Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

* * *

«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

* * *

«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

2 settembre 2011

Il proletariato come soggetto e come rappresentazione

Guy Debord (1967)


[...] I primi successi della lotta portarono l’Internazionale ad affrancarsi dalle influenze confuse dell’ideologia dominante che sopravvivevano in essa. Ma la disfatta e la repressione che essa incontrò ben presto fecero passare in primo piano un conflitto tra due concezioni della rivoluzione proletaria, che contengono entrambe una dimensione autoritaria dalla quale l’autoemancipazione cosciente della classe viene abbandonata. In effetti, la polemica divenuta inconciliabile fra i marxisti e i bakuninisti era duplice, incentrandosi volta a volta sul potere nella società rivoluzionaria e sull’organizzazione presente del movimento, e passando dall’uno all’altro di questi aspetti le posizioni degli avversari si capovolgevano. Bakunin combatteva l’illusione di una abolizione delle classi con l’uso autoritario del potere statale, prevedendo il ricostituirsi di una classe dominante burocratica e la dittatura dei più sapienti, o di coloro che sarebbero stati ritenuti tali. Marx, convinto che il maturarsi inseparabile delle contraddizioni economiche e dell’educazione democratica degli operai avrebbe ridotto il ruolo di uno Stato proletario a una semplice fase di legalizzazione dei nuovi rapporti sociali che si sarebbero imposti oggettivamente, denunciava in Bakunin e nei suoi partigiani l’autoritarismo di una élite cospirativa che si era deliberatamente posta al di sopra dell’Internazionale, e che concepiva il disegno stravagante di imporre alla società la dittatura irresponsabile dei più rivoluzionari, o di coloro che si sarebbero designati da sé come tali. Bakunin reclutava effettivamente i suoi partigiani sulla base di una tale prospettiva: «Piloti invisibili nel cuore della tempesta popolare, noi dobbiamo dirigerla senza un potere visibile, ma tramite la dittatura collettiva di tutti gli alleati. Dittatura senza fascia, senza titolo, senza diritto ufficiale, e tanto più potente per il fatto di non avere alcuna delle apparenze del potere». Così si sono opposte due ideologie della rivoluzione operaia contenenti ciascuna una critica parzialmente vera, ma perdendo l’unità del pensiero della storia, e istituendosi esse stesse come autorità ideologiche. Organizzazioni potenti, come la socialdemocrazia tedesca e la Federazione Anarchica Iberica, hanno fedelmente servito l’una o l’altra di queste ideologie; e dappertutto il risultato è stato molto diverso da quello che si era voluto.




23 agosto 2011

Il militantismo, stadio supremo dell'alienazione

Organisation des Jeunes Travailleurs Révolutionnaires (1972)


 «[...] La prima tentazione è quella di demistificare le ideologie di cui fanno sfoggio questi gruppi, svelandone l'arcaismo o l'esotismo (da Lenin a Mao), e di mettere in evidenza il disprezzo per le masse che si cela dietro la loro demagogia. Ma un simile approccio risulterebbe ben presto noioso, considerata la moltitudine di organizzazioni e di tendenze esistenti, ciascuna delle quali rivendica una propria originalità ideologica. D'altronde, ciò equivarrebbe a collocarsi sul loro stesso terreno. Più che le idee, conviene criticare il tipo di attività che queste organizzazioni dispiegano «al servizio delle proprie idee»: il militantismo».



30 giugno 2011

Critica del carcere

Tratto da "Guerra Sociale" (2000)

1
In questa società la Legge svolge molteplici funzioni: regola e indirizza il rapporto di sfruttamento su cui si basa garantendone il mantenimento; ordina le relazioni sociali e assegna a ciascuno un ruolo in funzione dei propri interessi; costituisce la principale mediazione tra tutti gli individui isolandoli gli uni dagli altri nel mentre li riunisce in rapporti giuridici.
La Legge si esercita per il tramite della violenza, senza la quale è lettera morta. La reclusione è una parte importante di questa violenza.
Il carcere nasce con la Rivoluzione Industriale per formare dei lavoratori disciplinati e addomesticarli alle rigide esigenze spazio-temporali della macchina. Oggi è una delle tante strutture del controllo sociale e assolve diversi scopi: punire chi delinque per isolarlo dalla società; riabilitare, almeno formalmente, alcuni elementi e restituirli ad una regolata vita sociale; agitare lo spettro dell’esclusione per gli onesti cittadini, lavoratori e consumatori.
Il Diritto è fondato su un criterio di utilità economica e sociale, prodotto del dominio e strumento della sua difesa. La pena è, infatti, commisurata all’entità del danno economico e al grado di rifiuto dell’ordinamento sociale.
2
La prigione è in simbiosi con la società e si trasforma al passo con questa. Una delle tendenze di questi mutamenti è la dematerializzazione del carcere e la sua diffusione nel territorio. Evoluzione questa che consente un maggior controllo sociale a costi più bassi: le manette elettroniche utilizzano le abitazioni come succursali delle galere; l’urbanistica, il satellite e le telecamere rendono le città prigioni.
Al carcere si affiancano forme alternative di detenzione. Centri di accoglienza per clandestini, comunità terapeutiche per tossici, comunità di reinserimento per detenuti e ospedali in genere sono forme non-carcerarie di imprigionamento.
Il carcere si diluisce nel territorio attraverso la pianificazione dei luoghi dell’abitare, degli spostamenti e del senso di questi. Il controllo si insinua persino nel corpo tramite la medicalizzazione del rapporto con la salute e la malattia, attraverso la sofisticazione del cibo.
Alla struttura carceraria tradizionale si prospetta la funzione di parcheggio per una parte crescente della popolazione.
3
Lo Stato sociale, risultato di un periodo di lotte, ha costituito uno strumento efficace per la produzione di pace sociale. Lo smantellamento progressivo di questo apparato, che ha lo scopo di mettere in circolazione una maggiore quantità di capitali, e l’introduzione della flessibilità produttiva provocano come conseguenza l’estendersi della precarietà, creando una realtà in cui i più non sono garantiti e inducendo l’aumento della marginalità e dell’illegalità. Il potenziamento delle strutture repressive risponde a questo mutamento. Il numero dei detenuti è, infatti, in aumento in tutti i paesi occidentali.
Non potendo sopprimere tutti i criminali il potere dà loro una morte apparente, rinchiudendoli: la deprivazione sensoriale, la noia, la paura e il dolore mirano a far perdere all’individuo la sua identità e il controllo sul proprio corpo. Il carcere è un luogo altamente patogeno, in cui lo stress indebolisce le difese immunitarie, le cure sono insufficienti e imposte; i detenuti sono spesso le cavie di terapie sperimentali o oggetto di annichilimento farmacologico. In questa situazione il suicidio rappresenta spesso l’unica soluzione. In galera la negazione della vita è visibile al massimo grado.
Il carcere speciale, diffuso in tutta Europa, si rivolge ai detenuti irrecuperabili accrescendo, rispetto al carcere comune, le potenzialità di annientamento fisico, psicologico e sociale. Esso è un luogo di maltrattamenti, di torture e di omicidi sovente celati. Il carcere speciale sorge con lo scopo di separare una parte dei detenuti, creando un carcere all’interno del carcere.
La divisione tra detenuti politici e detenuti comuni è la prima forma di separazione. Essa nasceva con il duplice obiettivo di impedire, all’interno del carcere, la diffusione della critica rivoluzionaria e l’organizzazione della sua pratica e, all’esterno, di frantumare il fronte della lotta e di impedire che la questione carceraria fosse posta nella sua interezza.
4
Il Capitale non dichiara più di essere il migliore dei mondi possibili, esso è semplicemente l’unico. Ogni giustificazione ideale che lo sorreggeva è caduta: al principio formale della giustizia subentra la necessità pragmatica di sicurezza. Al carcere come luogo di rieducazione del reo, finalizzato al suo reinserimento sociale, è il potere stesso a non credere più. Solo pochi preti, tanto illusi quanto imbecilli, continuano a professare la pedagogia della reclusione. Da parte loro, i criminali sono sempre stati perlomeno scettici. Il crimine non è una malattia curabile di alcuni individui, è la malattia incurabile della società del Capitale.
5
Le disposizioni in merito alle strategie repressive vengono prese con criteri di natura tecnica da commissioni di esperti coordinate internazionalmente. Le campagne mediatiche, quanto la farsa del dibattito parlamentare, servono a far credere ai cittadini di essere partecipi di decisioni prese altrove. Le emergenze e i nemici – di volta in volta mafia, terrorismo, droga, microcriminalità – sono prodotti spettacolari funzionali a garantire le trasformazioni della repressione.
Il mostro è la figura che esemplifica la più grossolana delle mistificazioni associate alla presunta necessità della prigione. L’attenzione riservata al caso particolare e al fatto eccezionale viene utilizzata per mascherare la caratteristica sostanziale del carcere: essere una struttura creata per contenere e annullare il conflitto sociale.
Quelle lotte che contestano formalmente l’esistenza di alcuni reclusori e l’ingiusta detenzione che in essi si attuerebbe, puntellano di fatto le ragioni del diritto avvallando l’idea di una detenzione giusta. Anche i politicanti di Via Corelli *sostengono la necessità del carcere. Mediando il conflitto sociale, questi collaboratori di giustizia contribuiscono alla razionalizzazione del dominio.
Meno becera ma parimenti funzionale è la tesi di quanti sostengono la distinzione tra detenuti politici e detenuti comuni. Limitarsi a reclamare la liberazione dei compagni, o degli amici, significa non vedere nel carcere un luogo decisivo dello scontro sociale e il ruolo di recupero che queste divisioni svolgono in esso.
Le tesi di quegli accademici che propongono l’abolizione delle galere hanno il merito di mostrare la relatività del concetto di giustizia e di guardare in maniera disincantata alla condizione carceraria. Non ne hanno altri. Essi credono nella possibilità di una gestione dei conflitti diversa da quella punitiva e reclusoria connaturata al sistema di controllo. Incapaci di comprendere le ragioni materiali del conflitto, astraggono il crimine dal contesto sociale sistemandolo su di un piano squisitamente sociologico. In questo modo il crimine non è più considerato elemento di rottura delle norme della società, ma suo strumento di autoregolazione. L’ideologia abolizionista, come tutte le visioni utopistiche, immagina un punto finale dell’evoluzione della storia in cui ogni conflitto sarà neutralizzato nel quadro del raggiungimento di una società perfetta, il paradiso terrestre. Su questo punto tutte le ideologie abolizioniste e le critiche astratte al carcere concordano con l’Utopia del Capitale che sogna una società costituita di cittadini che hanno introiettato le sue norme.
Chi vuole una società liberata dallo sfruttamento, del carcere non sa che cosa farsene. Viceversa chiunque parli di un mondo senza galere deve spiegare come ciò possa realizzarsi se non tramite lo scontro rivoluzionario.
6
Oggi il conflitto sociale è diffuso e sostenuto dagli esclusi anche se in forme non coscienti e non comprese. Il crimine è un’espressione del conflitto sociale; è un prodotto, anche ideologico, del processo di espropriazione materiale e di senso, realizzato dal dominio ai danni del vivente; al contempo ne rappresenta la negazione. Le ragioni del crimine sono quindi storiche e sociali e non valutabili secondo i canoni del senso comune.
Oggi una parte importante delle lotte sociali si realizza all’interno dei luoghi di reclusione: carceri, centri di accoglienza, ghetti urbani. Queste sono di fatto lotte parziali; tuttavia nella volontà di farla finita con questi reclusori si intravede la possibilità di una critica complessiva al dominio. Mettere in luce la teoria critica insita nella pratica di tali lotte è il senso della critica rivoluzionaria. Diversamente esse non sfuggono alla mediazione politica e alla pratica recuperatrice che consente al sistema l’amministrazione del conflitto.

