Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

* * *

«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

* * *

«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

30 luglio 2010

L'insurrezione che non verrà...


[Da un intervento sul forum della Lega Giovanile della Sinistra Comunista]

[...] Non ho letto L'insurrezione che viene, ma conosco altri testi di Tiqqun e delle sue successive filiazioni (Teoria del Bloom, La comunità terribile, Elementi per una teoria della Jeune-Fille, Introduzione alla guerra civile etc.) e devo ammettere di esserne rimasto affascinato, inizialmente. Tuttavia, al di là del forte impatto emotivo (legato, credo, al fatto che la condizione esistenziale dell'uomo "capitalizzato" contemporaneo vi è tratteggiata, sul piano descrittivo, in modo impeccabile) e delle indubbie capacità affabulatorie degli Autori, ad una riflessione più attenta l'impianto teorico complessivo mi è parso debole, oltre che alquanto eclettico (un mix di elementi presi da Foucault, Debord, Cesarano, Agamben etc.).

L'errore fondamentale di Tiqqun, a mio avviso, è quello di spostare le contraddizioni del capitalismo odierno interamente al livello dell'individuo, e di perdere di vista il terreno sociale e di classe. Sulla scia di Camatte (che pure aveva scritto cose interessanti a cavallo degli anni '60 e '70), Tiqqun concepisce il capitale in termini eminentemente idealistici: da insieme complesso di rapporti materiali incentrati sullo sfruttamento e sull'alienazione dell'attività umana, quest'ultimo è ridotto a «somma di tutte le rappresentazioni», una sorta di totalità eterea e indistinguibile che permea di sé ogni cosa: la realtà sociale e gli individui. È però soprattutto, per non dire esclusivamente, all'interno di questi ultimi che viene dislocata la contraddizione. In ogni caso, il capitale finisce con l'essere identificato a un puro dominio politico (come, del resto, si può riscontrare in un autore come Negri, apparentemente lontano dai “tiqqunnisti”): un sistema di controllo sociale pervasivo e capillare, poggiante sui due pilastri dello Spettacolo e del Biopotere – l'Impero.

Andando al sodo, ci troviamo di fronte al tentativo di giustificare teoricamente una sorta di “alternativismo” radicale. Riporto, a questo proposito, un brano del “solito” Gilles Dauvé:

«Appel e L’insurrection qui vient dipingono un capitalismo che, dopo avere desertificato la vita intera, avrebbe esaurito tutte le sue risorse; all’interno di questo contesto, iniziare fin d’ora a vivere in modo diverso, sarebbe dunque di per sé una pratica sovversiva.

«A essere obliterata è, né più né meno, quella rottura del continuum storico che prende il nome di rivoluzione. Malgrado la loro opposizione all’altermondialismo, queste tesi ne condividono nella sostanza il rifiuto della globalità e della distruzione del potere politico centrale. Esse lasciano intendere che sia possibile conquistare il potere sulla propria vita a livello locale, rimpiazzando una futura rivoluzione sociale con milioni di rivoluzioni personali e micro-collettive» (Dalla Sinistra  comunista alla "comunizzazione").

21 luglio 2010

Spagna, 19 luglio 1936


[«Prometeo», n. 147, 5 agosto 1937. Sul medesimo tema si veda anche Maggio 1937: Piombo, mitraglia, prigione]

Questa ricorrenza è stata commemorata quasi esclusivamente dai suoi profittatori e sabotatori. I veri artefici di essa sono in galera o peggio, fascisticamente soppressi.
«La controrivoluzione in marcia» è il titolo dell’ultimo articolo scritto da Berneri la vigilia del suo selvaggio assassinio. L’articolo così concludeva: «L’ombra di Noske si profila. Il fascismo monarchico-cattolico-tradizionalista non è che un settore della controrivoluzione. Occorre ricordarlo. Occorre dirlo. Occorre non prestarsi alla manovra di quella 5° colonna della quale 6 anni di repubblica spagnola [hanno] dimostrato la tenace vitalità ed il terribile camaleontismo».
Queste conclusioni valgono per la commemorazione del 19 luglio. Il titolo può essere modificato: «La controrivoluzione in atto». L’ombra di Noske non solo si profila, si è concretizzata nelle giornate del 3-7 maggio a Barcellona.
Il lato politico del corso degli avvenimenti è stato ampiamente sviluppato nel nostro giornale, il corso che ha condotto la lotta eroica del luglio 1936 all’odierna fase in cui la Spagna è teatro di un atto della guerra imperialista in cui i proletari lottano sui fronti militari facendosi trucidare per conto del capitalismo.
La preparazione per la rivolta [guidata da Franco, ndr] si era intensificata dal febbraio al luglio, in modo palese. I generali che saranno i «faziosi» – nessuna epurazione è stata fatta nell’esercito «fascistizzato» durante il potere di Gil Robles – circolano liberamente per prendere gli accordi, per fortificare i punti strategici. Solo il governo di Fronte Popolare nulla sa, nulla vede. Cioè nulla vuol sapere, nulla vuol vedere.
La rivolta iniziata in Marocco serpeggia nella penisola. Ma il governo rifiuta ancora le armi ai proletari che le chiedono… per difendere il governo, per salvare la Repubblica. Il governo «antifascista» patteggia invece un compromesso coi generali ribelli. [È la classe operaia] che rispondendo al colpo di mano militar-pretesco colla sua arma classista, lo sciopero generale, e coi pochi fucili di cui si impossessa, rintuzza a Barcellona, a Madrid il conato della reazione e difendendolo contro il suo volere, obbliga il governo a resistere. Ma Saragozza è consegnata dalle autorità del Fronte Popolare ai fascisti che schiacceranno lo sciopero generale eroico dei lavoratori. Ma nell’Andalusia la C.N.T. non lancia alcun ordine di resistenza. Siviglia cade così in potere di un pugno di ufficiali e di agrari.
Nei primi mesi il governo ha una schiacciante superiorità numerica. Non ne fa uso. La flotta è ancora quasi tutta nelle mani del governo di Madrid, compresi i quattordici sottomarini. Eppure Mori e mercenari sbarcano impunemente senza resta dal Marocco. Scarseggia il materiale bellico. L’oro è, fin dai primi giorni, fatto passare in Francia. Per metterlo al sicuro. Più per timore dei proletari che perché non cada in mano di Franco. Perché questi timori? A Barcellona gli anarchici montano la guardia alle banche della borghesia.
I disastri seguono ai disastri. È colpa del tradimento, diranno gli strateghi del Fronte Popolare. Badajoz è caduta per il tradimento del governatore. Cadice per quello del comandante. Malaga è stata consegnata dal colonnello Villalba, Bilbao per opera del comandante del genio che era d’accordo con Franco. Ciò può esser vero.
Ma è ugual vero che Badajoz e Irun sono cadute in mano di Franco perché non aiutate. Toledo e Siguenza sono state occupate perché il governo di Madrid negò le armi alle colonne libertarie dell’Aragona anzi a Toledo le fece tagliar a pezzi. Sui fronti di Huesca e Teruel le milizie proletarie si sono dissanguate, impotenti davanti alle artiglierie nemiche. Ci si è curati del fronte di Madrid solo quando «Annibale era davanti le porte». Lo stesso sta avvenendo per quello di Cordova e Jaen che sarà la prossima meta dell’attacco a causa delle miniere di mercurio di Almaden.
Franco ha sempre potuto impunemente concentrar tutte le sue forze contro il fronte contro cui schierava l’attacco, senza che gli avversari abbiano, secondo le più elementari nozioni di strategia, cercato di contrattaccare sugli altri fronti sguarniti. Al tradimento asserito dei comandanti locali fa degno riscontro quello provato delle supreme istanze del governo«antifascista».
Così poco a poco i «fascisti» di Franco si sono rafforzati, gli aiuti dell’Italia e della Germania si sono fatti sempre più copiosi ed efficienti. Allora è entrata in lizza Mosca per ristabilire l’equilibrio. Ed il massacro del proletariato continua e continuerà finché «fascisti» ed «antifascisti» troveranno il compromesso di cui sarà [forse] mezzana la «democratica» Inghilterra che ha sempre patrocinato questa politica dell’equilibrio tra le due parti in lotta.
Ad un anno di distanza si comincia a veder chiaro. Alla base, naturalmente. Ma si continua a gettar tutta la colpa su Mosca che non è che il braccio forte della controrivoluzione che fa capo a Valenza e a Barcellona. Il centrismo [gli stalinisti, ndr] del resto era sempre stato una caricatura senza credito e senza seguito. Sovratutto a Barcellona. Sono stati proprio gli anarchici [che,] come hanno lasciato consolidarsi la borghesia a Barcellona – che essi volevano far passare come un semplice «paravento» – hanno nel tempo stesso covato il serpe centrista. Ed il serpe, appena divenuto velenoso, ha cominciato come tutte le serpi, a partire da quella della favola, col mordere chi l’aveva alimentato. È vero che l’attacco del 3 maggio [1937] alla [Centrale] Telefonica di Barcellona è avvenuto per istigazione di Ayguade della sinistra catalana – che il governo di Valenza ha in ricompensa nominato ministro del Lavoro – ed effettuato dal comunista Rodriguez Sala del P.S.U.C.
Ma la più lorda responsabilità dei novecento massacrati dal 3 al 7 maggio, della minaccia dello sterminio che incombe sul proletariato spagnolo, divelto dai suoi binari di classe sul terreno dei «fronti militari» che non sono i suoi, non incombe forse agli anarchici, al P.O.U.M. che oggi pagano, a caro prezzo, la loro politica nefasta e quindi obiettivamente controrivoluzionaria?

* * *

NOTA: La critica dell'antifascismo non implica la rinuncia alla lotta contro il fascismo, ma "soltanto" il riconoscimento del fatto che quest'ultimo non è il "nemico principale" – l'espressione della frazione reazionaria della classe dominante contro la quale sarebbe necessario allearsi con la  componente democratico-progressista e presuntivamente meno pericolosa di questa. È bensì una tendenza interna al modo di produzione capitalistico (centralizzazione e intervento dello Stato in economia, definitivo svuotamento delle istanze democratico-parlamentari, corporativizzazione dei sindacati etc.) che si compirà soltanto con la fine della Seconda guerra mondiale e  il trionfo delle potenze democratiche. È, in certo qual modo, il nemico tout court. Ciò significa che l'attuale democrazia totalitaria, al di là degli orpelli per gonzi (pluripartitismo, "libertà d'opinione" etc.), ha dialetticamente incorporato i tratti principali del fascismo storico. E che l'antifascismo difende, con le stesse armi spuntate di allora, una barricata che il nemico ha già sfondato da almeno novant'anni. In altri termini, i proletari non hanno alcuna possibilità di scegliere tra le diverse forme di Stato che soltanto la classe dominante definisce sulla base dei propri esclusivi interessi. L'unico modo di battere il fascismo, è distruggere la società del capitale – non certo lottare per la difesa di quelle istituzioni e garanzie democratiche che gli prepararono il terreno, e non sono che l'altra faccia della medaglia del dominio della borghesia. [Lmjf]

* * *

[Dal forum della Lega Giovanile della Sinistra Comunista]

All'indomani dell'insurrezione del luglio 1936, «il POUM e la CNT giocavano un ruolo decisivo nell'arruolamento degli operai per il fronte. La fine dello sciopero generale fu ordinato da queste due organizzazioni che non vi avevano assolutamente partecipato. La forza della borghesia non fu tanto Franco ma un'estrema sinistra capace di mobilitare il proletariato spagnolo».

«Come nel 1914, il "pericolo estremo" è servito come motivazione per togliere al proletariato la sola vera arma di cui disponeva: lo sciopero generale. [...] "in ottobre [1936] la CNT lancerà le sue consegne sindacali in cui vieterà le lotte rivendicative di ogni tipo e farà dell'aumento della produzione il dovere più sacro del proletariato" ("Bilan", n.36). [...] I comitati di fabbrica "si trasformano in organi con il compito di attivare la produzione e pertanto vengono deformati nel loro significato di classe" (ibidem).»

Poco prima dei massacri di Barcellona, nel maggio 1937, «la CNT era intervenuta per chiedere agli operai di non prendere le armi e di riprendere il lavoro per "non intralciare lo sforzo bellico"». Si aggiunga che questa organizzazione, nella speranza di ottenere aiuti economici e armamenti dal capitalismo russo, non denunciò pubblicamente i "processi di Mosca" di cui pure era a conoscenza (cfr. Gilles Dauvé, Quand meurent le insurrections, 1998).

«Come il POUM e la CNT, la minoranza ["interventista" della Frazione italiana] si dichiarò ben presto contro gli scioperi operai di difesa economica, che dovevano passare in secondo piano rispetto ai compiti militari». [Segue citazione di un articolo della minoranza della Frazione apparso su "Prometeo"].

