[...] I primi successi della lotta portarono l’Internazionale ad affrancarsi dalle influenze confuse dell’ideologia dominante che sopravvivevano in essa. Ma la disfatta e la repressione che essa
incontrò ben presto fecero passare in primo piano un conflitto tra due concezioni della rivoluzione
proletaria, che contengono entrambe una dimensione autoritaria dalla quale l’autoemancipazione
cosciente della classe viene abbandonata. In effetti, la polemica divenuta inconciliabile fra i marxisti
e i bakuninisti era duplice, incentrandosi volta a volta sul potere nella società rivoluzionaria e
sull’organizzazione presente del movimento, e passando dall’uno all’altro di questi aspetti le
posizioni degli avversari si capovolgevano. Bakunin combatteva l’illusione di una abolizione delle
classi con l’uso autoritario del potere statale, prevedendo il ricostituirsi di una classe dominante
burocratica e la dittatura dei più sapienti, o di coloro che sarebbero stati ritenuti tali. Marx, convinto
che il maturarsi inseparabile delle contraddizioni economiche e dell’educazione democratica degli
operai avrebbe ridotto il ruolo di uno Stato proletario a una semplice fase di legalizzazione dei
nuovi rapporti sociali che si sarebbero imposti oggettivamente, denunciava in Bakunin e nei suoi
partigiani l’autoritarismo di una élite cospirativa che si era deliberatamente posta al di sopra
dell’Internazionale, e che concepiva il disegno stravagante di imporre alla società la dittatura
irresponsabile dei più rivoluzionari, o di coloro che si sarebbero designati da sé come tali. Bakunin
reclutava effettivamente i suoi partigiani sulla base di una tale prospettiva: «Piloti invisibili nel
cuore della tempesta popolare, noi dobbiamo dirigerla senza un potere visibile, ma tramite la
dittatura collettiva di tutti gli alleati. Dittatura senza fascia, senza titolo, senza diritto ufficiale, e
tanto più potente per il fatto di non avere alcuna delle apparenze del potere». Così si sono opposte
due ideologie della rivoluzione operaia contenenti ciascuna una critica parzialmente vera, ma
perdendo l’unità del pensiero della storia, e istituendosi esse stesse come autorità ideologiche.
Organizzazioni potenti, come la socialdemocrazia tedesca e la Federazione Anarchica Iberica,
hanno fedelmente servito l’una o l’altra di queste ideologie; e dappertutto il risultato è stato molto
diverso da quello che si era voluto.
Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)
«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»
(«NonostanteMilano»)
* * *
«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione.»
(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).
* * *
«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»
(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)
2 settembre 2011
23 agosto 2011
Il militantismo, stadio supremo dell'alienazione
Organisation des Jeunes Travailleurs Révolutionnaires (1972)
«[...] La prima tentazione è quella di demistificare le ideologie di cui fanno sfoggio questi gruppi, svelandone l'arcaismo o l'esotismo (da Lenin a Mao), e di mettere in evidenza il disprezzo per le masse che si cela dietro la loro demagogia. Ma un simile approccio risulterebbe ben presto noioso, considerata la moltitudine di organizzazioni e di tendenze esistenti, ciascuna delle quali rivendica una propria originalità ideologica. D'altronde, ciò equivarrebbe a collocarsi sul loro stesso terreno. Più che le idee, conviene criticare il tipo di attività che queste organizzazioni dispiegano «al servizio delle proprie idee»: il militantismo».
30 giugno 2011
Critica del carcere
Tratto da "Guerra Sociale" (2000)
1
In questa società la Legge svolge molteplici funzioni: regola
e indirizza il rapporto di sfruttamento su cui si basa garantendone
il mantenimento; ordina le relazioni sociali e assegna a ciascuno un
ruolo in funzione dei propri interessi; costituisce la principale
mediazione tra tutti gli individui isolandoli gli uni dagli
altri nel mentre li riunisce in rapporti giuridici.
La Legge si esercita per il tramite della violenza, senza la
quale è lettera morta. La reclusione è una parte importante
di questa violenza.
Il carcere nasce con la Rivoluzione Industriale per formare dei
lavoratori disciplinati e addomesticarli alle rigide esigenze
spazio-temporali della macchina. Oggi è una delle tante strutture
del controllo sociale e assolve diversi scopi: punire chi
delinque per isolarlo dalla società; riabilitare, almeno
formalmente, alcuni elementi e restituirli ad una regolata vita
sociale; agitare lo spettro dell’esclusione per gli onesti
cittadini, lavoratori e consumatori.
Il Diritto è fondato su un criterio di utilità economica e sociale,
prodotto del dominio e strumento della sua difesa. La pena è,
infatti, commisurata all’entità del danno economico e al grado di
rifiuto dell’ordinamento sociale.
2
La prigione è in simbiosi con la società e si trasforma al passo
con questa. Una delle tendenze di questi mutamenti è la
dematerializzazione del carcere e la sua diffusione nel territorio.
Evoluzione questa che consente un maggior controllo sociale a costi
più bassi: le manette elettroniche utilizzano le abitazioni come
succursali delle galere; l’urbanistica, il satellite e le
telecamere rendono le città prigioni.
Al carcere si affiancano forme alternative di detenzione. Centri di
accoglienza per clandestini, comunità terapeutiche per tossici,
comunità di reinserimento per detenuti e ospedali in genere sono
forme non-carcerarie di imprigionamento.
Il carcere si diluisce nel territorio attraverso la pianificazione
dei luoghi dell’abitare, degli spostamenti e del senso di questi.
Il controllo si insinua persino nel corpo tramite la medicalizzazione
del rapporto con la salute e la malattia, attraverso la
sofisticazione del cibo.
Alla struttura carceraria tradizionale si prospetta la funzione di
parcheggio per una parte crescente della popolazione.
3
Lo Stato sociale, risultato di un periodo di lotte, ha costituito uno
strumento efficace per la produzione di pace sociale. Lo
smantellamento progressivo di questo apparato, che ha lo scopo di
mettere in circolazione una maggiore quantità di capitali, e
l’introduzione della flessibilità produttiva provocano come
conseguenza l’estendersi della precarietà, creando una realtà in
cui i più non sono garantiti e inducendo l’aumento della
marginalità e dell’illegalità. Il potenziamento delle
strutture repressive risponde a questo mutamento. Il numero dei
detenuti è, infatti, in aumento in tutti i paesi occidentali.
Non potendo sopprimere tutti i criminali il potere dà loro una morte
apparente, rinchiudendoli: la deprivazione sensoriale, la noia, la
paura e il dolore mirano a far perdere all’individuo la sua
identità e il controllo sul proprio corpo. Il carcere è un
luogo altamente patogeno, in cui lo stress indebolisce le difese
immunitarie, le cure sono insufficienti e imposte; i detenuti sono
spesso le cavie di terapie sperimentali o oggetto di annichilimento
farmacologico. In questa situazione il suicidio rappresenta spesso
l’unica soluzione. In galera la negazione della vita è visibile al
massimo grado.
Il carcere speciale, diffuso in tutta Europa, si rivolge ai
detenuti irrecuperabili accrescendo, rispetto al carcere comune, le
potenzialità di annientamento fisico, psicologico e sociale. Esso è
un luogo di maltrattamenti, di torture e di omicidi sovente celati.
Il carcere speciale sorge con lo scopo di separare una parte dei
detenuti, creando un carcere all’interno del carcere.
La divisione tra detenuti politici e detenuti comuni è la
prima forma di separazione. Essa nasceva con il duplice obiettivo di
impedire, all’interno del carcere, la diffusione della critica
rivoluzionaria e l’organizzazione della sua pratica e, all’esterno,
di frantumare il fronte della lotta e di impedire che la questione
carceraria fosse posta nella sua interezza.
4
Il Capitale non dichiara più di essere il migliore dei mondi
possibili, esso è semplicemente l’unico. Ogni giustificazione
ideale che lo sorreggeva è caduta: al principio formale della
giustizia subentra la necessità pragmatica di sicurezza. Al
carcere come luogo di rieducazione del reo, finalizzato al suo
reinserimento sociale, è il potere stesso a non credere più.
Solo pochi preti, tanto illusi quanto imbecilli, continuano a
professare la pedagogia della reclusione. Da parte loro, i criminali
sono sempre stati perlomeno scettici. Il crimine non è una malattia
curabile di alcuni individui, è la malattia incurabile della società
del Capitale.
5
Le disposizioni in merito alle strategie repressive vengono
prese con criteri di natura tecnica da commissioni di esperti
coordinate internazionalmente. Le campagne mediatiche, quanto la
farsa del dibattito parlamentare, servono a far credere ai cittadini
di essere partecipi di decisioni prese altrove. Le emergenze e
i nemici – di volta in
volta mafia, terrorismo, droga, microcriminalità – sono prodotti
spettacolari funzionali a garantire le trasformazioni della
repressione.
Il mostro è la figura che esemplifica la più grossolana
delle mistificazioni associate alla presunta necessità della
prigione. L’attenzione riservata al caso particolare e al fatto
eccezionale viene utilizzata per mascherare la caratteristica
sostanziale del carcere: essere una struttura creata per contenere
e annullare il conflitto sociale.
Quelle lotte che contestano formalmente l’esistenza di alcuni
reclusori e l’ingiusta detenzione che in essi si attuerebbe,
puntellano di fatto le ragioni del diritto avvallando l’idea di una
detenzione giusta. Anche i politicanti di Via Corelli *sostengono
la necessità del carcere. Mediando il conflitto sociale, questi
collaboratori di giustizia contribuiscono alla razionalizzazione del
dominio.
Meno becera ma parimenti funzionale è la tesi di quanti sostengono
la distinzione tra detenuti politici e detenuti comuni. Limitarsi a
reclamare la liberazione dei compagni, o degli amici, significa non
vedere nel carcere un luogo decisivo dello scontro sociale e il ruolo
di recupero che queste divisioni svolgono in esso.
Le tesi di quegli accademici che propongono l’abolizione delle
galere hanno il merito di mostrare la relatività del concetto di
giustizia e di guardare in maniera disincantata alla condizione
carceraria. Non ne hanno altri. Essi credono nella possibilità di
una gestione dei conflitti diversa da quella punitiva e reclusoria
connaturata al sistema di controllo. Incapaci di comprendere le
ragioni materiali del conflitto,
astraggono il crimine dal contesto sociale sistemandolo su di
un piano squisitamente sociologico. In questo modo il crimine non è
più considerato elemento di rottura delle norme della società, ma
suo strumento di autoregolazione. L’ideologia
abolizionista, come tutte le visioni utopistiche, immagina un
punto finale dell’evoluzione della storia in cui ogni conflitto
sarà neutralizzato nel quadro del raggiungimento di una società
perfetta, il paradiso terrestre. Su questo punto tutte le
ideologie abolizioniste e le critiche astratte al carcere concordano
con l’Utopia del Capitale che sogna una società costituita di
cittadini che hanno introiettato le sue norme.