* Nota: Nel 1998 le Tute bianche (ora Disobbedienti) organizzarono una manifestazione fuori dal lager per immigrati di via Corelli a Milano. Fu una delle prime manifestazioni basate sullo scontro con la polizia, più o meno concordato preventivamente, per ottenere maggiore risalto sui mezzi di informazione. La pratica venne utilizzata fino al luglio 2001. A Genova, durante le manifestazioni contro il G8, lo schema venne ampiamente criticato nella pratica dalle migliaia di insorti che misero sottosopra la città.
Marzo 2000

19 giugno 2011

Il battilocchio nella storia

"Il programma comunista" n. 7 del 1953


In una citazione di Engels fatta recentemente a proposito della valutazione marxista della rivoluzione russa riportammo la frase: "il tempo dei popoli eletti è finito". È poco probabile che giungano da molte parti a spezzar lance per la opposta tesi, dopo la scalogna che ha portato al nazismo tedesco; ed anche dopo la sorte toccata agli ebrei che scontano malaccio la incredibile incocciatura razzista plurimillenaria: stritolati prima dalla mania ariana di Hitler, poi dall'affarismo imperiale britannico, oggi dall'inesorabile apparato sovietico – domani, molto probabilmente, dalla cosmopolita, tollerante a chiacchiere, politica statunitense, che si fece buoni denti sulla carne nera.
Molto più difficile sarà stabilire che è passato il tempo degli individui eletti, degli "uomini del destino" – come Shaw chiamò Napoleone, ma soprattutto per sfotterlo coll'esibirlo in tenuta da notte – in una parola dei grandi uomini, dei condottieri e capi storici, delle supreme Guide dell'umanità.
Da tutte le bande infatti, e al suono di tutti i credi, cattolici o massonici, fascisti o democratici, liberali o socialistoidi, sembra che – in misura assai più estesa che per il passato – non si possa fare a meno di esaltarsi e di prostrarsi in ammirazione strofinatrice dinanzi al nome di qualche personaggio, ad esso attribuendo ad ogni piè sospinto il merito intiero del successo della "causa", di cui trattasi.
Tutti concordano nell'attribuire influenze determinanti, sugli eventi che passarono e che si attendono, all'opera, e per essa alle personali qualità dei capi che alla sommità si assisero: disputano fino alla noia se si debba farlo per scelta elettiva o democratica, o per imposizione di partito e addirittura per individuale colpo di mano del soggetto, ma concordano nel fare tutto pendere dall'esito di questa contesa, sia nel campo amico che in quello nemico.
Ora se questo generale criterio fosse vero, e noi non avessimo la forza di negarlo e minarlo, dovremmo confessare che la dottrina marxista è caduta nella peggiore bancarotta. Ed invece, al solito, fortifichiamo due posizioni: il marxismo classico aveva già messo senza riserve i grandi uomini in pensione; il bilancio dell'opera dei grandi uomini di recente messi in circolazione o tolti di mezzo conferma la teoria che sono cavatori di ragni dal buco.

IERI

Domande e risposte
Sono al riguardo interessanti le risposte di Federico Engels ai quesiti che gli furono posti su tale tema. Nella lettera del 25 gennaio 1894 parla dei grandi uomini il secondo comma della seconda domanda: ma sono ben poste entrambe.
Eccole:
1. Fino a qual punto le condizioni economiche influiscano causalmente (attenzione a non leggere casualmente).
2. Quale sia la parte rappresentata dal momento (se avessimo il testo credo potremmo meglio tradurre dal fattore) a) della razza; b) della individualità, nella concezione materialistica della storia di Marx e di Engels.
Ma interessa ugualmente la domanda cui rispondeva la precedente lettera del 21 settembre 1890: Come sia stato inteso da Marx ed Engels stesso il principio fondamentale del materialismo storico; se cioè, secondo loro, la produzione e riproduzione della vita reale siano esse sole il momento determinante, o soltanto la base fondamentale di tutte le altre condizioni.
La connessione tra i due punti: funzione della grande individualità nella storia e esatto legame tra condizioni economiche ed umana attività, è da Engels chiaramente spiegata nelle risposte, che egli modestamente afferma buttate giù in privato e non redatte con "quella esattezza" cui egli tendeva nello scrivere per il pubblico. Ed infatti egli si richiama alle trattazioni generali della concezione marxista storica che ha date nell'Antidühring (Parte I cap. 9 a 11, parte II cap. 2 a 4, parte III cap. 1) e soprattutto nel cristallino saggio su Feuerbach, del 1888. E quanto ad un esempio luminoso della specifica applicazione del metodo, rimanda al 18 Brumaio di Luigi Bonaparte di Marx, che descrive a tempera bruciante colui che può essere preso come prototipo del "battilocchio" – termine che presto andiamo a spiegare.

Continuità di vita
A costo di una digressione, che è anche un anticipo di un Filo la cui chiglia maestra sta da qualche tempo sugli scali del cantiere, vogliamo dare un bel bravo all'ignoto studente che avanzò la domanda della prima lettera. Al solito quelli che non hanno capito niente sono quelli che si atteggiano ad aver acquisito e digerito, colla pretesa di essere in grado di eruttarlo fuori, e salivar sentenze. I più semplici e seriamente impostati, invece, sono sempre convinti di dover meglio intendere, quando già hanno tocchi da maestri. Il giovane e per fortuna non onorevole interrogante adopera infatti al posto della normale espressione "condizioni economiche" quella esatta e bene equivalente alla prima: "produzione e riproduzione della vita fisica". Come allievi della successiva classe, cambiamo reale in fisica. L'aggettivo reale non ha lo stesso peso nelle lingue germaniche e latine.
Altra volta accennammo a passi dei maestri in cui si affiancano produzione e riproduzione, citando Engels dove definisce la riproduzione, ossia la sfera sessuale e generativa della vita, come la "produzione dei produttori".
Sarebbe inutile tracciare una scienza economica, perfino metafisica ossia con leggi immutabili, e tanto più se dialettica ossia volta a tracciare la teoria di una successione di fasi e di cicli, se esaminassimo un gruppo, una società di produttori, dediti sì ad atti lavorativi ed economici tendenti a soddisfare i loro bisogni conservando la loro esistenza e la loro forza produttiva fino al limite di tempo fisiologico, ma che fossero stati (poniamo da un capo razzista!) operati in modo da non potersi riprodurre, ed avere successori biologici.
Una tale condizione muterebbe, e lo ammetterà il seguace di qualunque scuola economica, fin dalla radice tutti i rapporti di produzione e distribuzione di questa stessa alquanto ipotetica comunità.
Ciò vale a rammentare che altrettanta importanza della produzione, che allestisce alimenti (ed altro) atti a conservare la vita fisica del lavoratore, ha, nello stabilire la trama delle relazioni economiche, la riproduzione biologica che prepara – con impegno rilevante di consumi e di sforzi produttivi – i sostituti futuri del lavoratore stesso.
Come vedremo a suo tempo con Engels e Marx contro Feuerbach, l'uomo non è tutto amore né tutto lotta. Comunque la integrale visione del doppio piedistallo economico della società vale a questo: il materialismo è ormai vittorioso finché tratta il campo della produzione: nessuno ivi contesta che vi predomini il criterio della somma materiale di risultati; e su ciò è facile fondare la teoria dell'attività di lotta passando dalle contese molecolari del preteso homo oeconomicus, che ha al posto del cuore non il ventricolo ma un ufficio di ragioniere, alla contesa delle classi, in cui si riassume, con l'economia, tutto il resto delle forme umane di attività. Ma è nel campo della genetica e della sessualità, in cui sembra ai pivelli più arduo realizzare la messa in fuga dei motivi trascendenti e mistici, e tradurre l'attrazione tra il maschio e la femmina – proprio nell'elevarla al di sopra delle sudicerie della moderna civiltà – in termini di causalità economica, che bisogna fondare i più robusti piloni della dottrina rivoluzionaria del socialismo.
Perché l'individuo, piccolo o grande a tenore del banale senso comune, tenda a profittare economicamente e concepisca eroticamente, è problema posto in modo miserabile e vuoto. Noi trasponiamo la dinamica del processo al corso della specie, ed affianchiamo lo sforzo per mantenerne vivi e validi gli elementi attivi, col procedere della sua moltiplicazione e continuazione, cicli entrambi assai più grandi di quelli in cui si avvolge l'idiota timore della morte, e la sciocca credenza nell'eternità del soggetto individuo. Son questi prodotti e connotati decisivi delle società infestate da classi dominanti e sfruttatrici, parassite nel lavoro e nell'amore.
La maledizione del sudore e del dolore, ideologia che definisce le società a dominio di classe, ossia fondate su monopoli dell'ozio e del piacere, sarà travolta via dal socialismo.