Interessante, infine, il giudizio dell'Autore sulle posizioni difese dalla "minoranza":

«L'analisi di questa minoranza sopravvalutava considerevolmente la situazione spagnola e si basava più su una reazione sentimentale che su una reale e matura riflessione. Per essa lo Stato repubblicano era quasi scomparso ed il potere si trovava nelle mani delle "organizzazioni operaie", delle quali non precisava però la natura [...]. Nei fatti la minoranza era affascinata soprattutto dagli atti di violenza e di espropriazione».

(Tutte le citazioni sono tratte da [Philippe Bourrinet], La sinistra comunista italiana. 1927-1952, CCI, 1984, pp.109-116).

19 luglio 2010

Fordismo e postfordismo...

di Maria Turchetto


[L'articolo che segue va collocato nel contesto del dibattito sviluppatosi in Italia negli anni '90 del secolo scorso, circa la natura delle trasformazioni intervenute nel modo di produzione capitalistico a partire dalla metà degli anni '70. Pur tenendo ferma la nostra totale estraneità alla Sinistra cui si rivolge l'Autrice, reputiamo che questo testo rappresenti un valido contributo alla critica di quell'ideologia “postfordista” che si è ben presto trasformata in “senso comune”, penetrando sorprendentemente ambienti – e facendo breccia presso autori – che difendono nondimeno posizioni rivoluzionarie. Lmjf]

Postfordismo: questo termine è entrato nel linguaggio corrente negli anni '90 per indicare un insieme di caratteristiche economiche, sociali e istituzionali del nostro presente, avvertite come profondamente diverse rispetto al nostro recente passato.
Il recente passato in questione è fondamentalmente – salvo dilatazioni più o meno fondate, di cui parlerò in seguito – quello del secondo dopoguerra: quarant'anni che hanno visto prima una rapida crescita economica – si è parlato di vero e proprio boom negli anni '60 – e poi una lunga e tormentata crisi; anni che hanno portato prima un aumento generalizzato del benessere e poi l'austerità, i sacrifici, la povertà per vasti strati della popolazione; anni in cui erano in campo ideali e credi politici che sembravano solidi punti di riferimento per l'una e l'altra parte schierata, e che abbiamo poi visto perdere consistenza, volatilizzarsi, bruciare in tempi incredibilmente brevi. L'impressione è che sia finita un'epoca, si sia chiuso un ciclo, e che ci troviamo ormai oltre, dopo, post.

Post

Post non è un "dopo" come tutti gli altri. Questo suffisso è entrato prepotentemente nella nostra cultura negli anni '80, attraverso la porta dell'architettura (il "postmodernismo" è stato innanzitutto un movimento architettonico), e ha colonizzato gli ambiti più diversi (il termine "postmoderno" è stato ben presto usato in ambito filosofico, ma si è parlato poi di "postindustriale", "postcomunismo"...) portando comunque con sé un significato peculiare. Post è un dopo che smentisce la direzione prevista, è un cambiamento di rotta o un'inversione di tendenza: rispetto al funzionalismo e al razionalismo sempre più spinti dello "stile moderno", in architettura; rispetto al destino di progresso e di emancipazione promesso dalle filosofie della storia ottocentesche (le "grandi narrazioni", come le chiama Lyotard che ha introdotto per primo il termine "postmoderno" in filosofia[1]).
Il termine "postindustriale", da parte sua, portava con sé l'idea di un'inversione di tendenza rispetto al caratteristico sviluppo produttivo che la nostra società ha conosciuto a partire dalla rivoluzione industriale dell'Inghilterra di fine '700. Due secoli di industrialismo sempre più pesante, concentrato, orientato alla produzione di massa standardizzata, alimentato da schiere di lavoratori sempre più simili a eserciti, uomini intruppati, disciplinati, alienati, stipati in spazi urbani omologati e senza radici: tutto questo stava per finire. Una svolta epocale, essenzialmente dovuta alle nuove tecnologie basate sull'informatica e sulla microelettronica, avrebbe portato nella direzione opposta del decentramento, dell'alleggerimento, a tecniche sempre più soft e addirittura a una "produzione immateriale", sciogliendo la dura realtà delle officine stridenti in impalpabile virtualità.

Postindustriale

Mi soffermo ancora brevemente sull'idea della "società postindustriale", che è stata in voga soprattutto tra la fine degli anni '70 e i primi anni '80, perché è la parente più prossima dell'idea della "società postfordista", in cui ha lasciato profonde tracce.
"Postindustriale" è stato lo slogan ottimista di chi si aspettava dall'informatica la liberazione dagli aspetti negativi dell'industrialismo e della produzione di massa – l'alienazione, l'inquinamento, il gigantismo industriale e metropolitano – se non addirittura dalla condanna biblica del lavoro. È un'idea che ha alimentato una letteratura euforica, spesso più fantascientifica che "seria", più orientata cioè a colpire l'immaginario collettivo che ad analizzare le trasformazioni in atto: qualcuno ha fondatamente sospettato che si trattasse di un enorme battage pubblicitario a sostegno della prima grande ondata di introduzione delle tecnologie informatiche. Sta di fatto che bestsellers come Piccolo è bello di Schumacher[2] o After Industrial Society? di Gershuny[3], o "rapporti" diventati altrettanto celebri come quello di Nora e Minc per il governo francese[4] o quello dello Japan Computer Usage Development Institute[5], o i saggi di Adam Schaff su lavoro e occupazione scritti per il Club di Roma[6] non sono indagini sulla realtà contemporanea, ma fantasie su società futuribili: società totalmente atomizzate, in cui le città sono scomparse e gli individui vivono in un'arcadia disinquinata connessi dai terminali con cui comunicano, lavorano, si istruiscono e fanno la spesa; società integralmente democratiche perché le informazioni sono finalmente a disposizione di tutti e tutti partecipano alle decisioni collettive via modem; società in cui l'umanità liberata dal lavoro grazie alle nuove automazioni può dedicarsi a un'attività di "educazione permanente": come diceva Marx, "non resta a desiderare altro se non che il re, rimasto solo nell'isola, girando continuamente una manovella, faccia eseguire per mezzo di congegni meccanici tutto il lavoro dell'Inghilterra"[7].
Quest'ultima citazione è tratta dai Manoscritti economico-filosofici del 1844, e testimonia il fatto che la fede nella liberazione dell'umanità attraverso il progresso tecnico non è nuova (e non è marxiana: tutt'al più marxista). È un fatto che le infatuazioni tecnologiche ricorrono nella storia della nostra cultura, ma su questa ricorrenza – a mio avviso significativa – tornerò più oltre.

Postfordismo

Veniamo ora al "postfordismo", idea pessimista degli anni '90 che rappresenta in qualche modo la sobrietà dopo l'ubriacatura informatica. Ci si sveglia, e si constata che il mondo non è poi cambiato così radicalmente, anzi va peggio. La "liberazione dal lavoro" annunciata significa, per il momento, aumento della disoccupazione, emarginazione, povertà. Chi non lavora non trova più nemmeno strutture sociali di sostegno, poiché queste vengono sistematicamente smantellate. E chi ancora lavora non ha più gli strumenti di difesa del passato, e deve accettare ritmi e orari più pesanti, riduzioni salariali, condizioni di precarietà. Ed è perfino difficile prendersela con qualcuno, perché gli ordini arrivano dall'alto e i ricatti da lontano, da dimensioni "sovranazionali" che sembrano inaccessibili alle istanze politiche tradizionali.
Molte interpretazioni che oggi tentano di dar conto di questa situazione impiegano il termine "postfordismo", e concordano per l'essenziale nel caratterizzare questa nuova fase attraverso tre ordini di fenomeni: la tendenza a una diminuzione assoluta del lavoro, un nuovo assetto definito "flessibile" della produzione e uno spostamento dei poteri di governo dell'economia dall'ambito nazionale a una dimensione sovranazionale o "globale".
Si tratta di analisi spesso molto serie, che mettono in luce elementi importanti. Personalmente, tuttavia, ho alcune perplessità di fondo che voglio subito esplicitare, prima di passare a una più precisa disamina di quello che possiamo chiamare il "paradigma postfordista". Si tratta di una linea interpretativa che coniuga il nuovo vezzo della "cultura del post" – l'idea che siamo di fronte a una svolta epocale, cui si guarda con timore ma soprattutto con l'eccitazione di chi pensa "da questo momento niente sarà più come prima e noi siamo così fortunati da essere presenti e svegli proprio in questo momento" – con un vecchio vizio della tradizione marxista – l'idea che il capitalismo incontri un limite assoluto e "oggettivo" al proprio sviluppo, come un organismo vivente che ha un'irreversibile parabola di nascita, crescita, declino e morte, e dunque prima o poi si toglierà di mezzo da solo. Sono entrambe idee consolatorie, e proprio per questo difficili da scalzare. Ma i due secoli di storia del pensiero economico e politico che accompagnano lo sviluppo del capitalismo dalla rivoluzione industriale ai nostri giorni è una storia di svolte epocali annunciate e smentite, di pretese ultime frontiere raggiunte e superate. Perciò ritengo che ripensare il passato storico e teorico – i fatti e le loro interpretazioni – sia oggi importante almeno quanto indagare il presente, e sicuramente più dell'azzardare previsioni per il futuro.
Esplicito subito anche la mia personale ipotesi interpretativa. Come ho detto, diagnosi infauste per le ulteriori possibilità di sviluppo del sistema, da un lato, e, dall'altro, fiduciose utopie tecnologiche sono ricorrenti nella storia della nostra cultura. A mio avviso, questa ricorsività potrebbe essere il sintomo di una dinamica ciclica del capitalismo: una dinamica in cui fasi di espansione che incontrano limiti solo relativi sono seguite da periodi di crisi che non sono irreversibili, scandita da innovazioni tecnologiche che presentano potenzialità indefinite ma mettono capo a modelli di accumulazione esauribili, destinati dunque ad essere sostituiti senza che ciò coincida con la fine del capitalismo o con una trasformazione radicale della sua logica di fondo.
Ma prima di vagliare questa ipotesi, è necessario entrare un po' più nel merito di quello che ho chiamato "paradigma fordista".

Un "paradigma" per la sinistra?

Ho usato il termine "paradigma" perché ho l'impressione che, almeno nei dibattiti della sinistra italiana, dopo una lunga fase di disorientamento nel valutare e interpretare le trasformazioni degli assetti produttivi, economici, sociali e politici seguite alla crisi degli anni '70, siano state raggiunte e si siano consolidate – forse un po' troppo rapidamente – alcune "certezze" sulle tendenze emergenti. Si tratta dei tre ordini di fenomeni cui precedentemente accennavo: nell'era "postfordista" – destinata a durare in modo significativo – il lavoro diminuirà, a causa dei processi di automazione e di aumento della produttività consentiti dalle nuove tecnologie; la produzione diverrà "flessibile", cioè capace di adattarsi a un mercato variabile, dal quale comunque non ci si può più aspettare la domanda in durevole espansione e il consumo di massa del passato; la nuova produzione "magra" e "integrata", secondo i nuovi canoni del toyotismo, non sarà legata ai mercati interni ma opererà a livello mondiale, in un processo di "globalizzazione" da cui discende, sul piano politico, la crisi dello stato-nazione, progressivamente sostituito da organismi sovranazionali (la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, ecc.) nei compiti di governo dell'economia.
Su questi tre caratteri – che indicheremo per brevità come "fine del lavoro", "flessibilità" e "globalizzazione" – convergono oggi, con diversi accenti e traendone diverse indicazioni politiche, ma con un accordo di fondo, gli autori italiani che rappresentano i punti di riferimento della sinistra "vecchia" e "nuova": economisti "accademici" (absit iniuria verbis) come Giorgio Lunghini[8], autori fortemente originali come Marco Revelli[9], profeti dell'"autonomia" come Paolo Virno[10], ma anche promotori della new wave liberista-di-sinistra come Salvati, fino a personaggi più decisamente politici come Pietro Ingrao e Rossana Rossanda. Ingrao e Rossanda[11] – forse per l'autorità che deriva loro dal rappresentare in qualche modo il "sangue blu" della sinistra italiana, la tradizione alta rispetto al degrado massmediale che oggi ha travolto la politica – hanno anzi contribuito in modo decisivo al consolidamento e alla diffusione del "paradigma" postfordista con il volume Appuntamenti di fine secolo: libro fortunatissimo e commentatissimo, che ha siglato una sorta di compromesso teorico tra le due principali anime del marxismo italiano, quella ortodossa e quella operaista, acerrime nemiche alla fine degli anni '70, oggi sostanzialmente concordi sulla definizione del postfordismo.
La paternità della nozione di “postfordismo” non spetta tuttavia né al marxismo ortodosso né all'operaismo. Questi due filoni di pensiero hanno importato d'oltralpe il termine e la definizione corrispondente, adattandoli al proprio apparato concettuale. Il copyright sul postfordismo spetta infatti senza dubbio alla cosiddetta Ecole de la Régulation francese, che negli anni '70, attraverso i lavori di Michel Aglietta (considerato il caposcuola), Benjamin Coriat, Alain Lipietz e altri, ha portato avanti un'interessante proposta interpretativa fondata sull'individuazione di diversi "regimi di accumulazione". Un regime di accumulazione ampiamente studiato da questa scuola è il fordismo; un altro – ad esso subentrato e definito essenzialmente per differenza – è appunto il postfordismo. È stato soprattutto l'operaismo a introdurre in Italia le analisi dei regolazionisti [12], dandone una lettura fortemente soggettivista e collocandole sullo sfondo di un destino di "liberazione dal lavoro". Il marxismo più tradizionale ha recepito un po' più tardi questi contributi, adattandoli al proprio schema interpretativo di stampo evoluzionista: la storia del capitalismo è vista come una successione di "fasi di sviluppo" accrescitive e irreversibili, di tipo quasi biologico, e il postfordismo rappresenta la (ennesima) "fase suprema".
Nel paradigma postfordista confluiscono dunque diverse impostazioni teoriche e convivono diverse ispirazioni: una convivenza abbastanza pacifica, che dà luogo a scarsi dubbi e scoraggia l'esercizio della critica. La nozione di postfordismo è diventata ormai senso comune, e i caratteri della nuova "fase" sono dati per scontati: si discute soltanto, a valle, delle ricette politiche per contrastare gli effetti indesiderabili come l'estesa disoccupazione ("lavori utili" no profit? "salario di cittadinanza" garantito? "lavorare tutti, lavorare meno"?), ma la diagnosi è data per certa. A mio avviso occorrerebbe invece un supplemento di indagine a monte. Utilizzando un'ottica meno legata ai settori produttivi tradizionali (in particolare quello dell'automobile, non più trainante ma considerato ancora, se non decisivo, almeno emblematico dell'industria nel suo complesso) e soprattutto un po' di memoria storica è infatti possibile avanzare qualche ragionevole dubbio sulla generalizzabilità e stabilità di quelli che sono considerati i caratteri chiave del postfordismo – "fine del lavoro", "flessibilità", "globalizzazione". Vorrei in questo senso proporre qui alcuni spunti critici, partendo da un esame delle nozioni proposte dalla Scuola della Regolazione.

