe attraverso il lavoro delle frazioni di sinistra.

Proletari!

È al riparo di un governo di Fronte Popolare che Franco ha potuto preparare il suo attacco. È sulla via della conciliazione che Barrios ha provato, il 19 luglio, a formare un ministero unico che potesse realizzare il programma del capitalismo spagnolo, sia sotto la direzione di Franco, sia sotto la direzione mista della destra e della sinistra unite fraternamente. Ma è la rivolta operaia di Barcellona, di Madrid, delle Asturie che obbliga il capitalismo a sdoppiare il suo ministero, a dividere le sue funzioni tra l’agente repubblicano e l’agente militare, legati da una indissolubile solidarietà di classe.

Dove Franco non è riuscito a imporre subito la sua vittoria, il capitalismo chiama gli operai a seguirlo per “sconfiggere il fascismo”. Sanguinoso tranello che essi hanno pagato con migliaia di cadaveri per aver creduto di potere, sotto la direzione del governo repubblicano, annientare il figlio legittimo del capitalismo: il fascismo. Ed essi sono partiti per le colline d’Aragona, per le montagne di Guadaramma, delle Asturie, per la vittoria della guerra antifascista.

Ancora una volta, come nel 1914, è con l’ecatombe del proletariato che la Storia sottolinea sanguinosamente l’irriducibile opposizione tra borghesia e proletariato.

I fronti militari: una necessità imposta dalla situazione? No! Una necessità del capitalismo per accerchiare e sconfiggere gli operai! Il 4 maggio 1937 dimostra chiaramente che dopo il 19 luglio il proletariato doveva combattere tanto contro Companys e Giral quanto contro Franco. I fronti militari non potevano che scavare la fossa agli operai perché rappresentavano il fronte della guerra del capitalismo contro il proletariato. A questa guerra i proletari spagnoli – sull’esempio dei loro fratelli russi del 1917 – non potevano rispondere che sviluppando il disfattismo rivoluzionario in entrambi i campi della borghesia: tanto il repubblicano come il “fascista”, e trasformando la guerra capitalista in guerra civile per la totale distruzione della stato borghese.

La frazione italiana di sinistra è stata sostenuta, nel suo tragico isolamento, solo dalla solidarietà della corrente della Ligue des Comunistes Internationalistes de Belgique che fonda ora la Frazione Belga della sinistra comunista internazionale. Soltanto queste due correnti hanno dato l’allarme quando, dappertutto, si proclamava la necessità di salvaguardare le conquiste della rivoluzione, di battere Franco per sconfiggere meglio in seguito Caballero.

Gli ultimi avvenimenti di Barcellona confermano tragicamente la nostra tesi iniziale e mostrano che è con una crudeltà che uguaglia quella di Franco che il Fronte Popolare, appoggiato da anarchici e POUM, si è gettato sugli operai insorti del 4 maggio.

[…]

“Armi per la Spagna”: questa è stata la parola d’ordine centrale che è risuonata nelle orecchie dei proletari. E queste armi hanno sparato sui loro fratelli di Barcellona. Anche la Russia sovietica, cooperando nell’armamento della guerra antifascista, ha rappresentato un’ossatura capitalista per il recente carnaio. Agli ordini di Satin – che mette in mostra la sua rabbia anticomunista – il 3 marzo il P.S.U.C. (3) di Catalogna prende l’iniziativa del massacro.

Ancora una volta, come nel 1914, gli operai si servono delle armi per uccidersi fra invece di usarle per la distruzione del regime di oppressione capitalista.

Note:

(1)  Noske, Gustav (1868-1946), uno dei capi opportunisti del Partito socialdemocratico tedesco. Negli anni 1919-1920,ministro della guerra; organizzò le rappresaglie contro gli operai di Berlino e l’assassinio di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg.

(2) In Catalogna il PC, la Federazione socialista, l’Unione Socialista ed il Partito Catalano Proletario si erano fusi, alla vigilia della guerra in una sola organizzazione, il Partito Socialista Unificato di Catalogna, in nome delle particolarità regionali.

2 settembre 2009

Gli esperimenti della scienza

di André Dréan


[Tratto da Guerra Sociale; i titoli dei paragrafi sono a cura della redazione] 

1. I padri fondatori: la scienza e il capitalismo nascente

Nella storia delle società e degli Stati, ci sono dei miti fondatori. Verità incontestabili, almeno per l’essenziale, la loro funzione è sempre quella di giustificare il modo di dominio in atto e di soffocare sul nascere i tentativi embrionali di rimetterlo in discussione allorquando esso comincia ad apparire per ciò che è. Accade lo stesso per i miti fondatori della scienza. Di fronte al cumulo di catastrofi e di scandali in cui è coinvolto, il corpo degli scienziati ha ancora l’impudenza di sostenere che si tratta solo di errori, nient’altro che errori, imputabili ad alcuni ricercatori irresponsabili, a politici corrotti o a militari pazzi furiosi. Ma la scienza in quanto tale non avrebbe nulla a che vedere con simili orrori. Ormai la fauna dei riformatori e dei moralisti, ricercatori ancora in attività o già in pensione, si fa avanti. Costoro si servono di ogni mezzo pubblicitario e mediatico messo a loro disposizione dallo Stato per rendere la scienza più presentabile agli occhi dei disillusi. A loro dire, basterebbe che essa riacquistasse quello spirito che aveva — così sembra — in origine, per tornare sulla strada giusta. Non ci sembra quindi inutile ripercorrere un po’ questa genesi immaginaria.
Per la storia ufficiale, l’avanzata decisiva della scienza, verso la fine del Rinascimento, fu opera di personalità fuori dal comune, solitarie, integre e disinteressate, perseguitate dalla Chiesa e pronte al sacrificio supremo pur di far trionfare la propria causa: dissipare le tenebre dell’oscurantismo, rischiarare coi lumi della conoscenza della natura il cammino dell’umanità per farla progredire verso la conquista della felicità.
Ma, lungi dall’essere intrepidi rivoluzionari, i padri fondatori della scienza erano di regola riformatori freddolosi, ecclesiastici convinti, proprietari terrieri e borghesi, insomma delle bestie di potere, come Francis Bacon, cancelliere d’Inghilterra e principale ideologo della scienza sperimentale. Erano anche ostili alla radicale rimessa in causa della religione: Bacon fece espellere Giordano Bruno dall’università di Londra con l’accusa di eresia. In compenso, tutti rimproveravano alla Chiesa di prendere posizione su argomenti che non la riguardavano. I teologi non dovevano più essere i censori dei ricercatori in scienza naturali: «Bisogna ridare alla fede ciò che è della fede, alla scienza ciò che è della scienza»(1). La separazione del divino e del profano era all’ordine del giorno. L’emancipazione della scienza rispetto alla teologia andava di pari passo con l’emancipazione della borghesia rispetto all’aristocrazia e alla Chiesa romana, in particolare in Inghilterra, culla dell’accumulazione capitalista. Malgrado gli anatemi della Chiesa, il riconoscimento della scienza da parte dello Stato fu ben presto acquisito. Gli Stati assolutisti, prototipi degli Stati nazionali odierni, erano impegnati in guerre per il controllo del mercato mondiale in corso di costituzione e per la spartizione delle colonie. Erano ansiosi di consolidare la propria base manifatturiera, civile e militare. Da cui la fondazione, nel corso del Grande secolo, delle accademie reali delle scienze, poste sotto la tutela dei monarchi, ma anche di accademie parallele, finanziate dalle compagnie bancarie e commerciali che avevano il monopolio degli scambi con le colonie. Gli accademici erano pensionati dello Stato e a volte salariati di imprenditori, banchieri e commercianti. I luminari accademici poterono così acquisire notorietà e lucrosi introiti per effettuare, all’ombra del dispotismo, le loro care ricerche.
Isaac Newton, simbolo della scienza dell’epoca, presidente dell’accademia reale d’Inghilterra, fu anche uno dei principali azionisti e amministratori della Compagnia inglese delle Indie orientali e della futura banca d’Inghilterra. Il credito della scienza andava di pari passo con lo sviluppo del credito stesso. L’autonomia di pensiero nei confronti della Chiesa romana era stata la grande rivendicazione dei padri fondatori. Nel loro spirito, il dispotismo illuminato dello Stato doveva proteggerli dalle persecuzioni della Chiesa. Ma i monarchi e i cavalieri dell’industria, della banca e del commercio non si limitavano a finanziare gli accademici. Intervenivano nelle loro discussioni e nelle loro scelte. L’intervento dello Stato diventò ancora più sistematico, in particolare in Francia durante il regno del "Re Sole". I ministri del re francese, nei decenni che precedettero la Rivoluzione, proibirono addirittura agli accademici di continuare a studiare la fisica nel senso di Aristotele, santificato da Roma come il maestro della meccanica. La fisica di Newton aveva già preso piede ed era riconosciuta come il modello della scienza sperimentale.
Lo Stato stimolò lo sviluppo delle scienze indispensabili all’accumulazione del capitale e all’accrescimento della potenza sovrana. Così, la botanica assunse importanza in relazione all’estensione delle piantagioni poste sotto il controllo delle diverse compagnie delle Indie. I giardini botanici che queste finanziavano nella madrepatria erano laboratori dove i naturalisti studiavano le possibilità di aumentare il rendimento delle coltivazioni esotiche nelle colonie.