Chi vuole una società liberata dallo sfruttamento, del carcere non
sa che cosa farsene. Viceversa chiunque parli di un mondo senza
galere deve spiegare come ciò possa realizzarsi se non tramite lo
scontro rivoluzionario.
6
Oggi il conflitto sociale è diffuso e sostenuto dagli esclusi anche
se in forme non coscienti e non comprese. Il crimine è
un’espressione del conflitto sociale; è un prodotto, anche
ideologico, del processo di espropriazione materiale e di senso,
realizzato dal dominio ai danni del vivente; al contempo ne
rappresenta la negazione. Le ragioni del crimine sono quindi storiche
e sociali e non valutabili secondo i canoni del senso comune.
Oggi una parte importante delle lotte sociali si realizza all’interno
dei luoghi di reclusione: carceri, centri di accoglienza, ghetti
urbani. Queste sono di fatto lotte parziali; tuttavia nella volontà
di farla finita con questi reclusori si intravede la possibilità di
una critica complessiva al dominio. Mettere in luce la teoria critica
insita nella pratica di tali lotte è il senso della critica
rivoluzionaria. Diversamente esse non sfuggono alla mediazione
politica e alla pratica recuperatrice che consente al sistema
l’amministrazione del conflitto.
* Nota: Nel 1998 le Tute bianche (ora Disobbedienti)
organizzarono una manifestazione fuori dal lager per immigrati di via
Corelli a Milano. Fu una delle prime manifestazioni basate sullo
scontro con la polizia, più o meno concordato preventivamente, per
ottenere maggiore risalto sui mezzi di informazione. La pratica venne
utilizzata fino al luglio 2001. A Genova, durante le manifestazioni
contro il G8, lo schema venne ampiamente criticato nella pratica
dalle migliaia di insorti che misero sottosopra la città.
Marzo 2000
19 giugno 2011
Il battilocchio nella storia
"Il programma
comunista" n. 7 del 1953
In una citazione di
Engels fatta recentemente a proposito della valutazione marxista
della rivoluzione russa riportammo la frase: "il tempo dei
popoli eletti è finito". È poco probabile che giungano da
molte parti a spezzar lance per la opposta tesi, dopo la scalogna che
ha portato al nazismo tedesco; ed anche dopo la sorte toccata agli
ebrei che scontano malaccio la incredibile incocciatura razzista
plurimillenaria: stritolati prima dalla mania ariana di Hitler, poi
dall'affarismo imperiale britannico, oggi dall'inesorabile apparato
sovietico – domani, molto probabilmente, dalla cosmopolita,
tollerante a chiacchiere, politica statunitense, che si fece buoni
denti sulla carne nera.
Molto più difficile
sarà stabilire che è passato il tempo degli individui eletti, degli
"uomini del destino" – come Shaw chiamò Napoleone, ma
soprattutto per sfotterlo coll'esibirlo in tenuta da notte – in una
parola dei grandi uomini, dei condottieri e capi storici, delle
supreme Guide dell'umanità.
Da tutte le bande
infatti, e al suono di tutti i credi, cattolici o massonici, fascisti
o democratici, liberali o socialistoidi, sembra che – in misura
assai più estesa che per il passato – non si possa fare a meno di
esaltarsi e di prostrarsi in ammirazione strofinatrice dinanzi al
nome di qualche personaggio, ad esso attribuendo ad ogni piè
sospinto il merito intiero del successo della "causa", di
cui trattasi.
Tutti concordano
nell'attribuire influenze determinanti, sugli eventi che passarono e
che si attendono, all'opera, e per essa alle personali qualità dei
capi che alla sommità si assisero: disputano fino alla noia se si
debba farlo per scelta elettiva o democratica, o per imposizione di
partito e addirittura per individuale colpo di mano del soggetto, ma
concordano nel fare tutto pendere dall'esito di questa contesa, sia
nel campo amico che in quello nemico.
Ora se questo generale
criterio fosse vero, e noi non avessimo la forza di negarlo e
minarlo, dovremmo confessare che la dottrina marxista è caduta nella
peggiore bancarotta. Ed invece, al solito, fortifichiamo due
posizioni: il marxismo classico aveva già messo senza riserve i
grandi uomini in pensione; il bilancio dell'opera dei grandi uomini
di recente messi in circolazione o tolti di mezzo conferma la teoria
che sono cavatori di ragni dal buco.
IERI
Domande e risposte
Sono al riguardo
interessanti le risposte di Federico Engels ai quesiti che gli furono
posti su tale tema. Nella lettera del 25 gennaio 1894 parla dei
grandi uomini il secondo comma della seconda domanda: ma sono ben
poste entrambe.
Eccole:
1. Fino a qual punto le
condizioni economiche influiscano causalmente (attenzione a
non leggere casualmente).
2. Quale sia la parte
rappresentata dal momento (se avessimo il testo credo potremmo meglio
tradurre dal fattore) a) della razza; b) della individualità,
nella concezione materialistica della storia di Marx e di Engels.
Ma interessa ugualmente
la domanda cui rispondeva la precedente lettera del 21 settembre
1890: Come sia stato inteso da Marx ed Engels stesso il principio
fondamentale del materialismo storico; se cioè, secondo loro, la
produzione e riproduzione della vita reale siano esse sole il
momento determinante, o soltanto la base fondamentale di tutte le
altre condizioni.
La connessione tra i due
punti: funzione della grande individualità nella storia e
esatto legame tra condizioni economiche ed umana attività, è da
Engels chiaramente spiegata nelle risposte, che egli modestamente
afferma buttate giù in privato e non redatte con "quella
esattezza" cui egli tendeva nello scrivere per il pubblico. Ed
infatti egli si richiama alle trattazioni generali della concezione
marxista storica che ha date nell'Antidühring (Parte I cap. 9
a 11, parte II cap. 2 a 4, parte III cap. 1) e soprattutto nel
cristallino saggio su Feuerbach, del 1888. E quanto ad un esempio
luminoso della specifica applicazione del metodo, rimanda al 18
Brumaio di Luigi Bonaparte di Marx, che descrive a tempera
bruciante colui che può essere preso come prototipo del
"battilocchio" – termine che presto andiamo a spiegare.
Continuità di vita
A costo di una
digressione, che è anche un anticipo di un Filo la cui chiglia
maestra sta da qualche tempo sugli scali del cantiere, vogliamo dare
un bel bravo all'ignoto studente che avanzò la domanda della prima
lettera. Al solito quelli che non hanno capito niente sono quelli che
si atteggiano ad aver acquisito e digerito, colla pretesa di essere
in grado di eruttarlo fuori, e salivar sentenze. I più semplici e
seriamente impostati, invece, sono sempre convinti di dover meglio
intendere, quando già hanno tocchi da maestri. Il giovane e per
fortuna non onorevole interrogante adopera infatti al posto della
normale espressione "condizioni economiche" quella esatta e
bene equivalente alla prima: "produzione e riproduzione della
vita fisica". Come allievi della successiva classe, cambiamo
reale in fisica. L'aggettivo reale non ha lo
stesso peso nelle lingue germaniche e latine.
Altra volta accennammo a
passi dei maestri in cui si affiancano produzione e
riproduzione, citando Engels dove definisce la riproduzione,
ossia la sfera sessuale e generativa della vita, come la "produzione
dei produttori".
Sarebbe inutile
tracciare una scienza economica, perfino metafisica ossia con leggi
immutabili, e tanto più se dialettica ossia volta a tracciare la
teoria di una successione di fasi e di cicli, se esaminassimo un
gruppo, una società di produttori, dediti sì ad atti lavorativi ed
economici tendenti a soddisfare i loro bisogni conservando la loro
esistenza e la loro forza produttiva fino al limite di tempo
fisiologico, ma che fossero stati (poniamo da un capo razzista!)
operati in modo da non potersi riprodurre, ed avere successori
biologici.
Una tale condizione
muterebbe, e lo ammetterà il seguace di qualunque scuola economica,
fin dalla radice tutti i rapporti di produzione e distribuzione di
questa stessa alquanto ipotetica comunità.
Ciò vale a rammentare
che altrettanta importanza della produzione, che allestisce alimenti
(ed altro) atti a conservare la vita fisica del lavoratore,
ha, nello stabilire la trama delle relazioni economiche, la
riproduzione biologica che prepara – con impegno rilevante
di consumi e di sforzi produttivi – i sostituti futuri del
lavoratore stesso.
Come vedremo a suo tempo
con Engels e Marx contro Feuerbach, l'uomo non è tutto amore né
tutto lotta. Comunque la integrale visione del doppio
piedistallo economico della società vale a questo: il materialismo è
ormai vittorioso finché tratta il campo della produzione:
nessuno ivi contesta che vi predomini il criterio della somma
materiale di risultati; e su ciò è facile fondare la teoria
dell'attività di lotta passando dalle contese molecolari del preteso
homo oeconomicus, che ha al posto del cuore non il ventricolo
ma un ufficio di ragioniere, alla contesa delle classi, in cui si
riassume, con l'economia, tutto il resto delle forme umane di
attività. Ma è nel campo della genetica e della sessualità, in cui
sembra ai pivelli più arduo realizzare la messa in fuga dei motivi
trascendenti e mistici, e tradurre l'attrazione tra il maschio e la
femmina – proprio nell'elevarla al di sopra delle sudicerie della
moderna civiltà – in termini di causalità economica, che bisogna
fondare i più robusti piloni della dottrina rivoluzionaria del
socialismo.
Perché l'individuo,
piccolo o grande a tenore del banale senso comune, tenda a profittare
economicamente e concepisca eroticamente, è problema posto in modo
miserabile e vuoto. Noi trasponiamo la dinamica del processo al corso
della specie, ed affianchiamo lo sforzo per mantenerne vivi e validi
gli elementi attivi, col procedere della sua moltiplicazione e
continuazione, cicli entrambi assai più grandi di quelli in cui si
avvolge l'idiota timore della morte, e la sciocca credenza
nell'eternità del soggetto individuo. Son questi prodotti e
connotati decisivi delle società infestate da classi dominanti e
sfruttatrici, parassite nel lavoro e nell'amore.
La maledizione del
sudore e del dolore, ideologia che definisce le società a dominio di
classe, ossia fondate su monopoli dell'ozio e del piacere, sarà
travolta via dal socialismo.