Natura e pensiero
La riduzione del problema qui direttamente messo in mira, ossia del problema delle personalità storiche, a quello generale della concezione materialista, appare immediata. Ammettete per un solo momento che il seguirsi, lo sviluppo, il futuro di una società o addirittura della umanità dipendano in modo decisivo dalla presenza, dalla apparizione, dal comportamento, di un uomo solo. Non vi sarà più possibile ritenere e sostenere che l'origine prima di tutta la vicenda sociale sia nei caratteri di date condizioni e situazioni economiche analoghe per grandi masse degli "altri" individui, quelli normali, quelli "piccoli".
Se infatti quel lungo e difficile cammino, che mai assumemmo ridurre ad una semplice automaticità, dal parallelismo delle posizioni nel lavoro e nel consumo, alla finale grande vicenda delle rivoluzioni sociali, del passaggio di potere da classe a classe, della rottura delle forme che determinavano quel parallelismo di rapporti produttivi, dovesse passare per la testa (critica, coscienza, volontà, azione) di un uomo solo, e ciò nel senso che costui sia un elemento necessario, ossia tale che in sua mancanza nulla si attui di tutto quel moto, allora non potrà negarsi che ad un certo momento tutta la storia stia "nel pensiero" e dipenda da un atto di questo. Qui vi è contraddizione insuperabile, poiché ciò concedendo, sarà forza soggiacere alla visione opposta alla nostra, che dice che nella storia non vi è causalità, non vi sono leggi, ma tutto è "accidentalità" imprevedibile, tutto casualità, che può studiarsi sì dopo, ma mai prima dell'accadimento. Si sarà fatto così, né più né meno, di cappello alla forca.
Come negare che sia una accidentalità la nascita di quel colosso, come evitare di ridurre tutto il campo della riproduzione ad un passo falso... di quello spermatozoo?
Abbiamo duramente lottato contro la concezione più razionale e moderna di quella "granduomistica", propria della borghesia illuminista, che voleva far passare preventivamente il fatto storico non per uno, ma per tutti i cervelli; anteponendo alla lotta rivoluzionaria la generale educazione e coscienza. Ma di questa concezione, incompleta e semilaterale, è ancor più insufficiente quella che tutto concentra nella scatola cranica singola, al che non si vede come altrimenti si provvederebbe se non con l'amplesso, tante volte rammentato nella tradizione, tra un essere divino e uno umano.
Abbiamo fatto a pezzi la teoria, ancora più sciocca di quella della coscienza popolare universale, che si basa sulla metà più uno dei cervelli per pilotare la storia, perché marxisticamente faceva pena e pietà; lasceremo vivere la teoria del cervello unico? Perché non allora quella del riproduttore unico, dello stallone umano, evidentemente meno balorda?
Ritorniamo infatti al quesito: Precedette la natura, o il pensiero? La storia della specie umana è un aspetto della natura reale, o una "partenogenesi" del pensiero?
Il breve scritto di Engels su Feuerbach, e meglio contro una apologia dello Starke (che egli al solito chiama: solo uno schizzo generale, al più alcune illustrazioni della concezione materialistica della storia) compendia una sintesi della storia della filosofia da un lato, e della storia delle lotte di classe dall'altro, magnifica per brevità e per vastità.

Fuori le carte!
Ce ne sarebbe abbastanza per un'esposizione-ruscello (ormai le sedute fiume si computano a giorni) di un paio di mezze giornate, con un adatto commento. Limitiamoci a rilevarne i soli connotati per provare l' identità.
Storicamente, rammenta l'autore, dall'idealista Hegel, la cui filosofia aveva potuto essere presa a base dalla destra conservatrice e reazionaria tedesca, derivò il materialista Feuerbach, e sotto l'influenza del materialismo e della Rivoluzione Francese, possenti antesignani. Da Feuerbach in certo senso derivarono le ulteriori e ben diverse concezioni di Marx e di Engels, dopo un'onda di ammirazione intorno al 1840 e all'uscita dell' Essenza del Cristianesimo, e dopo una critica non meno radicale di quella che Feuerbach aveva applicata ad Hegel, compendiata nelle famose tesi di Marx del 1845, per oltre quarant'anni rimaste ignote, che concludono con la undicesima: i filosofi non han fatto che interpretare variamente il mondo; si tratta ora di mutarlo.
Hegel aveva portato in primo piano l'umana attività, ma alla premessa non aveva potuto dare sviluppo rivoluzionario nel campo storico, per l'assolutezza del suo idealismo. La società futura col suo disegno e modello sarebbe già stata contenuta ab aeterno nella assoluta idea: fatta dalla mente di un filosofo questa scoperta e questo sviluppo, con norme proprie del puro pensiero, trasmessi tali risultati nel sistema del diritto e nell'organismo dello Stato, l'integrale realizzazione dell'Idea era compiuta. In che questo è da noi inaccettabile? In due posizioni, che sono le due facce dialettiche della stessa. Rifiutiamo la possibilità di un punto di arrivo, di un approdo definitivo e insorpassabile. Rifiutiamo la possibilità che fossero già date le proprietà e le leggi del pensiero, prima che il ciclo della natura e della specie si aprisse.
Ma citiamo dunque! "Al pari della conoscenza, non può la storia trovare una conclusione finale in uno Stato perfetto del genere umano: una società perfetta, uno Stato perfetto sono cose che possono sussistere solo nella fantasia; al contrario tutti gli Stati storici che si susseguono sono solo fasi transitorie nell'infinito cammino della società umana".
Hegel ha superato tutti i filosofi precedenti nel porre innanzi la dinamica dei contrasti di cui si compone il lungo cammino fino ad oggi. Purtroppo, come tutti gli altri filosofi, e come tutti i possibili filosofi, questo vivente ribollir di contrasti incapsulò e raggelò nel suo "sistema". "Eliminati che siano tutti i contrasti, una volta per tutte, siamo giunti alla cosiddetta verità assoluta; la storia universale è alla fine, e tuttavia essa deve procedere, benché non le rimanga più altro da fare; un nuovo insuperabile contrasto".
In questo passo Engels fa cadere l'obiezione vecchia, e risollevata da Croce poco prima della morte (vedi la confutazione in Prometeo n. 4 della II Serie) che proprio il materialismo marxista faccia finire la storia, per aver detto che quella tra proletariato e borghesia sarà l'ultima delle lotte di classe. Nel suo antropomorfismo insuperabile, ogni idealista scambia la fine della lotta tra classi economiche con la fine di ogni contrasto e di ogni sviluppo nel mondo, nella natura e nella storia, né può vedere, chiuso nei limiti che per lui sono luce e per noi tenebra, di una scatola cranica, che il comunismo sarà a sua volta un'intensa e imprevedibile lotta della specie per la vita, che ancora nessuno ha raggiunta, dato che vita non merita essere chiamata la sterile e patologica solitudine dell'Io, come il tesoro dell'avaro non è ricchezza, nemmen personale.

Lo spirito e l'essere
Giunge Feuerbach ed elimina la antitesi. La natura non è più la estrinsecazione dell'Idea (lettore: tieni stretto il Filo, che non è spezzato, andiamo verso la tesi che la storia non è l'estrinsecazione del Battilocchio!), non è vero che il pensiero è l'originario e la natura il derivato. Il materialismo viene, tra l'entusiasmo dei giovani, e anche del giovane Marx, rimesso sul trono. "La natura esiste indipendentemente da ogni filosofia, essa è la base su cui noi uomini, suoi prodotti, siamo cresciuti; oltre alla natura e agli uomini nulla esiste: gli esseri elevati che creò la fantasia religiosa sono solo il riflesso fantastico della nostra propria essenza". Ed Engels, fin qui, plaude anche da vecchio, solo si ferma a deridere il contrapposto che, per l'attività pratica, l'autore erige al posto dell'imperativo morale di Kant: l'amore. Non si tratta qui del fatto sessuale, ma della solidarietà, della fratellanza "innata" che lega uomo a uomo. Su questo si fondò il "vero socialismo" borghese e prussiano dell'epoca, impotente a vedere l'esigenza dell'attività rivoluzionaria, della lotta tra le classi, dell'eversione delle forme borghesi.
È questo il punto in cui Engels riepiloga la costruzione che conserva il fondamento materialista liberandolo dalla pastoia metafisica e dall'impotenza dialettica, che lo immobilizzavano, per altra via, nella stessa "glacialità storica" dell'idealismo, per rivestito che questo fosse apparso di volontà e di attività pratica.
Engels riporta la chiarificazione del problema alla formazione delle figure del pensiero fin dai popoli primitivi. Qui non possiamo che spigolare, ai fini di un angolo visuale più acuto, mentre sarebbe utile al movimento integrare ed allargare (indubbiamente vi provvederà il futuro) specie nei trapassi in cui Engels raffronta il suo dedurre con gli apporti delle varie scienze positive.
"La questione del rapporto tra il pensiero e l'essere, lo spirito e la natura... poteva essere posta nella sua forma più tagliente, poteva acquistare per la prima volta tutta la sua importanza, quando la società europea si destò dal lungo sonno del Medio Evo cristiano. La questione: qual è il primordiale, lo spirito o la natura? – Questa questione si acuì, rimpetto alla Chiesa, così: Ha Dio creato il mondo, o il mondo esiste dall'eternità?
"Questa questione, che nelle varie epoche si scrive in termini diversi, divide con le due risposte i due campi: materialismo e idealismo. Chi considera la natura (l'essere) come primordiale, è materialista, chi lo spirito (il pensare) è idealista. Ma allora occorre l'atto creativo, ed è notevole qui rilevare l'apprezzamento marxista dell'idealismo in questa drastica osservazione: "Questa creazione spesso è presso i filosofi, per esempio presso Hegel, ancora più ingarbugliata ed impossibile, che nel cristianesimo".
Chiarita questa separazione dei due gruppi di filosofi, non finisce la questione dei rapporti tra essere e pensiero. Sono essi estranei o compenetrabili? Può il pensiero degli uomini conoscere e descrivere appieno la naturale essenza? Vi sono filosofi che hanno contrapposto e separato i due elementi: l'oggetto e il soggetto; tra questi è Kant con la sua inafferrabile "cosa in sé". Hegel supera l'ostacolo, ma da idealista, ossia assorbe la cosa e la natura nell'Idea, che quindi ben può ravvisare e comprendere la sua emanazione. Ciò Feuerbach denunzia e combatte: "L'esistenza hegeliana delle 'categorie logiche' prima che esistesse il mondo materiale, non è altro che un fantastico avanzo della credenza in un creatore oltremondano". Ciò non basta che al compito di demolizione critica.
In una chiara esposizione Engels rimprovera a quell'atteggiamento, oltre il quale non aveva saputo andare la cultura tedesca, l'incapacità ad intendere la vita della società umana come un movimento e un processo incessante, al che Hegel aveva pure messo le basi. Tale antistorica concezione condannava il Medio Evo come una specie di parentesi inutile ed oscura (un analogo apprezzamento devono fare i marxisti della recente impostazione insensata della lotta e della critica antifascista e antinazista) e non ne sapeva inserire al suo posto le cause e gli effetti, scorgerne i grandi progressi e gli apporti immensi al corso futuro.
"Tutti i progressi realizzati nelle scienze naturali servirono loro solo come argomenti dimostrativi contro l'esistenza del creatore"... "Essi meritavano la derisione che fu rivolta ai primi socialisti riformisti francesi: dunque, l'ateismo è la vostra religione!".