Fordismo: un "modo di produzione"...

Il fordismo e il postfordismo di cui parla la Scuola della Regolazione non sono "fasi" nel senso del marxismo ortodosso: non sono cioè stadi di sviluppo, tappe obbligate di un percorso di cui si conosce la direzione. Aglietta e la sua scuola tentano anzi di sottrarsi a questo schema tradizionale, sospendendo il giudizio circa le "leggi evolutive" del capitalismo e il suo destino storico, e cercando piuttosto di definire un "idealtipo" capace di rappresentare in un quadro coerente il modello di crescita economica prevalso nei paesi capitalistici sviluppati dopo la seconda guerra mondiale. Tale modello viene descritto come un sistema strutturato intorno a tre dimensioni principali: un tipo di produzione fondato sul paradigma tecnologico "fordista" (organizzazione del lavoro a catena per la produzione di massa entro la grande fabbrica centralizzata), un modo di regolazione imperniato sulle politiche keynesiane di sostegno della domanda e dell'occupazione, un blocco sociale centrato su un "compromesso" relativamente stabile tra classe operaia e capitale garantito dallo stato. La sinergia di queste dimensioni avrebbe prodotto il circolo virtuoso del dopoguerra, in cui profitti, salari, occupazione e benessere sociale riuscivano a crescere contemporaneamente.
L'analisi della produzione, sviluppata soprattutto da Coriat[13], è particolarmente interessante e innovativa rispetto al marxismo ufficiale dei partiti comunisti degli anni '70, piuttosto incline a fare del lavoro e della produttività valori indiscussi, fatti propri dal movimento operaio e contrapposti al "parassitismo" di un capitale finanziario "tagliatore di cedole", ormai estraneo alla produzione. La produzione fordista si basa sui criteri dello "scientific management " introdotto da Taylor, i cui metodi – la spinta divisione del lavoro, la rigida separazione tra direzione ed esecuzione, l'imposizione tassativa di tempi e mansioni standardizzate – producono alienazione e subordinazione. Vista in quest'ottica, la stessa introduzione di tecnologie di automazione e di processo – nel caso specifico, le macchine operatrici e la catena di montaggio su nastro ideata da Ford – perde l'aura del "progresso tecnico" e si rivela un mezzo per imporre in modo inesorabile gli alienanti metodi tayloristi: incorporati nelle macchine, essi diventano una "necessità tecnica" impersonale e oggettiva. Per questa via, viene sviluppata una prospettiva di critica dell'organizzazione capitalistica del lavoro e della stessa tecnologia, critica assai carente se non addirittura assente nel marxismo ortodosso, tutto preso dalle magnifiche sorti e progressive dello "sviluppo delle forze produttive", in cui l'Unione Sovietica degli anni della guerra fredda si distingue al punto da contendere agli Stati Uniti i primi posti in classifica. E viene anche recuperato un Marx assai trascurato dalla tradizione interpretativa ufficiale, quello che nel Capitale analizza la nascita della "grande industria meccanizzata", descrivendone con grande efficacia gli effetti – l'impoverimento oggettivo e soggettivo del lavoratore che diventa "appendice della macchina", ingranaggio di un meccanismo di cui non capisce il funzionamento e non conosce il risultato.
Per la verità, l'analisi di Marx si riferisce all'industria tessile inglese, al centro della rivoluzione industriale alla fine del '700: le macchine citate nel Capitale sono il filatoio idraulico a lavoro continuo di Arkwright brevettato nel 1769 e il telaio meccanico di Cartwright del 1787. Che tale analisi si attagli tanto bene all'industria automobilistica che decolla oltre un secolo più tardi (la catena di montaggio su nastro viene introdotta alla Ford Motor Company di Detroit nel 1908) è oggetto di una curiosa interpretazione da parte di Coriat: egli non pensa che il processo di "trasformazione dell'operaio di mestiere in operaio massa" – per usare la sua terminologia – sia già avvenuto altrove, pensa piuttosto che Marx sia stato un profeta, abbia saputo di cogliere i primissimi indizi di un processo destinato a giungere al pieno compimento solo cent'anni dopo.

... e un "modo di regolazione".

Ma proseguiamo con l'esposizione delle altre dimensioni del "sistema fordista" indagate dalla Scuola della Regolazione. L'"operaio massa", creato dai metodi di lavoro inaugurati dall'industria automobilistica e poi esportati in altri settori, mette capo a una "produzione di massa", la quale a sua volta richiede un "consumo di massa" che il mercato concorrenziale non è in grado di garantire. Secondo Aglietta[14], la causa fondamentale della crisi del 1929 risiederebbe appunto nell'inadeguatezza di un modo di regolazione rimasto concorrenziale, soprattutto nei meccanismi di formazione dei salari, rispetto alle esigenze della produzione di massa. Saranno le nuove linee di politica economica di ispirazione keynesiana, basate sul sostegno della domanda effettiva attraverso la politica fiscale redistributiva e la spesa pubblica, a colmare lo scarto, a partire dagli anni '30 – i "trente glorieuses" che permettono l'uscita dalla crisi.
Questa svolta negli indirizzi di politica economica richiede l'assunzione da parte dello stato di compiti affatto nuovi, sconosciuti al capitalismo concorrenziale. Ma richiede anche un "compromesso istituzionalizzato" – de jure o de facto – tra il padronato e le organizzazioni dei lavoratori: un patto in base al quale "aux gestionnaires le choix concernant les méthodes de production, aux salariés une part 'des dividendes du progrès', c'est à dire des gains de productivité ainsi obtenus"[15]. Lo stato è anche qui chiamato in causa: nelle condizioni imposte dalla produzione fordista, non può più essere soltanto "un comitato, il quale amministra gli affari comuni di tutta quanta la classe borghese", come Marx lo definiva nel Manifesto, ma deve gestire e garantire l'accordo tra le parti sociali.
Nel secondo dopoguerra le condizioni strutturali necessarie alla "coerenza del fordismo" sono ormai presenti e messe a punto nella maggior parte dei paesi sviluppati. Esistono diverse "varianti nazionali" del fordismo (la Scuola della Regolazione parla ad esempio di un fordismo "entravé", cioè impastoiato o bloccato, nel Regno Unito, "atipico e ritardato" in Italia, "flessibile" in Germania), ma nel complesso si tratta di un modello ben riconoscibile che deriva fondamentalmente dal prototipo statunitense. Va sottolineato che, nella concezione regolazionista, il fordismo non costituisce un "sistema mondo", ma piuttosto un insieme di sistemi nazionali "autocentrati", rispetto ai quali la dimensione internazionale ha un'importanza relativa e strumentale: le stesse corporations multinazionali hanno una patria, sono legate a doppio filo alla politica portata avanti dallo stato cui appartiene la casa madre.

Grandi trasformazioni

A ben vedere, la ricostruzione proposta dalla Scuola della Regolazione non descrive soltanto l'assetto economico e sociale dei paesi sviluppati nel secondo dopoguerra, ma fornisce un'interpretazione di tutto il '900: il nostro secolo viene letto come vicenda della lenta formazione di un capitalismo profondamente diverso da quello ottocentesco. Il capitalismo del XIX secolo opera su dimensioni contenute, è concorrenziale, liberale e liberista; quello del XX secolo è "di massa", gigantesco in tutte le sue dimensioni, non concorrenziale, statalista, assistito. Si forma lentamente, un pezzo per volta: il nuovo modo di produzione "fordista", nei primi decenni del '900; il modo di regolazione ad esso adeguato negli anni '30 e '40, dopo lo choc della crisi del 1929. Il sistema funziona a pieno regime solo dal dopoguerra agli anni '70, ma la sua storia, dalla formazione alla decadenza, occupa l'intero secolo.
L'idea di un capitalismo novecentesco strutturalmente diverso da quello ottocentesco non è nuova. È un'idea che prende piede soprattutto negli anni '40. L'opera più significativa, in questo senso, è forse La grande trasformazione di Polany[16]: l'autore vede nella crisi del '29 compiersi il "crollo della civiltà del XIX secolo", civiltà che presenta certamente le sue luci e le sue ombre, ma che ha garantito pace e libertà, mentre il XX secolo è l'era delle guerre mondiali e dei regimi totalitari. Nella letteratura più strettamente economica, la "grande trasformazione" del '900 è al centro delle cosiddette teorie del ristagno, teorie che negli anni '40 hanno goduto di molto successo negli Stati Uniti, rappresentando tra l'altro il principale veicolo di diffusione della teoria keynesiana e delle politiche ad essa ispirate[17]. Secondo queste teorie, le condizioni che avevano permesso l'espansione del capitalismo nell''800 – identificate soprattutto nella crescita della popolazione, nell'espansione territoriale e nel progresso tecnico – si presentano ormai esaurite nel XX secolo. Il sistema tende perciò a una condizione di ristagno, che soltanto il massiccio intervento dello Stato può sanare.
Come si vede, si tratta di teorie fortemente pessimiste: il capitalismo – esse sostengono – non sarà mai più quello di prima, non porterà più "spontaneamente" ricchezza e progresso, non possiamo più "lasciarlo fare" sperando nelle virtù della mano invisibile del mercato, poiché ora ha bisogno di essere opportunamente indirizzato e sostenuto. Conclusioni certamente influenzate dalla vicenda della grande crisi, cui non seguì una pronta e solida ripresa (gli anni '30 non sono affatto "glorieuses" come pretendono i regolazionisti) ma una lunga fase di precarietà. La Scuola della Regolazione dà invece della "grande trasformazione" una versione più equilibrata, col senno del poi di chi ha visto il boom del secondo dopoguerra: il capitalismo del XX secolo è diverso, ma non necessariamente in peggio, visto che è ancora capace di sviluppo. La diversità è comunque individuata – come negli stagnazionisti – nei nuovi compiti assunti dallo stato e nel carattere non più concorrenziale del capitalismo.
A quanto pare gli economisti sono molto attenti al presente, molto disposti ad azzardare previsioni di lungo periodo per il futuro, ma assai poco memori del passato. I teorici della stagnazione, così come gli autori della Scuola della Regolazione, sembrano infatti non ricordare che una "grande trasformazione" del capitalismo era già stata ampiamente teorizzata a cavallo del secolo, in opere importanti come Il capitale finanziario di Hilferding[18], The Evolution of Modern Capitalism e L'imperialismo di Hobson[19]. Con toni diversi (Hobson è profondamente pessimista, probabilmente perché scrive in un'Inghilterra ormai declino, mentre Hilferding, dall'osservatorio di una Germania in piena espansione, prevede un'era di maggiore stabilità economica) gli autori in questione individuano il punto di svolta intorno al 1870, parlano entrambi di un capitalismo non più concorrenziale, di un nuovo ruolo svolto dallo stato, di processi di mondializzazione e finanziarizzazione dell'economia. Per certi versi sembrano dunque anticipare aspetti del fordismo, per altri addirittura caratteri del postfordismo (Hobson, in particolare, parla di deindustrializzazione, terziarizzazione e perfino di "produzione immateriale"). La trasformazione è comunque segnalata con tanto vigore che Lenin ne deduce l'imminente fine del capitalismo: le opere di Hilferding e di Hobson citate vengono infatti ampiamente riprese (quella di Hobson quasi integralmente, anche nel titolo) nel saggio L'imperialismo fase suprema del capitalismo[20], in cui l'aggettivo "suprema" significa, senza ombra di dubbio, ultima.
Come accennavo all'inizio, le diagnosi infauste per il capitalismo e le svolte epocali annunciate ricorrono con una certa frequenza nella storia del pensiero economico. I casi sono due: o sono tanti i profeti, oppure le "grandi trasformazioni" avvengono più spesso di quanto normalmente si ammetta, e forse vengono così prontamente dimenticate perché il cambiamento non è poi così profondo come ci si aspettava.