Natura e pensiero
La riduzione del
problema qui direttamente messo in mira, ossia del problema delle
personalità storiche, a quello generale della concezione
materialista, appare immediata. Ammettete per un solo momento che il
seguirsi, lo sviluppo, il futuro di una società o addirittura della
umanità dipendano in modo decisivo dalla presenza, dalla
apparizione, dal comportamento, di un uomo solo. Non vi sarà più
possibile ritenere e sostenere che l'origine prima di tutta la
vicenda sociale sia nei caratteri di date condizioni e situazioni
economiche analoghe per grandi masse degli "altri"
individui, quelli normali, quelli "piccoli".
Se infatti quel lungo e
difficile cammino, che mai assumemmo ridurre ad una semplice
automaticità, dal parallelismo delle posizioni nel lavoro e nel
consumo, alla finale grande vicenda delle rivoluzioni sociali, del
passaggio di potere da classe a classe, della rottura delle forme che
determinavano quel parallelismo di rapporti produttivi, dovesse
passare per la testa (critica, coscienza, volontà, azione) di
un uomo solo, e ciò nel senso che costui sia un elemento necessario,
ossia tale che in sua mancanza nulla si attui di tutto quel moto,
allora non potrà negarsi che ad un certo momento tutta la storia
stia "nel pensiero" e dipenda da un atto di questo. Qui vi
è contraddizione insuperabile, poiché ciò concedendo, sarà forza
soggiacere alla visione opposta alla nostra, che dice che nella
storia non vi è causalità, non vi sono leggi, ma tutto è
"accidentalità" imprevedibile, tutto casualità,
che può studiarsi sì dopo, ma mai prima dell'accadimento.
Si sarà fatto così, né più né meno, di cappello alla forca.
Come negare che sia una
accidentalità la nascita di quel colosso, come evitare di ridurre
tutto il campo della riproduzione ad un passo falso... di
quello spermatozoo?
Abbiamo duramente
lottato contro la concezione più razionale e moderna di quella
"granduomistica", propria della borghesia illuminista, che
voleva far passare preventivamente il fatto storico non per
uno, ma per tutti i cervelli; anteponendo alla lotta
rivoluzionaria la generale educazione e coscienza. Ma di
questa concezione, incompleta e semilaterale, è ancor più
insufficiente quella che tutto concentra nella scatola cranica
singola, al che non si vede come altrimenti si provvederebbe se non
con l'amplesso, tante volte rammentato nella tradizione, tra un
essere divino e uno umano.
Abbiamo fatto a pezzi la
teoria, ancora più sciocca di quella della coscienza popolare
universale, che si basa sulla metà più uno dei cervelli per
pilotare la storia, perché marxisticamente faceva pena e pietà;
lasceremo vivere la teoria del cervello unico? Perché non allora
quella del riproduttore unico, dello stallone umano, evidentemente
meno balorda?
Ritorniamo infatti al
quesito: Precedette la natura, o il pensiero? La storia della specie
umana è un aspetto della natura reale, o una "partenogenesi"
del pensiero?
Il breve scritto di
Engels su Feuerbach, e meglio contro una apologia dello Starke (che
egli al solito chiama: solo uno schizzo generale, al più alcune
illustrazioni della concezione materialistica della storia) compendia
una sintesi della storia della filosofia da un lato, e della storia
delle lotte di classe dall'altro, magnifica per brevità e per
vastità.
Fuori le carte!
Ce ne sarebbe abbastanza
per un'esposizione-ruscello (ormai le sedute fiume si computano a
giorni) di un paio di mezze giornate, con un adatto commento.
Limitiamoci a rilevarne i soli connotati per provare l' identità.
Storicamente, rammenta
l'autore, dall'idealista Hegel, la cui filosofia aveva potuto essere
presa a base dalla destra conservatrice e reazionaria tedesca, derivò
il materialista Feuerbach, e sotto l'influenza del materialismo e
della Rivoluzione Francese, possenti antesignani. Da Feuerbach in
certo senso derivarono le ulteriori e ben diverse concezioni di Marx
e di Engels, dopo un'onda di ammirazione intorno al 1840 e all'uscita
dell' Essenza del Cristianesimo, e dopo una critica non meno
radicale di quella che Feuerbach aveva applicata ad Hegel,
compendiata nelle famose tesi di Marx del 1845, per oltre
quarant'anni rimaste ignote, che concludono con la undicesima: i
filosofi non han fatto che interpretare variamente il mondo; si
tratta ora di mutarlo.
Hegel aveva portato in
primo piano l'umana attività, ma alla premessa non aveva potuto dare
sviluppo rivoluzionario nel campo storico, per l'assolutezza del suo
idealismo. La società futura col suo disegno e modello sarebbe già
stata contenuta ab aeterno nella assoluta idea: fatta
dalla mente di un filosofo questa scoperta e questo sviluppo, con
norme proprie del puro pensiero, trasmessi tali risultati nel sistema
del diritto e nell'organismo dello Stato, l'integrale realizzazione
dell'Idea era compiuta. In che questo è da noi inaccettabile? In due
posizioni, che sono le due facce dialettiche della stessa. Rifiutiamo
la possibilità di un punto di arrivo, di un approdo
definitivo e insorpassabile. Rifiutiamo la possibilità che fossero
già date le proprietà e le leggi del pensiero, prima che il ciclo
della natura e della specie si aprisse.
Ma citiamo dunque! "Al
pari della conoscenza, non può la storia trovare una conclusione
finale in uno Stato perfetto del genere umano: una società perfetta,
uno Stato perfetto sono cose che possono sussistere solo nella
fantasia; al contrario tutti gli Stati storici che si susseguono sono
solo fasi transitorie nell'infinito cammino della società umana".
Hegel ha superato tutti
i filosofi precedenti nel porre innanzi la dinamica dei contrasti di
cui si compone il lungo cammino fino ad oggi. Purtroppo, come tutti
gli altri filosofi, e come tutti i possibili filosofi, questo vivente
ribollir di contrasti incapsulò e raggelò nel suo "sistema".
"Eliminati che siano tutti i contrasti, una volta per tutte,
siamo giunti alla cosiddetta verità assoluta; la storia universale è
alla fine, e tuttavia essa deve procedere, benché non le rimanga più
altro da fare; un nuovo insuperabile contrasto".
In questo passo Engels
fa cadere l'obiezione vecchia, e risollevata da Croce poco prima
della morte (vedi la confutazione in Prometeo n. 4 della II
Serie) che proprio il materialismo marxista faccia finire la
storia, per aver detto che quella tra proletariato e borghesia
sarà l'ultima delle lotte di classe. Nel suo antropomorfismo
insuperabile, ogni idealista scambia la fine della lotta tra classi
economiche con la fine di ogni contrasto e di ogni sviluppo nel
mondo, nella natura e nella storia, né può vedere, chiuso nei
limiti che per lui sono luce e per noi tenebra, di una scatola
cranica, che il comunismo sarà a sua volta un'intensa e
imprevedibile lotta della specie per la vita, che ancora
nessuno ha raggiunta, dato che vita non merita essere chiamata la
sterile e patologica solitudine dell'Io, come il tesoro
dell'avaro non è ricchezza, nemmen personale.
Lo spirito e l'essere
Giunge Feuerbach ed
elimina la antitesi. La natura non è più la estrinsecazione
dell'Idea (lettore: tieni stretto il Filo, che non è spezzato,
andiamo verso la tesi che la storia non è l'estrinsecazione del
Battilocchio!), non è vero che il pensiero è l'originario e la
natura il derivato. Il materialismo viene, tra l'entusiasmo dei
giovani, e anche del giovane Marx, rimesso sul trono. "La
natura esiste indipendentemente da ogni filosofia, essa è la base su
cui noi uomini, suoi prodotti, siamo cresciuti; oltre alla natura e
agli uomini nulla esiste: gli esseri elevati che creò la fantasia
religiosa sono solo il riflesso fantastico della nostra propria
essenza". Ed Engels, fin qui, plaude anche da vecchio, solo si
ferma a deridere il contrapposto che, per l'attività pratica,
l'autore erige al posto dell'imperativo morale di Kant: l'amore.
Non si tratta qui del fatto sessuale, ma della solidarietà, della
fratellanza "innata" che lega uomo a uomo. Su questo si
fondò il "vero socialismo" borghese e prussiano
dell'epoca, impotente a vedere l'esigenza dell'attività
rivoluzionaria, della lotta tra le classi, dell'eversione delle forme
borghesi.
È questo il punto in
cui Engels riepiloga la costruzione che conserva il fondamento
materialista liberandolo dalla pastoia metafisica e dall'impotenza
dialettica, che lo immobilizzavano, per altra via, nella stessa
"glacialità storica" dell'idealismo, per rivestito che
questo fosse apparso di volontà e di attività pratica.
Engels riporta la
chiarificazione del problema alla formazione delle figure del
pensiero fin dai popoli primitivi. Qui non possiamo che spigolare, ai
fini di un angolo visuale più acuto, mentre sarebbe utile al
movimento integrare ed allargare (indubbiamente vi provvederà il
futuro) specie nei trapassi in cui Engels raffronta il suo dedurre
con gli apporti delle varie scienze positive.
"La questione del
rapporto tra il pensiero e l'essere, lo spirito e la natura... poteva
essere posta nella sua forma più tagliente, poteva acquistare per la
prima volta tutta la sua importanza, quando la società europea si
destò dal lungo sonno del Medio Evo cristiano. La questione: qual è
il primordiale, lo spirito o la natura? – Questa questione si acuì,
rimpetto alla Chiesa, così: Ha Dio creato il mondo, o il mondo
esiste dall'eternità?
"Questa questione,
che nelle varie epoche si scrive in termini diversi, divide con le
due risposte i due campi: materialismo e idealismo. Chi considera la
natura (l'essere) come primordiale, è materialista, chi lo spirito
(il pensare) è idealista. Ma allora occorre l'atto creativo, ed è
notevole qui rilevare l'apprezzamento marxista dell'idealismo in
questa drastica osservazione: "Questa creazione spesso è presso
i filosofi, per esempio presso Hegel, ancora più ingarbugliata ed
impossibile, che nel cristianesimo".
Chiarita questa
separazione dei due gruppi di filosofi, non finisce la questione dei
rapporti tra essere e pensiero. Sono essi estranei o
compenetrabili? Può il pensiero degli uomini conoscere e descrivere
appieno la naturale essenza? Vi sono filosofi che hanno contrapposto
e separato i due elementi: l'oggetto e il soggetto; tra questi è
Kant con la sua inafferrabile "cosa in sé". Hegel supera
l'ostacolo, ma da idealista, ossia assorbe la cosa e la natura
nell'Idea, che quindi ben può ravvisare e comprendere la sua
emanazione. Ciò Feuerbach denunzia e combatte: "L'esistenza
hegeliana delle 'categorie logiche' prima che esistesse il mondo
materiale, non è altro che un fantastico avanzo della credenza in un
creatore oltremondano". Ciò non basta che al compito di
demolizione critica.