2. Sul concetto di "natura": leggi naturali e leggi del capitale

Secondo gli ideologi della scienza, il concetto di “natura” aveva una funzione ben precisa: la religione aveva regnato nel nome di Dio, la scienza si apprestava a farlo nel nome della Natura.
Strana natura, del resto, quella che si presumeva essi rappresentassero. Reificata, non aveva più nulla a che vedere con la natura interpretata dai migliori critici del cristianesimo — come Giordano Bruno —, malgrado i loro limiti panteisti: natura creatrice, sorgente di vita, che non esisteva se non attraverso la moltitudine delle cose e degli esseri transitori da cui era composta. Trasformata da forze dinamiche e contraddittorie, l’evoluzione della natura non si riassumeva nella perpetua ripetizione degli stessi fenomeni, anche quando questi presentavano, nel corso del loro movimento nello spazio e nel tempo, considerevoli regolarità.
Per Giordano Bruno, la nozione di creatività, in senso profano e non divino, implicava che ci fossero state e che ancora ci sarebbero state creazioni, sparizioni e trasformazioni spontanee impreviste nella natura, e che l’insieme delle evoluzioni, delle mutazioni e delle regressioni non è dato in anticipo e non è prevedibile. V’era qualcosa di inafferrabile, di indicibile e di impensabile nella natura a meno di immaginare che l’umanità, su immagine di Dio, fosse il vero demiurgo dell’universo. Di più, egli non si accontentò di riconoscere l’importanza delle connessioni e delle correlazioni tra l’umanità e la natura, intesa come l’ambiente indispensabile alla vita umana. Gli umani stessi costituivano una manifestazione della potenza creatrice della natura. Essi ne facevano parte pur differenziandosi grazie alle loro facoltà particolari, di cui egli poneva in primo piano la sensibilità e il pensiero.
L’idea che la natura potesse essere creatrice non piaceva alla scienza. La natura doveva essere muta e, quando non lo era, gli scienziati non esitavano a zittirla: «La sola speranza del progresso risiede nel riassetto della scienza e l’inizio di questo riassetto deve prendere in considerazione la totalità della storia naturale, ma è di un genere inedito. Poiché ciò che reclama l’intelletto è la preparazione della cosa appropriata ed è per questo che noi ci interessiamo molto poco alla storia di una natura libera e slegata nell’opera e nel corso spontanei che le sono propri. Noi ci preoccupiamo della storia di una natura frenata e tormentata, come diventa quando lo sforzo e l’arte del mortale la strappano dal proprio stato, la spingono e la forgiano. Non ci curiamo dell’orgoglio e del prestigio della cosa e la natura ci appare più attraverso i tormenti e i ferri dell’arte che nella propria libertà»(2).
«Sapere è potere»(3): Bacon, col cinismo dell’uomo di Stato, ha avuto per lo meno il merito di dichiarare il colore. La formula lapidaria tranciava alla radice la pretesa innocenza della scienza, distinta dai bisogni del capitale, motivata dalla ricerca della conoscenza per il piacere della conoscenza della natura. Lo zoccolo su cui poggiava la scienza era il processo storico della separazione fra la natura e la società fondata sullo sfruttamento e sul dominio, il processo d’appropriazione della natura attraverso il lavoro, in procinto di assumere dimensioni sconosciute fino a quel momento con l’apparizione del lavoro salariato e degli strumenti necessari alla valorizzazione del capitale. Nell’ottica degli ideologi della scienza, la natura era sempre stata la sede di forze straniere e ostili all’umanità. Il progresso dell’umanità consisteva nel soggiogarle sempre più al fine di trasformare la natura in un ambiente adeguato alle esigenze della proprietà e dello Stato. E il ruolo che assegnavano alla scienza era di contribuire ad inasprire il processo di addomesticamento per «renderci infine padroni e possessori della totalità della natura»(4). In quanto élite del sapere, essi mettevano ovviamente le loro attività di ricerca ben al di sopra di quelle dei comuni mortali. Ma, a dispetto dei sofisticati mezzi utilizzati, queste restavano comunque un mero lavoro destinato a valorizzare il capitale. È per questo che, fin dagli albori dell’industrializzazione, essi non si preoccuparono tanto di pura ricerca ma cercarono di fondere insieme scienza e tecnologia. I loro strumenti di laboratorio erano già al tempo stesso i modelli e i prototipi di quelli che cominciavano ad essere usati dal capitalismo, in particolare nel campo decisivo della forza motrice.
In seguito, non è affatto sorprendente che essi abbiano assimilato la storia naturale alla storia delle società di classe, in particolare a quella della società capitalista. Quando Bacon affermava che «noi, ministri e interpreti della natura, non possiamo governarla che a condizione di obbedirle»(5), rivelava che, nel mondo rovesciato della scienza, era il capitalismo stesso a rivelarsi Natura, in quanto autorità suprema alla quale tutti dovevano fedeltà. Le pretese leggi naturali erano allora l’immagine delle leggi che idealizzavano le modalità di funzionamento del capitale, guidato dal bisogno di produrre, di investire e reinvestire continuamente i profitti per sopravvivere, anche a rischio di devastare e sterilizzare la natura. In altri termini, esse non esprimevano che la sottomissione della natura alle necessità di accumulazione. Il libro delle meraviglie della natura interpretato dalla scienza assomigliava molto ai prosaici libri contabili della borghesia e dello Stato.

3. Scienza e utopie sociali: l'orrore della contraddizione

Seguendo i padri della fede, quelli della scienza intendevano soggiogare anche gli esseri umani. Essi sapevano d’altronde che la realizzazione dei loro obiettivi dipendeva in ultima analisi dai dannati della Terra. Non pensavano di rovesciare il mondo da soli. In compenso, volevano assicurarsene la direzione. Ecco perché, dalla fine del Rinascimento, cominciarono a tracciare progetti di riorganizzazione della società e dello Stato. Nella società utopica e totalitaria che immagina, "La Nuova Atlantide", Bacon anticipa per molti aspetti lo scientista futuro. Anche se la religione e la morale cristiane continuano ad avere il proprio posto ad Atlantis, l’impero della Ragione è succeduto al regno di Dio sulla Terra. Nessuna autorità senza potere, nessun potere senza sapere, nessun sapere senza la scienza che lo convalidi, questo è il tema centrale dell’utopia di Bacon. Ricchi della loro esperienza nel dominare cose ed esseri, gli scienziati costituiscono il nocciolo della gerarchia. Essi la dirigono e regolano la vita di tutti i giorni, dal laboratorio alla cucina domestica. La città ideale funziona, a immagine degli automi, regolarmente, sotto il controllo dei maestri del sapere. Guidata dalla conoscenza del mondo detenuta dal cenacolo, essa è esente dalle contraddizioni che turbavano fino a quel momento l’armonia della società. Quando queste appaiono, non possono che essere il prodotto di persone inadeguate che rifiutano di mettere le leggi della comunità, fondate sulla scienza, al di sopra delle proprie passioni individuali. Se i perturbatori dell’armonia rifiutano di capire, bisogna saperli neutralizzare. Su immagine della ragion di Stato, la Ragione aveva orrore della contraddizione.
Come si vede, fin dall’inizio gli scienziati hanno avuto l’incredibile pretesa di insegnare al resto dell’umanità a vivere e a morire. Il «comandare obbedendo» rivelava la loro smisurata sete di potere. Nulla è più implacabile degli ideologi che immaginano di detenere infine la chiave della comprensione del mondo. Specchi del mondo, ne sono dunque gli autentici interpreti e il resto dell’universo deve loro obbedienza. Come evidenziava Bakunin, «il loro governo non può che essere crudele, sfruttatore e oppressore»(6).
L’odio per i sensi, per i sogni e per le passioni umane era una delle caratteristiche principali dei teologi. L’adorazione del mondo divino la sola passione che riconoscevano come degna di essere vissuta. Gli scientisti, ostili al sensualismo, fecero altrettanto in nome della conoscenza del mondo profano. Essi sostenevano, come Bacon, che «il nostro spirito non ha bisogno di ali ma di suole di piombo» e combatterono come la peste «i sensi e le passioni che ci ingannano, l’immaginazione e le rappresentazioni fantastiche e superflue che ingombrano il nostro spirito»(7). Lungi dal liberare queste facoltà essenziali della specie umana come la sensibilità, la riflessione, l’immaginazione, essi avevano dunque l’obiettivo di domarle ancor più per adattarle alle necessità del loro idolo.

