Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

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«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

* * *

«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

8 aprile 2010

Il laboratorio della controrivoluzione. Italia 1979-80.


«Che gli uomini non facciano più rivoluzioni
fin tanto che non avranno imparato
a infischiarsene del potere. Che
non scrivano più fin tanto che non saranno
del tutto decisi a sfidare l'opinione.
Gloria a te, libertà!»
(Coeurderoy, Giorni d’esilio)

I - L’ attendismo del potere. 1977-78

(1)
Il profondo conflitto sociale e il vasto movimento di rivolta manifestatisi in Italia nel 1977, presentano delle caratteristiche di radicalità nuove per questo paese. Per la prima volta, infatti, interi settori del proletariato italiano hanno combattuto come propri nemici implacabili non solo lo Stato e le sue forze armate, ma anche le organizzazioni operaie, e particolarmente il partito comunista italiano. Nel corso di questo scontro, gli stessi gruppi che si collocavano politicamente alla sinistra del P.C.I. sono stati individuati come parassiti estranei e ostili alla lotta rivoluzionaria.
(2) 
Il “movimento del '77” si manifesta dapprima come movimento studentesco, occupando le università contro una stupida riforma governativa in gennaio. Esso è formato, come è noto, soprattutto da giovani disoccupati. A Roma vi confluisce un poderoso movimento del "terziario", maggioritario negli ospedali, ma radicato in molti altri settori.
La distribuzione geografica del movimento è molto varia: a Milano, per esempio, dove si svolgono alcune delle imprese più spettacolari della Autonomia Operaia, il movimento è inesistente. Nelle sue deboli manifestazioni non si libera mai completamente di un'ottica politico-rivendicativa, e fornisce una base alle manovre e alle alleanze con i gruppi gauchistes sostenute da Negri, Scalzone e consorti. A Bologna, dove operano radio Alice e il gruppo che pubblica la rivista A/traverso, e dove il movimento si connota in senso giovanilista e addirittura modernista (attraverso l'introduzione dell'ideologia francese di Foucault Deleuze & Co.), riesce ad avere l'iniziativa, in modo trascinante ed entusiasmante per molte altre situazioni, fino al marzo '77; di fronte alla repressione ripiega e cede, permettendo ai becchini gauchistes di Lotta Continua di recuperarlo e seppellirlo. A Roma invece, dove, specie dopo l'esaurirsi della sua parabola ascendente nel marzo 1977, è determinante l'influenza dei comitati operai autonomi (i Volsci, organizzazione militante “vecchia maniera”), il movimento incide su strati sociali più vasti, e intacca seriamente la stessa base del P.C.I., mantenendo dimensioni di massa per oltre un anno.
E' appunto a Roma, dove i giovani proletari dei quartieri si saldano con i lavoratori della generazione più vecchia, che il movimento oppone la resistenza più tenace e radicale alla repressione, fino ad essere irrimediabilmente messo in crisi dal sequestro Moro.
Al movimento non sono mancati né il numero, né la forza militare di impossessarsi del centro cittadino di una delle maggiori e più ricche città italiane, Bologna, né la spinta vitale di abbozzare una critica della vita quotidiana e della politica.
(3)
In seno al movimento i soli gruppi politici organizzati che hanno avuto un peso reale e talvolta determinante nello svolgersi degli avvenimenti, sono stati quelli che compongono la cosiddetta "Autonomia Operaia Organizzata". La teoria di questi gruppi, più o meno legati alla tradizione leninista, in qualche caso apertamente stalinisti, non li distingueva molto da un gauchisme militante e conseguente. Quello che li ha resi un polo di attrazione per migliaia di proletari è stata la loro pratica sostanzialmente illegale e violenta e la loro decisa opposizione al P.C.I. e alle organizzazioni sindacali, pratica che coincideva effettivamente con le aspirazioni più diffuse. In particolare a Roma, nella Autonomia Organizzata si esprimeva l'organizzazione diretta di nuclei consistenti di proletari e di una gran quantità di collettivi e comitati di quartiere.