In una chiara
esposizione Engels rimprovera a quell'atteggiamento, oltre il quale
non aveva saputo andare la cultura tedesca, l'incapacità ad
intendere la vita della società umana come un movimento e un
processo incessante, al che Hegel aveva pure messo le basi. Tale
antistorica concezione condannava il Medio Evo come una specie di
parentesi inutile ed oscura (un analogo apprezzamento devono fare i
marxisti della recente impostazione insensata della lotta e della
critica antifascista e antinazista) e non ne sapeva inserire al suo
posto le cause e gli effetti, scorgerne i grandi progressi e gli
apporti immensi al corso futuro.
"Tutti i progressi
realizzati nelle scienze naturali servirono loro solo come argomenti
dimostrativi contro l'esistenza del creatore"... "Essi
meritavano la derisione che fu rivolta ai primi socialisti riformisti
francesi: dunque, l'ateismo è la vostra religione!".
Dramma ed attori
Segue la presentazione
organica della dottrina materialista storica, forse la migliore che
mai si sia scritta. Viene fatto il passo che Feuerbach non osò:
sostituire "il culto dell'uomo astratto" con "la
scienza dell'uomo reale e del suo sviluppo storico".
Con ciò si ritorna un
momento ad Hegel: egli aveva instaurata (non scoperta) la dialettica,
ma per lui era "l'evoluzione autonoma del concetto". In
Marx essa diviene "il riflesso nella coscienza umana del moto
dialettico del mondo reale". Come nella celebre frase, viene
raddrizzata e poggiata sui piedi, non sulla testa.
Comincia la trattazione
della scienza della società e della storia con metodo che coincide
con quello applicato alla scienza della natura. Ma nessuno ignora i
caratteri di questo particolare "campo" della natura, che è
il vivere della specie uomo. Urgendo giungere alle "risposte"
engelsiane, riportiamo solo qualche passo essenziale. "Nella
natura vi sono agenti inconsapevoli... al contrario nella storia
della società quelli che operano sono evidentemente dotati di
consapevolezza, uomini operanti con riflessione o passione, tendenti
a scopi determinati... Ma questa intenzione, sia comunque importante
per l'indagine storica, specialmente di singole epoche ed
avvenimenti, nulla può togliere al fatto che il corso della storia è
dominato da intime leggi generali...Solo di rado avviene ciò che
è voluto... tutti gli urti delle innumerevoli volontà e singole
azioni portano ad uno stato di cose, che è assolutamente analogo
a quello imperante nella natura inconsapevole. Gli scopi delle
azioni sono voluti, ma i risultati che seguono da queste azioni non
sono quelli voluti, o, in quanto sembrino corrispondere allo
scopo voluto, hanno in conclusione conseguenze affatto diverse
da quelle volute... Gli uomini fanno la loro storia, come che
essa riesca, mentre ognuno persegue i fini suoi propri... i risultati
di queste molteplici volontà agenti in diversa direzione e delle
loro molteplici azioni sul mondo esterno, sono appunto la storia...
Ma se si tratta di indagare le forze impellenti che –
consapevolmente o inconsapevolmente, e veramente assai spesso
inconsapevolmente – stanno dietro i motivi degli uomini operanti
nella storia, e costituiscono i veri ultimi propulsori di essa,
non si può trattare tanto dei motivi determinanti singoli, se
anche di uomini eminenti, ma piuttosto di quelli che mettono in
movimento grandi masse, interi popoli, intere classi; ed anche
questi non momentaneamente, a modo di un fugace fuoco di paglia
rapido ad accendersi e spegnersi, bensì a modo di un'azione
durevole che mette capo ad una grande trasformazione storica".
Qui alla parte
filosofica segue la parte storica fino al grande moto proletario
moderno. A questo punto è messa fine alla filosofia nel campo
della storia come in quello della natura. "Non importa più
escogitare nessi nella mente, bensì scoprirli nei fatti".
Limpidi oracoli
Ricordate i quesiti, e
sentite le risposte, non oscure e non ambigue come quelle
dell'oracolo antico, ma trasparenti, a conferma delle nostre
posizioni.
Alla questione ultima
riferita, del 1890.
"Il momento che in
ultima istanza è decisivo nella storia, è la produzione e
riproduzione della vita materiale".
"La situazione
economica è la base, ma i diversi momenti dell'edificio – forme
politiche della lotta di classe e suoi risultati, costituzioni
fissate dalla classe vittoriosa dopo le battaglie vinte, forme del
diritto, e perfino i riflessi di tutte queste vere lotte nel cervello
dei partecipanti, teorie politiche, giuridiche, opinioni religiose e
loro ulteriore sviluppo in sistemi dogmatici – tutto ciò esercita
anche la sua influenza sull'andamento delle lotte storiche, e in
certi casi ne determina la forma. È nella vicendevole influenza di
tutti questi momenti (= fattori) che, attraverso l'infinito numero di
accidentalità... si compie alla fine il movimento economico".
Alla prima domanda della
lettera del 1894 sull'influenza causale delle condizioni
economiche: "Come condizioni economiche, che consideriamo base
determinante della storia della società, intendiamo il modo con cui
gli uomini producono i loro mezzi di esistenza e scambiano i loro
prodotti (fino a che esiste divisione di lavoro). Tutta la tecnica
della produzione e del trasporto è quindi compresa... Ciò determina
la ripartizione della società in classi, le condizioni di padronanza
e servitù, lo Stato, la politica, il diritto, ecc.".
"Se come ella dice
la tecnica dipende in grandissima parte dalla scienza a maggior
ragione questa dipende dalle condizioni e dalle esigenze della
tecnica... Tutta l'idrostatica (Torricelli, ecc.) fu generata dal
bisogno che l'Italia sentì nei secoli XVI e XVII di regolare i
corsi d'acqua scendenti dalle montagne" (Cfr. vari scritti
del nostro giornale e rivista sulla precocità dell'impresa agricola
capitalista in Italia, e sulla degenerazione della tecnica di difesa
idraulica moderna nell'inondazione del Polesine).
Sul comma a) della
seconda domanda: il momento rappresentato dalla razza, diamo
il solo bruciante apoftegma (a filare): "La razza è un
fattore economico". Non avevate udito: produzione e
riproduzione? La razza è una materiale catena di atti riproduttivi.
Ed infine il comma b),
che riguarda il battilocchio, e col quale lasciamo il
magnifico Federico.
"Gli uomini fanno
essi la loro storia, ma finora non con una volontà generale e
secondo un piano generale, neppure in una data società limitata. Le
loro aspirazioni si contrariano; ed in ogni simile società prevale
appunto per questo la necessità, di cui l'accidentalità è
il complemento e la forma di manifestazione. Ed allora appaiono i
cosiddetti grandi uomini. Che un dato grand'uomo, e
proprio quello, sorga in quel determinato tempo e in quel
determinato luogo, è naturalmente un puro caso. Ma, se noi lo
eliminiamo, c'è subito richiesta di un sostituto, e questo sostituto
si trova, tant bien que mal, ma alla lunga si trova. Che
Napoleone fosse proprio questo corso, questo dittatore militare che
la situazione della repubblica francese, estenuata dalle guerre,
rendeva necessario, è un puro caso, ma che in mancanza di Napoleone
ci sarebbe stato un altro ad occuparne il posto, ciò è
provato dal fatto che ogni qualvolta ce n'era bisogno l'uomo si è
trovato sempre: Cesare, Augusto, Cromwell, ecc.".
Marx! Engels
sentiva ben l'urlo della platea: il benservito anche a lui: Thierry,
Mignet, Guizot scrissero storie inglesi inclinando al materialismo
storico, Morgan vi arrivò per conto suo, "i tempi erano maturi
e quella scoperta doveva (stavolta non è nostro il corsivo)
essere fatta".
Eppure in una nota al
Feuerbach Engels dice: Marx era un genio; noi soltanto dei talenti.
Sarebbe deplorevole che da tutta la dimostrazione taluno non avesse
capito che differenze fortissime corrono da uomo a uomo come per la
forza dei muscoli così per il potenziale della macchina-cervello.
Ma il fatto è che,
avendo come massimo esempio liquidato proprio lo shawiano "uomo
del destino", non possiamo illuderci di esserci tolti dai piedi
i "fessi del destino", poveri autocandidati a coprire il
vuoto, che la storia avrebbe pronto per loro, e pieni di
preoccupazione per l'eventualità di mancare all'appello, e di
imboscarsi alla gloria.
OGGI
Posta recente
Calza con l'argomento
una lettera rivolta ad una compagna operaia che, scusandosi a torto
di esposizione imperfetta, seppe porre il quesito in modo assai
espressivo. Riportiamo il testo di parte della risposta.
Tu scrivi: "dici
bene che un marxista deve guardare i principii e non gli uomini...
noi diciamo gli uomini non contano e lasciamoli fuori, ma sino a che
punto si può far ciò? Se sono gli uomini che determinano in parte i
fatti? Se gli uomini sono in parte la causa che determinò lo
scompiglio, noi non possiamo dimenticarli del tutto". Non si
tratta per nulla di modo traballante di arrivare alla
questione; anzi, offri una via molto utile per farlo.
I fatti e gli atti
sociali di cui ci occupiamo come marxisti sono operati da uomini,
hanno come attori gli uomini. Verità indiscussa; e senza l'elemento
umano la nostra costruzione non regge. Ma questo elemento era
tradizionalmente considerato in modo diversissimo da quello che il
marxismo ha introdotto.
La tua semplice
espressione si può enunciare in tre modi; ed allora si vede il
problema nella sua profondità, a cui hai il merito di esserti
avvicinata. I fatti sono operati da uomini. I fatti sono
operati dagli uomini. I fatti sono operati dall'uomo Tizio,
dall'uomo Sempronio, dall'uomo Caio.
Non ci distingue solo
dagli "altri" la nozione che (essendo l'uomo da un lato un
animale, dall'altro un essere pensante) essi dicono che
l'uomo pensa prima, e poi dagli effetti di questo pensiero si
risolvono i suoi rapporti di vita materiale, e anche animale – noi
diciamo che a base di tutto stanno i rapporti fisici, animali,
nutrimento, ecc.