Dramma ed attori
Segue la presentazione organica della dottrina materialista storica, forse la migliore che mai si sia scritta. Viene fatto il passo che Feuerbach non osò: sostituire "il culto dell'uomo astratto" con "la scienza dell'uomo reale e del suo sviluppo storico".
Con ciò si ritorna un momento ad Hegel: egli aveva instaurata (non scoperta) la dialettica, ma per lui era "l'evoluzione autonoma del concetto". In Marx essa diviene "il riflesso nella coscienza umana del moto dialettico del mondo reale". Come nella celebre frase, viene raddrizzata e poggiata sui piedi, non sulla testa.
Comincia la trattazione della scienza della società e della storia con metodo che coincide con quello applicato alla scienza della natura. Ma nessuno ignora i caratteri di questo particolare "campo" della natura, che è il vivere della specie uomo. Urgendo giungere alle "risposte" engelsiane, riportiamo solo qualche passo essenziale. "Nella natura vi sono agenti inconsapevoli... al contrario nella storia della società quelli che operano sono evidentemente dotati di consapevolezza, uomini operanti con riflessione o passione, tendenti a scopi determinati... Ma questa intenzione, sia comunque importante per l'indagine storica, specialmente di singole epoche ed avvenimenti, nulla può togliere al fatto che il corso della storia è dominato da intime leggi generali...Solo di rado avviene ciò che è voluto... tutti gli urti delle innumerevoli volontà e singole azioni portano ad uno stato di cose, che è assolutamente analogo a quello imperante nella natura inconsapevole. Gli scopi delle azioni sono voluti, ma i risultati che seguono da queste azioni non sono quelli voluti, o, in quanto sembrino corrispondere allo scopo voluto, hanno in conclusione conseguenze affatto diverse da quelle volute... Gli uomini fanno la loro storia, come che essa riesca, mentre ognuno persegue i fini suoi propri... i risultati di queste molteplici volontà agenti in diversa direzione e delle loro molteplici azioni sul mondo esterno, sono appunto la storia... Ma se si tratta di indagare le forze impellenti che – consapevolmente o inconsapevolmente, e veramente assai spesso inconsapevolmente – stanno dietro i motivi degli uomini operanti nella storia, e costituiscono i veri ultimi propulsori di essa, non si può trattare tanto dei motivi determinanti singoli, se anche di uomini eminenti, ma piuttosto di quelli che mettono in movimento grandi masse, interi popoli, intere classi; ed anche questi non momentaneamente, a modo di un fugace fuoco di paglia rapido ad accendersi e spegnersi, bensì a modo di un'azione durevole che mette capo ad una grande trasformazione storica".
Qui alla parte filosofica segue la parte storica fino al grande moto proletario moderno. A questo punto è messa fine alla filosofia nel campo della storia come in quello della natura. "Non importa più escogitare nessi nella mente, bensì scoprirli nei fatti".

Limpidi oracoli
Ricordate i quesiti, e sentite le risposte, non oscure e non ambigue come quelle dell'oracolo antico, ma trasparenti, a conferma delle nostre posizioni.
Alla questione ultima riferita, del 1890.
"Il momento che in ultima istanza è decisivo nella storia, è la produzione e riproduzione della vita materiale".
"La situazione economica è la base, ma i diversi momenti dell'edificio – forme politiche della lotta di classe e suoi risultati, costituzioni fissate dalla classe vittoriosa dopo le battaglie vinte, forme del diritto, e perfino i riflessi di tutte queste vere lotte nel cervello dei partecipanti, teorie politiche, giuridiche, opinioni religiose e loro ulteriore sviluppo in sistemi dogmatici – tutto ciò esercita anche la sua influenza sull'andamento delle lotte storiche, e in certi casi ne determina la forma. È nella vicendevole influenza di tutti questi momenti (= fattori) che, attraverso l'infinito numero di accidentalità... si compie alla fine il movimento economico".
Alla prima domanda della lettera del 1894 sull'influenza causale delle condizioni economiche: "Come condizioni economiche, che consideriamo base determinante della storia della società, intendiamo il modo con cui gli uomini producono i loro mezzi di esistenza e scambiano i loro prodotti (fino a che esiste divisione di lavoro). Tutta la tecnica della produzione e del trasporto è quindi compresa... Ciò determina la ripartizione della società in classi, le condizioni di padronanza e servitù, lo Stato, la politica, il diritto, ecc.".
"Se come ella dice la tecnica dipende in grandissima parte dalla scienza a maggior ragione questa dipende dalle condizioni e dalle esigenze della tecnica... Tutta l'idrostatica (Torricelli, ecc.) fu generata dal bisogno che l'Italia sentì nei secoli XVI e XVII di regolare i corsi d'acqua scendenti dalle montagne" (Cfr. vari scritti del nostro giornale e rivista sulla precocità dell'impresa agricola capitalista in Italia, e sulla degenerazione della tecnica di difesa idraulica moderna nell'inondazione del Polesine).
Sul comma a) della seconda domanda: il momento rappresentato dalla razza, diamo il solo bruciante apoftegma (a filare): "La razza è un fattore economico". Non avevate udito: produzione e riproduzione? La razza è una materiale catena di atti riproduttivi.
Ed infine il comma b), che riguarda il battilocchio, e col quale lasciamo il magnifico Federico.
"Gli uomini fanno essi la loro storia, ma finora non con una volontà generale e secondo un piano generale, neppure in una data società limitata. Le loro aspirazioni si contrariano; ed in ogni simile società prevale appunto per questo la necessità, di cui l'accidentalità è il complemento e la forma di manifestazione. Ed allora appaiono i cosiddetti grandi uomini. Che un dato grand'uomo, e proprio quello, sorga in quel determinato tempo e in quel determinato luogo, è naturalmente un puro caso. Ma, se noi lo eliminiamo, c'è subito richiesta di un sostituto, e questo sostituto si trova, tant bien que mal, ma alla lunga si trova. Che Napoleone fosse proprio questo corso, questo dittatore militare che la situazione della repubblica francese, estenuata dalle guerre, rendeva necessario, è un puro caso, ma che in mancanza di Napoleone ci sarebbe stato un altro ad occuparne il posto, ciò è provato dal fatto che ogni qualvolta ce n'era bisogno l'uomo si è trovato sempre: Cesare, Augusto, Cromwell, ecc.".
Marx! Engels sentiva ben l'urlo della platea: il benservito anche a lui: Thierry, Mignet, Guizot scrissero storie inglesi inclinando al materialismo storico, Morgan vi arrivò per conto suo, "i tempi erano maturi e quella scoperta doveva (stavolta non è nostro il corsivo) essere fatta".
Eppure in una nota al Feuerbach Engels dice: Marx era un genio; noi soltanto dei talenti. Sarebbe deplorevole che da tutta la dimostrazione taluno non avesse capito che differenze fortissime corrono da uomo a uomo come per la forza dei muscoli così per il potenziale della macchina-cervello.
Ma il fatto è che, avendo come massimo esempio liquidato proprio lo shawiano "uomo del destino", non possiamo illuderci di esserci tolti dai piedi i "fessi del destino", poveri autocandidati a coprire il vuoto, che la storia avrebbe pronto per loro, e pieni di preoccupazione per l'eventualità di mancare all'appello, e di imboscarsi alla gloria.