(4) 
Una delle caratteristiche dei gruppi dell'autonomia è stata quella di evidenziare sistematicamente gli aspetti militari dello scontro in corso. Questo corrispondeva effettivamente all'aspirazione generalizzata di farla finita con il rformismo e l'opportunismo schifosi che prevalevano nell'ambiente politico a sinistra del P.C.I., ambiente che infatti non ha mai avuto un ruolo positivo nello svolgersi degli avvenimenti. Questo aspetto, oltre a dare dei risultati immediati di efficacia ammirevole, tuttavia ha avuto anche l'effetto di privilegiare sempre e comunque la violenza e la lotta armata, di per sé, indipendentemente cioè dai suoi contenuti reali e dalle prospettive reali del movimento e della sua critica teorico-pratica.
(5)
Durante i primi mesi del '77 l'apparato propagandistico dello stato creava e gonfiava il mito dell'autonomia armata, con il risultato di creare non tanto un mostro, quanto un fenomeno spettacolare. Tutte le tendenze dell'autonomia furono complici di questa mistificazione e caddero in questa trappola. Gli autonomi tentarono in tutti i modi di valorizzarsi attraverso il fascino della lotta armata, dispiegando un trionfalismo del tutto ingiustificato, favorendo l'abbandono di ogni forma di lotta quotidiana, di per se stessa oscura e chiusa ai successi spettacolari, a vantaggio di azioni limitate a militanti vecchi e nuovi, ma che avevano il pregio di occupare le prime pagine dei giornali. Lo stato italiano, che due anni dopo ha incarcerato tutti i teorici di questa tendenza, evitò allora di prendere iniziative repressive verso gli aperti fautori di questo tipo di radicalizzazione dello scontro. Quando possibile, della repressione si incaricarono i resti dei gruppi gauchistes: in particolare le due organizzazioni Lotta Continua e MLS si posero all'inseguimento del movimento per strangolarlo non appena lo avessero raggiunto.
(6)
L'autonomia operaia e la vasta area sociale che veniva arbitrariamente identificata con le posizioni di questo o quel gruppuscolo, era di volta in volta parte integrante del movimento rivoluzionario (questo soprattutto al Sud) e modello spettacolare (questo soprattutto al Nord). Tutto questo accresceva la confusione e la mancanza di prospettive, tipiche di una situazione di disordine in cui entravano in crisi i modelli ideologici preesistenti e in cui l'incalzare stesso dell'“azione'” – allora “affrettato” dallo spettacolo – tendeva a far apparire superflua la teoria rivoluzionaria.
(7)
Nel maggio del '77 rientravano spettacolarmente in scena i gruppi armati clandestini, ferendo alle gambe alcuni giornalisti di destra.
Questi gruppi esistevano in Italia dal 1971, avevano avuto un certo sviluppo, ma nel '77 apparivano come una tendenza marginale rispetto alla Autonomia in piena ascesa. Al loro riapparire tutto l'apparato propagandistico, dal P.C.I. alla destra, ne spiegarono l'esistenza definendoli come il "nocciolo duro", il cuore organizzato del movimento, il suo motore e centro direzionale occulto. Questa teoria era completamente falsa. I gruppi militari sostenevano l'organizzazione completamente clandestina, fondata sulla totale abnegazione, e all'occorrenza sul sacrificio, dei militanti. Nulla era più estraneo allo spirito del movimento, critico verso la militanza e rivolto sovente alla critica della vita quotidiana, in forme ironiche e sovente addirittura festaiole e pagliaccesche. Anche a questo, venduti e imbecilli di ogni specie fornivano una spiegazione: esistevano un movimento "creativo", controculturale, "buono", e un movimento "armato", "cattivo", di cui le organizzazioni clandestine erano il nucleo centrale e l'autonomia operaia l'organizzazione di massa.