4. Il pensiero strumentale ovvero la matematizzazione della natura come formalizzazione delle tecniche di riduzione del reale al misurabile (valore)

Secondo loro, il rigore scientifico scaturiva dalla messa in opera del metodo di pensiero induttivo e deduttivo. Considerato come preliminare al processo di formazione dei concetti stessi, esso doveva sbarrare la strada alla vana speculazione e facilitare l’investigazione realista della natura grazie alla cura apportata allo studio dei dettagli fino ad allora trascurati. Ma, all’occorrenza, il «discorso sul metodo» sanzionava il trionfo dell’ideologia strumentalista, il regno del funzionalismo del pensiero, della greve cogitazione formalista, analogica, ripetitiva e incapace di dar prova di spirito critico. Di fronte ad esso, i processi spontanei di formazione delle idee, sia individuali che collettivi, che mettevano in opera l’insieme delle facoltà umane, non avevano più importanza. L’ideale era la matematizzazione della natura.
In effetti, non poteva esserci scienza se non computabile, la quale non avrebbe potuto dirigere il mondo senza calcolo. I sacerdoti avevano il latino, come linguaggio codificato, veicolo del disvelamento dei miti della fede. Gli scienziati ebbero il loro, il linguaggio matematico, come mezzo per tenere aggiornati i propri conti con la natura. Non facevano mistero del carattere riduttivo della matematica, dove la reiterazione fa le veci dell’argomentazione «ma la scienza è l’arte della misura e la misura esiste a questo prezzo. Fuori della comodità del calcolo, tutto sembra troppo ingarbugliato e sottile»(8). Grazie ad essa, poterono infine realizzare la propria ossessione: trasformare il mondo in entità equivalenti, ponderabili, misurabili, calcolabili, quantificabili e formulabili con simboli matematici. Le famose leggi non erano esse stesse che comodi mezzi per mettere in equazione i fenomeni della vita. Non spiegavano nulla ma si rivelavano utili per constatare e calcolare lo stato e l’evoluzione dei sistemi e delle funzioni.

5. Il mito della prova sperimentale: l'esperimento come elaborazione delle tecniche "riduzioniste"

Come potenza aspirante al dominio, la scienza aveva bisogno di martiri. La celebrità di Galileo presso il pubblico illuminato dell’epoca derivò molto più dal processo che gli intentò l’Inquisizione che dalle prove poco attendibili che si riteneva egli portasse per fondare il principio di inerzia, chiave di volta della fisica sperimentale. Ma la martirologia si rivelò nondimeno insufficiente. Da religiosa, la verità doveva diventare scientifica, non rivelata ma provata. Nacque così il mito della prova sperimentale.
L’umanità non aveva atteso la scienza per fare esperienze. Tutti gli esseri umani ne realizzano dalla nascita fino alla morte. Esse sono sempre state parte integrante della vita umana, e anche non umana, da quando questa possiede facoltà come la sensibilità, la memoria e la riflessione, fossero anche in embrione. Secondo lo spirito dei migliori pensatori dell’epoca, come Giordano Bruno, l’esperienza, il sensibile associato al pensato, era una delle fonti principali della conoscenza del mondo ma anche di se stessi.
Pieni di sé, gli ideologi della scienza disprezzavano l’esperienza del senso comune, pur essendo obbligati a tenerne conto nella misura in cui le proprie sperimentazioni apparivano alquanto ermetiche agli occhi delle persone che volevano attrarre, aristocratici e borghesi illuminati. Così, sulla loro bocca l’appello al buon senso aveva la funzione di colpire l’immaginazione degli ingenui abbagliati. Newton avrebbe formulato il principio di gravità grazie alla caduta di alcune mele nel giardino di Oxford. Prova indiscutibile di genio poiché, da quando i meli fiorivano nei giardini inglesi, nessuno aveva avuto l’idea di trarne un simile principio universale. Ma gli imbroglioni hanno scordato di dire che, senza l’accettazione dell’assioma di Galileo sull’inerzia, l’ipotesi di Newton non avrebbe avuto valore.
In realtà, per gli scienziati l’esperienza umana era qualcosa di inferiore e di inessenziale: «Il dominio delle cose volgari, che non può insegnarci nulla sull’intimità della natura»(9). Staccata dalla vita e considerata come superiore ad essa, l’esperienza diventò il loro campo riservato: essa doveva rivelare loro i misteri nascosti della natura, la sostanza invisibile e un po’ immutabile, rannicchiata in seno ai fenomeni visibili e di cui doveva determinare l’evoluzione. Ma, prigionieri dei loro pregiudizi strumentalisti, non riuscirono mai a comprendere in maniera approfondita il mondo che si riteneva essi osservassero in modo imparziale. Essi studiavano, così sembra, la vita, ma le proprietà tanto essenziali alla vita — come la sensibilità — non le incontrarono mai sotto i loro strumenti di misura, se non a titolo di ostacoli da superare. In generale, tutti i fenomeni che non rientravano nel modello fissato dai canoni della sperimentazione erano considerati come annessi. Lo stesso Bacon lo ammise senza fronzoli: «È degna di questo nome, quella concepita e presentata con l’abilità e il rigore dell’arte in vista di ottenere ciò che si ricerca. L’induzione procede per separazione nella sperimentazione e la conclusione necessaria dipende dall’esclusione obbligata. E il necessario, è il misurabile»(10). L’a posteriori verificava l’a priori, a condizione di non esitare a manipolare la manipolazione. Bastava circoscrivere e isolare l’ambito di validità dei test e definire in anticipo ciò che doveva essere frammentato e scartato. In ultima analisi, il criterio di validità dipendeva dalla scelta dei campioni e degli strumenti di misura che permettevano di confermare, correggere o anche infirmare gli assiomi di base, allorquando i test non conducevano alle conseguenze auspicate. Al limite era persino possibile dimostrare grosso modo qualsiasi cosa. Ma in realtà le scelte non vennero mai fatte senza secondi fini. Gli sperimentatori non potevano lasciare l’ideologia alla porta dei loro laboratori. E, aggrappati al loro statuto di corpo privilegiato, era molto raro che non orientassero i propri esperimenti nella direzione determinata dalle esigenze del capitalismo e dello Stato.