OGGI

Posta recente
Calza con l'argomento una lettera rivolta ad una compagna operaia che, scusandosi a torto di esposizione imperfetta, seppe porre il quesito in modo assai espressivo. Riportiamo il testo di parte della risposta.
Tu scrivi: "dici bene che un marxista deve guardare i principii e non gli uomini... noi diciamo gli uomini non contano e lasciamoli fuori, ma sino a che punto si può far ciò? Se sono gli uomini che determinano in parte i fatti? Se gli uomini sono in parte la causa che determinò lo scompiglio, noi non possiamo dimenticarli del tutto". Non si tratta per nulla di modo traballante di arrivare alla questione; anzi, offri una via molto utile per farlo.
I fatti e gli atti sociali di cui ci occupiamo come marxisti sono operati da uomini, hanno come attori gli uomini. Verità indiscussa; e senza l'elemento umano la nostra costruzione non regge. Ma questo elemento era tradizionalmente considerato in modo diversissimo da quello che il marxismo ha introdotto.
La tua semplice espressione si può enunciare in tre modi; ed allora si vede il problema nella sua profondità, a cui hai il merito di esserti avvicinata. I fatti sono operati da uomini. I fatti sono operati dagli uomini. I fatti sono operati dall'uomo Tizio, dall'uomo Sempronio, dall'uomo Caio.
Non ci distingue solo dagli "altri" la nozione che (essendo l'uomo da un lato un animale, dall'altro un essere pensante) essi dicono che l'uomo pensa prima, e poi dagli effetti di questo pensiero si risolvono i suoi rapporti di vita materiale, e anche animale – noi diciamo che a base di tutto stanno i rapporti fisici, animali, nutrimento, ecc.
La questione appunto non si pone uomo per uomo, ma nella realtà dei complessi sociali e dei loro fenomeni che si concatenano.
Ora quelle tre formulazioni del modo come gli uomini intervengono, scusa i paroloni, nella storia, sono queste.
I tradizionali sistemi religiosi o autoritari dicono: un grande Uomo o un Illuminato dalla divinità pensa e parla: gli altri imparano e agiscono.
Gli idealisti borghesi più recenti dicono: la parte ideale, sia pure comune a tutti gli uomini civilizzati, determina certe direttive, in base alle quali gli uomini sono condotti ad agire. Anche qui campeggiano ancora taluni determinati uomini: pensatori, agitatori, capitani di popolo, che avrebbero data la spinta a tutto.
I marxisti poi dicono: l'azione comune degli uomini, o se vogliamo quanto di comune e non di accidentale e particolare è nell'azione degli uomini, nasce da spinte materiali. La coscienza e il pensiero vengono dopo e determinano le ideologie di ciascun tempo.
E allora? Per noi come per tutti sono gli atti umani che divengono fattori storici e sociali: chi fa una rivoluzione? Degli uomini, è chiaro.
Ma per i primi era fondamentale l'Uomo illuminato, sacerdote o re.
Per i secondi: la coscienza e l'Ideale che conquistò le menti.
Per noi: l'insieme dei dati economici e la comunità di interessi.
Anche per noi gli uomini non si riducono, da protagonisti che creano o recitano, a marionette i cui fili sono tirati... dall'appetito. Sulla base della comunanza di classe si hanno gradi e strati diversi e complessi di disposizioni ad agire, e tanto più di capacità di sentire ed esporre la comune teoria.
Ma il fatto nuovo è che a noi non sono indispensabili, come alle precedenti rivoluzioni, neppure col compito di simboli, uomini determinati, con una determinata individualità e nome.

Inerzia della tradizione
Il fatto è che appunto in quanto le tradizioni sono le ultime a sparire, molto spesso gli uomini si muovono per la sollecitazione suggestiva della passione per il Capo. Allora perché non "utilizzare" questo elemento, che si capisce non muta il corso della lotta di classe, ma può favorire lo schieramento, il precipitare dell'urto?
Ora a me pare che il succo delle dure lezioni di tanti decenni sia questo: rinunziare a smuovere gli uomini e a vincere attraverso gli uomini non è possibile, e proprio noi sinistri abbiamo sostenuto che la collettività di uomini che lotta non può essere tutta la massa o la maggioranza di essa, deve essere il partito non troppo grande, e i cerchi di avanguardia nella sua organizzazione. Ma i nomi trascinatori hanno trascinato in avanti per dieci, e poi rovinato per mille. Freniamo quindi questa tendenza e in quanto praticamente possibile sopprimiamo, non certo gli uomini ma l'Uomo con quel dato Nome e con quel dato Curriculum vitae...
So la risposta che facilmente suggestiona gli ingenui compagni. Lenin. Bene, è certo che dopo il 1917 guadagnammo molti militanti alla lotta rivoluzionaria perché si convinsero che Lenin aveva saputa fare e fatta la rivoluzione: vennero lottarono e poi approfondirono meglio il nostro programma. Con questo espediente si sono mossi proletari e masse intere che forse avrebbero dormito. Ammetto. Ma poi? Collo stesso nome si va facendo leva per la totale corruzione opportunista dei proletari: siamo ridotti al punto che l'avanguardia della classe è molto più indietro che prima del 1917, quando pochi sapevano quel nome.
Allora io dico che nelle tesi e nelle direttive stabilite da Lenin si riassume il meglio della collettiva dottrina proletaria, della reale politica di classe; ma che il nome come nome ha un bilancio passivo. Evidentemente si è esagerato. Lenin stesso di gonfiature personali aveva le scatole pienissime. Sono solo gli ometti da nulla a credersi indispensabili alla storia. Egli rideva come un bambino a sentire tali cose. Era seguito, adorato, e non capito.
Sono riuscito a darti in queste poche parole l'idea della questione? Dovrà venire un tempo in cui un forte movimento di classe abbia teoria e azione corretta senza sfruttare simpatie per nomi. Credo che verrà. Chi non ci crede non può essere che uno sfiduciato della nuova visione marxista della storia, o peggio un capo degli oppressi affittato dal nemico.
Come vedi l'effetto storico dell'entusiasmo per Lenin non l'ho messo in bilancio con l'effetto nefasto dei mille capi rinnegati, ma con gli stessi effetti negativi del nome stesso, né sono sceso sul terreno insidioso del: se Lenin non fosse morto. Stalin era anche lui un marxista con le carte in regola e un uomo d'azione di prim'ordine. L'errore dei trotzkisti è cercare la chiave di questo grandioso rivolgimento della forza rivoluzionaria nella sapienza o nel temperamento di uomini.

Figuri dell'attualità
Perché abbiamo chiamata la teoria del grand'uomo teoria del battilocchio?
Battilocchio è un tipo che richiama l'attenzione e nello stesso tempo rivela la sua assoluta vuotaggine. Lungo, dinoccolato, curvo per celare un poco la testa ciondolante ed attonita, l'andatura incerta ed oscillante. A Napoli gli dicono battilocchio con riferimento allo sbattito di palpebre del disorientato e del filisteo; a Bologna, tanto per sfuggire alla taccia di localismo, gli griderebbero dì ben sò fantesma.
La storia e la politica contemporanea di questa data 1953 (in cui tutto risente del fatto generale e non accidentale che una forma semiputrefatta non riesce a crepare: il capitalismo) ne circondano di costellazioni di battilocchi. Il marasma proprio di tale fase diffonde a masse ammiranti e lucidanti la convinzione assoluta che ad essi, e ad essi solo, guardar si debba, che si tratta da ogni lato dei battilocchi del destino, e che soprattutto il cambio della guardia nel corpo battilocchiale sia il momento (poveri noi, o Federico!) che determina la storia.
Tra i capi di Stato, per l'assoluta mancanza di ogni nuova parola e perfino di ogni originale posa, ve ne è un terzetto ineffabile: Franco, Tito, Peron. Questi campioni, questi Oscar di bellezza storica, hanno spinto al nec plus ultra l'arte suprema: togliersi tutti i connotati. Altro che dinastici nasi; che occhi d'aquila!
Quanto ad Hitler e Mussolini buonanime, il primo fa pensare ad uno stato maggiore formidabile di non battilocchi che lo attorniava, elevati per tanto grado di criminali, che non solo facevano storia, ma usavano violenza carnale su di essa a piacer loro! Il secondo si fa perdonare per lo strato ineffabile di sottobattilocchi che lo inguaiava, e che ha dato cambio della guardia, in quel del 1944-45, ad uno stuolo di equipollenti sodali, oggi nostra delizia.
Una terna bellissima che si schiera non nello spazio ma nel tempo, con la prova provata che ogni successione per morto o per elezione produce effetto storico misurato da zero via zero, è quella Delano, Harry, Ike. Le forze americane che occupano il mondo giustificherebbero la definizione di questo periodo come la calata dei battilocchi.

Slavati diadochi
Una costellazione non meno espressiva dello stadio presente, ci è data dai capi nazionali recenti e presenti, e spesso drasticamente spostati, dei paesi e dei partiti che si collegano alla Russia, e non si sa dove meglio scoprir battilocchi, se in fondo alla Balcania o tra le gonne di Marianna. Quando il grande Alessandro morì, l'impero macedone che si era esteso su due continenti fu frammentato in Stati minori affidati ai vari generali di lui, che in non lungo ciclo sparirono senza traccia. Chi ne ricordasse i nomi, ci darebbe molti punti in fatto di storia.
Quando dunque la storia chiama il grande uomo lo trova. Può ben darsi che lo trovi con una testa a basso potenziale. Ma quando chiama battilocchi può avvenire anche che il posto sia coperto da uomini di valore. Non stiamo, allo stato, dando del fesso a nessuno.
Il fatto è che, in Italia ad esempio, il concorso aperto per le grandi personalità si riferisce a posti già occupati da colossi storici. Si tratta infatti di recitare la parodia di una tragedia che ebbe già il suo svolgimento solenne. In occasione del sessantesimo compleanno di Togliatti, e con un cerimoniale bassamente passatista, dopo aver largamente riportato il suo curriculum vitae ed i suoi scritti, sono pervenuti alla definizione in sintesi: un grande patriota.
La controfigura è ormai svuotata da un secolo, e offre poche speranze di non battilocchiesca grandezza. La storia ha già trovato i suoi eroi, senza troppo cercare. Mazzini, Garibaldi, Cavour, e tanti altri, non scenderanno di scanno. Di patria a vero dire ce ne resta pochina, ma di patrioti ne abbiamo una sporta. L'autobus della gloria rivoluzionaria è al completo. Ciò non diffama le qualità del soggetto odierno: i suoi scritti che hanno riesumati dal 1919 (quando si ebbe il torto di non dare ad essi la dovuta attenzione) gli fanno onore: non ha mai cessato di essere un marxista, poiché non lo era mai divenuto. Sosteneva allora quello che oggi sostiene, la missione della patria. Grandissimo, se volete, patriota: come una grandissima diligenza nel tempo dell'elettrotreno e dell'aereo a reazione.
Se, dopo aver dibattuto di Lenin, non abbiamo fatto cenno di Stalin, da poco scomparso, non è per tema che dopo una spedizione punitiva il nostro scalp vada ad adornare il mausoleo, prassi a cui vi è buona speranza di giungere. Stalin è ancora il pollone di un ferreo ambiente anonimo di partito che costruì sotto non accidentali spinte storiche un moto collettivo, anonimo, profondo. Sono reazioni della base storica, e non casi fortuiti della bassa corsa al successo, che determinano lo svolto traverso il quale in una fiamma termidoriana lo stuolo rivoluzionario dovette bruciare sé stesso, e sebbene un nome può essere un simbolo anche quando una persona non conta nulla per la storia, il nome di Stalin resta come simbolo di questo straordinario processo: la forza proletaria più possente piegata schiava alla rivoluzionaria costruzione del capitalismo moderno, sulla rovina di un mondo arretrato ed inerte.
Ben deve la rivoluzione borghese avere un simbolo ed un nome, per quanto sia anche essa in ultima istanza fatta da forze anonime e rapporti materiali. Essa è l'ultima rivoluzione che non sa essere anonima: perciò la ricordammo romantica.
È la nostra rivoluzione che apparirà quando non vi saranno più queste prone genuflessioni a persone, fatte soprattutto di viltà e di smarrimento, e che come strumento della propria forza di classe avrà un partito fuso in tutti i suoi caratteri dottrinali organizzativi e combattenti, cui nulla prema del nome e del merito del singolo, e che all'individuo neghi coscienza, volontà, iniziativa, merito o colpa, per tutto riassumere nella sua unità a confini taglienti.