(8)
Al contrario: il movimento "creativo" di Bologna era quello che aveva sostenuto, nel marzo del '77, lo scontro militare più ampio e radicale e contro cui erano intervenuti i carri armati, mentre i gruppi clandestini condannavano duramente le forme di lotta armata del movimento, da cui si erano mantenuti estranei, in quanto "avventuriste" e "spontaneiste" . Tuttavia questa falsità aveva una base reale: nel movimento esisteva una componente controcultrale, nutrita delle teorie dell'alternativa di fabbricazione USA, su cui si erano gettati a pesce gli operatori culturali, che ne divennero ben presto gli interpreti.
(9)
La debolezza teorica del movimento si rivelava sempre più mortale, via via che diminuivano lo slancio e l'entusiasmo. Nel '78 vennero l'esaurimento e la paura, in coincidenza con le prime "prove" di una repressione su vasta scala, che a sua volta costringeva i rivoluzionari a una lotta sempre più di trincea. Sempre più angusta, difensiva, scandita dalle scadenze di scontro che il potere via via sceglieva, attraverso i divieti, gli omicidi in piazza, la repressione selettiva. Nei primi mesi del '78 il movimento si esauriva, boccheggiava, perdeva colpi, il P.C.I. cominciava a lanciare i suoi mazzieri alla riconquista delle università. Nello stesso tempo il terrorismo riprendeva vigore.
(10)
Il sequestro e l'omicidio di Moro hanno chiuso la situazione caotica in cui si era sviluppato il movimento del '77. Non solo fu finalmente possibile mettere in stato d'assedio Roma, che era il principale centro superstite della resistenza del movimento. Quello che più contava era che finalmente il puro spettacolo ritornava a dominare la scena. I mass-media sono stati i veri vincitori del sequestro Moro. Tutti incollati al video a seguire il film della lotta di classe, dei comunicati, delle lettere del disgraziato democristiano, che tutti vollero morto. Tutti i giornali (persino Il Male fece la sua fortuna in quel periodo) riportavano nelle prime pagine i comunicati delle B.R. Il sistema aveva scelto il suo nemico – il terrorismo – ed era riuscito ad imporlo a tutti. La finzione si realizzava. La lotta era tra lo Stato, la democrazia, tutti quanti, e un pugno di terroristi, efficienti, freddi e spietati. I due fronti in lotta erano ben definiti: a tutti si imponeva la scelta: o con i carabinieri o con i rapitori. Lo stato italiano ha ammazzato Moro, ma per dare un colpo mortale alla rivoluzione. Il P.C.I. riempiva le piazze di bandiere rosse contro il terrorismo. Lo stato imponeva, in modo identico alle B.R., il ricatto: con noi o con loro.
La posizione presa unanimamente dal movimento sul sequestro Moro rimase sostanzialmente difensiva e d'occasione: in alcuni settori si espresse nella parola d'ordine capitolazionista "né con lo Stato né con le B.R.”, in altri prevalse la solidarietà con i terroristi. Le critiche più radicali vennero dai gruppi più organizzati, accusati in seguito di aver preso parte al sequestro. Essi percepirono tutta la vicenda come l'attacco micidiale di una organizzazione concorrente, e poterono perciò denunciarne la natura, antitetica a qualsiasi sviluppo del movimento.
Si creò una atmosfera allucinante, totalmente governata dallo spettacolo. Ogni critica, ogni azione rivoluzionaria diventavano difficili, si muovevano su un terreno minato, destinate ai distinguo, alle sottigliezze, schiacciate da un'alternativa brutale.