 6. La scienza contro la vita

La sperimentazione non ha mai provato altro che il carattere mortifero della scienza. Nell’azione, i ricercatori non dovevano cedere a «nessuna sorta di sensibilità leziosa»(11). Non dovevano esitare a distruggere per conoscere. La cosa non avvenne senza problemi poiché alcuni, anche fra gli accademici poco inclini al sentimentalismo, erano recalcitranti a partecipare al massacro programmato e rabbrividivano di disgusto di fronte alle ignominie perpetrate nelle sale di sperimentazione. L’approccio sperimentale non rivelava l’analisi bensì la dissezione della vita, in senso proprio e in quello figurato, vita recisa, tagliata, smembrata, squartata e mutilata. Le cose e gli esseri sottomessi agli strumenti erano essi stessi strumenti, carne da sperimentazione. Preparati per e dalla sperimentazione, ormai non erano che l’ombra di se stessi. E dopo la scomposizione, arrivava la ricomposizione formale, la creazione di modelli che si riteneva rappresentassero nella loro generalità i fenomeni della vita sottomessa ai test. La scienza sembrava così riportare in vita le cose e gli esseri effimeri e transitori che aveva annientato. Ma simili generalizzazioni abusive non sono mai state altro che estrapolazioni cristallizzate, fantasmi di individualità strappate dal proprio ambiente, dunque private per sempre della loro vita, anche quando palpitavano ancora sotto gli strumenti.
In accordo con l’ideologia umanistica, la scienza aveva posto l’individuo umano in cima alla gerarchia delle specie, al fianco di Dio, poi al posto di Dio. Ecco che sembrava offrire almeno la garanzia che non avrebbe fatto subire alla specie umana ciò che faceva subire alle specie considerate subalterne. Ma, col pretesto di favorire il progresso dell’umanità, non ha esitato a sacrificare degli esseri umani sull’altare della sperimentazione. La fredda passione dello sperimentatore a volte lo spingeva ai peggiori estremi. Bacon, per primo, propose di utilizzare detenuti da sottoporre a tortura per fini sperimentali e, dietro di lui, i Newton, i Lavoisier e altre eminenze accademiche del Grande Secolo e poi dell’epoca dei Lumi. Gli onorevoli membri delle accademie reali uscivano dai propri laboratori per effettuare nella folla, in piena Londra per esempio, alcuni esperimenti di elettricità e di chimica che finivano con lo storpiare dei vagabondi. L’epoca dei Lumi vide manifestarsi la pratica dell’adescamento dei miserabili, generalizzata più tardi dai laboratori, a partire da quello del buon dottor Pasteur. Per qualche soldo, le squadre di procacciatori li trascinavano nelle cantine delle accademie reali, dove gli sperimentatori facevano loro ingurgitare dei preparati che a volte li avvelenavano. Ad eccezione di Diderot, che ne denunciò la disumanità, la cosa non impedì al bel mondo di dormire sonni tranquilli, anche agli enciclopedisti. Considerando di cosa erano capaci gli umanisti delle accademie, non può sorprendere che abbiano costruito senza il minimo scrupolo strumenti di guerra e di tortura.
Non si tratta di trasformare tutti gli uomini di scienza dell’epoca, non più dei loro successori, in mostri assetati di sangue. Tuttavia, la facilità con cui diventavano indifferenti ed anche spietati nell’ambito della loro attività la dice lunga sul carattere disumano della scienza. Che è pragmatica. Contano solo i risultati, e il fine giustifica i mezzi. Di fronte alla Ragione, il principio dell’individualità ostentato dalla scienza non ha mai pesato granché. Principio umanistico astratto, ha sempre mascherato la poca attenzione che accordava agli individui concreti, umani e non umani. Per gli scienziati, gli individui non sono mai stati che abbozzi, non sempre ben compiuti, del prototipo che essi intendevano rifinire per ottenere la perfezione del modello.
Come vediamo, l’idea che la scienza sia capace di autocorrezione a patto di ricollegarsi con l’umanesimo è ridicola. La piega era già stata presa fin dalla fine del Rinascimento e, da allora, essa ha mostrato di cosa sia capace in materia di umanità.

7. La dialettica tra attività umana e ambiente naturale

È nella natura degli umani creare un mondo che gli sia proprio, trasformare l’ambiente non umano che li circonda e che li penetra in funzione degli obiettivi, delle idee, dei desideri e dei bisogni che hanno, attività che include anche la loro trasformazione, in particolare attraverso lo stratagemma della formazione del pensiero concettuale e del linguaggio articolato. Da quel che sappiamo, simili facoltà creatrici sono uniche sul pianeta, perlomeno a un tale livello di complessità. La potenza trasformatrice posseduta dall’umanità è allo stesso tempo promettente ed inquietante. Parafrasando il detto popolare, se essa può generare il meglio, è anche capace, quando le circostanze storiche lo permettono, di generare il peggio. E il peggio arriva sempre quando gli esseri umani ritengono che il mondo sia null’altro che una loro proprietà, che possono e devono possedere grazie al loro lavoro.
Più che mai, devono affrontare il problema di trasformare in profondità le attività e i rapporti propri del mondo dello sfruttamento e del dominio. Una delle condizioni indispensabili per avanzare in questa direzione è che essi comprendano infine che la natura è ben altra cosa del loro semplice campo di gioco. Non si accontenteranno mai di osservarla senza toccarla, di interpretarla senza modificarla.  
L’essenziale è che le modificazioni e le trasformazioni che effettueranno tengano conto al massimo dell’evoluzione spontanea dei fenomeni naturali. Ne va della loro stessa libertà poiché, come dimostra la storia umana, il dominio dell’uomo sull’uomo è il corollario del dominio dell’uomo sulla natura. «La creatura umana non sarà libera se non quando lo saranno tutte le creature terrestri»(12), profetizzava Müntzer con qualche ragione. Ma, supponendo che tali condizioni si verifichino, l’avventura umana non sarebbe per questo terminata, a meno di credere che, come gli dèi, gli umani non siano capaci di padroneggiare interamente il proprio destino. Nulla garantisce che, benché liberatisi del capitale, essi non ricadranno talora in errori troppo noti ed anche in altri, sconosciuti, che oggi non riusciamo nemmeno a immaginare. La vita umana è fatta anche di critiche, di tentativi, di messe in opera e di rimesse in discussione, di esperienze sia individuali che collettive, attraverso scambi in seno alla nostra specie e col resto della natura.
La riconciliazione con la natura è uno dei sogni antidiluviani dell’uomo, senza dubbio fin dalla comparsa della proprietà e dello Stato. Ma non ci è concessa. Va conquistata senza sosta. Del resto, a meno di voler riportare forzatamente la vita umana allo stadio idealizzato della sopravvivenza vegetativa, la semplice presenza di esseri umani sul pianeta implica che essi lo modifichino per vivere. Anche in assenza di sfruttamento e di oppressione, non è detto che ciò possa avvenire senza conseguenze spiacevoli, pure mortali, per alcuni di noi e per altri esseri della natura. L’importante non è rimuovere le contraddizioni nel nome dell’armonia universale, ma riconoscerle come tali quando si manifestano e cercare di creare condizioni favorevoli per impedire che esse si volgano verso un antagonismo distruttivo e autodistruttivo. Di contraddizioni ce ne saranno senza dubbio sempre nella storia naturale e umana, in particolare tra gli individui. Poiché l’individualizzazione è una delle proprietà della vita che appare anche nella natura non umana, sebbene a volte in maniera poco percettibile da noi. Ma noi non possiamo ignorarla a meno di ridurci noi stessi a oggetti indifferenziati e intercambiabili. Il riconoscimento delle dimensioni individuali dell’esistenza è una delle condizioni per ritrovare e sviluppare il senso della socialità, della simbiosi e della reciprocità nella natura e con la natura.


Note:
1. F. Bacon, Sul progresso delle conoscenze, 1605
2. F. Bacon, Il Valore e il progresso delle scienze, 1623
3. F. Bacon, La Nuova Atlantide, 1625
4. R. Descartes, Il Discorso del metodo, 1637
5. F. Bacon, Il Valore e il progresso delle scienze, 1623
6. M. Bakunin, Dio e lo Stato, 1872
7. F. Bacon, Dei principi e delle origini, 1620
8. F. Bacon, Il Valore e il progresso delle scienze, 1623
9. F. Bacon, Sul progresso delle conoscenze, 1605
10. F. Bacon, La Nuova Logica, 1620
11. F. Bacon, Il Valore e il progresso delle scienze, 1623
12. Th. Müntzer, Gli Articoli di Mulhausen, 1524

1 settembre 2009

Contro la democrazia

Contributo a una critica dell'autonomia della politica

di Gilles Dauvé e Karl Nesic  (2009)


[Estratti da Contribution à la critique de l'autonomie politique, Troploin, gennaio 2009, trad. it. a cura della redazione di Machete]

Potremmo interrogarci sul senso dell’ennesima riflessione su un soggetto apparentemente secondario, se paragonato a questioni più urgenti come l’attuale crisi. Tutto sembra in effetti essere stato già detto sulla democrazia, dai suoi nemici e dai suoi cantori o riformatori. È di buon gusto nei paesi capitalistici detti sviluppati denunciare la desuetudine delle pratiche parlamentari e il disinteresse che suscitano. Nessun elettore auspica che il suo voto possa cambiare profondamente la sua vita. Tuttavia, non appena si avverte che c’è qualcosa in gioco, l’interesse rinasce. Gli USA hanno un bell’essere il paese in cui la politica assomiglia più a uno show e a un business, dove milioni di brave persone si mobilitano per portare la parola dei candidati alla Casa Bianca. Si parla di ampliare il campo della democrazia, di renderla partecipativa, di farla scendere nel quartiere, nella strada, nella scuola, e alcuni sognano di instaurarla nel luogo di lavoro. La democrazia viene vissuta, se non come la risposta a tutti i problemi, quanto meno come la risposta che contiene tutte le altre. Al cospetto della democrazia ogni critica diventa sospetta, ancor più se la critica in questione mira addirittura a un mondo senza classi, senza salariato né capitale, senza Stato. Di solito l’opinione corrente ha moti di comprensione (pur con relativa condanna) per il “reazionario” che disprezza la democrazia, qualora neghi la capacità degli uomini di organizzarsi e dirigersi da sé, perché questo rientra nel gioco delle parti. Ma chi rifiuta il principio democratico nel nome stesso della capacità di auto-organizzarsi, reputando la democrazia inadatta all’emancipazione dei proletari e dell’umanità, costui è destinato a non essere compreso. Nel caso migliore passa per un provocatore amante dei paradossi, nel caso peggiore per un intellettuale traviato che a furia di non apprezzare la democrazia finirà come quelli che più l’hanno attaccata: i fascisti.