Toyotismo

Ma torniamo alla Scuola della Regolazione. Sappiamo che negli anni '70 il fordismo entra in crisi. La domanda è allora da che cosa sia destinato ad essere sostituito, e la risposta, da parte dei regolazionisti, è fin troppo pronta: un nuovo "modo di produzione", diverso e anzi opposto nella sua logica di funzionamento, è già stato messo a punto in Giappone dall'ingegner Ohno e applicato con successo alla produzione di automobili Toyota. Il toyotismo è presentato dalla Scuola della Regolazione come la forma ormai compiuta e ineluttabile del postfordismo: è destinato a prenderne il posto, diffondendosi dal Giappone al resto del mondo e dal settore automobilistico al resto dell'industria, e pretenderà un "modo di regolazione" adeguato, smantellando in primo luogo le politiche e le istituzioni del welfare di stampo keynesiano.
Le novità del toyotismo sono molte, e vengono descritte marcando (spesso forzando) la differenza rispetto alla produzione fordista[21]. La catena lineare e rigidamente sequenziale di Ford viene sostituita da sistemi modulari (a "rete" o a "isole") o a "U" che rendono più flessibile il montaggio. Il principio taylorista "un uomo, una mansione" viene meno, gli operai vengono addetti a più macchine, devono essere essi stessi flessibili e "polivalenti", e lavorare in gruppi o squadre secondo modalità che sembrano andare nella direzione opposta rispetto ai classici principi della divisione del lavoro e della parcellizzazione delle mansioni. Perfino l'"alienazione" del lavoro sembra venir meno, poiché si chiede al lavoratore di condividere gli obbiettivi dell'azienda.
Ma una differenza viene soprattutto enfatizzata: la produzione non è più di massa, nel duplice senso che non ha più le grandi dimensioni del passato e non è standardizzata. Questo punto è cruciale nell'argomentazione della Scuola della Regolazione: essa ritiene infatti che la crisi del fordismo sia essenzialmente dovuta ai limiti raggiunti dal consumo. Il mercato non è più in grado di assorbire una produzione di massa, dunque la produzione deve adeguarsi a una domanda ormai "matura", inferiore per dimensione e mutevole per gusti. Il postfordismo sembra dunque promettere quella "sovranità del consumatore" di cui parlava un secolo fa Vilfredo Pareto e che Ford arrogantemente aveva smentito sostenendo che "il cliente può comprare l'automobile del colore che vuole, purché sia nera".
L'immagine del futuro suggerita dalla Scuola della Regolazione – per la verità soprattutto da Coriat, critico del capitalismo nella versione fordista ma decisamente apologeta della sua versione toyotista – non è forse euforica come quella "postindustriale" ma, nella sua sobrietà, abbastanza consolante (non a caso è stata ampiamente ripresa dai nostrani fautori del "modello giapponese" e della "qualità totale", Romiti in testa). La produzione deve diminuire, per raggiunti "limiti dello sviluppo", e di conseguenza diminuirà il lavoro. In compenso, il lavoro sarà meno alienato – meno scisso e indifferente – e il consumo più gratificante – più personalizzato e vicino ai bisogni reali.
Quanto al "modo di regolazione" prossimo venturo, i giochi non sono forse ancora fatti come nel campo della produzione (del resto anche la storia del fordismo registra una sfasatura, una certa lentezza delle istituzioni ad adeguarsi), ma sicuramente vanno nella direzione della "crisi della forma stato", inadeguata ormai per dimensioni e funzioni.

Alcune critiche

1. Molti autori – per la verità non molto ascoltati – hanno contestato le mirabilia del toyotismo, mettendo in luce come la Toyota sia tutt'altro che un paradiso[22], come i metodi ivi impiegati rappresentino una razionalizzazione estrema del taylorismo più che il suo rovesciamento[23], facendo osservare che molte pretese "ricomposizioni" o "riqualificazioni" del lavoro messe in atto dagli emuli di Ohno sono consistite semplicemente nell'assegnazione di un operaio a due o tre macchine anziché a una sola, per eseguire mansioni comunque parziali, esecutive, ripetitive, spesso con un aumento dell'intensità del lavoro[24].
Queste critiche possono essere ulteriormente sviluppate mettendo il naso fuori dal settore automobilistico, a torto considerato ancora rappresentativo della produzione industriale nel suo complesso. Anche rimanendo nei tradizionali poli dello sviluppo industriale, e ignorando il resto del mondo, si può ad esempio osservare che in un nuovo settore chiave, quello dell'informatica, i vecchi principi del taylorismo sono ancora in auge. Non mi riferisco tanto alla produzione di software (che pure potrebbe fornire ottimi esempi di taylorismo applicato al "lavoro intellettuale"), quanto alla componentistica, industria strategica del settore – non a caso oggetto di pesanti politiche protezionistiche da parte degli Stati Uniti – troppo spesso ignorata a causa del luogo comune secondo cui quella informatica sarebbe una produzione "immateriale". Nella Silicon Valley come in Giappone, questo settore mantiene le più classiche caratteristiche della produzione "industriale" pesante, rigida, concentrata, con mansioni lavorative standardizzate e ripetitive.
Se poi si guarda al di là di quelli che sono stati i centri dello sviluppo industriale di questo dopoguerra, le sorprese possono essere ancora maggiori. Si scoprirà, ad esempio, che la stessa produzione automobilistica è tuttora più "fordista" di quanto non si creda: solo che non si svolge più soltanto a Torino o a Detroit, ma in larga percentuale, ad esempio, in Brasile, dove impiega le tecniche rigide di esecuzione parcellizzata secondo "one best way" caratteristiche del taylorismo. Studi recenti mostrano che nelle "semiperiferie" di nuova industrializzazione – come il Messico, l'Indonesia, l'India, il Brasile, il Sud Corea e, oggi, la Cina – la diffusione dei metodi tayloristi e fordisti tradizionali è vastissima anche in quei settori in cui le innovazioni organizzative attuate dalle case madri dei "centri" fanno parlare di "postfordismo". La fabbrica taylorista sembra anzi uno strumento particolarmente efficace per l'esportazione dei metodi di lavoro capitalistici nei paesi cosiddetti "in via di sviluppo". Se in queste aree – come è stato osservato[25] – è difficile prevedere l'evoluzione di produzioni artigianali o semiartigianali locali verso forme comandate da principi di produttività e di efficienza simili a quelle del mondo capitalistico sviluppato, a causa della resistenza opposta dalle diverse culture autoctone, ci si può invece ragionevolmente aspettare che il trapianto di una produzione altamente taylorizzata abbia ragione di tali resistenze, e ottenga in tempi brevi il disciplinamento di una popolazione priva di tradizione industriale.
Sulla base di queste considerazioni è forse legittimo mettere in dubbio una delle certezze del "paradigma fordista": a livello mondiale, il lavoro non diminuisce affatto, piuttosto si sposta dove maggiori sono i margini di profitto e le possibilità di sfruttamento. E occorre aggiungere che "lavoro" e "occupazione" sono nozioni diverse (la loro differenza aveva messo in imbarazzo Keynes, può ben aver fatto prendere un abbaglio a Lunghini!): non è affatto scontato sostenere che il capitale impiega meno "lavoro vivo" quando a fronte della diminuita occupazione esiste un aumento dello sfruttamento.

2. Anche l'idea di una nuova "sovranità del consumatore", di una inversione dei rapporti di forza tra domanda e offerta che costringerebbe la produzione a diventare "flessibile" per rispondere al mercato, pecca, a mio avviso, di "automobilocentrismo". Le nuove caratteristiche dell'offerta – la differenziazione dei prodotti, l'individuazione e la creazione di fasce di mercato diversificate, ecc. – non riguardano a ben vedere tutto il mercato: sono piuttosto tipiche dei mercati maturi o saturi, come appunto quello dell'automobile. Di nuovo, basta guardare a un settore recente, come quello dell'informatica – soprattutto a quella sua parte specificamente indirizzata al consumo di massa dell'home computer – per osservare tendenze opposte: negli ultimi dieci anni, la direzione è stata quella della standardizzazione e della concentrazione dell'offerta.
A questa contestazione per così dire "geografica" dell'impianto regolazionista vorrei aggiungere qualche considerazione di tipo storico. La strategia di differenziazione e personalizzazione dei prodotti non è affatto nuova. Essa viene ampiamente teorizzata negli anni '30 e '40, dunque in anni di "produzione di massa", quando gli economisti scoprono – se non per l'ennesima, almeno per la seconda volta – che il capitalismo non è più concorrenziale, in opere come L'economia della concorrenza imperfetta di Joan Robinson e Teoria della concorrenza monopolistica di Edward Chamberlin[26]. La stessa idea viene ripresa negli anni '60, quando il fordismo funziona a pieno regime, in Il capitale monopolistico di Baran e Sweezy[27]. A meno di non aver a che fare, ancora una volta, con profeti, risulta sensata una diversa interpretazione. Evidentemente, Ford impone le famose automobili nere nei primi decenni del secolo, finché è il solo produttore in serie su grande scala; dovrà farle gialle, rosse, verdi e dotarle di inessenziali accessori (contro il suo motto "ogni pezzo in più è un pezzo in più che si rompe") nei decenni successivi, quando entreranno sulla scena la General Motors e la Chrysler; e dovrà rincorrere la moda nel dopoguerra, quando il mercato dell'automobile diventa "globale".

3. Gli inizi del fordismo presentano un'altra caratteristica troppo spesso taciuta: il clima non è affatto di pace sociale, di compromesso tra le parti, ma di feroce attacco padronale ai diritti dei lavoratori. Fin dalla sua fondazione nel 1903, la Ford non tollera alcuna presenza dei sindacati, neppure di quelli "gialli": i sindacati rimangono fuori dai cancelli della Ford fino al 1941. Questo non perché le istituzioni non si siano ancora adeguate, ma perché la Ford non vuole. Il suo decollo è infatti legato a condizioni di sfruttamento altissime, consentite dalla vasta disoccupazione, dalla povertà, dalla pressione degli immigrati. La Ford non "trasforma" gli operai di mestiere in operai-massa: li butta fuori, e li sostituisce con disoccupati ricattabili, immigrati, disperati di ogni genere che sottopone a condizioni di lavoro infernali. Allora come oggi, disoccupazione e sfruttamento vanno insieme. Welfare e politiche di piena occupazione verranno dopo, e dopo verrà anche la spesa pubblica a sostegno del settore: queste politiche sono fondamentali per la diffusione e l'assestamento del "modo di produzione" fordista, ma probabilmente incompatibili con il suo decollo.
Per tirare le somme: flessibilità e disoccupazione non sono a mio avviso caratteristiche di un'era (un'età del ferro dopo l'età dell'oro), e nemmeno di un modello di accumulazione, ma piuttosto del periodo di passaggio da un modello a un altro. Segnano la fine di un ciclo e sono le condizioni perché un ciclo successivo decolli.

Un'ipotesi di lavoro...