II - 7 aprile e 21 dicembre

(11)
Il 7 aprile 1979 vengono arrestati tutti i più famosi leaders dell'autonomia organizzata e con loro un buon numero di militanti. Le accuse suonano in un primo momento assurde: i dirigenti dell'aut.op. vengono accusati di essere i capi delle BR e di avere ordinato ed eseguito il sequestro e l'uccisione di Moro. La prima impressione nel movimento, che in questa occasione sembra rianimarsi per un attimo, è di incredulità: le accuse sono tanto assurde che questo deve considerarsi come un errore idiota dello stato e dei magistrati, che si immaginano di trovarsi al tempo delle purghe sovietiche degli anni '30. Bastano pochi giorni perché questa impressione svanisca. Ciecamente, in blocco, senza tentennamenti o esitazioni, tutta la stampa, la radio, la televisione sostengono e avvallano le incredibili menzogne della magistratura togliattiana. Il movimento, o meglio l'aut.op. organizzata che, irresponsabilmente, aveva sempre contato sugli spazi che riusciva a prendersi sui quotidiani con la propria pratica e sui buoni rapporti con alcune forze progressiste, intellettuali, giornalisti, politici, si trova di colpo con la bocca tappata. Non può rispondere ad accuse non solo enormi. Ma anche rozze, imprecise, confuse, e che hanno lo scopo di confondere e frastornare con una tecnica da giallo ad effetti.
(12)
La verità è che, improvvisamente, gli spazi che si chiudono all'aut.op. organizzata sono gli spazi dello Spettacolo. In scena c'è un'altra rappresentazione, e in questa agli autonomi è riservata la parte di imputati. Si tiravano le somme dell'irrealtà che [esso] aveva creato, con una equazione ancor più irreale: movimento “armato” = lotta clandestina. E questo col pieno disprezzo dei fatti e, per esempio, della lotta dell'aut.op. organizzata contro il sequestro Moro.
(13)
Nello stesso tempo, ai leaders autonomi sotto accusa l'apparato propagandistico del potere concedeva il ruolo, e questo solo ruolo, di colpevoli, di accusati. Nei mesi successivi al loro arresto vennero pubblicate svariate interviste degli arrestati del 7 aprile, concepite invariabilmente in senso, e con un tono, accusatorio. Gli autonomi non potevano più permettersi le sparate che fino a pochi mesi prima gli stessi giornali ospitavano con grandissima generosità.
Eh no, ormai dovevano difendersi, discolparsi, negare tutto attraverso gli stessi giornali che ora li crocifiggevano. Si rivolgeva spietatamente contro di loro l'illusione di poter usare la stampa del capitale.
(14)
Inoltre, attraverso queste interviste, si ri-creavano i personaggi dei leaders autonomi, utilizzandone la amplificata notorietà e lo smarrimento, per trasmettere messaggi di sconfitta a tutto il movimento. Si prenda il caso di Piperno. Questo signore non aveva avuto alcuna influenza nei fatti del '77. Improvvisamente era saltato fuori al tempo del sequestro Moro, quando la stampa aveva dato ampio spazio alle sue proposte di mediazione, assolutamente velleitarie e impotenti, tra lo stato e i rapitori, che erano giunte fino al punto di sollecitare e ottenere incontri diretti con i dirigenti del P.S.I., i più possibilisti di fronte allo scambio di prigionieri proposto dalle BR. Dopo il 7 Aprile, Piperno, latitante, è unanimemente indicato come “leader del movimento”. Questo disgraziato, dalla latitanza lancia una proposta di amnistia per i terroristi, che ottiene un risalto enorme, spropositato rispetto alle sue, inesistenti, possibilità di realizzazione.
La sua proposta suonava così: noi, cioè l'ex gruppo dirigente di pot.op., siamo i soli politici capaci di ricondurre le masse giovanili all'interno della dialettica del potere, siamo i soli interpreti e potenziali controllori del rifiuto giovanile: se ci sbattete in galera la società italiana perderà il suo solo canale di recupero alla politica dei giovani incazzati, i quali entreranno in massa nelle organizzazioni militari.
La stampa non ebbe nemmeno bisogno di "spiegarne" il messaggio : la connotazione riformista di tutto il movimento rispetto alla effetiva radicalilà rivoluzionaria delle organizzazioni clandestine, implicita nelle affermazioni di Piperno, corrispondeva fin troppo bene alle analisi che da mesi tutte le bocche del potere cercavano di imporre.