La questione appunto non
si pone uomo per uomo, ma nella realtà dei complessi sociali e dei
loro fenomeni che si concatenano.
Ora quelle tre
formulazioni del modo come gli uomini intervengono, scusa i paroloni,
nella storia, sono queste.
I tradizionali sistemi
religiosi o autoritari dicono: un grande Uomo o un Illuminato dalla
divinità pensa e parla: gli altri imparano e agiscono.
Gli idealisti borghesi
più recenti dicono: la parte ideale, sia pure comune a tutti gli
uomini civilizzati, determina certe direttive, in base alle quali gli
uomini sono condotti ad agire. Anche qui campeggiano ancora taluni
determinati uomini: pensatori, agitatori, capitani di popolo,
che avrebbero data la spinta a tutto.
I marxisti poi dicono:
l'azione comune degli uomini, o se vogliamo quanto di comune e non di
accidentale e particolare è nell'azione degli uomini, nasce da
spinte materiali. La coscienza e il pensiero vengono dopo e
determinano le ideologie di ciascun tempo.
E allora? Per noi come
per tutti sono gli atti umani che divengono fattori storici e
sociali: chi fa una rivoluzione? Degli uomini, è chiaro.
Ma per i primi era
fondamentale l'Uomo illuminato, sacerdote o re.
Per i secondi: la
coscienza e l'Ideale che conquistò le menti.
Per noi: l'insieme dei
dati economici e la comunità di interessi.
Anche per noi gli uomini
non si riducono, da protagonisti che creano o recitano, a marionette
i cui fili sono tirati... dall'appetito. Sulla base della comunanza
di classe si hanno gradi e strati diversi e complessi di disposizioni
ad agire, e tanto più di capacità di sentire ed esporre la comune
teoria.
Ma il fatto nuovo è che
a noi non sono indispensabili, come alle precedenti rivoluzioni,
neppure col compito di simboli, uomini determinati, con una
determinata individualità e nome.
Inerzia della
tradizione
Il fatto è che appunto
in quanto le tradizioni sono le ultime a sparire, molto spesso gli
uomini si muovono per la sollecitazione suggestiva della passione per
il Capo. Allora perché non "utilizzare" questo elemento,
che si capisce non muta il corso della lotta di classe, ma può
favorire lo schieramento, il precipitare dell'urto?
Ora a me pare che il
succo delle dure lezioni di tanti decenni sia questo: rinunziare a
smuovere gli uomini e a vincere attraverso gli uomini non è
possibile, e proprio noi sinistri abbiamo sostenuto che la
collettività di uomini che lotta non può essere tutta la massa o la
maggioranza di essa, deve essere il partito non troppo grande,
e i cerchi di avanguardia nella sua organizzazione. Ma i nomi
trascinatori hanno trascinato in avanti per dieci, e poi rovinato per
mille. Freniamo quindi questa tendenza e in quanto praticamente
possibile sopprimiamo, non certo gli uomini ma l'Uomo con quel
dato Nome e con quel dato Curriculum vitae...
So la risposta che
facilmente suggestiona gli ingenui compagni. Lenin. Bene, è
certo che dopo il 1917 guadagnammo molti militanti alla lotta
rivoluzionaria perché si convinsero che Lenin aveva saputa fare e
fatta la rivoluzione: vennero lottarono e poi approfondirono
meglio il nostro programma. Con questo espediente si sono mossi
proletari e masse intere che forse avrebbero dormito. Ammetto. Ma
poi? Collo stesso nome si va facendo leva per la totale
corruzione opportunista dei proletari: siamo ridotti al punto che
l'avanguardia della classe è molto più indietro che prima del 1917,
quando pochi sapevano quel nome.
Allora io dico che nelle
tesi e nelle direttive stabilite da Lenin si riassume il meglio della
collettiva dottrina proletaria, della reale politica di classe; ma
che il nome come nome ha un bilancio passivo. Evidentemente si è
esagerato. Lenin stesso di gonfiature personali aveva le scatole
pienissime. Sono solo gli ometti da nulla a credersi indispensabili
alla storia. Egli rideva come un bambino a sentire tali cose. Era
seguito, adorato, e non capito.
Sono riuscito a darti in
queste poche parole l'idea della questione? Dovrà venire un tempo in
cui un forte movimento di classe abbia teoria e azione corretta senza
sfruttare simpatie per nomi. Credo che verrà. Chi non ci crede non
può essere che uno sfiduciato della nuova visione marxista della
storia, o peggio un capo degli oppressi affittato dal nemico.
Come vedi l'effetto
storico dell'entusiasmo per Lenin non l'ho messo in bilancio con
l'effetto nefasto dei mille capi rinnegati, ma con gli stessi effetti
negativi del nome stesso, né sono sceso sul terreno insidioso del:
se Lenin non fosse morto. Stalin era anche lui un marxista con
le carte in regola e un uomo d'azione di prim'ordine. L'errore dei
trotzkisti è cercare la chiave di questo grandioso rivolgimento
della forza rivoluzionaria nella sapienza o nel temperamento di
uomini.
Figuri dell'attualità
Perché abbiamo chiamata
la teoria del grand'uomo teoria del battilocchio?
Battilocchio è un tipo
che richiama l'attenzione e nello stesso tempo rivela la sua assoluta
vuotaggine. Lungo, dinoccolato, curvo per celare un poco la testa
ciondolante ed attonita, l'andatura incerta ed oscillante. A Napoli
gli dicono battilocchio con riferimento allo sbattito di palpebre del
disorientato e del filisteo; a Bologna, tanto per sfuggire alla
taccia di localismo, gli griderebbero dì ben sò fantesma.
La storia e la politica
contemporanea di questa data 1953 (in cui tutto risente del fatto
generale e non accidentale che una forma semiputrefatta non riesce a
crepare: il capitalismo) ne circondano di costellazioni di
battilocchi. Il marasma proprio di tale fase diffonde a masse
ammiranti e lucidanti la convinzione assoluta che ad essi, e ad essi
solo, guardar si debba, che si tratta da ogni lato dei battilocchi
del destino, e che soprattutto il cambio della guardia nel corpo
battilocchiale sia il momento (poveri noi, o Federico!) che
determina la storia.
Tra i capi di Stato, per
l'assoluta mancanza di ogni nuova parola e perfino di ogni originale
posa, ve ne è un terzetto ineffabile: Franco, Tito, Peron. Questi
campioni, questi Oscar di bellezza storica, hanno spinto al nec
plus ultra l'arte suprema: togliersi tutti i connotati. Altro che
dinastici nasi; che occhi d'aquila!
Quanto ad Hitler e
Mussolini buonanime, il primo fa pensare ad uno stato maggiore
formidabile di non battilocchi che lo attorniava, elevati per tanto
grado di criminali, che non solo facevano storia, ma usavano violenza
carnale su di essa a piacer loro! Il secondo si fa perdonare per lo
strato ineffabile di sottobattilocchi che lo inguaiava, e che ha dato
cambio della guardia, in quel del 1944-45, ad uno stuolo di
equipollenti sodali, oggi nostra delizia.
Una terna bellissima che
si schiera non nello spazio ma nel tempo, con la prova provata che
ogni successione per morto o per elezione produce effetto storico
misurato da zero via zero, è quella Delano, Harry, Ike. Le forze
americane che occupano il mondo giustificherebbero la definizione di
questo periodo come la calata dei battilocchi.
Slavati diadochi
Una costellazione non
meno espressiva dello stadio presente, ci è data dai capi nazionali
recenti e presenti, e spesso drasticamente spostati, dei paesi e dei
partiti che si collegano alla Russia, e non si sa dove meglio scoprir
battilocchi, se in fondo alla Balcania o tra le gonne di Marianna.
Quando il grande Alessandro morì, l'impero macedone che si era
esteso su due continenti fu frammentato in Stati minori affidati ai
vari generali di lui, che in non lungo ciclo sparirono senza traccia.
Chi ne ricordasse i nomi, ci darebbe molti punti in fatto di storia.
Quando dunque la storia
chiama il grande uomo lo trova. Può ben darsi che lo trovi con una
testa a basso potenziale. Ma quando chiama battilocchi può avvenire
anche che il posto sia coperto da uomini di valore. Non stiamo, allo
stato, dando del fesso a nessuno.
Il fatto è che, in
Italia ad esempio, il concorso aperto per le grandi personalità si
riferisce a posti già occupati da colossi storici. Si tratta infatti
di recitare la parodia di una tragedia che ebbe già il suo
svolgimento solenne. In occasione del sessantesimo compleanno di
Togliatti, e con un cerimoniale bassamente passatista, dopo aver
largamente riportato il suo curriculum vitae ed i suoi
scritti, sono pervenuti alla definizione in sintesi: un grande
patriota.
La controfigura è ormai
svuotata da un secolo, e offre poche speranze di non battilocchiesca
grandezza. La storia ha già trovato i suoi eroi, senza troppo
cercare. Mazzini, Garibaldi, Cavour, e tanti altri, non scenderanno
di scanno. Di patria a vero dire ce ne resta pochina, ma di patrioti
ne abbiamo una sporta. L'autobus della gloria rivoluzionaria è al
completo. Ciò non diffama le qualità del soggetto odierno: i suoi
scritti che hanno riesumati dal 1919 (quando si ebbe il torto di non
dare ad essi la dovuta attenzione) gli fanno onore: non ha mai
cessato di essere un marxista, poiché non lo era mai divenuto.
Sosteneva allora quello che oggi sostiene, la missione della patria.
Grandissimo, se volete, patriota: come una grandissima
diligenza nel tempo dell'elettrotreno e dell'aereo a reazione.
Se, dopo aver dibattuto
di Lenin, non abbiamo fatto cenno di Stalin, da poco scomparso, non è
per tema che dopo una spedizione punitiva il nostro scalp vada
ad adornare il mausoleo, prassi a cui vi è buona speranza di
giungere. Stalin è ancora il pollone di un ferreo ambiente anonimo
di partito che costruì sotto non accidentali spinte storiche
un moto collettivo, anonimo, profondo. Sono reazioni della base
storica, e non casi fortuiti della bassa corsa al successo, che
determinano lo svolto traverso il quale in una fiamma termidoriana lo
stuolo rivoluzionario dovette bruciare sé stesso, e sebbene un nome
può essere un simbolo anche quando una persona non conta nulla per
la storia, il nome di Stalin resta come simbolo di questo
straordinario processo: la forza proletaria più possente piegata
schiava alla rivoluzionaria costruzione del capitalismo moderno,
sulla rovina di un mondo arretrato ed inerte.