Cerco di chiarire meglio, sia pure in modo schematico, la mia proposta interpretativa, mettendo le mani avanti sul suo carattere provvisorio: non è che un'ipotesi di lavoro. In breve, la storia dei fatti e delle interpretazionI mi sembra suggerire una dinamica ciclica dello sviluppo capitalistico.
Parlando di dinamica ciclica è impossibile non fare riferimento all'approccio schumpeteriano. Com'è noto, la dinamica delineata da Schumpeter è esplicitamente non accrescitiva (il capitalismo non si sviluppa "come un albero", mediante crescita continua e cumulativa). L'impianto è ciclico, marcato da discontinuità definite come "innovazioni", le quali a loro volta hanno un peculiare ritmo di introduzione, dapprima faticoso e poi rapidamente accelerato (attribuito da Schumpeter prevalentemente a fattori di "mentalità", quali la resistenza al nuovo e la distribuzione gaussiana della capacità imprenditoriale).
Lo schema tracciato nella Teoria dello sviluppo economico[28] presenta varie difficoltà, non ultima una definizione troppo ampia di "innovazione": quest'ultima, definita come "introduzione di nuove combinazioni nella produzione", fa pensare soprattutto a interventi di riorganizzazione dei "fattori produttivi", ma Schumpeter vi comprende in realtà anche situazioni che riguardano l'assetto del mercato più che della produzione (come l'"apertura di nuovi mercati" e la "riorganizzazione di un'industria" intesa come passaggio dal regime di monopolio a quello di concorrenza o viceversa). Nei Cicli economici l'attenzione si focalizza maggiormente sull'innovazione propriamente tecnologica, soprattutto in riferimento ai tre (o quattro? la cosa non è del tutto chiara) Kondratieff individuati: tessile (fino al 1842), ferrovia (fino al 1897), elettrificazione e chimica/trasporto su gomma[29]. Tale classificazione è dichiaratamente empirica (in ciò nulla di male) e non del tutto coerente, nella misura in cui il ruolo di tecnologia "epocale" spetta in alcuni casi a tecnologie produttive in senso stretto (come il telaio meccanico), in altri a tecnologie energetiche (elettricità e chimica, quest'ultima da intendersi come raffinazione del petrolio), in altri ancora a tecnologie connesse ai trasporti (ferrovia, trasporto su gomma). Lo schema è comunque affascinante, e la tentazione di aggiungere "informatica" o "telematica" come quinto (o quarto) Kondratieff è molto forte...
Ma quest'ultimo ciclo è davvero decollato? E a quale tipologia tecnologica (produzione, energia, comunicazioni) appartengono l'informatica, l'elettronica, la telematica?
Prima di porre queste domande, vorrei tentare di "fare ordine" nei Kondratieff schumpeteriani, distinguendo tecnologie industriali di punta (generalmente legate a produzioni di serie e consumi di massa) e tecnologie infrastrutturali (relative a comunicazioni, trasporti, energia e legate soprattutto a processi di riallocazione dei poli produttivi e di diffusione della produzione industriale). La periodizzazione che ho in mente è di questo tipo (sono indicati tra parentesi i cicli su cui non esiste un consenso consolidato nella letteratura corrente):
(PRIMARIO?) ... idrico-fluviale ... TESSILE ... ferrovia-vapore ... (CHIMICO?) ... ferrovia-elettricità ... MECCANICA LEGGERA ... trasporto su gomma-petrolio ... (INFORMATICA?) ... (telematica, new media?)
Lo schema proposto, oltre a "mettere ordine" evitando una serie di incongruenze, potrebbe dar conto di due diversi ritmi della dinamica capitalistica, uno "accelerato" e uno "diffusivo", fornendo una spiegazione diversa da quella schumpeteriana (che considera in una medesima innovazione un difficile inizio, una rapida accelerazione e una successiva perdita di incisività con il procedere della diffusione). In sostanza, avremmo una accumulazione accelerata nella fase in cui "parte" un settore industriale di punta, e una successiva dinamica diffusiva legata alla "seguente" creazione di grandi infrastrutture.
Quest'ultima osservazione permette di collegare almeno in parte i cambiamenti tecnologici segnalati dall'impianto schumpeteriano con le trasformazioni istituzionali messe in luce dalla tradizione marxista. Il ritmo che ho definito "accelerato" corrisponde infatti a periodi di forte concorrenza, di innovazione molto spinta e rapida obsolescenza tecnologica, di alto rischio nell'investimento. Prevale inoltre l'aspetto – per riprendere l'espressione schumpeteriana – della "distruzione creatrice": i vecchi settori produttivi entrano in crisi e inizia il processo della loro sostituzione o dislocazione in aree diverse (verso le periferie o semiperiferie del mondo capitalistico), ma essi esercitano una resistenza, un'inerzia che ha un effetto frenante sulla crescita economica.
Viceversa, il ritmo "diffusivo" corrisponde alla fissazione di standard che rallentano l'innovazione (o comunque l'incanalano su binari abbastanza obbligati), a processi di trustificazione e monopolizzazione, a un forte intervento dello stato legato soprattutto alla creazione di infrastrutture.

... e qualche conclusione provvisoria.

È certamente troppo presto per dire che la telematica e le autostrade elettroniche supporteranno un nuovo boom, una nuova ondata di consumi di massa, un nuovo "benessere" (se si può chiamare benessere "la vita pagata a rate / con la seicento, la lavatrice" di cui cantava Ivan Della Mea negli anni '60). Ma forse non è troppo tardi perché la sinistra, che oggi sembra convinta di aver messo le braghe alla nuova fase con la formula del postfordismo, vagli questa possibilità e prenda qualche precauzione.
Il neoliberismo non è probabilmente l'ideologia definitiva del capitale: lo slogan "meno stato, più mercato" oggi è funzionale alla dismissione degli apparati pubblici legati al vecchio modello di accumulazione, ma quando i giochi saranno fatti e sarà chiaro chi guiderà il cablaggio del mondo forse la borghesia riscoprirà la propria anima statalista e l'intervento statale smetterà di nuovo di risultare "ostile" al capitale... La sinistra farebbe dunque bene a non mettersi acriticamente dalla parte del "pubblico" solo perché si inneggia al "privato", a non sposare tout court la causa dello stato (e magari della nazione) solo perché è una bandiera lasciata provvisoriamente cadere. Così facendo rischia di trovarsi schierata non già dalla parte del "popolo" contro il capitale, bensì – assai meno eroicamente – dalla parte dei vecchi padroni contro i padroni emergenti.
La stagnazione non è probabilmente la condizione definitiva del capitalismo. Se la sinistra beve troppo fiduciosamente l'amaro calice dei "limiti dello sviluppo", e si attrezza a gestire sobriamente e responsabilmente un futuro di povertà, rischia di fare la parte del pompiere (se non del gendarme) negli anni delle vacche magre per trovarsi poi spiazzata – per l'ennesima volta – quando il sistema ripresenterà la faccia delle vacche grasse. Oggi il capitalismo dispensa miseria: dobbiamo ribellarci, non farcene responsabilmente carico. E se domani dispenserà di nuovo il suo benessere a rate dobbiamo ricordare bene la faccia feroce che oggi ci mostra e saper riconoscere la profonda ingiustizia su cui fonda le fasi alte come quelle basse del suo ciclo, l'insanabile iniquità con cui distribuisce la ricchezza come la povertà.


NOTE:

[1] Cfr. J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1978.
[2] E. F. Schumacher, Piccolo è bello, Miozzi, Milano 1977.
[3] J. Gershuny, After Industrial Society? The Emerging of Self-service Economy, The Macmillian Press Ltd, London 1978.
[4] S. Nora, A. Minc, Convivere con il calcolatore, Bompiani, Milano 1979.
[5] Japan Computer Usage Developement Institute, Verso una società dell'informazione. Il caso giapponese, Ed. Comunità, Milano 1974.
[6] A. Schaff, Occupazione e lavoro, in G. Friedrichs e A. Schaff (a cura di), Rivoluzione microelettronica. Rapporto al Club di Roma, Mondadori, Milano 1982.
[7] Un'ampia rassegna degli "scenari" fantatecnologici degli anni '70 è contenuta nell'antologia P. M. Manacorda (a cura di), La memoria del futuro, NIS, Roma 1986. Per un giudizio critico, si vedano soprattutto i saggi della Manacorda in essa contenuti.
[8] Cfr., ad esempio, G. Lunghini, L'età dello spreco, Bollati Boringhieri, Torino 1995.
[9] Marco Revelli è stato un importante e originale studioso - tutt'altro che accademico - dell'industria italiana e soprattutto della Fiat. Oggi sostiene posizioni "postfordiste" assai meno originali, come testimonia il suo saggio Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo in P. Ingrao, R. Rossanda, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma 1995.
[10] Cfr. i numerosi articoli di questo autore comparsi sulla rivista Luogo comune e sul Manifesto.
[11] P. Ingrao, R. Rossanda, Appuntamenti di fine secolo, cit.
[12] Gli esuli italiani a Parigi, raccolti intorno alla figura carismatica di Toni Negri e alla rivista Futur antérieur, si dedicano da tempo a un vivificante import-export di autori francesi. La rivista ha tra l'altro dedicato un ricco e interessante quaderno alla Scuola della Regolazione, che contiene sia testi degli autori che si riconoscono in questa scuola, sia interventi critici, e risulta molto utile per chi voglia farsi un'idea complessiva. Cfr. Futur Antérieur, Ecole de la Régulation et critique de la raison économique, L'Harmattan, Paris 1994.
[13] Cfr. soprattutto B. Coriat, La fabbrica e il cronometro, Feltrinelli, Milano 1979.
[14] Cfr. M. Aglietta, Régulation et crise du capitalisme. L'expérience des Etats-Unis, Calman-Levy, Paris 1976.
[15] Ivi, p. 48.
[16] K. Polany, La grande trasformazione, Einaudi
[17] L'autore che esercita maggiore influenza è forse A. Hansen, di cui è tradotto in italiano il saggio Progresso economico e declino dell'aumento della popolazione, in M. G. Muller (a cura di) Problemi di macroeconomia, Etas libri, Milano 1969; cfr. inoltre J. Steindl, Maturità e ristagno del capitalismo americano, Boringhieri, Torino 1960. Su questi autori, non molto noti in Italia, si veda M. Bonzio, La teoria economica di J. Steindl, in Economia Politica, aprile 1994.
[18] R. Hilferding, Il capitale finanziario, Feltrinelli, Milano 1961.
[19] J. A. Hobson, The Evolution of Modern Capitalism , Allen & Unwin, London 1935; L'imperialismo, ISEDI, Milano 1974.
[20] V. I. Lenin, L'imperialismo fase suprema del capitalismo, Editori Riuniti, Roma 1974.
[21] Significativamente Coriat fa suo il motto di Ohno "pensare all'inverso": il riferimento è all'inversione del flusso di informazioni attuato dal sistema Kan Ban (i pezzi necessari al montaggio non sono programmati "a monte" ma chiesti "a valle" man mano che si rendono necessario, in modo da diminuire scorte e magazzini), ma il senso è quello di una inversione completa della logica fordista. Cfr. B. Coriat, Ripensare l'organizzazione del lavoro. Concetti e prassi del modello giapponese, Dedalo, Bari 1991 (la traduzione italiana non ha rispettato il titolo originale che è, appunto, Penser à l'envers).
[22] Cfr. ad esempio S. Kamata, Toyota, l'usine du désespoir, Editions Ouvrière, Paris 1976.
[23] Cfr. C. Filosa e G. Pala, Il terzo impero del Sole. il neo-corporativismo giapponese nel nuovo ordine mondiale, Synergon, Milano 1992.
[24] Una ricchissima bibliografia su questi argomenti è contenuta in P. Barrucci, Fattore lavoro e qualità totale, Bari 1996.
[25] Cfr., ad esempio, S. Latouche, Capitalismo popolare o convivialità frugale, in Capitalismo, natura, socialismo, n. 1, 1994.
[26] J. Robinson, Economics of Imperfect Competition, Londono 1933; E. H. Chamberlin, Teoria della concorrenza monopolistica, La Nuova Italia, Firenze 1962.
[27] P. Baran, P. Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1968. Questa letteratura, tra l'altro, è assai più avvertita degli attuali teorici del postfordismo: mette in luce, quanto meno, che nelle condizioni di concorrenza monopolistica il consumatore non conta comunque nulla, è semplicemente conteso dalle grandi corporations che hanno bandito l'arma dell'abbattimento dei prezzi dalla competizione considerata corretta, e blandito con promesse di esclusività spesso affatto illusorie.
[28] Cfr. J. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, Sansoni 1971.
[29] Cfr. J. Schumpeter, Il processo capitalistico: cicli economici, Boringhieri, Torino 1977.