Morfina e cocaina
Lenin prese da Marx la definizione, da molti combattuta come banale, che la religione è l'oppio del popolo. Il culto dell'entità divina è dunque la morfina della rivoluzione, di cui addormenta le forze agenti; e non per niente nel lutto recente si è pregato in tutte le chiese dell'URSS.
Il culto del capo, dell'entità e persona non più divina, ma umana, è uno stupefacente sociale ancora peggiore, e noi lo definiremo la cocaina del proletariato. L'attesa dell'eroe che infiammi e travolga alla lotta è come l'iniezione di simpamina: i farmacologi hanno trovato il termine adatto: eroina. Dopo una breve esaltazione patologica di energie, sopravviene la prostrazione cronica e il collasso. Non vi sono iniezioni da fare alla rivoluzione che esita, ad una società turpemente gravida da diciotto mesi, e tuttora infeconda.
Buttiamo via la volgare risorsa di trarre successo dal nome dell'uomo di eccezione, e gridiamo un'altra formula del comunismo: esso è la società che ha fatto a meno di battilocchi.



15 giugno 2011

Perché sono marxista

di Karl Korsch (1935)

Invece di discutere il marxismo in generale, propongo di trattare subito alcuni dei punti più concreti e qualificanti della teoria e della pratica marxista. Solo un approccio di questo tipo è coerente con il principio del pensiero marxiano. Per il marxista non esiste qualcosa come «il marxismo» in generale più di quanto non c'è una «democrazia» in generale, una «dittatura» o uno «Stato» in generale. Esiste solo uno Stato borghese o una dittatura fascista ecc. Ed anche questi esistono solo in determinati stadi dello sviluppo storico, con corrispondenti caratteristiche storiche innanzitutto economiche, ma condizionate in parte da fattori geografici, di tradizione ed altri ancora. Con i differenti livelli di sviluppo storico, con i diversi ambienti geografici, con le ben note differenze di credo e di tendenza delle varie scuole marxiste, esistono a livello nazionale e internazionale diversissimi sistemi teorici e movimenti pratici che vanno sotto il nome di marxismo. Invece di discutere l'intero corpo dei princìpi teorici, dei punti di vista d'analisi, dei metodi di procedimento, conoscenza storica e norme d’azione che Marx e i marxisti hanno tratto in più di ottant'anni dall'esperienza delle lotte della classe proletaria e saldato unitariamente in teoria e movimento rivoluzionario, cercherò da parte mia di individuare quegli specifici atteggiamenti, proposizioni e tendenze che possono essere utilmente adottati come guida del nostro pensare e agire oggi, qui ed ora, nelle condizioni esistenti dell’anno 1935 in Europa, negli USA, in Cina, in Giappone, India e nel nuovo mondo dell’URSS.
In questa maniera, la questione «perché sono marxista» si pone primariamente per il proletariato, o piuttosto per le parti più vive e avanzate della classe proletaria. Può essere posta anche per settori della popolazione che, come lo strato in declino delle classi medie, il gruppo di recente formazione degli impiegati, i contadini e agricoltori ecc., non appartengono né alla classe capitalistica dominante né a quella proletaria vera e propria, ma possono associarsi al proletariato con l'obiettivo di una lotta comune. La questione può porsi persino per quei settori della borghesia la cui vita è minacciata dal «capitalismo monopolistico» o «fascismo». Certamente si pone per gli ideologi borghesi (studiosi, artisti, ingegneri, ecc.) che sotto la pressione complessiva della società capitalistica in declino stanno indirizzandosi individualmente verso il proletariato. Enuncerò ora in forma concisa quelli che mi paiono i punti più essenziali del marxismo:

1. Tutte le affermazioni di principio del marxismo, anche quelle apparentemente generali, sono specifiche.

2. Il marxismo non è positivo ma critico.

3. Il suo oggetto non è la società capitalistica esistente nel suo stato affermativo, ma la società capitalista in declino, come si rivela nelle tendenze al crollo e alla rovina in modo dimostrabile.

4. Il suo fine principale non è il piacere contemplativo del mondo esistente, ma la sua attiva trasformazione (praktiscbe Umwälzung).

I

Nessuno di questi caratteri fondamentali del marxismo è stato riconosciuto adeguatamente o applicato dalla maggioranza dei marxisti. Ripetutamente i cosiddetti marxisti «ortodossi» sono ricaduti nel modo di pensare «astratto» e «metafisico» che Marx stesso – dopo Hegel – aveva ripudiato nel modo più netto, e che è stato invero decisamente respinto dall'intera evoluzione del pensiero moderno negli ultimi cento anni.
Recentemente un marxista inglese ha tentato ancora una volta di « salvare » il marxismo dagli attacchi di Bernstein e altri, secondo i quali il corso della storia moderna devierebbe dallo schema di sviluppo tracciato da Marx, con la misera scappatoia che Marx avrebbe tentato di scoprire «le leggi generali del mutamento sociale non solo dall'analisi della società nel diciannovesimo secolo, ma anche dallo studio dello sviluppo sociale a partire dall'inizio della società umana» ed è pertanto «assolutamente possibile» che le sue conclusioni «siano vere per il ventesimo secolo quanto lo furono per il periodo nel quale è arrivato ad esse» (1). È evidente che una difesa del genere distrugge il vero contenuto della teoria marxiana più drasticamente di qualunque attacco revisionista. Nondimeno questa è stata la sola risposta data negli ultimi trent’anni dall'ortodossia marxista tradizionale alle accuse dei riformisti che l'una o l'altra parte del marxismo era invecchiata. Per altri motivi, c'è la tendenza presso i cittadini dello Stato sovietico marxista a dimenticare il carattere specifico del marxismo. Essi accentuano la validità generale e universale delle principali proposizioni marxiste per canonizzare le dottrine che stanno alla base dell'attuale costituzione del loro Stato. Così uno degli ideologi minori dello stalinismo attuale, L. Rudas, tenta in nome del marxismo di porre in discussione il progresso storico fatto da Marx operando novant’anni fa il capovolgimento (Umstülpung) della dialettica idealistica hegeliana nella sua dialettica materialista. Sulla base di una citazione di Lenin, che era stata usata in un contesto completamente diverso contro il materialismo meccanicistico di Bucharin e che significa una cosa molto diversa da quanto afferma Rudas, costui trasforma la contraddizione storica tra «forze produttive» e «rapporti di produzione» in un principio «metastorico», che vuole applicare anche al lontano futuro della società senza classi pienamente sviluppata. Nella teoria di Marx sono colte tre contraddizioni fondamentali come aspetti della concreta unità storica del movimento rivoluzionario pratico. Esse sono: nell’economia, la contraddizione tra «forze produttive» e «rapporti di produzione»; nella storia, la lotta tra le classi sociali; nel pensiero logico, l'opposizione tra tesi e antitesi. Di questi tre aspetti, tutti egualmente storici, del principio rivoluzionario scoperti da Marx nella natura della società, capitalistica, Rudas, nella sua trasfigurazione metastorica della concezione totalmente storica di Marx, lascia cadere il termine di mezzo: considera il conflitto vivente delle classi in lotta come mera «espressione» o risultato di una forma storica transitoria della contraddizione essenziale «più profonda» e mantiene come unico fondamento della «dialettica materialista» – ora enfiata a legge eterna di sviluppo cosmico  –  l'opposizione tra «forze produttive» e «rapporti di produzione». Facendo così, arriva all'assurda conclusione che nell’economia sovietica odierna la contraddizione fondamentale della società capitalista esiste in forma «invertita». In Russia – scrive – le forze di produzione non si ribellano più contro rapporti di produzione rigidi, ma è invece la relativa arretratezza delle forze di produzione rispetto ai rapporti di produzione già raggiunti, a «spingere avanti l’Unione Sovietica ad un ritmo di sviluppo intenso senza precedenti» (2).
Dai rappresentanti delle due frazioni del marxismo ortodosso tedesco e russo è stata respinta unanimemente la tesi da me avanzata nell'edizione che ho curato del Capitale secondo la quale tutte le affermazioni contenute in quest'opera, e specialmente quella sull'«accumulazione primitiva» come è trattata nell'ultimo capitolo del libro, rappresentano solo una traccia storica dell'ascesa e dello sviluppo del capitalismo nell'Europa occidentale e «hanno valore al di là di ciò solo nello stesso modo in cui ogni conoscenza pienamente empirica di forma naturale e storica si applica più che al caso singolo considerato». Di fatto, questa mia affermazione ripete solo ed accentua un principio che Marx stesso cinquant'anni fa aveva esplicitamente formulato correggendo il sociologo idealista russo Michajlovskij nel suo fraintendimento del Capitale. Si tratta, in verità, di un'implicazione necessaria del principio fondamentale di ricerca empirica che oggi è negata solo da qualche ostinato metafisico. Quanto limpida, chiara e definita, a confronto del rifiorire di questa dialettica pseudofilosofica nelle opere di marxisti «moderni» come Rudas, era la posizione di quei vecchi marxisti come Rosa Luxemburg e Franz Mehring che videro come il principio della dialettica marxista, quale è incarnata nell'economia marxiana, non significa altro che il rapporto specifico di tutti i termini e proposizioni economiche ad oggetti storicamente determinati.
Tutte le questioni accanitamente dibattute nel campo del materialismo storico – questioni che se formulate nella loro forma generale sono insolubili e addirittura prive di senso come le famose dispute scolastiche attorno alla precedenza dell'uovo o della gallina – perdono il loro carattere misterioso e sterile se vengono espresse in modo concreto, storico, specifico. F. Engels, ad esempio, nelle sue famose lettere sul materialismo storico, scritte dopo la morte di Marx, ha di fatto modificato la dottrina di Marx per eccesso di riguardo all’obiezione di unilateralità sollevata dai critici borghesi e presunti marxisti contro l'affermazione di Marx che «la struttura economica della società forma la base reale sulla quale si innalzano sovrastrutture giuridiche e politiche e alla:quale corrispondono determinate forme di coscienza sociale». Engels sconsideratamente ammise che a lungo raggio possono aver luogo cosiddette «reazioni» (Rückwirkungen) tra la sovrastruttura e la base, tra lo sviluppo ideologico e lo sviluppo economico e politico. In questo modo ha creato una confusione completamente inutile nei fondamenti del nuovo principio rivoluzionario. Infatti, senza una esatta determinazione quantitativa di quanta «reazione» ha luogo e senza una esatta indicazione delle condizioni sotto le quali si verifica l’una e l’altra, la teoria marxiana dello sviluppo storico della"società, così come è interpretata da Engels, diventa inutile, anche come ipotesi di lavoro. Non offre la più piccola indicazione se la causa di un mutamento nella vita sociale debba essere cercata nell’azione (Wirkung) della base sulla sovrastruttura o nella reazione (Rückwirkung) della sovrastruttura sulla base. Né la logica della questione è toccata da scappatoie verbali: come fattori «primari» e «secondari» o dalla classificazione di cause in «prossime», «medie» e «ultime», ovvero quelle che si rivelano decise «in ultima istanza». L'intero problema scompare non appena al posto della questione generale dell'effetto dell'«economia come tale» sulla «politica come tale» o «il diritto, l’arte e la cultura come tali» e viceversa facciamo una descrizione dettagliata delle relazioni che esistono tra fenomeni economici determinati ad un determinato livello storico di sviluppo e determinati fenomeni che appaiono simultaneamente o di seguito in ogni altro campo dello sviluppo politico, giuridico e intellettuale.
Questo è il modo in cui va posto il problema secondo Marx. Lo schema di un’introduzione generale alla sua Critica dell’economia politica, pubblicato postumo, è un'impostazione chiara e altamente significativa dell'intero complesso problematico, nonostante il suo carattere schematico. La maggior parte delle obiezioni avanzate più tardi contro il suo principio materialistico sono qui anticipate e risolte. Questo è particolarmente vero per il problema molto sottile del «rapporto ineguale tra lo sviluppo della produzione materiale e la creazione artistica», messo in evidenza nel fatto ben noto che «certi periodi del più alto sviluppo dell'arte non stanno in alcuna diretta relazione con lo sviluppo generale della società o la base materiale della sua organizzazione». Marx mostra il duplice aspetto sotto il quale questo sviluppo ineguale prende definita forma storica: «la relazione tra differenti forme d'arte nell'ambito dell’arte stessa» e «la relazione tra l'intero campo dell’arte e il complesso dello sviluppo sociale». «La difficoltà consiste solo nel modo generale in cui queste contraddizioni sono espresse. Non appena divengono specifiche e concrete, esse divengono nel contempo chiarite».