Ben deve la rivoluzione
borghese avere un simbolo ed un nome, per quanto sia anche essa in
ultima istanza fatta da forze anonime e rapporti materiali. Essa è
l'ultima rivoluzione che non sa essere anonima: perciò la ricordammo
romantica.
È la nostra
rivoluzione che apparirà quando non vi saranno più queste prone
genuflessioni a persone, fatte soprattutto di viltà e di
smarrimento, e che come strumento della propria forza di classe avrà
un partito fuso in tutti i suoi caratteri dottrinali organizzativi e
combattenti, cui nulla prema del nome e del merito del singolo, e che
all'individuo neghi coscienza, volontà, iniziativa, merito o colpa,
per tutto riassumere nella sua unità a confini taglienti.
Morfina e cocaina
Lenin prese da Marx la
definizione, da molti combattuta come banale, che la religione è
l'oppio del popolo. Il culto dell'entità divina è dunque la morfina
della rivoluzione, di cui addormenta le forze agenti; e non per
niente nel lutto recente si è pregato in tutte le chiese dell'URSS.
Il culto del capo,
dell'entità e persona non più divina, ma umana, è uno stupefacente
sociale ancora peggiore, e noi lo definiremo la cocaina del
proletariato. L'attesa dell'eroe che infiammi e travolga alla lotta è
come l'iniezione di simpamina: i farmacologi hanno trovato il termine
adatto: eroina. Dopo una breve esaltazione patologica di energie,
sopravviene la prostrazione cronica e il collasso. Non vi sono
iniezioni da fare alla rivoluzione che esita, ad una società
turpemente gravida da diciotto mesi, e tuttora infeconda.
Buttiamo via la volgare
risorsa di trarre successo dal nome dell'uomo di eccezione, e
gridiamo un'altra formula del comunismo: esso è la società che ha
fatto a meno di battilocchi.
15 giugno 2011
Perché sono marxista
di Karl Korsch (1935)
Invece di discutere
il marxismo in generale, propongo di trattare subito alcuni dei punti
più concreti e qualificanti della teoria e della pratica marxista.
Solo un approccio di questo tipo è coerente con il principio del
pensiero marxiano. Per il marxista non esiste qualcosa come «il
marxismo» in generale più di quanto non c'è una «democrazia» in
generale, una «dittatura» o uno «Stato» in generale. Esiste solo
uno Stato borghese o una dittatura fascista ecc. Ed anche questi
esistono solo in determinati stadi dello sviluppo storico, con
corrispondenti caratteristiche storiche innanzitutto economiche, ma
condizionate in parte da fattori geografici, di tradizione ed altri
ancora. Con i differenti livelli di sviluppo storico, con i diversi
ambienti geografici, con le ben note differenze di credo e di
tendenza delle varie scuole marxiste, esistono a livello nazionale e
internazionale diversissimi sistemi teorici e movimenti pratici che
vanno sotto il nome di marxismo. Invece di discutere l'intero corpo
dei princìpi teorici, dei punti di vista d'analisi, dei metodi di
procedimento, conoscenza storica e norme d’azione che Marx e i
marxisti hanno tratto in più di ottant'anni dall'esperienza delle
lotte della classe proletaria e saldato unitariamente in teoria e
movimento rivoluzionario, cercherò da parte mia di individuare
quegli specifici atteggiamenti, proposizioni e tendenze che possono
essere utilmente adottati come guida del nostro pensare e agire oggi,
qui ed ora, nelle condizioni esistenti dell’anno 1935 in Europa,
negli USA, in Cina, in Giappone, India e nel nuovo mondo dell’URSS.
In questa maniera,
la questione «perché sono marxista» si pone primariamente per il
proletariato, o piuttosto per le parti più vive e avanzate della
classe proletaria. Può essere posta anche per settori della
popolazione che, come lo strato in declino delle classi medie, il
gruppo di recente formazione degli impiegati, i contadini e
agricoltori ecc., non appartengono né alla classe capitalistica
dominante né a quella proletaria vera e propria, ma possono
associarsi al proletariato con l'obiettivo di una lotta comune. La
questione può porsi persino per quei settori della borghesia la cui
vita è minacciata dal «capitalismo monopolistico» o «fascismo».
Certamente si pone per gli ideologi borghesi (studiosi, artisti,
ingegneri, ecc.) che sotto la pressione complessiva della società
capitalistica in declino stanno indirizzandosi individualmente verso
il proletariato. Enuncerò ora in forma concisa quelli che mi paiono
i punti più essenziali del marxismo:
1. Tutte
le affermazioni di principio del marxismo, anche quelle
apparentemente generali, sono specifiche.
2. Il
marxismo non è positivo ma critico.
3. Il
suo oggetto non è la società capitalistica esistente nel suo stato
affermativo, ma la società capitalista in declino, come si rivela
nelle tendenze al crollo e alla rovina in modo dimostrabile.
4.
Il suo fine
principale non è il piacere contemplativo del mondo esistente, ma
la sua attiva trasformazione (praktiscbe
Umwälzung).
I
Nessuno di questi
caratteri fondamentali del marxismo è stato riconosciuto
adeguatamente o applicato dalla maggioranza dei marxisti.
Ripetutamente i cosiddetti marxisti «ortodossi» sono ricaduti nel
modo di pensare «astratto» e «metafisico» che Marx stesso –
dopo Hegel – aveva ripudiato nel modo più netto, e che è stato
invero decisamente respinto dall'intera evoluzione del pensiero
moderno negli ultimi cento anni.
Recentemente un
marxista inglese ha tentato ancora una volta di « salvare » il
marxismo dagli attacchi di Bernstein e altri, secondo i quali il
corso della storia moderna devierebbe dallo schema di sviluppo
tracciato da Marx, con la misera scappatoia che Marx avrebbe tentato
di scoprire «le leggi generali del mutamento sociale non solo
dall'analisi della società nel diciannovesimo secolo, ma anche dallo
studio dello sviluppo sociale a partire dall'inizio della società
umana» ed è pertanto «assolutamente possibile» che le sue
conclusioni «siano vere per il ventesimo secolo quanto lo furono per
il periodo nel quale è arrivato ad esse» (1). È evidente che una
difesa del genere distrugge il vero contenuto della teoria marxiana
più drasticamente di qualunque attacco revisionista. Nondimeno
questa è stata la sola risposta data negli ultimi trent’anni
dall'ortodossia marxista tradizionale alle accuse dei riformisti che
l'una o l'altra parte del marxismo era invecchiata. Per altri motivi,
c'è la tendenza presso i cittadini dello Stato sovietico marxista a
dimenticare il carattere specifico del marxismo. Essi accentuano la
validità generale e universale delle principali proposizioni
marxiste per canonizzare le dottrine che stanno alla base
dell'attuale costituzione del loro Stato. Così uno degli ideologi
minori dello stalinismo attuale, L. Rudas, tenta in nome del marxismo
di porre in discussione il progresso storico fatto da Marx operando
novant’anni fa il capovolgimento (Umstülpung)
della dialettica idealistica hegeliana nella sua dialettica
materialista. Sulla base di una citazione di Lenin, che era stata
usata in un contesto completamente diverso contro il materialismo
meccanicistico di Bucharin e che significa una cosa molto diversa da
quanto afferma Rudas, costui trasforma la contraddizione storica tra
«forze produttive» e «rapporti di produzione» in un principio
«metastorico», che vuole applicare anche al lontano futuro della
società senza classi pienamente sviluppata. Nella teoria di Marx
sono colte tre contraddizioni fondamentali come aspetti della
concreta unità storica del movimento rivoluzionario pratico. Esse
sono: nell’economia, la contraddizione tra «forze produttive» e
«rapporti di produzione»; nella storia, la lotta tra le classi
sociali; nel pensiero logico, l'opposizione tra tesi e antitesi. Di
questi tre aspetti, tutti egualmente storici, del principio
rivoluzionario scoperti da Marx nella natura della società,
capitalistica, Rudas, nella sua trasfigurazione metastorica della
concezione totalmente storica di Marx, lascia cadere il termine di
mezzo: considera il conflitto vivente delle classi in lotta come mera
«espressione» o risultato di una forma storica transitoria della
contraddizione essenziale «più profonda» e mantiene come unico
fondamento della «dialettica materialista» – ora enfiata a legge
eterna di sviluppo cosmico – l'opposizione tra «forze produttive»
e «rapporti di produzione». Facendo così, arriva all'assurda
conclusione che nell’economia sovietica odierna la contraddizione
fondamentale della società capitalista esiste in forma «invertita».
In Russia – scrive – le forze di produzione non si ribellano più
contro rapporti di produzione rigidi, ma è invece la relativa
arretratezza delle forze di produzione rispetto ai rapporti di
produzione già raggiunti, a «spingere avanti l’Unione Sovietica
ad un ritmo di sviluppo intenso senza precedenti» (2).
Dai rappresentanti
delle due frazioni del marxismo ortodosso tedesco e russo è stata
respinta unanimemente la tesi da me avanzata nell'edizione che ho
curato del Capitale secondo la quale tutte le affermazioni contenute
in quest'opera, e specialmente quella sull'«accumulazione primitiva»
come è trattata nell'ultimo capitolo del libro, rappresentano solo
una traccia storica dell'ascesa e dello sviluppo del capitalismo
nell'Europa occidentale e «hanno valore al di là di ciò solo nello
stesso modo in cui ogni conoscenza pienamente empirica di forma
naturale e storica si applica più che al caso singolo considerato».
Di fatto, questa mia affermazione ripete solo ed accentua un
principio che Marx stesso cinquant'anni fa aveva esplicitamente
formulato correggendo il sociologo idealista russo Michajlovskij nel
suo fraintendimento del Capitale. Si tratta, in verità, di
un'implicazione necessaria del principio fondamentale di ricerca
empirica che oggi è negata solo da qualche ostinato metafisico.
Quanto limpida, chiara e definita, a confronto del rifiorire di
questa dialettica pseudofilosofica nelle opere di marxisti «moderni»
come Rudas, era la posizione di quei vecchi marxisti come Rosa
Luxemburg e Franz Mehring che videro come il principio della
dialettica marxista, quale è incarnata nell'economia marxiana, non
significa altro che il rapporto specifico di tutti i termini e
proposizioni economiche ad oggetti storicamente determinati.