[Tratto da http://www.intermarx.com/]

14 luglio 2010

Fiat 1980. Tecnica di una sconfitta

Il soggetto operaio del dopo-FIAT


Premessa
Questo intervento è stato svolto per un convegno dell'area di “Collegamenti - Per l'organizzazione diretta di classe” tenutosi a Milano l'8/9 novembre [1980]. Scritto a caldo immediatamente dopo la chiusura della vertenza Fiat, è un tentativo di fornire alcune ipotesi interpretative, sia sul ruolo svolto dal PCI nella lotta, sia sul “soggetto” e sulle forme di soggettività emerse nel corso della vertenza. È un testo “politico”, forse troppo, ma ciò che ci interessava cogliere e comunicare immediatamente, è la sostanza politica dello scontro. Alcune delle ipotesi qui esposte hanno trovato conferma immediata nelle settimane seguenti: il problema dei “40.000” è divenuto infatti l'asse di una ulteriore riorganizzazione del sindacato che dopo aver sottovalutato e nascosto in maniera criminale la portata di questa “nuova ventata di integrazione sociale”, oggi la rincorre, ponendola al centro di una ennesima politica “anti-operaia”. Altre ipotesi occorrerà verificarle su un periodo di tempo più lungo, come ad esempio la possibilità e le modalità di formazione di un nuovo soggetto sociale antagonista.
Ciò che invece ci sembra sostanzialmente confermata è la politica del PCI. Dopo la Fiat, gli scandali e il terremoto al sud, il PCI si appresta a una nuova “svolta”. Ebbene, di fronte a chi certamente seguirà questa “svolta” con la speranza di una nuova “Grande Sinistra”, noi pensiamo invece che occorra riconfermare il nostro giudizio. A ben vedere la “svolta” implica una prospettiva politica ancor più a “destra” del compromesso storico. E questo non tanto perché l'area del “compromesso” si è allargata fino al buon Zanone e al PLI, ma perché l'“alternanza democratica” ribadisce i contenuti sociali dell'accordo DC-PCI e li amplifica. Ed a togliere le speranze ai “soliti illusi” basterebbero le dichiarazioni di Chiaramonte sulla sostanziale continuità della linea del “compromesso”, nella nuova forma dell'alternanza, che non esclude i ladri democristiani, ma solo quelli talmente idioti da farsi cogliere con le mani nel sacco. Ma c'è dell'altro. I contenuti sociali del “compromesso storico” rimangono inalterati: l'Eur/bis deve riconfermare la “linea dell'Eur”; il nuovo stato etico del lavoro, forte della sana spinta “rinnovatrice” dei “40.000” – che devono essere recuperati, e valorizzati dal partito più che dal sindacato – si presenta ancor oggi come il modello ideale di un “social-capitalismo” efficiente, tecnocratico, incorruttibile. Come dire, lo scenario è immutato, gli attori si sono cambiati la maschera, lo spettacolo può continuare.
1°-XII-1980

1 - Introduzione
Gran parte delle domande riguardanti l'attuale politica si possono riassumere in questa: "Che ne sarà del soggetto sociale del dopo Fiat?" Perché il problema è proprio lui: questo soggetto sociale e politico che che dal '69 ad oggi è stato irriducibile dentro le compatibilità del sistema. Un soggetto sociale inseguito e ricercato da partiti e sindacato, da politici e sociologi, ma quasi mai colto nella complessità delle sue articolazioni. Un soggetto in processo, che ha lavorato a fondo la società italiana, mutandone l'aspetto in modo impressionante in un solo decennio.
Questo soggetto, formatosi a partire dalla fine degli anni '60, dalle Università alle scuole medie, dalle fabbriche all'hinterland della metropoli capitalistica, sembrerebbe, dopo la sconfitta FIAT, aver perso, in parte o completamente, la propria carica trasformativa. Dentro questo soggetto la sconfitta si è consumata su due terreni: 1) quello della cultura e dell'immaginario della sinistra; 2) quello della composizione di classe. Se il '77 ha segnato la fine di una cultura unitaria della sinistra, l'autunno '80 alla FIAT ha ratificato la sconfitta di una composizione politica unitaria della classe operaia. Oggi occorre prender atto – nonostante quanto pensino il "Manifesto" o DP – che la "Sinistra" non esiste più, non esiste come cultura ed immaginario sociale, non esiste come modello sociale antagonista.
Certo, tutto ciò era vero anche dieci anni fa, ma oggi quella che era coscienza intellettuale in rivolta diventa evidente a livello di massa. Negli anni dal '77 a '79, l'immaginario della sinistra è esploso dall'interno di fronte alla soggettività del nuovo movimento, ed è crollato all'esterno sotto i colpi di una crisi internazionale che ha definitivamente liquidato, se ancora ce ne fosse stato bisogno, i miti del "socialismo reale", di Cuba, del Vietnam e della Cina. Oggi questa "crisi" si sposta dentro la cittadella “operaia” del riformismo, che vive una crisi profonda. Lo riconosce la Rossanda in uno dei più sensati interventi del dopo-Fiat: "Mai la povertà della cultura della sinistra è stata messa a nudo dagli Agnelli come nell'ottobre 1980. Voglio vedere chi parlerà di nuovo modello di sviluppo, di buona, controllata e programmata imprenditorialità, quando non ha avuto niente da dire nel momento in cui la più grande azienda nazionale modificava ambito e regole del suo potere" (Il Manifesto 22.10.1980). Ma se intellettuali, economisti, sociologi, politologi e membri dei Comitati Centrali sono rimasti rigorosamente infrattati ciò non dipende solo da vigliaccheria intellettuale e povertà propositiva. Ciò di cui Rossanda non si accorge – e che costituisce l'equivoco del suo "appello all'unità" – è come oggi non esista più nella sinistra un'istanza riformista.
Il riformismo prevede un impegno di trasformazione, sia pur mediato dalle compatibilità, impegno che il PCI oggi non ha nessuna intenzione di portare avanti, soprattutto per quanto riguarda la fabbrica ed il capitale industriale. Paradossalmente, nel momento di maggior presenza del PCI nella fabbrica, (e sulla natura di questa presenza torneremo in seguito) i comunisti non hanno il benché minimo progetto trasformativo, per quanto riguarda la materialità dei processi produttivi e le relazioni industriali. È nel fuoco della vertenza Fiat che si verifica come nessuna delle proposte tradizionali della “Sinistra” abbia più senso. Né la nazionalizzazione, né il controllo sindacale o statale potevano di fatto rappresentare delle alternative, perché prima che sul piano politico, queste erano ormai fuori gioco su quello ideologico e teorico. Il "governo operaio della crisi" si è svelato per quello che è: la subordinazione totale alla cultura della crisi sviluppata dal Capitale contro la classe operaia. La controffensiva sull'orario di lavoro (35X40) è restata ai margini del dibattito, forse anche perché in essa si esaltava di più la "rigidità" che le effettive capacità di liberazione e trasformazione della produzione, capacità che avrebbero richiesto un punto di vista rivoluzionario sul problema dell'automazione, oggi completamente assente. Oggi la trasformazione marcia solo sul versante del Capitale: la “forza-invenzione” e la capacità di anticipare nuove relazioni industriali sono tutte in mano al cervello collettivo del "Capitale", alla sua Scienza.
La crisi della "cultura" della sinistra rimanda ad una crisi più profonda dentro la composizione, tecnica e politica, della classe. Se il 1977 ha rappresentato la fine di "un immaginario collettivo" della "Sinistra" spaccando verticalmente l'Unità delle sinistre – questo gran calderone dell'opportunismo e della mediazione – esso ha ancor di più messo in luce – con tre anni di ritardo – ciò che è avvenuto all'interno del tessuto reale della classe. La rottura cioè dell'unità di classe, costituitasi negli anni '60 intorno alla figura centrale dell'operaio comune della grande industria. Di fronte a ciò pochi hanno riconosciuto nella "scomposizione", nella creazione di più mercati della forza lavoro, nel decentramento produttivo, un nuovo sistema di produzione e di comando sociale della fabbrica post-tayloristica. Se ci andiamo a rileggere gli interventi di quel periodo troveremo ovunque residui d'illusioni. Illusioni sul ruolo rivoluzionario dei “nuovi soggetti”, illusioni sulle capacità di tenuta della classe operaia centrale, illusioni sulla possibilità di espansione di una democrazia progressiva a prescindere dal nodo dei rapporti sociali nella produzione. Ciò che è necessario riconoscere è come la sconfitta Fiat segni sia la sconfitta della classe operaia centrale, che perde sul terreno della "resistenza", sia la sconfitta dell'operaio sociale, che nella sua separatezza non si costituisce come "autovalorizzazione", ma come valorizzazione capitalistica della forza lavoro mobile e precaria contro la rigidità del settore centrale della classe. Ma rispetto al '77 bisogna cogliere un'ulteriore modificazione. Oggi non ci si limita più ad amministrare la divisione in "garantiti" e "non-garantiti". Attraverso questa divisione si è arrivati a mettere in discussione tutto il sistema delle "garanzie" politiche e sindacali. La tenaglia che dal 1974 ad oggi ha governato la strategia offensiva del capitale si è chiusa intorno al corpo centrale della classe. I tronconi del "lavoratore complessivo" si trovano rigidamente separati, a combattere isolatamente gli uni dagli altri, ed a volte gli uni contro gli altri.

2 - Il Caso FIAT
La vertenza Fiat è stata dunque uno scontro limitato dentro i confini aziendali e dentro condizioni particolari, quali la crisi dell'auto, la ristrutturazione tecnologica, l'eccesso di manodopera. Esso appare piuttosto come logica conclusione di un processo, che affonda le sue radici almeno in quel lontano 1974, in cui la prima massiccia Cassa Integrazione alla Fiat segna l'inversione di tendenza nel ciclo delle lotte operaie degli anni '60-'70. Ci sono voluti sette anni di trincea, c'è voluto l'aggiramento della grande fabbrica attraverso la diffusione del lavoro nero, ci sono volute innovazioni tecnologiche, modificazioni sostanziali del tradizionale ruolo di partiti e sindacati, per sconfiggere l'irriducibilità della classe costituitasi nel '69. Ci sono voluti il terrorismo e la legislazione speciale: l'annientamento politico e militare dell'estrema sinistra. Di fronte a ciò l'offensiva finale alla Fiat suona come una "verifica dei poteri". Si tratta di una gigantesca redistribuzione di ruoli fra sistema d'impresa e stato, fra Capitale e sindacato, fra sindacati e Partito Comunista. Ognuno di questi verifica sull'altro la propria incidenza: tutti esercitano il proprio potere sulla classe.
In questa prospettiva l'offensiva Fiat era anche largamente prevedibile. Il licenziamento dei “61” ne poneva le basi, attraverso un attacco verticale alla composizione politica della classe, incidendo proprio su quel punto critico costituito dal rapporto fra avanguardie, classe operaia e ceto politico piccista e sindacale. Qui si era già manifestata la crisi della composizione politica della classe che non era riuscita ad esprimere nulla d'alternativo alla superficiale difesa sindacale e alla selezione forcaiola del PCI. Il “caso dei 61” ha quindi anticipato lo svolgimento dell'intera vicenda: fin dall'inizio la regia era nelle mani degli Agnelli che hanno sapientemente condotto tutte le fasi dell'offensiva.
Eppure lo svolgimento tattico dell'intera vertenza lascia ancora spazio per un'analisi più approfondita. Perché, se qualcosa di nuovo c'è stato, ciò riguarda il comportamento del PCI, più forse che quello sindacale. La lunga estate di Berlinguer, la polemica con il PSI, il dissidio tra PCI e vertici sindacali sullo 0,50%, sono da analizzare più approfonditamente. Preannunciata dalla contestazione a Benvenuto da parte degli "afghani" del PCI, la virata a sinistra attuata nell'estate-autunno 1980 dal partito del compromesso, ha scompaginato definitivamente la "sinistra extraparlamentare" e merita un'attenzione particolare. È evidente, ad esempio, che la "ratio" interna di questa lotta non risiedeva a Torino, ma a Roma. Le fasi dello scontro erano governate dalle strategie di avvicinamento e di irrigidimento del PCI verso il governo e, soprattutto, dalla polemica con Craxi. È stato già notato come il PCI abbia usato la lotta. Il PCI ha buttato nel gran calderone della "politica" il peso della classe: l'ha sacrificata nella lotta fra bande e corporazioni, in una battaglia "squisitamente" politica per la ripartizione dei poteri. Ma c'è di più. Qualcosa che in questa vertenza non appare chiaro, un senso di disagio nella ricostruzione dei fatti, confermato dallo svolgimento del C.C. del PCI dopo la fine della lotta. Come se tutto fosse preordinato fin dall'inizio, come se la guerra Fiat non fosse che un gigantesco gioco di simulazione, un war-game. D'altra parte, che lo scontro avesse un forte contenuto "simbolico" è chiaro a tutti. Per la Fiat si trattava di riportare una vittoria "esemplare" sulla rigidità operaia; per il sindacato si trattava di una "vertenza simbolica", resa ancor più irreale dalla precedente impostazione del sindacato [stesso]. Come dire che dopo aver permesso la ristrutturazione tecnologica, dopo aver isolato il corpo centrale della classe dalla complessità sociale, questo sindacato si batteva contro i licenziamenti. E tutto ciò dopo che la FIAT aveva già effettuato quasi 1.300 licenziamenti sotterranei di avanguardie, dal 1978 in poi. Che non si trattasse di "necessità industriali" per un restringimento della base produttiva è dato scontato. La struttura stessa del mercato del lavoro nella grande fabbrica torinese permette una certa agilità di manovra, attraverso il blocco del turn-over, il prepensionamento, i licenziamenti concordati.
Per la Fiat il problema non è mai stato quello di una semplice riduzione quantitativa dell'organico, ma quello di una riduzione integrale della forza-lavoro dentro un nuovo assetto, di relazioni industriali, che la facesse finita con l'insubordinazione e l'autonomia nel processo produttivo. Da qui la debolezza del sindacato, che su queste questioni era schierato oggettivamente con la “Fiat”, tanto è vero che mentre la vertenza era in pieno svolgimento, il sindacato lanciava una campagna forsennata contro l'assenteismo all'Alfa-Sud. Ciò che era "naturale" aspettarsi fin dall'inizio era un accordo bidone classico, che convergesse sulla questione della produttività, mascherando in parte i licenziamenti. Ma è proprio questo che non avviene: il sindacato, messo sotto pressione dal partito comunista, accetta lo scontro frontale e simbolico.