Se «l’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi», sembra evidente che per emanciparsi gli sfruttati, i dominati, i dannati della Terra, debbano respingere ciò che li mantiene in soggezione («né Dio, né Cesare, né tribuni») e per questo creare i propri strumenti di discussione, di decisione e di gestione. E questo esercizio di libertà collettiva non è per l’appunto quel che suole chiamarsi democrazia? La soluzione ha il pregio della semplicità: per cambiare il mondo ed assicurare la migliore vita umana possibile, cosa c’è di meglio che fondarlo su istituzioni che forniscano la più ampia libertà d’espressione e di decisione al maggior numero di persone? In molte delle loro lotte, i proletari, i dominati e gli sfruttati rivendicano la democrazia e proclamano la volontà di instaurare una democrazia infine autentica. La discussione è chiusa, la critica alla democrazia parte battuta in anticipo.

Il cuore del problema

La democrazia si presenta nel contempo l’obiettivo più inaccessibile e più vitale, l’ideale dato per scontato fra gli esseri umani, l’esercizio collettivo della loro libertà. Democrazia come organizzazione della nostra vita sociale determinata insieme al fine di tener conto quanto più è possibile dei bisogni e dei desideri di ciascuno.

Un’obiezione fa capolino: come raggiungere un simile obiettivo fra individui che hanno interessi divergenti, cioè opposti, cosa che si verifica in quasi tutte le società, compresa la nostra? All’ideale democratico ne va dunque aggiunto un altro: bisognerebbe che le decisioni prese in comune lo fossero in condizioni di uguaglianza fra tutti. Per non accontentarsi di una mera uguaglianza politica, per cui i cittadini dispongono di diritti ma non di poteri effettivi, la vera democrazia esige un’uguaglianza socio-economica, senza ricchi né poveri: la ripartizione (e la ri-organizzazione) delle ricchezze permetterebbe una condivisione finalmente giusta del potere di decisione sulle grandi questioni, pervenendo così a una democrazia reale, oltre che formale. Ma, benché la condivisione, pratica umana elementare e raccomandabile, abbia addolcito la questione sociale, non l’ha risolta: nessun profeta, nessun moralista ha mai convinto i ricchi e i potenti a dividere equamente i propri beni e il proprio potere. Ci tocca constatare che questa democrazia reale manca di realtà.

La democrazia è di fatto una contraddizione: pretende di garantire un elemento essenziale che invariabilmente le sfugge. Eppure, ben pochi ne tollerano la critica, tanto più in quanto la democrazia sembra offrire il miglior ambito possibile allo sforzo millenario condotto dagli esseri umani per emanciparsi. È un’ovvietà che ogni resistenza allo sfruttamento, ed ogni tentativo di instaurare un mondo senza sfruttamento, passi per la rimessa in causa del controllo degli sfruttatori sugli sfruttati. Meglio, la lotta contro il regolamento interno di fabbrica, contro le sanzioni assortite di multe o minacce di licenziamento, contro il miscuglio di autoritarismo e paternalismo che costituisce quel che dal XIX secolo si definisce dispotismo aziendale, anche contro la razzia padronale sulle casse di previdenza e di assicurazione, contro la sorveglianza dei luoghi di vita esterni alla fabbrica, non significa soltanto il rifiuto di dipendere da un capetto, da un padrone, da un dignitario religioso, oppure da un dirigente di partito e da un quadro sindacale. Questo negativo contiene del positivo: l’abbozzo di relazioni dirette, non concorrenziali, solidali, il che implica nuove forme di riunione e di decisione. Un movimento sociale è portato a porsi l’interrogativo «Chi comanda?». Altrimenti, senza procedure e strutture differenti da quelle concesse dall’ordine stabilito, chi sta “in basso” si condanna eternamente ad essere trattato da inferiore. Si tratti di comune, comitato, collettivo, consiglio, soviet, o semplicemente assemblea generale, sono tutte forme che esprimono l’auto-riconoscimento reciproco dei partecipanti al movimento: attraverso queste la libertà e la fratellanza sono vissute nei fatti.

Il punto è sapere se tali forme creino movimento, o si accontentino di esprimerlo. Perché la caratteristica della democrazia è di presentare lo spazio-tempo del dibattito e della decisione, non come momento necessario della vita sociale (e cioè di ogni cambiamento positivo), ma come condizione primaria della vita sociale (quindi di ogni cambiamento positivo).

Westminster non è l’Acropoli

La prima condizione per comprendere la realtà chiamata «democrazia» consiste nel rimettere al suo posto, vale a dire nella storia, una parola tanto inadatta a ciò che indica da duecento anni.

I tempi moderni hanno fornito in effetti un nuovo significato a una nozione nata nell’antica Grecia, ed oggi quasi tutti, dall’uomo della strada all’universitario o al militante, definiscono «democrazia» l’Atene del V secolo a.C. e l’Italia o la Svezia contemporanea. Gli stessi che rifiuterebbero — a giusto titolo — di parlare di «economia» preistorica o di «lavoro» in una tribù amazzone, non notano nessun anacronismo nell’indicare con lo stesso termine un sistema in cui la cittadinanza era la capacità (teorica, ma spesso anche effettiva) di governare ed essere governati, ed un sistema in cui la cittadinanza si riassume per il 99% dei cittadini nel diritto d’essere rappresentati.
C’è stato un tempo in cui si era meno reticenti ad ammettere il divario che separava le due accezioni. James Madison, uno dei padri della Costituzione statunitense, operava una distinzione fra una democrazia, in cui «il popolo si incontra ed esercita il suo governo di persona», e una repubblica, vocabolo di origine latina, in cui il popolo «si raduna e si amministra attraverso i suoi rappresentanti ed agenti». L’avvento dello Stato burocratico moderno, temuto da Madison, ha reso la «democrazia» un sinonimo del potere investito nel popolo ed esercitato in suo nome.
La quasi totalità dei commentatori deplorano i limiti della democrazia greca chiusa alle donne, agli schiavi e agli stranieri, e si rallegrano del fatto che il demos moderno si apra a categorie sempre più ampie di popolazione. L’ideale dei democratici radicali sarebbe un demos che racchiuda tutti gli esseri umani viventi su un dato territorio. Significa dimenticare che il cittadino ateniese era tale non in quanto essere umano, ma in quanto co-proprietario della cité, e concretamente in quanto piccolo o grande proprietario fondiario. Il sistema democratico era giunto a gestire in massima parte le contraddizioni di una comunità di uomini (maschi e capi di famiglia) irrimediabilmente divisi da progressive disparità di fortuna.
Proprio perché si limitava ad un gruppo di uomini che dividevano l’essenziale (un dominio sociale reale, pur minato dal maggior accumulo di denaro da parte di alcuni), la democrazia greca poté rimanere, per usare una parola di moda, «partecipativa», non senza crisi o interruzioni. Nell’Europa e negli Stati Uniti di oggi, nulla è paragonabile al demos dei tempi di Pericle.
La nostra epoca riscrive il passato al presente per persuadersi che i popoli civilizzati hanno sempre aspirato alla democrazia. Non è la prima volta che accade. Applicata a società animate dal rapporto capitale/lavoro, la parola «democrazia» ci insegna più su quanto queste società pensano di se stesse che sul loro funzionamento reale.

Sfruttamento e/o dominio

La disuguaglianza, la povertà e la miseria esistono perché alcuni decidono per tutti? Oppure alcuni monopolizzano le decisioni perché sono già ricchi e potenti? Vano interrogativo.

Montagne di libri e di articoli vengono scritti da sempre per confutare la pretesa marxista che «l’economia» sappia spiegare pressappoco tutto. Dipende da cosa si intende ad esempio per economia, distinta come realtà relativamente autonoma solo sotto il capitalismo. In ogni caso, un governo non si spiega attraverso «l’economia», non più di quanto si parta in guerra per restaurare un tasso di profitto. La politica non è un calco dell’economia: nelle democrazie borghesi, i grandi padroni non diventano automaticamente capi di Stato o ministri, e comunque lo sono raramente. La medesima base socio-economica può coesistere in forme politiche assai diverse, perfino opposte. La Germania capitalista è stata guidata da una casta monarchica, da una borghese, da un partito unico nazionalista-razzista, dopo il 1945 dalla borghesia nella parte occidentale e da una burocrazia d’origine operaia nella parte orientale, poi di nuovo dalla borghesia nel paese riunificato. La storia offre molti esempi di non-coincidenza fra autorità politiche e detentori della potenza economica, e di uno Stato moderno governato contro i borghesi, con l’imposizione dell’interesse generale del sistema ai singoli capitalisti. Lo stesso Bismark, durante uno sciopero nella Ruhr, aveva costretto i padroni ad aumentare i salari. Sebbene di solito in Europa il denaro porti il potere, in Oriente ed in Africa spesso è il potere che porta l’arricchimento attraverso l’appropriazione familiare o di clan delle risorse dello Stato, specialmente della rendita o dell’accaparramento del commercio estero. Non c’è bisogno di risalire nei tempi per trovare qualche capo della cité o di Stato imporre la propria volontà ai ricchi per ripulirli: la Russia di Putin ci offre qualche esempio recente.