II

Altrettanto duramente, come è avvenuto per la mia tesi sul carattere specifico, storico e concreto di ogni proposizione, legge e principio della teoria marxiana, comprese quelle apparentemente universali, è contestata anche la mia seconda affermazione che il marxismo è essenzialmente critico, non positivo. La teoria di Marx non costituisce né una filosofia materialistica positiva né una scienza positiva. Dall'inizio alla fine è una critica teorica non meno che pratica della società esistente. Naturalmente il termine «critica» (Kritik) deve essere inteso in quel senso comprensivo e pur preciso in cui venne usato da tutti gli hegeliani di sinistra, Marx ed Engels inclusi, nei pre-rivoluzionari anni Quaranta del secolo scorso. Non deve essere confuso con la connotazione che ha il termine odierno di criticism. «Critica» non deve essere intesa in un senso meramente idealistico, ma come critica materialistica. Essa implica, dal punto di vista dell’oggetto, un’investigazione empirica di tutte le sue relazioni e sviluppi, «condotta con la precisione di una scienza naturale», e, dal punto di vista del soggetto, un esame di come i desideri impotenti, le intuizioni e le esigenze di singoli soggetti si sviluppano in un potere di classe storicamente efficace che guida alla «pratica rivoluzionaria» (Praxis). Questa tendenza critica, che gioca un ruolo tanto preminente in tutte le opere di Marx ed Engels fino al 1848, è ancora viva nelle fasi successive dello sviluppo della teoria marxiana. L'opera economica del periodo maturo è legata ai precedenti scritti, filosofici e sociologici, più strettamente di quanto non siano disposti ad ammettere i marxisti ortodossi. Ciò è evidente dai titoli stessi dei libri della maturità e della giovinezza. La prima opera importante che i due amici scrissero insieme già nel 1846 per mostrare l'opposizione delle loro idee politiche e filosofiche all'idealismo hegeliano di sinistra contemporaneo, era intitolata Critica dell'ideologia tedesca. E quando nel 1859 Marx pubblicò la prima parte della vasta opera economica che aveva in programma la intitolò Critica dell’economia politica, quasi per metterne in rilievo il carattere critico. Questo titolo divenne poi il sottotitolo dell'opera principale, Il Capitale. Critica dell’economia politica. I marxisti ortodossi dell'ultima ora dimenticarono o negarono la preminenza dell'impostazione critica nel marxismo. Nel migliore dei casi, quelle tendenze critiche avevano per essi un valore del tutto estrinseco e irrilevante rispetto al carattere «scientifico» delle tesi di Marx, in particolare nel campo che a loro parere era la scienza fondamentale del marxismo: l'economia. Questa revisione trovò la sua espressione più grossolana nel famoso Capitale finanziario del marxista austriaco Rudolf Hilferding, che considera la teoria economica del marxismo come una semplice fase nell’interrotta continuità delle teorie economiche, completamente staccata dagli obiettivi socialisti, e quindi senza alcuna implicazione per la pratica. Dopo aver formalmente affermato che la teoria sia economica sia politica del marxismo «è libera da giudizi di valore», l'autore sottolinea che:

«è pertanto concezione errata, anche se diffusa intra et extra muros identificare senz'altro marxismo e socialismo. Poiché, considerato logicamente, visto soltanto come sistema scientifico – prescindendo cioè dalla sua efficacia storica – il marxismo è solo una teoria delle leggi del divenire della società: leggi che la concezione marxista della storia formula in generale, e l'economia marxista applica all'epoca della produzione delle merci. Il socialismo è la risultante delle tendenze che si sviluppano, e si combinano nella società produttrice di merci. Ma riconoscere la validità del marxismo (il che implica il riconoscimento della necessità del socialismo) non significa in alcun modo formulare valutazioni, né tanto meno significa additare, una linea di condotta pratica. Poiché una cosa è riconoscere una necessità, altra cosa è porsi al servizio di quella necessità. È possibilissimo infatti che uno, pur essendo convinto della vittoria finale del socialismo, si schieri contro di esso.» (4)

È vero che teorie marxiste moderne hanno avanzato critiche più o meno efficaci contro questa superficiale, pseudoscientifica interpretazione del marxismo ortodosso. Mentre in Germania il principio critico, cioè rivoluzionario, del marxismo veniva apertamente attaccato dai revisionisti alla Bernstein e difeso fiaccamente da «ortodossi» come Kautsky e Hilferding, in Francia il movimento, di breve durata, del «sindacalismo rivoluzionario», quale espresso da Georges Sorel, tentava di far rivivere proprio questo aspetto del pensiero di Marx come uno degli elementi basilari di una nuova teoria rivoluzionaria della lotta di classe proletaria. Un passo più efficace nella stessa direzione venne fatto da Lenin, che applicò il principio rivoluzionario del marxismo alla prassi della rivoluzione russa, e nello stesso tempo raggiunse un risultato non meno importante in campo teorico ripristinando alcuni degli insegnamenti più potentemente rivoluzionari di Marx.
Ma né Sorel, il sindacalista, né Lenin, il comunista, usarono l'intera forza e impatto della originaria «critica» marxista. L'impostazione irrazionalistica di Sorel, con la quale egli trasformò in «miti» alcune importanti dottrine di Marx portò, a dispetto delle sue intenzioni, ad una sorta di «depotenziamento» di queste nella loro rilevanza pratica per l'azione rivoluzionaria di classe proletaria, e prepararono ideologicamente la strada al fascismo di Mussolini. La divisione alquanto cruda da parte di Lenin delle tesi filosofiche, economiche, ecc, in «utili» e «dannose» per il proletariato (risultato della sua preoccupazione troppo esclusiva degli effetti immediati della loro accettazione o ripudio, con la conseguente troppo scarsa considerazione dei loro futuri e ultimi possibili effetti) portò a quell’irrigidimento della teoria marxista, a quel declino e in parte a quella deformazione del marxismo rivoluzionario che rende assai difficile all’attuale marxismo sovietico ogni progresso fuori dal suo ambito autoritario. Di fatto, il proletariato rivoluzionario non può nella lotta pratica disinteressarsi della differenza tra le affermazioni scientifiche vere e quelle false. Proprio come il capitalista, da uomo pratico, «sa cosa deve fare nei suoi affari, anche se non sempre considera ciò che dice fuori dai suoi affari», come il tecnico nella costruzione di una macchina deve avere esatta cognizione almeno di alcune leggi fisiche, così il proletariato deve possedere una conoscenza sufficientemente vera in economia, politica ed altre materie oggettive per poter condurre la lotta di classe rivoluzionaria ad un esito felice. In questo senso e con questi limiti il principio critico del marxismo materialistico, rivoluzionario implica una conoscenza rigorosa, empiricamente verificabile, caratterizzata «da tutta la precisione di una scienza naturale», delle leggi economiche del movimento e sviluppo della società capitalista e della lotta di classe proletaria.