3 - Il PCI alla Fiat
Qui la questione non è tanto limpida, a meno di non credere a un Berlinguer che dopo dieci anni di compromesso storico riscopre la "centralità della classe operaia". Anche se a "Il Manifesto" e a DP ciò pare possibile, a noi sembra totalmente privo di senso. E in questa direzione, il dibattito tenutosi immediatamente dopo la sconfitta, che conferma la sostanziale continuità della "linea Berlinguer" sul compromesso, ci sembra togliere spazio a qualsiasi illusione. Certo è che invece la "svolta" del PCI nell'estate-autunno del 1980 contribuisce a rendere ancor più carica di simboli la vertenza. Quest'inversione provoca un'improvviso rovesciamento dei ruoli classici instaurati fra PCI, sindacato e classe operaia torinese. Francesco Ciafaloni, in uno dei più lucidi interventi sulla sconfitta Fiat, così descrive la situazione creatasi nella classe a Torino in quei giorni. "I torinesi, che hanno il problema in casa e sono abituati a camminare inclinati quarantacinque gradi a sinistra per reggere il richiamo delle confederazioni, e che hanno anche loro una forte tendenza a caricare di simboli la vertenza – perché la centralità emblematica della Fiat è anche la loro centralità –- restano di colpo senza contrappeso: si trovano di nuovo sostenuti dal loro partito, che li ha dispersi e percossi" (Il Manifesto 25.10.1980). Priva di contrappeso la classe operaia torinese si trova lanciata a tutta velocità contro il "muro" Fiat. Il PCI riacquista dopo anni un ruolo centrale nell'organizzazione della lotta. Ritorna un clima e una cultura vetero-comunista. Anche ciò contribuisce a rendere irreale la lotta.
Il soggetto sociale che regge lo scontro è un soggetto sociale "vecchio". Vecchio come composizione prima che politicamente. È come se tutti i nuovi soggetti emersi nelle lotte dell'estate '79 – che avevano allora impegnato al livello più alto la lotta dentro i nuovi processi produttivi, dentro l'automazione e l'informatizzazione dell'azienda – operassero invece adesso una sorta di "delega" verso la vecchia composizione di classe. Una composizione rigida, sì, ma rigida in difesa. Non a caso la lotta non percorre l'articolazione produttiva, come nel '79, non è guerriglia dentro la produzione, ma guerra di trincea contro il "padrone". Una guerra che nei “picchetti ad oltranza” trova la sua rappresentazione simbolica, ma anche, oggi, la sua maggior debolezza. Assistiamo ad una divaricazione pazzesca fra composizione tecnica e politica della classe. Eravamo abituati a veder marciare insieme questi due aspetti: oggi invece di fronte ad una composizione tecnica mutata, modernamente razionalizzata dall'introduzione dell'automazione, della cibernetica, della flessibilità delle lavorazioni, troviamo una composizione politica anni '50, egemonizzata dal Partito prima che dal sindacato. Come dire che la coscienza politica è posta fuori dalla fabbrica, esternamente ai rapporti di produzione, e a questo punto deve fare i conti con una società "normalizzata", con la cappa di piombo calata da alcuni anni sulla società civile, grazie anche e soprattutto alla politica di pacificazione sociale condotta dal PCI.
Mancano dunque i protagonisti dell'estate del '79, mancano anche tutti gli altri: i soggetti sociali delle lotte sulla casa degli anni '70, il proletariato urbano delle donne, gli studenti. La classe si trova da sola, come negli anni '50: lo sciopero nazionale riesce nell'industria, ma fallisce al sud, nel pubblico impiego nei servizi. Per non parlare poi dei "non garantiti", dei disoccupati del proletariato giovanile, totalmente estraneo alla vicenda.
L'occupazione, che avrebbe riportato a Torino il clima necessario ad una nuova ricomposizione, un laboratorio prezioso per la classe intera, viene accuratamente evitata. In compenso, il picchettaggio esterno logora la classe in un impegno puramente politico e simbolico. Scontato il finale: i “40.000” rappresentano l'emergenza di un blocco sociale della cui entità tutti erano consapevoli. Improvvisamente lo scontro si trasforma in una rotta, viene siglato l'accordo, peggiore quasi della prima proposta Fiat; il PCI, da nerbo d'acciaio della lotta, diventa il principale accusatore della classe, a cui rimprovera, dopo 35 giorni di lotta, di non "rispettare la civile convivenza nelle assemblee!"

4 - Il sindacato dei consigli
Se alla chiusura delle vertenze facciamo i conti in tasca ai protagonisti sociali e politici troviamo che la Fiat ha ottenuto più di quanto aveva inizialmente richiesto, non solo perché i licenziamenti sono subordinati alle sorti dell'azienda, ma soprattutto perché ciò che ha ottenuto l'ha conquistato con una vittoria campale sul sindacato, ridimensionandone così il potere. Gli operai torinesi, oltre a perdere 60 miliardi di salari, vedono irrimediabilmente compromesso il proprio potere in fabbrica. Inutile farsi illusioni: gli operai posti fuori dalla Fiat sono ormai fuori dal tessuto sociale della fabbrica, i “gruppi omogenei” difficilmente reggeranno la controffensiva dei "capi" e della gerarchia di fabbrica. I capi, dal canto loro, si trovano al centro di un processo sociale restaurativo che ha già degli interlocutori nell'area laico-socialista e verso cui il PCI sta già reimpostando una strategia d'avvicinamento. La sconfitta diventa una palla che PCI e sindacato fanno rimbalzare fra di loro, finché rimane in mano al protagonista materiale della lotta: il sindacato dei consigli.
È questa del sindacato dei consigli una "vexata questio" della sinistra italiana. Fiore all'occhiello del sindacato, bestia nera dei burocrati, il sindacato dei consigli nasce nel '69 sulla scorta della più grande operazione giacobina mai lanciata dal PCI nei confronti del movimento operaio, perché – è bene ricordarlo in questo periodo di memorie e pentimenti – l'Autunno caldo nacque e si sviluppò all'esterno della struttura sindacale. "Siamo tutti delegati" non fu slogan studentesco, come molti oggi vorrebbero, ma espressione alta di una spontaneità operaia costituitasi fuori e contro il sindacato. Il sindacato dei consigli venne dopo, come prima istituzionalizzazione di un'esperienza – dio ci perdoni – anti-istituzionale e rivoluzionaria. Esso fu la prima mediazione fra il nuovo movimento e il vecchio movimento operaio, fra il '68-'69 e i grigi anni '70.
A distanza di dieci anni, anche questa esperienza consiliare era diventata inconciliabile al clima di nuove compatibilità espresse nella strategia del compromesso storico. Se andiamo a rileggere la storia di questi anni del compromesso, risulta evidente come la linea del PCI si sia infranta metodicamente su due scogli alla sua sinistra, fra i tanti che aveva alla sua destra. Essi erano da una parte il movimento dei “non garantiti”, dall'altra la rigidità operaia ad accettare la linea dell'Eur, rigidità consolidatasi nei consigli, ultima espressione, sia pur mediata, di una volontà assembleare della classe. Per sconfiggere il "movimento" è stata necessaria la più selvaggia campagna di repressione che si sia mai abbattuta su un movimento di sinistra europeo dal dopoguerra ad oggi. Per sconfiggere il sindacato dei consigli è stato necessario simulare una lotta per gestirne la sconfitta. È questa la sostanza politica del "caso Fiat", sostanza confermata dal successivo dibattito al C.C. del PCI, dove un caso come quello della Fiat è passato quasi indolore nel dibattito.
La “linea-Amendola” contro cui si levarono gli scudi di tutta la sinistra, è oggi oggettivamente passata in modo quasi indolore nel dibattito. Ed è passata non nella rigida staliniana contrapposizione fra Partito e Classe, come proponeva Amendola, ma nella più aggirante strategia compromissoria del gesuita Berlinguer. Il PCI s'è di fatto limitato ad abbandonare alla sua dinamica interna, alla forza d'inerzia che ancora esprimeva, il soggetto sociale della Fiat. Soggetto che esprimeva sì una composizione di classe vecchia sul piano della ristrutturazione interna del ciclo di fabbrica e della nuova stratificazione del mercato della forza-lavoro, ma che ancora rappresentava l'ostacolo più "scomodo" per la razionalizzazione che il PCI tende ad introdurre nei meccanismi produttivi del capitale in Italia. Così, da parte comunista si è assistito cinicamente alla sconfitta di un intero comparto di classe che andava consumando fino in fondo la sua esperienza e la propria valenza politica. Un soggetto che era stato il centro della "trasformazione" e delle aspettative di comunismo nell'Italia dagli anni '60 agli anni '70, e che ora consumava da solo la propria distruzione.
Il PCI, d'un sol colpo, raggiungeva due obiettivi: si riaccreditava come "il partito operaio" e contemporaneamente liquidava definitivamente ogni variabile "impazzita" alla sua sinistra. Dimostrava, attraverso la sconfitta della linea “massimalista” la giustezza della sua impostazione “revisionista”. Certo l'operazione ha costi enormi: ma il PCI da anni non fonda più la sua forza sulla forza operaia. Anzi, la forza del PCI è inversamente proporzionale alla forza della classe. Il partito è l'amministratore della "passività", non dell'azione di classe. Sgombrato il campo da quella variabile impazzita costituita dal sindacato dei consigli, in quanto residua espressione dell'autonomia decisionale della classe, il PCI può riaccreditarsi come partito di tutta la classe, in vista di una nuova fase di compromesso e di nuovi equilibri. Sullo spazio, ormai normalizzato della società, oggi la "politica" del "compromesso" può ritornare al gioco delle parti, può amministrare la complessità sociale senza correre il rischio di un deficit di legittimazione. Di più, si può dire solo che il PCI ha fatto più danni nella sua breve estate d'opposizione, che in tutti gli anni di compromesso.

5 - I “40.000”
La lotta Fiat è ben lungi da costituire una sconfitta aziendale: costituisce la sconfitta di un "soggetto sociale", della possibilità stessa di formazione di un soggetto sociale antagonista fuori e contro la legge della valorizzazione capitalistica. È in questa prospettiva che va colto il fenomeno dei 40.000. L'estrema sinistra tende invece a sottovalutarlo o a ridurlo a semplice movimento "reazionario" dei capi. I 40.000 non sono solo capi, ma anche operai ed impiegati. Sono la punta emergente di una trasformazione sociale che avviene dentro il lavoro produttivo. All'origine vi sono cause diverse: dalla vecchia e reazionaria collocazione anti-operaia dei capi e dei guardiani, alla dequalificazione e delegittimazione del comando che ha investito settori di impiegati e capi, dopo l'automazione e informatizzazione di alcune linee di montaggio. Vi è anche la nuova gerarchia di fabbrica, tecnici adibiti a funzioni di controllo e di supervisione alle linee automatizzate ed ai robot. Qui si vanno a saldare le campagne per una maggior qualificazione e per una maggior diversificazione salariale. Si saldano non sul versante riformista, ma su quello della subalternità integrale al comando capitalista. Destino forse immutabile della classe: se la soggettività non diventa rivolta collettiva, movimento contro la legge del valore-lavoro, essa sarà invece richiesta di valorizzazione della propria forza-lavoro individuale all'interno della scala gerarchica capitalista.
L'operaio come merce, altro che la società dei "produttori" di Trentin! Il dato nuovo è però nel fatto che questa "subalternità" oggi si organizza soggettivamente contro il resto della classe. Acquista dignità "politica", e trova interlocutori, nell'area socialista di Craxi, nella Confindustria, ma anche nel PCI. Ecco come Aris Accornero risponde a una domanda postagli dal "Manifesto" sulla collocazione politica dei capi: "...devo dirti che i capi a me sembrano più vicini al PCI che al sindacato. Loro criticano il sindacato, ma non è una critica qualunquistica: nel sindacato non trovano alcune ragioni che trovano invece nel partito comunista (...). Questo conferma la mia ipotesi: si tratta di uno strato sociale che ha ascendenze politiche e ideologiche che non ci sono antitetiche. Per dirla in termini semplici: i capi non sono necessariamente nemici, dipende da noi portarli o meno dalla nostra parte, capire le loro esigenze." (“Il Manifesto”, 26 novembre 1980). Ancora una volta il partito come istanza politica contro un sindacato eccessivamente dominato dall'"operaismo ingenuo".
I 40.000 della "Fiat-sana-che-lavora" alla fine hanno molti più punti di contatto con il PCI del "giusto profitto", dell'"equo riconoscimento delle capacità professionali", dell'"efficientismo aziendale" e della "moralizzazione della cosa pubblica", che non con il sindacato dei consigli, dove un quadro di "operatori sindacali" più o meno attraversati dal '68-'69, più o meno legati alla "nuova sinistra", esprimevano ancora rigidità e intolleranza verso la linea dell'"Eur" e la normalizzazione sociale. I 40.000 non rappresentano oggi la "vandea piccolo borghese" da sempre usata storicamente dal padronato contro la classe operaia. Qui siamo davanti a settori di classe operaia che si sono riciclati dentro il processo produttivo, andandosi a funzionalizzare definitivamente dentro il processo di accumulazione capitalistica. Sono lavoro vivo soggettivamente incorporato nel lavoro-morto, nel sistema di macchine che esprime la razionalità del Capitale. Non si tratta né di aristocrazia operaia, né di "nuova professionalità": qui siamo di fronte al fatto che è l'ideologia del capitale stesso a far presa nel corpo di classe. Questo settore sociale di “disgraziati” che ricercano una propria identità non nella lotta, ma nel lavoro, nella gratificazione di sentirsi parte di una macchina collettiva finalizzata alla riproduzione sociale capitalista: sono questi i "nuovi lumpen" della società post-tayloristica, gli uomini senza qualità su cui oggi può nascere l'ipotesi di una società totalmente organizzata dal Capitale. Si tratta di vedere chi per primo sarà il “portavoce politico” di questa soggettività, se il “laburista” Craxi o "il real-socialista" Berlinguer. E se per il PSI e parte del padronato si tratta di giocare questo strato sulla linea dell'"anticomunismo viscerale", per il PCI occorre invece porli al centro di un "blocco storico" produttivo contro l' "immoralismo" democristiano.
Siamo di fronte, oggi, da parte comunista, al tentativo di definire un "laboratorio sociale" per un modello di comunismo che è ancora una volta quello dell'"agiografia" più becera dell'armamentario teorico del PCI: la società dei produttori, l'etica del lavoro abbinata ad un'equa ripartizione della ricchezza sociale in chiave di efficientismo e di qualificazione. Il PCI, nel dopo-Fiat, si misura direttamente su questa "nuova soggettività", certo teoricamente a lui più vicina di quanto non lo siano gli "operai incazzati", i giovani proletari, le nuove leve operaie della stessa Fiat, da Adalberto Minucci definite il "fondo del barile". D'altronde, l'intero PSI, con Craxi in testa e Benvenuto quinta colonna sindacale, sta sviluppando questa cultura della crisi, cinica e “laburista”, in grado di compattare un blocco sociale "razionalizzatore" e laicamente inserito nello "Stato delle Corporazioni". Il rischio è oggi che il "movimento dei 40.000" si estenda, al di là della sua composizione sociale originaria, verso strati rilevanti di vera e propria classe operaia. Una classe a cui il PCI e il sindacato hanno fatto comprendere di persona "l'inutilità della lotta", e che oggi spingono verso nuove forme di integrazione sociale.