Tuttavia, nella stragrande maggioranza dei casi, dirigenti politici e padroni della terra, del commercio e dell’industria si uniscono o formano un tutt’uno. Comandare gli uomini di solito va di pari passo col metterli al lavoro. Le due forme di dominio non divergono di molto: l’una rafforza l’altra. Il potere non genera ciò che lo fa esistere. Se dirigenti politici e detentori (di fatto o di diritto) dei mezzi di produzione raramente si sovrappongono, le società moderne non conoscono sfruttamento senza dominio, né dominio senza sfruttamento, e gli stessi gruppi controllano al tempo stesso, anche indirettamente, potere e ricchezza.

Sfruttare presuppone un controllo su chi viene sfruttato, una imposizione sulle sue condizioni di vita per obbligarlo ad entrare in un rapporto di adattamento al ruolo richiesto. Lo sfruttatore sfrutta solo chi domina, e lo sfruttato deve riconoscerne i termini. Il dominio è una condizione e una forma necessaria dello sfruttamento. La questione di sapere cosa sia venuto cronologicamente e logicamente per primo non è di alcun interesse. Lo sfruttamento non è solo “economico” (faccio lavorare altri per me, al mio posto e per mio profitto), ma è anche “politico” (decido al posto di altri l’evoluzione sociale, orientando così la loro vita). Contrariamente a quanto pensava Castoriadis negli anni 60, la società contemporanea non si divide in dirigenti ed esecutori. Più precisamente, questa divisione si gioca su ciò che struttura il mondo moderno: la relazione capitale/lavoro. Ciò non significa che il mondo si riduca a questa relazione né che essa spieghi tutto. Una impresa non è solo un polo di accumulazione di profitto, è anche un luogo di potere, cioè di dominio: ma esiste solo finché realizza e accumula valore, pena il fallimento. Le società umane in generale, ed il capitalismo in particolare, non si comprendono contrapponendo lo sfruttamento al dominio, ma cogliendone il legame.

Alla base della democrazia: la politica

Se per politica s’intende l’osservazione della società nel suo insieme (ivi compresa la realtà e la questione del potere), e non la somma di “questioni” locali o tecniche, va da sé che ogni cambiamento sociale è politico.

Ma la politica è altra cosa rispetto alla preoccupazione del generale e del globale, poiché paradossalmente fa della totalità una nuova specializzazione, un’attività separata dagli interessi direttamente sociali. Questo ambito riservato al dibattito, alla gestione, alla decisione non è ovviamente precluso alle gerarchie sociali, che però vengono spostate su un terreno in cui non verranno mai trattate in base alle loro cause, ma per le loro conseguenze.
L’apporto storico dell’antica Grecia non è la democrazia — insieme di procedure e di istituzioni che riuniscono i cittadini perché decidano insieme della loro sorte. L’innovazione si situa a monte, in ciò che fonda la democrazia: l’invenzione di uno spazio riservato al confronto, alla decisione e alla gestione, separato dal resto della vita sociale. Questa sfera specifica fa uscire ciascuno dai suoi interessi particolari (individuali o di gruppo) e dunque dalle disuguaglianze di fortuna o di rango, per porlo su un piano in cui goda di un’uguaglianza di diritti con tutti gli altri cittadini. Tale separazione definisce la politica: consapevole della sua innata incapacità di spegnere gli antagonismi, la società li trasporta su un terreno presumibilmente neutro, in ogni caso parallelo, dove i conflitti vengono trattati e generalmente smorzati il più possibile per la perpetuazione del sistema sociale nel suo insieme. Una separazione che viene mantenuta dalla democrazia diretta o popolare, la quale s’illude di superarla con una partecipazione finalmente attiva di tutti: ma far entrare tutti in una sfera separata non sopprime la separazione.

Ogni gruppo umano riflette ed agisce a modo proprio sull’insieme della propria condizione. Ma spetta alle società di classe, sotto mille forme e non senza verifiche ed errori, “l’invenzione” della politica come spazio separato dal resto della società, che esiste e funziona attraverso e per questa separazione che fonda la politica e la definisce. Ovviamente le società sono rappresentate come semplice, evidente e universalmente auspicabile modo di funzionamento che assai poco deve alla natura umana, e tutto alla storia.

La democrazia diretta alla lettera

Secondo i suoi sostenitori, essa ha come obiettivo:
1) Il rispetto della maggioranza.
2) L’espressione delle minoranze, cui è garantito un ampio margine d’azione.
3) La possibilità di una libera discussione, al fine di evitare la coercizione, le pressioni, la violenza: «Innanzitutto, parliamo...».
4) Il primato di una volontà collettiva, non quella di un individuo o di un pugno di individui.
5) Il rispetto della decisione comune.
Esaminiamo questi criteri uno per uno.

1) La regola maggioritaria

Molti movimenti sociali sono partiti da minoranze, anche ridotte. Si obietterà che qui la minoranza assume l’iniziativa di atti che rapidamente diventano maggioritari, e dunque non è vera minoranza. Senza dubbio, ma il fatto mostra la poca pertinenza della maggioranza come criterio.

I partecipanti ad un picchetto di sciopero antepongono i loro interessi e quelli del lavoro in generale agli interessi (immediati, in ogni caso) dei non-scioperanti, e al diritto al lavoro di questi ultimi. I democratici faranno valere che lo sciopero è sostenuto da una forte maggioranza del personale, dimenticando che la democrazia comporta il rispetto delle minoranze. E comunque, dove incomincia la maggioranza? Chi decide a che punto una minoranza cessa di essere tale e diventa abbastanza numerosa da vedersi qualificata maggioranza degna di incarnare una volontà generale? al 51%? al 60%? al 95%?... Decisione maggioritaria (anche ultra maggioritaria) e rispetto delle minoranze non possono servire da criterio.

2) Il diritto delle minoranze

Ogni movimento significativo, rivendicativo o sovversivo, è portato a trascinare nella sua dinamica gli esitanti e a pretendere da loro qualcosa che inizialmente non avrebbero voluto fare. Inutile negare lo scarto o le contraddizioni fra l’insieme della base ed i suoi elementi più risoluti, ma il fatto che questi ultimi assumano l’iniziativa di una lotta non basta a trasformarli in nuova élite dirigente. La burocratizzazione è generalmente un prodotto del riformismo, non viceversa, e non deriva dalle minoranze agenti più che dalle maggioranze consenzienti. Base o quadri, minoranza o maggioranza, non abbiamo dati sufficienti per comprendere una situazione ed intervenirvi.

Del resto, chi approva una decisione ritiene comunque che questa provenga da una maggioranza sufficiente. Mentre, per chi contesta una decisione, una maggioranza non è mai abbastanza tale, e ne chiede una migliore, quantitativamente più numerosa... Tra il 1970 e il 1973, uno degli argomenti della destra cilena (e degli Stati Uniti) contro Allende era di aver raccolto “soltanto” un terzo dei suffragi espressi, superando di “appena” 39.000 voti il suo concorrente immediato, su un totale di circa tre milioni. Il candidato dell’Unità Popolare aveva un bell’essere stato democraticamente eletto, l’opposizione lo considerava illegittimo. Così va la democrazia borghese. Ma anche quella operaia è recalcitrante ad accettare una maggioranza insufficientemente maggioritaria...

3) La libera discussione

È superfluo domandarsi se la parola venga prima, dopo o durante l’atto di rivolta. Nel 1936, nella fabbrica General Motors di Toledo, un’assemblea riunì il personale ma — racconta un testimone — «si sarebbe detto che ciascuno si era fatto la sua opinione prima che una sola parola venisse pronunciata»: lo sciopero con occupazione doveva cominciare, e ogni misura sarebbe stata presa o convalidata dall’assemblea generale degli scioperanti. Quegli operai non agivano come automi senza cervello. Lo scambio di parole era inutile perché aveva già avuto luogo, in centinaia di discussioni e riunioni informali. L’atto scaturito “parlava” da sé.
Se democrazia significa scambio, possiamo ben definire democratica questa pratica, ma non è il principio democratico ad averla resa possibile.