Tutte le questioni
accanitamente dibattute nel campo del materialismo storico –
questioni che se formulate nella loro forma generale sono insolubili
e addirittura prive di senso come le famose dispute scolastiche
attorno alla precedenza dell'uovo o della gallina – perdono il loro
carattere misterioso e sterile se vengono espresse in modo concreto,
storico, specifico. F. Engels, ad esempio, nelle sue famose lettere
sul materialismo storico, scritte dopo la morte di Marx, ha di fatto
modificato la dottrina di Marx per eccesso di riguardo all’obiezione
di unilateralità sollevata dai critici borghesi e presunti marxisti
contro l'affermazione di Marx che «la struttura economica della
società forma la base reale sulla quale si innalzano sovrastrutture
giuridiche e politiche e alla:quale corrispondono determinate forme
di coscienza sociale». Engels sconsideratamente ammise che a lungo
raggio possono aver luogo cosiddette «reazioni» (Rückwirkungen)
tra la sovrastruttura e la base, tra lo sviluppo ideologico e lo
sviluppo economico e politico. In questo modo ha creato una
confusione completamente inutile nei fondamenti del nuovo principio
rivoluzionario. Infatti, senza una esatta determinazione quantitativa
di quanta «reazione» ha luogo e senza una esatta indicazione delle
condizioni sotto le quali si verifica l’una e l’altra, la teoria
marxiana dello sviluppo storico della"società, così come è
interpretata da Engels, diventa inutile, anche come ipotesi di
lavoro. Non offre la più piccola indicazione se la causa di un
mutamento nella vita sociale debba essere cercata nell’azione
(Wirkung)
della base sulla sovrastruttura o nella reazione (Rückwirkung)
della sovrastruttura sulla base. Né la logica della questione è
toccata da scappatoie verbali: come fattori «primari» e «secondari»
o dalla classificazione di cause in «prossime», «medie» e
«ultime», ovvero quelle che si rivelano decise «in ultima
istanza». L'intero
problema scompare non appena al posto della questione generale
dell'effetto dell'«economia come tale» sulla «politica come tale»
o «il diritto, l’arte e la cultura come tali» e viceversa
facciamo una descrizione dettagliata delle relazioni che esistono tra
fenomeni economici determinati ad un determinato livello storico di
sviluppo e determinati fenomeni che appaiono simultaneamente o di
seguito in ogni altro campo dello sviluppo politico, giuridico e
intellettuale.
Questo è il modo in
cui va posto il problema secondo Marx. Lo schema di un’introduzione
generale alla sua Critica dell’economia politica, pubblicato
postumo, è un'impostazione chiara e altamente significativa
dell'intero complesso problematico, nonostante il suo carattere
schematico. La maggior parte delle obiezioni avanzate più tardi
contro il suo principio materialistico sono qui anticipate e risolte.
Questo è particolarmente vero per il problema molto sottile del
«rapporto ineguale tra lo sviluppo della produzione materiale e la
creazione artistica», messo in evidenza nel fatto ben noto che
«certi periodi del più alto sviluppo dell'arte non stanno in alcuna
diretta relazione con lo sviluppo generale della società o la base
materiale della sua organizzazione». Marx mostra il duplice aspetto
sotto il quale questo sviluppo ineguale prende definita forma
storica: «la relazione tra differenti forme d'arte nell'ambito
dell’arte stessa» e «la relazione tra l'intero campo dell’arte
e il complesso dello sviluppo sociale». «La difficoltà consiste
solo nel modo generale in cui queste contraddizioni sono espresse.
Non appena divengono specifiche e concrete, esse divengono nel
contempo chiarite».
II
Altrettanto
duramente, come è avvenuto per la mia tesi sul carattere specifico,
storico e concreto di ogni proposizione, legge e principio della
teoria marxiana, comprese quelle apparentemente universali, è
contestata anche la mia seconda affermazione che
il marxismo è essenzialmente critico, non positivo.
La teoria di Marx non costituisce né una filosofia materialistica
positiva né una scienza positiva. Dall'inizio alla fine è una
critica teorica non meno che pratica della società esistente.
Naturalmente il termine «critica» (Kritik)
deve essere inteso in quel senso comprensivo e pur preciso in cui
venne usato da tutti gli hegeliani di sinistra, Marx ed Engels
inclusi, nei pre-rivoluzionari anni Quaranta del secolo scorso. Non
deve essere confuso con la connotazione che ha il termine odierno di
criticism.
«Critica» non deve essere intesa in un senso meramente idealistico,
ma come critica
materialistica. Essa
implica, dal punto di vista dell’oggetto, un’investigazione
empirica di tutte le sue relazioni e sviluppi, «condotta con la
precisione di una scienza naturale», e, dal punto di vista del
soggetto, un esame di come i desideri impotenti, le intuizioni e le
esigenze di singoli soggetti si sviluppano in un potere di classe
storicamente efficace che guida alla «pratica rivoluzionaria»
(Praxis).
Questa tendenza critica, che gioca un ruolo tanto preminente in tutte
le opere di Marx ed Engels fino al 1848, è ancora viva nelle fasi
successive dello sviluppo della teoria marxiana. L'opera economica
del periodo maturo è legata ai precedenti scritti, filosofici e
sociologici, più strettamente di quanto non siano disposti ad
ammettere i marxisti ortodossi. Ciò è evidente dai titoli stessi
dei libri della maturità e della giovinezza. La prima opera
importante che i due amici scrissero insieme già nel 1846 per
mostrare l'opposizione delle loro idee politiche e filosofiche
all'idealismo hegeliano di sinistra contemporaneo, era intitolata
Critica
dell'ideologia tedesca.
E quando nel 1859 Marx pubblicò la prima parte della vasta opera
economica che aveva in programma la intitolò Critica
dell’economia politica,
quasi per metterne in rilievo il carattere critico. Questo titolo
divenne poi il sottotitolo dell'opera principale,
Il Capitale. Critica dell’economia politica.
I marxisti ortodossi dell'ultima ora dimenticarono o negarono la
preminenza dell'impostazione critica nel marxismo. Nel migliore dei
casi, quelle tendenze critiche avevano per essi un valore del tutto
estrinseco e irrilevante rispetto al carattere «scientifico» delle
tesi di Marx, in particolare nel campo che a loro parere era la
scienza fondamentale del marxismo: l'economia. Questa revisione trovò
la sua espressione più grossolana nel famoso Capitale
finanziario
del marxista austriaco Rudolf Hilferding, che considera la teoria
economica del marxismo come una semplice fase nell’interrotta
continuità delle teorie economiche, completamente staccata dagli
obiettivi socialisti, e quindi senza alcuna implicazione per la
pratica. Dopo aver formalmente affermato che la teoria sia economica
sia politica del marxismo «è libera da giudizi di valore»,
l'autore sottolinea che:
«è pertanto
concezione errata, anche se diffusa intra
et extra muros
identificare senz'altro marxismo e socialismo. Poiché, considerato
logicamente, visto soltanto come sistema scientifico – prescindendo
cioè dalla sua efficacia storica – il marxismo è solo una teoria
delle leggi del divenire della società: leggi che la concezione
marxista della storia formula in generale, e l'economia marxista
applica all'epoca della produzione delle merci. Il socialismo è la
risultante delle tendenze che si sviluppano, e si combinano nella
società produttrice di merci. Ma riconoscere la validità del
marxismo (il che implica il riconoscimento della necessità del
socialismo) non significa in alcun modo formulare valutazioni, né
tanto meno significa additare, una linea di condotta pratica. Poiché
una cosa è riconoscere una necessità, altra cosa è porsi al
servizio di quella necessità. È possibilissimo infatti che uno, pur
essendo convinto della vittoria finale del socialismo, si schieri
contro di esso.» (4)
È vero che teorie
marxiste moderne hanno avanzato critiche più o meno efficaci contro
questa superficiale, pseudoscientifica interpretazione del marxismo
ortodosso. Mentre in Germania il principio critico, cioè
rivoluzionario, del marxismo veniva apertamente attaccato dai
revisionisti alla Bernstein e difeso fiaccamente da «ortodossi»
come Kautsky e Hilferding, in Francia il movimento, di breve durata,
del «sindacalismo rivoluzionario», quale espresso da Georges Sorel,
tentava di far rivivere proprio questo aspetto del pensiero di Marx
come uno degli elementi basilari di una nuova teoria rivoluzionaria
della lotta di classe proletaria. Un passo più efficace nella stessa
direzione venne fatto da Lenin, che applicò il principio
rivoluzionario del marxismo alla prassi della rivoluzione russa, e
nello stesso tempo raggiunse un risultato non meno importante in
campo teorico ripristinando alcuni degli insegnamenti più
potentemente rivoluzionari di Marx.
Ma né Sorel, il
sindacalista, né Lenin, il comunista, usarono l'intera forza e
impatto della originaria «critica» marxista. L'impostazione
irrazionalistica di Sorel, con la quale egli trasformò in «miti»
alcune importanti dottrine di Marx portò, a dispetto delle sue
intenzioni, ad una sorta di «depotenziamento» di queste nella loro
rilevanza pratica per l'azione rivoluzionaria di classe proletaria, e
prepararono ideologicamente la strada al fascismo di Mussolini. La
divisione alquanto cruda da parte di Lenin delle tesi filosofiche,
economiche, ecc, in «utili» e «dannose» per il proletariato
(risultato della sua preoccupazione troppo esclusiva degli effetti
immediati della loro accettazione o ripudio, con la conseguente
troppo scarsa considerazione dei loro futuri e ultimi possibili
effetti) portò a quell’irrigidimento della teoria marxista, a quel
declino e in parte a quella deformazione del marxismo rivoluzionario
che rende assai difficile all’attuale marxismo sovietico ogni
progresso fuori dal suo ambito autoritario. Di fatto, il proletariato
rivoluzionario non può nella lotta pratica disinteressarsi della
differenza tra le affermazioni scientifiche vere e quelle false.
Proprio come il capitalista, da uomo pratico, «sa cosa deve fare nei
suoi affari, anche se non sempre considera ciò che dice fuori dai
suoi affari», come il tecnico nella costruzione di una macchina deve
avere esatta cognizione almeno di alcune leggi fisiche, così il
proletariato deve possedere una conoscenza sufficientemente vera in
economia, politica ed altre materie oggettive per poter condurre la
lotta di classe rivoluzionaria ad un esito felice. In questo senso e
con questi limiti il principio critico del marxismo materialistico,
rivoluzionario implica una conoscenza rigorosa, empiricamente
verificabile, caratterizzata «da tutta la precisione di una scienza
naturale», delle leggi economiche del movimento e sviluppo della
società capitalista e della lotta di classe proletaria.
III
La «teoria»
marxista non mira ad ottenere una conoscenza obiettiva a partire da
un interesse indipendente, teoretico. È spinta ad acquisire questa
conoscenza dalle necessità pratiche della lotta
e può trascurarla solo col grave rischio di fallire il suo
obiettivo, al prezzo della sconfitta e dell'eclissi del movimento
proletario che rappresenta. Proprio
perché la teoria marxista non perde di vista il suo scopo pratico,
evita ogni tentativo di costringere tutta la esperienza nello schema
di. una costruzione monistica dell’universo per stabilite un
sistema unificato di conoscenza.