III

La «teoria» marxista non mira ad ottenere una conoscenza obiettiva a partire da un interesse indipendente, teoretico. È spinta ad acquisire questa conoscenza dalle necessità pratiche della lotta e può trascurarla solo col grave rischio di fallire il suo obiettivo, al prezzo della sconfitta e dell'eclissi del movimento proletario che rappresenta. Proprio perché la teoria marxista non perde di vista il suo scopo pratico, evita ogni tentativo di costringere tutta la esperienza nello schema di. una costruzione monistica dell’universo per stabilite un sistema unificato di conoscenza. La teoria marxiana non è interessata ad ogni cosa, né in modo eguale a tutti gli oggetti del suo interesse. La sua sola preoccupazione è per quelle cose che hanno rilievo per i suoi obiettivi, e sarà tanto più interessata a qualcosa e ad ogni suo aspetto quanto più questa cosa particolare o il suo aspetto particolare hanno un rapporto con i suoi propositi pratici.
II marxismo, nonostante il suo indiscutibile riconoscimento della priorità (Priorität) genetica della natura esterna rispetto a tutti gli eventi storici e umani, è interessato primariamente solo ai fenomeni e alle interrelazioni della vita storica e sociale. Presta innanzitutto attenzione a ciò che – in rapporto alle dimensioni dello sviluppo cosmico – avviene in un breve lasso di tempo e nel cui sviluppo può entrare come forza pratica, influente. Che ciò venga ignorato da parte di certi marxisti ortodossi di partito va in conto ai loro ostinati tentativi di pretendere la stessa superiorità, che indubbiamente la teoria marxista possiede nel campo della sociologia, anche per quelle opinioni alquanto primitive ed arretrate che sono ancora oggi sostenute da teorici marxisti nel campo delle scienze naturali. A motivo di questi inutili abusi, la teoria marxiana è esposta a quel ben noto disprezzo sul suo carattere «scientifico» anche da parte di quegli scienziati naturali contemporanei che nel complesso non sono ostili al socialismo. Ultimamente, tuttavia, ha preso corpo un’interpretazione del vero concetto della marxiana «sintesi delle scienze» meno «fìlosofica» e scientificamente più avanzata tra i rappresentanti più intelligenti e responsabili della contemporanea teoria marxista-leninista della scienza, le cui espressioni si distinguono da quelle di Rudas & Co., più o meno come le espressioni del governo sovietico russo da quello delle sezioni non russe dell’Internazionale Comunista. Così, ad esempio, il prof. V. Asmus ha rilevato nel suo articolo programmatico che, accanto alla «unità oggettiva e metodologica» delle scienze storiche e naturali, esiste anche la «peculiarità delle scienze storico-sociali che non permette in linea di principio l'identificazione dei loro problemi e metodi con quelli delle scienze naturali».
Nella sfera dell'attività storico-sociale la ricerca marxista è interessata principalmente solo al modo di produzione particolare che sta alla base della presente epoca di «formazione economico-sociale» (ökonomische Gesellschaftsformation), ovvero il sistema di produzione delle merci come base della moderna «società borghese» (bürgerlische Gesettschaft), inteso nel processo del suo sviluppo storico effettivo (5). Nella sua indagine di questo specifico sistema sociologico procede, da un lato, più profondamente di ogni altra teoria sociologica in ciò che concerne i fondamenti economici. D’altro lato, però, non si occupa di tutti gli aspetti economici e sociologici della società borghese in modo identico. Rivolge particolare attenzione alle fratture, crepe, errori e squilibri nella sua struttura. Al marxismo non interessa il cosiddetto funzionamento normale della società borghese, quanto piuttosto ciò che appare come la reale condizione normale di questo particolare sistema sociale, cioè la crisi. La critica marxiana dell'economia borghese e del sistema su di essa fondato culmina in un’analisi critica della sua «situazione di crisi» (Krisenhaftigkeit), cioè della tendenza sempre crescente del metodo di produzione capitalistico ad assumere tutte le caratteristiche della crisi, tendenza in atto anche nei periodi di espansione e ripresa, in sostanza in tutte le fasi del ciclo della società moderna, il cui punto culminante è la crisi universale. Una sorprendente cecità di fronte a questo orientamento di fondo dell’economia marxista, che pure è presente in modo così chiaro dappertutto nelle opere di Marx, ha indotto recentemente alcuni marxisti inglesi a scoprire una «lacuna di una certa importanza» in Marx, per il fatto che avrebbe tralasciato di stabilire la necessità economica del superamento delle crisi dopo averne dimostrato la necessità del sorgere (6).
Persino negli ambiti non economici della sovrastruttura politica e dell'ideologia generale della società moderna, la teoria marxiana si occupa soprattutto di fratture e crepe osservabili, i punti di rottura che mostrano al proletariato rivoluzionario quei luoghi cruciali nella struttura sociale dove la sua attività pratica può essere applicata nel migliore dei modi.
Ai giorni nostri ogni cosa sembra essere pregna del suo opposto. Macchine dotate del grande potere di ridurre il lavoro umano e renderlo più produttivo hanno creato invece fame e surlavoro. Le nuove fonti di ricchezza sono state trasformate con una singolare formula magica in fonti di povertà. Le vittorie della scienza sembrano essere ottenute al prezzo della perdita di qualità morali. Nella misura in cui l'uomo controlla la natura, sembra a sua volta controllato da altri uomini o dalla propria meschinità. Persino la pura luce della scienza sembra poter brillare soltanto di contro allo sfondo oscuro dell’ignoranza. Tutte le nostre scoperte e il nostro progresso sembrano aver portato a dotare le forze materiali di vita spirituale e abbruttire la vita umana a forza materiale. Questo antagonismo tra l'industria moderna e la scienza, da un lato, e la miseria e il decadimento, dall’altro, questo antagonismo tra le forze di produzione e i rapporti sociali della nostra epoca è un fatto evidente, indiscutibile, schiacciante. Alcuni, partiti possono lamentarsene, altri desiderare di liberarsi dalle conquiste tecniche moderne e con ciò dei loro conflitti. Oppure possono pensare che un progresso così grande nell'industria esige un regresso altrettanto grande nella politica per il proprio completamento (7).

IV

I caratteri specifici del marxismo, come sono stati esposti fino ad ora, insieme al principio pratico implicito che impegna i marxisti a subordinare ogni conoscenza teorica al fine dell'azione rivoluzionaria, formano i tratti fondamentali del materialismo dialettico marxiano grazie ai quali si distingue dalla dialettica idealistica di Hegel. La dialettica di Hegel, il filosofo borghese della restaurazione, elaborata da lui fin nei più piccoli dettagli come strumento di giustificazione dell'ordine sociale esistente, con una moderata concessione ad un possibile «ragionevole» progresso, venne trasformata materialisticamente da Marx dopo una accurata analisi critica in una teoria rivoluzionaria non solo nel contenuto ma anche nel metodo. La dialettica trasformata e applicata da Marx dimostrò che la «ragionevolezza» della realtà esistente asserita da Hegel su basi idealistiche possedeva solo una razionalità transitoria che, nel corso del suo sviluppo, risultava necessariamente «irragionevolezza». Questo stato irragionevole della società sarà a suo tempo completamente distrutto dalla nuova classe proletaria che, facendo propria la teoria e usandola come arma della sua «pratica rivoluzionaria», attacca alla radice la «irrazionalità capitalistica».
A causa di questo mutamento fondamentale nei suoi caratteri e applicazione, la dialettica marxiana che – come giustamente nota Marx – nella sua forma «mistificata» hegeliana è diventata di moda tra i filosofi borghesi, era ora «scandalo e orrore per la borghesia e i suoi corifei dottrinari, perché nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione del suo necessario tramonto, perché concepisce ogni forma divenuta nel fluire del movimento, quindi anche dal suo lato transeunte, perché nulla la può intimidire ed essa è critica e rivoluzionaria per essenza» (8).
Come tutti i particolari aspetti critici, attivistici e rivoluzionari del marxismo sono stati trascurati dalla maggioranza dei marxisti, analogamente è avvenuto per l'intero carattere della dialettica materialista di Marx. Anche i migliori di loro hanno ripristinato solo parzialmente il suo principio critico e rivoluzionario. Dinanzi all'universalità e profondità della crisi mondiale attuale e alla crescente sempre più acuta lotta di classe proletaria, che supera in intensità ed estensione tutti i conflitti delle fasi precedenti dello sviluppo capitalistico, nostro compito è dare alla nostra teoria rivoluzionaria marxista forma ed espressione adeguate e allargare con ciò e attualizzare la lotta rivoluzionaria proletaria.

NOTE:
  1. A.L.Williams, What is Marxism?, London, 1933, p.27.
  2. L.Rudas, Dialectical Materialism and Communism, London, 1934, pp.28 e 29. «Né Marx, né Engels, né Lenin hanno mai detto che il processo dialettico opera nella società con l’antagonismo delle classi […]. Gli antagonismi di classe sono una forza motrice nella società di classe in quanto e solo in quanto sono l’espressione, il risultato della contraddizione decisiva della società classista […]. Una volta eliminata questa contraddizione […] rimane contraddizione ma assume un’altra forma. Così ad esempio nell’Unione Sovietica i rapporti di produzione socialisti richiedono un alto livello di forze produttive, un livello più alto di quello ereditato dal capitalismo. Questa è una contraddizione completamente diversa, anzi inversa rispetto a quella esistente nel capitalismo, ma è una contraddizione […]. Una volta le forze produttive altamente sviluppate richiedevano lo sviluppo di rivi sociali; in futuro le più alte relazioni sociali daranno spazio all’ulteriore sviluppo delle forze produttive».
  3. R.Hilferding, Das Finanzkapital, Vienna 1909, pp. VII-IX (trad.it. Feltrinelli, Milano 1972, p.6)
  4. Marxism and the Synthesis of Sciences, in Socialist Construction in the Ussr, pubblicato da Voks, vol.V, 1933, p.11.
  5. Nelle sue ultime fasi vengono considerati anche certi fenomeni sociali della società primitiva per poter tracciare analogie tra il comunismo primitivo (Urkommunismus) e la società senza classi di un remoto futuro.
  6. Cfr. R.W.Postgate, Karl Marx, London, 1933, p.79, e le citazioni riportate da G.D.H.Cole, Guide Through World Chaos, London, 1932.
  7. Da un discorso di Karl Marx tenuto nel quarto anniversario della fondazione del cartista «People’s Paper», il 14 aprile 1856 e pubblicato il 16 aprile.
  8. K.Marx, Il Capitale, Poscritto alla seconda edizione, trad.it. Editori Riuniti, Roma 1970, p.45.