Inversamente, invitare o obbligare nel corso dei conflitti i partecipanti a riunirsi e a parlare interrompe il gesto cominciato e ne smorza lo slancio. Verbalizzare è spesso esplicitare l’atto e rafforzarlo. Spesso è anche trasformare l’energia in discorso. Un’espressione che non è azione e apprendimento equivale a una parola vuota. Allo stesso modo, la ricerca delle “informazioni” nega in generale l’informazione essenziale: la volontà presente di lottare.

Contrariamente al Verbo divino che avrebbe creato il mondo, le parole umane si accontentano di esprimere, di prendere parte, di rafforzare. È già molto. Durante uno sciopero o una sommossa ci si trova certo dinnanzi a delle scelte da fare. Ma non le si affronta come farebbe un filosofo o un ricercatore che passa successivamente al vaglio della ragione diverse ipotesi al fine di decidere senza pregiudizio, lui crede, quella buona. La parola serve prima di tutto per mettere in luce ciò che matura in testa, e per scegliere coerentemente la via migliore.

4) La volontà comune

La democrazia viene considerata una protezione: essa garantisce che i partecipanti non ricorrano alla violenza verbale o fisica, perché i democratici si trattano reciprocamente da eguali.

Se lo scopo richiesto è l’uguaglianza, essa sarà il risultato dell’azione comune, non un condizione preliminare. Invocarla è quasi sempre confessare che si sono già instaurate relazioni discriminatorie. Con la disgregazione della comunità di lotta, ciascuno è rinviato a se stesso, come se il gruppo fosse una somma di libere decisioni da far convergere, ma che non convergono più e non decidono alcunché. A un certo punto ognuno si paragona all’altro. Ciò che erano differenze diventano gradi di superiorità e d’inferiorità che la democrazia misura.

Agire per gli altri non trasforma in leaderini: il burocrate forgia il proprio potere riparandosi dietro una massa di cui sa sposare le oscillazioni. Sempre modesto ai suoi inizi, il burocrate nega ogni ambizione personale e si dice al servizio della base, e uno dei suoi giochi di prestigio è di esserne persuaso. Se non bisogna attendere leader carismatici, non bisogna nemmeno temere le iniziative individuali.

Certo, raramente si ha ragione da soli. Ma privilegiare per principio la comunità ci riporta all’insormontabile dilemma maggioranza/minoranza.

L’intuizione di una possibilità da cogliere non nasce allo stesso ritmo in ciascuno di coloro che condividono una prospettiva. Chi ritiene che sia possibile agire cerca di convincere gli altri, in una discussione in cui gli argomenti posti non sono un semplice esercizio intellettuale, e lo scambio implica verosimilmente un conflitto di volontà. Se la coerenza esige confronto e libertà, non deriva da un incontro su un terreno neutro di argomenti che si tollerano reciprocamente fino a quando il migliore la spunta per superiorità logica.

5)  Il rispetto della decisione comune

Tutti sono a favore del rispetto delle decisioni... tranne quando la decisione viene ritenuta non buona. Per cominciare, quale decisione? Nel 1914-15, nel SPD tedesco, per Spartakus e gli altri gruppi a sinistra rispettare la decisione largamente maggioritaria avrebbe significato rinunciare ad un’azione contro la guerra e lo Stato tedesco. È nel nome del voto (approvato dalla base) della totalità della frazione parlamentare socialista, e dei responsabili regolarmente eletti del partito e dei sindacati decisi a sostenere lo sforzo bellico, che l’apparato di partito combatteva gli internazionalisti. A cosa rimanere fedeli: all’approvazione della guerra nell’agosto 1914 da parte dell’immensa maggioranza del movimento socialista, in Germania e altrove? o alle precedenti risoluzioni internazionali che promettevano di rispondere allo scatenamento di un conflitto in Europa con azioni insurrezionali in tutti i paesi belligeranti?

Nel 1968, dopo un primo sciopero (con occupazione) iniziato il 20 maggio, seguito da una ripresa del lavoro votata a forte maggioranza il 10 giugno, la fabbrica Peugeot di Sochaux era stata di nuovo occupata da una minoranza di scioperanti. Quando la mattina dell’11 i celerini sgomberarono violentemente gli occupanti, le squadre di non scioperanti che arrivavano in macchina per riprendere il lavoro si unirono agli scioperanti contro le forze dell’ordine. Gli scontri causarono due morti fra gli operai. Alcune voci evocarono l’uso di fucili da caccia da parte degli insorti e di alcuni morti fra i poliziotti che le autorità avrebbero tenuto segreti. Vere o false, voci del genere attestano la violenza degli scontri e il modo in cui sono stati vissuti: come un confronto diretto con lo Stato.

Così, dopo aver votato la fine dello sciopero, non solo un gran numero di operai non ritornarono al lavoro, ma si unirono agli estremisti rimasti fino a quel momento isolati: la prima occupazione aveva mobilitato solo un migliaio di persone su oltre 30.000 salariati, di cui 3.000 sindacalizzati. Si può certo far valere la scarsa democrazia delle assemblee manipolate dalla CGT, che si tenevano sotto la pressione dei media e sotto la minaccia di una polizia sempre presente. Ma il fatto di contraddire così massicciamente il proprio voto, e senza essersi riuniti nella buona e dovuta forma per deciderlo, mostra che lo spazio-tempo del voto non è mai primario né decisivo, contrariamente a quanto vorrebbe il principio democratico.

L’esame di questi cinque criteri della democrazia diretta mostra innanzitutto che una miriade di atti e di avvenimenti per noi positivi hanno luogo senza partire da essi, e perfino in contrasto con gli stessi; inoltre, che la loro applicazione non può impedire le manovre, le pressioni e le manipolazioni che si ritiene siano in grado di evitare. Questi criteri sono inefficaci.

Il segreto della democrazia

Il partigiano della democrazia diretta rivendica beninteso quei criteri, ma senza esigere né attendere che siano applicati, separatamente o in blocco. Non contesta la maggior parte degli argomenti sopra riportati. Risponde semplicemente che le norme democratiche non vanno considerate assolute. È lo spirito che conta — sostiene — l’intenzione, il principio, lo slancio, il movimento... «poiché la lettera uccide, mentre lo Spirito dà la vita» (Seconda Lettera ai Corinzi, 3:6), e «or se siete guidati dallo Spirito, non siete più sotto la Legge» (Lettera ai Galati, 5:18).

Tutta la democrazia si basa su questo gioco fra lettera e spirito, fra Legge e Spirito. Per Paolo di Tarso, non c’era contraddizione. Ce n’è per la democrazia, che è proprio la ricerca di regole formali per vivere e agire insieme il meglio possibile. Essa è per natura produttrice di diritto, talvolta orale, in genere scritto. Mettendo da parte, anche solo provvisoriamente, il formalismo che la caratterizza, essa contraddice la propria definizione e la propria giustificazione. La democrazia non è la gestione ad hoc della vita sociale. Non si fonda sulla capacità di rapporti umani fraterni, non concorrenziali e non mercantili di creare le forme d’organizzazione che convengono di più. La democrazia fa l’opposto: parte da procedure e da istituzioni che presenta come condizioni preliminari. Afferma che l’organizzazione politica è la base della società. Ma quando l’esperienza prova che le loro norme non operano più, i democratici ci dicono che si può farne a meno, e anche che si deve farlo. La democrazia serve a risolvere i conflitti, ma quando questi sono troppo gravi ci rinuncia.

L’improvviso ricorso al pragmatismo rivela al tempo stesso una mancanza di logica intellettuale, e una notevole logica storica. L’andirivieni fra la lettera e lo spirito è una contraddizione, ma di cui i dirigenti democratici, di destra come di sinistra, hanno l’abitudine di servirsi. Non ignorano che la democrazia debba essere sospesa nei periodi critici. Sospesa in parte, quando i governi francesi antecedenti il 1939 instaurarono la “dittatura repubblicana” dei decreti-legge, quando la Gran Bretagna combatteva l’IRA, ieri nelle colonie e oggi un po’ dappertutto di fronte al “terrorismo”, o per spezzare scioperi che si protraggono troppo a lungo. Talvolta sospesa del tutto, quando in Algeria l’esercito ha annullato la prima consultazione delle legislative del 1991 vinte dagli islamisti, e ha preso il potere col pieno sostegno dei paesi occidentali. Democrazia e dittatura non si contrappongono come il bianco al nero: si distinguono per una serie di gradazioni. Se l’Italia degli anni 1969-77 si fosse rivelata ingestibile dagli abituali meccanismi parlamentari e governativi, la “strategia della tensione” sarebbe stata la soglia prima del passaggio allo stato d’emergenza, prima civile, poi militare in caso di necessità. I borghesi non si fanno scrupoli a diventare temporaneamente dittatori... nell’interesse a lungo termine della democrazia: «nessuna democrazia per i nemici della democrazia». Essendo un male minore, la democrazia si fa un dovere di cessare talvolta di essere democratica per evitare un male peggiore.