La teoria marxiana non è interessata ad ogni cosa, né in modo
eguale a tutti gli oggetti del suo interesse. La sua sola
preoccupazione è per quelle cose che hanno rilievo per i suoi
obiettivi, e sarà tanto più interessata a qualcosa e ad ogni suo
aspetto quanto più questa cosa particolare o il suo aspetto
particolare hanno un rapporto con i suoi propositi pratici.
II marxismo,
nonostante il suo indiscutibile riconoscimento della priorità
(Priorität)
genetica della natura esterna rispetto a tutti gli eventi storici e
umani,
è interessato primariamente solo ai fenomeni e alle interrelazioni
della vita storica e sociale.
Presta innanzitutto attenzione a ciò che – in rapporto alle
dimensioni dello sviluppo cosmico – avviene in un breve lasso di
tempo e nel cui sviluppo può entrare come forza pratica, influente.
Che ciò venga ignorato da parte di certi marxisti ortodossi di
partito va in conto ai loro ostinati tentativi di pretendere la
stessa superiorità, che indubbiamente la teoria marxista possiede
nel campo della sociologia, anche per quelle opinioni alquanto
primitive ed arretrate che sono ancora oggi sostenute da teorici
marxisti nel campo delle scienze naturali. A motivo di questi inutili
abusi, la teoria marxiana è esposta a quel ben noto disprezzo sul
suo carattere «scientifico» anche da parte di quegli scienziati
naturali contemporanei che nel complesso non sono ostili al
socialismo. Ultimamente, tuttavia, ha preso corpo un’interpretazione
del vero concetto della marxiana «sintesi delle scienze» meno
«fìlosofica» e scientificamente più avanzata tra i rappresentanti
più intelligenti e responsabili della contemporanea teoria
marxista-leninista della scienza, le cui espressioni si distinguono
da quelle di Rudas & Co., più o meno come le espressioni del
governo sovietico russo da quello delle sezioni non russe
dell’Internazionale Comunista. Così, ad esempio, il prof. V. Asmus
ha rilevato nel suo articolo programmatico che, accanto alla «unità
oggettiva e metodologica» delle scienze storiche e naturali, esiste
anche la «peculiarità delle scienze storico-sociali che non
permette in linea di principio l'identificazione dei loro problemi e
metodi con quelli delle scienze naturali».
Nella sfera
dell'attività storico-sociale la ricerca marxista è interessata
principalmente solo al modo di produzione particolare che sta alla
base della presente epoca di «formazione economico-sociale»
(ökonomische
Gesellschaftsformation),
ovvero il sistema di produzione delle merci come base della moderna
«società borghese» (bürgerlische
Gesettschaft),
inteso nel processo del suo sviluppo storico effettivo (5). Nella sua
indagine di questo specifico sistema sociologico procede, da un lato,
più profondamente di ogni altra teoria sociologica in ciò che
concerne i fondamenti economici. D’altro
lato, però, non si occupa di tutti gli aspetti economici e
sociologici della società borghese in modo identico. Rivolge
particolare attenzione alle fratture, crepe, errori e squilibri nella
sua struttura. Al marxismo non interessa il cosiddetto funzionamento
normale della società borghese, quanto piuttosto ciò che appare
come la reale condizione normale di questo particolare sistema
sociale, cioè la crisi.
La critica marxiana dell'economia borghese e del sistema su di essa
fondato culmina in un’analisi critica della sua «situazione di
crisi» (Krisenhaftigkeit),
cioè della tendenza sempre crescente del metodo di produzione
capitalistico ad assumere tutte le caratteristiche della crisi,
tendenza in atto anche nei periodi di espansione e ripresa, in
sostanza in tutte le fasi del ciclo della società moderna, il cui
punto culminante è la crisi universale. Una sorprendente cecità di
fronte a questo orientamento di fondo dell’economia marxista, che
pure è presente in modo così chiaro dappertutto nelle opere di
Marx, ha indotto recentemente alcuni marxisti inglesi a scoprire una
«lacuna di una certa importanza» in Marx, per il fatto che avrebbe
tralasciato di stabilire la necessità economica del superamento
delle crisi dopo averne dimostrato la necessità del sorgere (6).
Persino negli
ambiti non economici della sovrastruttura politica e dell'ideologia
generale della società moderna, la teoria marxiana si occupa
soprattutto di fratture e crepe osservabili, i punti di rottura che
mostrano al proletariato rivoluzionario quei luoghi cruciali nella
struttura sociale dove la sua attività pratica può essere applicata
nel migliore dei modi.
Ai giorni nostri
ogni cosa sembra essere pregna del suo opposto. Macchine dotate del
grande potere di ridurre il lavoro umano e renderlo più produttivo
hanno creato invece fame e surlavoro. Le nuove fonti di ricchezza
sono state trasformate con una singolare formula magica in fonti di
povertà. Le vittorie della scienza sembrano essere ottenute al
prezzo della perdita di qualità morali. Nella misura in cui l'uomo
controlla la natura, sembra a sua volta controllato da altri uomini o
dalla propria meschinità. Persino la pura luce della scienza sembra
poter brillare soltanto di contro allo sfondo oscuro dell’ignoranza.
Tutte le nostre scoperte e il nostro progresso sembrano aver portato
a dotare le forze materiali di vita spirituale e abbruttire la vita
umana a forza materiale. Questo antagonismo tra l'industria moderna e
la scienza, da un lato, e la miseria e il decadimento, dall’altro,
questo antagonismo tra le forze di produzione e i rapporti sociali
della nostra epoca è un fatto evidente, indiscutibile, schiacciante.
Alcuni, partiti possono lamentarsene, altri desiderare di liberarsi
dalle conquiste tecniche moderne e con ciò dei loro conflitti.
Oppure possono pensare che un progresso così grande nell'industria
esige un regresso altrettanto grande nella politica per il proprio
completamento (7).
IV
I caratteri
specifici del marxismo, come sono stati esposti fino ad ora, insieme
al principio pratico implicito che impegna i marxisti a subordinare
ogni conoscenza teorica al fine dell'azione rivoluzionaria,
formano i tratti fondamentali del materialismo dialettico marxiano
grazie ai quali si distingue dalla dialettica idealistica di Hegel.
La dialettica di Hegel, il filosofo borghese della restaurazione,
elaborata da lui fin nei più piccoli dettagli come strumento di
giustificazione dell'ordine sociale esistente, con una moderata
concessione ad un possibile «ragionevole» progresso, venne
trasformata materialisticamente da Marx dopo una accurata analisi
critica in una teoria rivoluzionaria non solo nel contenuto ma anche
nel metodo. La dialettica trasformata e applicata da Marx dimostrò
che la «ragionevolezza» della realtà esistente asserita da Hegel
su basi idealistiche possedeva solo una razionalità transitoria che,
nel corso del suo sviluppo, risultava necessariamente
«irragionevolezza». Questo stato irragionevole della società sarà
a suo tempo completamente distrutto dalla nuova classe proletaria
che, facendo propria la teoria e usandola come arma della sua
«pratica rivoluzionaria», attacca alla radice la «irrazionalità
capitalistica».
A causa di questo
mutamento fondamentale nei suoi caratteri e applicazione, la
dialettica marxiana che – come giustamente nota Marx – nella sua
forma «mistificata» hegeliana è diventata di moda tra i filosofi
borghesi, era ora «scandalo e orrore per la borghesia e i suoi
corifei dottrinari, perché nella comprensione positiva dello stato
di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della
negazione di esso, la comprensione del suo necessario tramonto,
perché concepisce ogni forma divenuta nel fluire del movimento,
quindi anche dal suo lato transeunte, perché nulla la può
intimidire ed essa è critica e rivoluzionaria per essenza» (8).
Come tutti i
particolari aspetti critici, attivistici e rivoluzionari del marxismo
sono stati trascurati dalla maggioranza dei marxisti, analogamente è
avvenuto per l'intero carattere della dialettica materialista di
Marx. Anche i migliori di loro hanno ripristinato solo parzialmente
il suo principio critico e rivoluzionario. Dinanzi all'universalità
e profondità della crisi mondiale attuale e alla crescente sempre
più acuta lotta di classe proletaria, che supera in intensità ed
estensione tutti i conflitti delle fasi precedenti dello sviluppo
capitalistico, nostro compito è dare alla nostra teoria
rivoluzionaria marxista forma ed espressione adeguate e allargare con
ciò e attualizzare la lotta rivoluzionaria proletaria.
NOTE:
- A.L.Williams, What is Marxism?, London, 1933, p.27.
- L.Rudas, Dialectical Materialism and Communism, London, 1934, pp.28 e 29. «Né Marx, né Engels, né Lenin hanno mai detto che il processo dialettico opera nella società con l’antagonismo delle classi […]. Gli antagonismi di classe sono una forza motrice nella società di classe in quanto e solo in quanto sono l’espressione, il risultato della contraddizione decisiva della società classista […]. Una volta eliminata questa contraddizione […] rimane contraddizione ma assume un’altra forma. Così ad esempio nell’Unione Sovietica i rapporti di produzione socialisti richiedono un alto livello di forze produttive, un livello più alto di quello ereditato dal capitalismo. Questa è una contraddizione completamente diversa, anzi inversa rispetto a quella esistente nel capitalismo, ma è una contraddizione […]. Una volta le forze produttive altamente sviluppate richiedevano lo sviluppo di rivi sociali; in futuro le più alte relazioni sociali daranno spazio all’ulteriore sviluppo delle forze produttive».
- R.Hilferding, Das Finanzkapital, Vienna 1909, pp. VII-IX (trad.it. Feltrinelli, Milano 1972, p.6)
- Marxism and the Synthesis of Sciences, in Socialist Construction in the Ussr, pubblicato da Voks, vol.V, 1933, p.11.
- Nelle sue ultime fasi vengono considerati anche certi fenomeni sociali della società primitiva per poter tracciare analogie tra il comunismo primitivo (Urkommunismus) e la società senza classi di un remoto futuro.
- Cfr. R.W.Postgate, Karl Marx, London, 1933, p.79, e le citazioni riportate da G.D.H.Cole, Guide Through World Chaos, London, 1932.
- Da un discorso di Karl Marx tenuto nel quarto anniversario della fondazione del cartista «People’s Paper», il 14 aprile 1856 e pubblicato il 16 aprile.
- K.Marx, Il Capitale, Poscritto alla seconda edizione, trad.it. Editori Riuniti, Roma 1970, p.45.
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