6 - Soggettività ed automazione
In questo processo di atomizzazione del lavoratore collettivo, la diversificazione salariale e professionale comporta una nuova organizzazione capitalista del "sapere operaio". Una nuova organizzazione dei saperi individuali in un'organizzazione funzionale allo sviluppo tecnologico del Capitale. Qui è il capitale stesso a sviluppare una “cultura del soggetto”: l'operaio non più come "oggetto inerte" ed appendice delle macchine, ma come soggetto produttivo integrato nella fabbrica automatica ed informatica. Per questo la vertenza Fiat ha assunto una caratteristica generale: l'offensiva punta a rimuovere non solo la rigidità quantitativa della forza lavoro, ma anche la sua rigidità qualitativa, la sua autonomia.
Nella fabbrica taylorista le lotte dell'operaio-massa avevano scoperto come ribaltare la struttura del lavoro alla catena contro l'organizzazione capitalistica della produzione. La rigidità della catena diveniva rigidità operaia, attraverso tutto un processo di articolazione della lotta in grado di scoprire le debolezze del sistema tayloristico di produzione. L'operaio ridotto ad "oggetto" dall'organizzazione capitalistica del lavoro, scopriva una propria "soggettività antagonista" fuori e contro quest'organizzazione. Con l'introduzione alla Fiat, ad esempio, del sistema "Digitron", basato su sistemi automatici di produzione e su una fitta rete di "informazioni" elaborate elettronicamente, cambia totalmente la posizione dell'operaio rispetto alla produzione. Alcuni spezzoni del piano di produzione devono essere gestiti dal basso, e d'altronde è necessaria una "cooperazione" fra lavoro operaio e intelligenza produttiva cristallizzata nel sistema di macchine. Senza addentrarci nell'analisi complessiva della fabbrica post-tayloristica, analisi che richiederebbe altro tempo ed altro spazio, quello che ci preme sottolineare sono alcuni aspetti immediatamente politici. Il nodo centrale ci sembra quello di questa nuova “soggettività integrata”, di questa “politicizzazione in negativo” di cui i 40.000 rappresentano, a nostro avviso, solo un'avvisaglia.
La fabbrica post-tayloristica ha dunque bisogno di un nuovo rapporto fra sistema produttivo e lavoro. Ha bisogno di una ridefinizione del lavoro non in contrapposizione al sistema di macchine, ma socialmente integrato ad esse. Ha bisogno cioè di una "cooperazione", di una partecipazione soggettiva alla produzione, superiore a quella della "catena" taylorista. Essa richiede uno sfruttamento complessivo della forza-lavoro: non più solo estorsione di lavoro fisico, ma un inglobamento del soggetto nella produzione, come fattore "intelligente" accanto all'intelligenza oggettivata nel sistema di macchine.
La rottura della rigidità della catena è nello stesso tempo rottura della rigidità operaia di un intero mondo di rapporti sociali costituitosi in decenni di lotte, di trasformazioni e di potere operaio nella produzione. È un processo di spaccatura verticale del corpo di classe, su cui inizia ad incidere direttamente l'ideologia capitalista. Un processo che a partire dalla trasformazione dei rapporti materiali di produzione, tende a riproporre una “logica aziendale”. Una logica attraverso cui il profitto diventa il fine supremo intorno a una società civile trasformata in società- fabbrica. A partire dalle microcellule produttive, dagli operai, fino al tentativo di razionalizzazione complessiva dello Stato come fabbrica-del-piano. (E qui bisogna valutare una certa simpatia di [alcuni] gruppi capitalistici privati verso i modelli del “socialismo industriale” che si spingono ben al di là dello scenario attuale della guerra fredda).
È in questo quadro che muta il soggetto rivoluzionario. Modificazione che avviene direttamente dentro i rapporti di produzione, e non all'inverso nella soggettività astratta dell'ideologia, come sembrano credere i teorizzatori del “ritorno al privato” e del “riflusso”. La storia di questi dieci anni è la storia delle trasformazioni del soggetto a partire dai rapporti di produzione. Questo ci ha permesso in passato di fondare una critica della politica a partire dai rapporti di produzione, dalla forma cioè del rapporto operai-capitale dentro il sistema sociale capitalista. Questo ci può permettere oggi di formulare una critica del “soggetto” fondata materialisticamente, adeguata alla trasformazione sociale e produttiva in atto. In altri termini, oggi il "soggetto" non è la libertà della politica contrapposta alla "necessità" dell'economia, né tanto meno la volontà rivoluzionaria pura. Il soggetto non esiste che dentro rapporti di produzione; è funzione di questi rapporti, che ne costituiscono il suo limite e la sua oggettività. Qui è tutta la scoperta marxiana della "duplicità della forza-lavoro"; forza di valorizzazione del Capitale, da un lato, agente storico sociale, autonomia, dall'altro.
Oggi, il Capitale tenta di governare entrambi i lati di questa soggettività. Tenta di ridurre la "soggettività" in "partecipazione attiva" al processo di accumulazione capitalista. La rigidità classica della forza-lavoro ha subito alla Fiat un duro colpo. Il Capitale avrà per un dato periodo di tempo mano libera. Per un periodo di tempo, non sappiamo ancora quanto lungo, l'attività sarà sotterranea: la classe non riuscirà ad esprimere una "soggettività antagonista complessiva".
Mai come oggi è necessario passare attraverso la produzione, attraverso i suoi mutamenti, le tecnologie e le nuove strutture di relazioni aziendali. Passarci attraverso per comprendere dove la classe può trovare punti per sviluppare una nuova strategia offensiva. Si tratta di saper ricostruire una "teoria del soggetto" a partire dai rapporti di produzione e dalla loro trasformazione. Si tratta di anticipare le mutazioni indotte dallo sviluppo capitalistico. Non basta più giocare la complessità del sociale contro la rigidità del sistema. Perché ormai il sistema conosce queste regole: la complessità, la molecolarizzazione del movimento costituiscono nuove forme di “governo sociale”. Nessun movimento “parziale” riuscirà a vincere oggi, perché la parzialità ne sarà il limite insormontabile.
Con la sconfitta alla Fiat sono crollate una serie di ipotesi intermedie: si annulla la strategia di un settore del sindacato – specie nella CISL – di portare avanti un sindacalismo duro, “all'americana”, perché la rigidità della forza lavoro è ormai compromessa dall'interno e non esistono più le condizioni per una "americanizzazione" dello scontro. Altre cose spariscono, subiscono un riflusso, ma non vengono sconfitte completamente. Noi crediamo che i nuovi comportamenti emersi alla Fiat, ad esempio nelle lotte del '79 non siano stati liquidati, né sia possibile liquidarli del tutto. Perché essi non erano dentro la sconfitta dell'autunno '80. Ciò che viene liquidata è la cerniera fra il movimento operaio degli anni '60-70 e la tradizione della "Sinistra". Come dire che quella che viene sconfitta definitivamente è l'ipotesi che aveva guidato l'agire dei gruppi extraparlamentari, dalla sinistra sindacale ad alcune esperienze dell'“autonomia organizzata”.
Se ora spostiamo l'analisi sulla composizione di classe, sembra di vedere, al di là del fumo della sconfitta, una nuova configurazione, quantomeno lo scenario possibile per un nuovo ciclo di lotte operaie. Perché, se vi sarà un prossimo "movimento", essa non riguarderà più la "difesa della forza-lavoro", ma metterà in discussione la struttura stessa del lavoro: dovrà misurarsi non più con il comando e la gerarchia di fabbrica, ma con il sapere incorporato nelle macchine, con l'intelligenza produttiva immessa direttamente nel ciclo produttivo dalla nuova organizzazione del lavoro. Le lotte del '79 riguardano questo livello dello scontro, e non altri. Lotte che si svolgono direttamente nella produzione, dentro quell'insieme di automazione e cibernetica applicata allo sfruttamento complessivo dell'operaio, che costituisce la struttura attuale della produzione capitalista; lotte che richiedono un "soggetto" nuovo, una capacità soggettiva di essere "fuori" da tutti i meccanismi d'integrazione sociale. Se il Capitale sviluppa una "cultura del soggetto", un'integrazione della forza lavoro, in quanto soggetto, nella produzione, allora l'alternativa radicale è "chiamarsi fuori" del tutto, come individuo sociale non più mediato dalla dialettica lotta-ristrutturazione-lotta. La costituzione di un "soggetto sociale" nella produzione che non è più solo "antagonismo" e "rigidità", ma che comincia ad essere comunismo. Costruzione pratica di una società altra, rispetto a quella del Capitale.
Oggi, questa estraneità è vissuta ancora in termini negativi di marginalità auto-distruzione e penuria. Si tratta di ribaltarla nella ricchezza di una "società civile proletaria" contro lo Stato del Capitale. In questo la lotta "polacca" contiene un insegnamento, al di là delle differenze di situazione, e di composizione di classe. Di fronte a una società politica e a rapporti di produzione organizzati in modo totalitario, l'alternativa radicale è quella della costruzione di una società civile antagonista, di una totale estraneità alla dialettica del potere. La forza dell'estate polacca, al di là delle mediazioni svolte dalla Chiesa e da settori del partito, è stata questa "illegalità" di massa. Una strategia della contro-società, che svuota di senso politico l'organizzazione totalitaria del potere. Ciò che ormai appare evidente, è che non si può più concepire la lotta nei termini "leninisti" del “potere-contropotere”, dello Stato e dell'Antistato. O si riesce a contrapporre alla miseria del capitalismo la ricchezza dispiegata di una progettualità sociale superiore, oppure l'alternativa sarà ancora per molti anni la barbarie. Una barbarie in cui la combinazione di "capitalismo" e "socialismo", al di là della simulazione di una catastrofe continuamente rinviata, sarà l'uguaglianza dell'oppressione.
Se il salto tecnologico e scientifico, che già appare prepotentemente oggi, viene gestito nella "forma capitalistica di produzione", nessuna forza riformista, nessun compromesso potrà evitare "l'apocalisse" di una società totalmente organizzata dal capitale. Già in questi dieci anni qualcosa è emerso, ma troppo presto riassorbito da ipotesi politiche logorate, da progetti legati ad una tradizione che ora appare definitivamente liquidata. Ancora una volta il Capitale ha alzato il livello dello scontro, è stato costretto a modificazioni radicali della sua struttura e composizione della lotta operaia. Oggi ha l'iniziativa in mano. Non potrà tenerla troppo a lungo.

" CE N'EST QU'UN DEBOUT CONTINUONS LE COMBAT"

Roma 1°/XII/'80

Per la redazione di Roma di
"Collegamenti - per l'organizzazione diretta di classe":
Marco Melotti
Franco Lattanzi