La democrazia ha un duplice segreto: prima di tutto, funziona solo nella misura in cui la società rimane democratica; e poi questa tautologia non è grave, perché è scontata, e in due secoli i governi borghesi hanno imparato a servirsene. Per contro, per i sovversivi che prendono la democrazia sul serio e la vorrebbero in permanenza conforme alla sua definizione, vale a dire diretta e autentica, una simile contraddizione è una trappola: vedono nella democrazia una fonte di libertà collettiva, ma non l’otterranno mai da un sistema che non è fatto per questo.

La democrazia è la ricerca preliminare del miglior criterio formale. Fare una priorità della democrazia diretta non assicura che poi ci sia. Ciò che la democrazia — se si vuole mantenere la parola — ha di positivo, non può produrlo da sé.

4 agosto 2009

Il problema della coscienza (di classe)

di Valerio Bertello (2007)


[Quello che segue è un intervento al dibattito tenutosi a El Paso in occasione della presentazione del libro di Sergio Ghirardi, Lettera aperta ai sopravvissuti, Nautilus, 2007]

L'intervento di Daniele Pepino sul testo di Sergio Ghirardi, Lettera aperta ai sopravvissuti, appare molto puntuale. Sostanzialmente mette in campo il problema della coscienza, questione fondamentale per la teoria rivoluzionaria. In sintesi si afferma, a proposito della transizione al comunismo: "da dove germoglierà questo nuovo mondo? Dall'insorgere della volontà di vivere? Io semplicemente non ci credo. [...] Questi sono concetti astratti, non dinamiche materiali e sociali, le cose cioè da cui scaturiscono i cambiamenti”. Poiché ogni cambiamento è il risultato di una azione e questa presuppone una coscienza, qui ad una forma di coscienza ne viene opposta un'altra. Per assumere una posizione in questa questione occorre inquadrarla nella sua generalità.

Partendo, come è necessario, da Marx, è evidente che la questione della coscienza è sempre stato il punto debole del marxismo. Marx sostiene da una parte che "le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti", e dall'altra che "quando questa teoria [le idee] entra in contraddizione con i rapporti esistenti, ciò può accadere soltanto per il fatto che i rapporti sociali esistenti sono entrati in contraddizione con le forze produttive esistenti" (L’ideologia tedesca). Ma poiché "una formazione sociale non perisce finché non siano sviluppate tutte le forze produttive cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai prima che siano maturate le condizioni materiali della sua esistenza" (Per la critica dell'economia politica, Introduzione), necessariamente lo stesso accade per la coscienza. La contraddizione tra rapporti di produzione e forze produttive, quindi una coscienza rivoluzionaria, può emergere solo con la decadenza di un sistema sociale e coincide con la sua scomparsa. Questo aspetto del materialismo storico ha sempre costituito una contraddizione per il marxismo come teoria rivoluzionaria, in quanto, pur dichiarandosi tale, tende a giustificare posizioni attendiste e deterministe, quindi una pratica riformista.

Tutte le correnti rivoluzionarie, cioè immediatiste e volontariste, hanno dovuto confrontarsi con tale problema, che appare tanto più cruciale in quanto il capitale da tempo ha tratto vantaggio da tale contraddizione, - che è non solo della teoria ma della correlata concezione del proletariato stesso come classe rivoluzionaria, - per legittimarsi, da quando ha concesso il suffragio universale. Infatti tale contraddizione diviene palpabile ad ogni tornata elettorale quando il proletariato, cioè la maggioranza degli elettori, non solo vota per i partiti della sinistra moderata, ma sovente anche, e talvolta in prevalenza, per le formazioni conservatrici o reazionarie.

La prima soluzione a tale problema è quella leninista, coerentemente marxista e giustificata dall'arretratezza della Russia di allora. Si ammette che il proletariato non può che maturare una coscienza sindacale, e quindi la coscienza deve essere introdotta dall'esterno, da un partito della coscienza (e quindi della strategia). Soluzione criticabile, che da tempo ha mostrato di essere controproducente. Soprattutto non è chiaro da quale luogo "esterno" possa sorgere e irradiarsi, e in effetti l'involuzione dei partiti leninisti dimostra proprio che questo luogo non esiste, e se mai riconferma le tesi marxiana. Soluzione che comunque ha il pregio di essere chiara e coerente.

Un'altra soluzione è quella anarchica, anch'essa molto coerente. La coscienza rivoluzionaria, un insopprimibile anelito verso la libertà, è un dato innato sempre presente in ogni individuo. Se non si esprime ciò accade perché l'individuo viene ingannato e represso dalla religione e dallo stato. Basterà rimuovere questi ostacoli, ciò che può essere compiuto in ogni momento, che tutto andrà per il meglio. Qui il luogo esterno da cui proviene la coscienza è la Natura, che dota ogni sua creatura di un fine in cui realizzarsi e dei mezzi necessari, cioè di ciò che gli è necessario per vivere secondo la sua essenza. Visione ottimistica e affascinante, che costituisce però un puro atto di fede, ma soprattutto criticabile, perché risolve una questione sociale ricorrendo ad un dato naturale immutabile e incontrollabile.

La soluzione marxista è la teoria della crisi. Si afferma che il capitalismo è un sistema sociale agonizzante, e si spia il suo marasma finale per dichiararne il decesso o affrettarlo. Ma anche questa soluzione ha già da tempo mostrato la corda, fin dai tempi della socialdemocrazia per arrivare al bordighismo. Se la fine del capitale è certa (ciò che in fondo è solo una ovvietà), nessuno è in grado di prevedere quando scoccherà la sua ora. Anche questo è un atto di fede, oltretutto smentito troppe volte dal ripetuto superamento di crisi che apparivano sempre come le ultime.

L'unica soluzione è quella di prendere atto del fallimento di tutte le soluzioni finora proposte e risolversi a tentare l'ultima alternativa possibile: una modificazione del marxismo, che inoltre significherebbe semplicemente un adeguamento alla storia successiva alla sua formulazione. Il tentativo in questa direzione di maggior rilievo è quello attuato dall'operaismo. Detto in estrema sintesi, per l'operaismo la contraddizione tra forze produttive e rapporto di produzione è permanente in quanto intrinseca al capitale, e genera da una parte un continuo processo di adeguamento del capitale ad una situazione di conflittualità endemica, ma soprattutto apre lo spazio allo sviluppo di una coscienza proletaria autonoma rispetto la pensiero egemone della borghesia, cioè di un proletariato rivoluzionario. La forza motrice della storia è posta nella lotta di classe, intesa come risultato della resistenza del proletariato al rapporto di produzione, cioè alla sua riduzione a forza lavoro astratta. La lotta costringe il capitale alla ristrutturazione, cioè al ripristino del comando attraverso una riorganizzazione della sua base materiale, il che implica un mutamento del rapporto di produzione. Questo non è un atto di fede, non un dato naturale immutabile, ma un fatto empiricamente constatabile, da ciascuno su di sé e in tutti, e un fatto sociale su cui è possibile agire.

Naturalmente anche l'operaismo è datato e andrebbe adeguato ai tempi, allo sviluppo del capitale all'epoca del dominio reale compiuto, dove la produzione e la circolazione sono tutt'uno, il mercato mondiale una realtà, il liberismo il pensiero dominante. Compito finora lasciato a recuperatori di ogni genere, dagli economisti ai negriani dell'Autonomia, attuato miscelando maldestramente operaismo, leninismo e terzomondismo. In questi tempi difficili la teoria radicale si è invece trastullata nel dipingere una Arcadia radicale, dilettandosi con insipide pastorellerie. Non che l'utopia sia da rifiutare, ma occorre essere consapevoli che essa semplicemente è sempre stata l'espressione in un linguaggio mitico non solo di una rivoluzione non ancora cosciente di se stessa, ma anche di una rivoluzione sconfitta. Oggi ci troviamo in quest'ultima realtà, appunto di guerra di tutti contro tutti, per cui l'utopia riflette bene questa situazione in negativo, come rifugio contro la guerra civile planetaria, analogamente agli idilli pastorali del Seicento di fronte alle guerre di religione ed ai massacri che ne scaturivano. Così l'utopia situazionista era progressiva prima degli anni ‘70, ma ora riflette solo una sconfitta e va non liquidata ma superata, sulla scorta appunto degli eventi di tale decennio e di ciò che ne è seguito.

Torino, 20 novembre 2007