Allo stato del capitale l'entrata di tutti gli irriducibili nelle organizzazioni clandestine non faceva paura. Quello che nelle intenzioni di Piperno doveva suonare come un avvertimento mafioso terrificante (e qualche magistrato fascista finse di accentarne la provocazione) non era che un altro segnale direzionale per quanti già si stavano lasciando spingere sulla strada del falso antagonismo costituito dai gruppi terroristici.
Sul terreno favorevole di una contrapposizione militare fittizia lo stato affronterà, nel giro di un anno, la tonnara delle organizzazioni armate, coinvolgendovi centinaia di individui e gruppi che non ne facevano parte.
(15)
Nel suo insieme, l'“operazione 7 Aprile” si poneva, e raggiungeva, vari scopi. Lasciamo perdere uno di questi scopi, cioè il regolamento di conti interno al potere tra P.C.I. e D.C., da un lato, e “partito della trattativa”, dall'altro, di cui ancora oggi i leaders autonomi incarcerati parlano per spiegare il “senso” di tutta l'operazione.
Indubbiamente uno di questi scopi era anche quello della repressione diretta e della “disarticolazione” delle lotte: oltre ai leaders spettacolari e ai professori universitari, vengono arrestati il 7 aprile anche un certo numero di militanti e organizzatori, che conducevano lotte quotidiane. In questo senso il 7 Aprile è un attacco diretto e indiscriminato a tutto il movimento, e varrà soprattutto come precedente. Da allora, e molto di più dopo il 21 Dicembre, sempre più spesso “militanti di base”, operai, studenti delle scuole medie, gente che sosteneva e organizzava coerentemente il più svariato tipo di lotte, verranno arrestati con l'accusa di far parte, o addirittura di dirigere, le BR.
(16)
L'operazione 7 Aprile si caratterizza però soprattutto come grande colpo spettacolare contro i capi. I colpevoli di dieci anni di sovversione e terrorismo in Italia, innanzitutto gli arrestati, erano già in gran parte molto noti: di Negri, Scalzone, Piperno, i giornali avevano sempre parlato, etichettandoli sempre come leaders del movimento anche quando non contavano niente. Loro stessi anzi avevano ampiamente parlato attraverso i giornali e più di ogni altro avevano contribuito a formare l'immagine spettacolare dell'autonomia, a falsificare, in ultima analisi, la realtà del movimento italiano, facendosi costantemente interpreti di tutto ciò che esprimeva di nuovo, amplificandone trionfalisticamente le pratiche fino a far loro raggiungere lo stadio di puro spettacolo, ed essere riprodotte sotto forma di imitazione.
Questo fatto, insieme all'enormità delle accuse, sufficiente a nasconderne l'assurdità, garantiva un formidabile effetto spettacolare. Una bomba: nel momento di maggior debolezza del movimento e di maggior forza delle BR, l'azione compatta e orchestrata dei mezzi di informazione “dimostrava” come per sconfiggere il terrorismo bisognasse prima spazzare via la rivoluzione sociale.
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Le figure spettacolari degli imputati del 7 Aprile – ora colpite dalla menzogna – erano il risultato di quanto essi stessi avevano contribuito a creare, con la collaborazione del settori culturali addetti al movimento, e il prodotto della debolezza collettiva, in particolare dell'assenza della teoria rivoluzionaria. Erano ciò che nei due anni precedenti era stato spacciato come rivoluzione dall'Espresso; e molti ci avevano creduto: non è esagerato affermare che in varie occasioni le “scadenze” del movimento erano state decise dalla stampa progressista. Ormai i quotidiani (Lotta Continua, Repubblica) e i settimanali (Espresso e Panorama) del movimento passavano a calunniare direttamente la rivoluzione, calunniandone un'immagine falsa, stereotipa e grottesca. La si calunniava dicendo: i dirigenti del movimento rivoluzionario erano nello stesso tempo, all’insaputa dei loro stessi seguaci, a cui anzi propinavano critiche ad hoc della lotta armata clandestina, i dirigenti delle BR e di PL, che costituivano il vero progetto rivoluzionario. Che sfilza di menzogne! Ma che avevano innanzitutto l'effetto di nascondere che Negri e Piperno non solo non erano i dirigenti delle BR, ma non erano mai stati nemmeno i dirigenti del '77 - '78 .
(18)
Il 21 dicembre 1979 l'azione repressiva dello Stato fa un salto di qualità, e con lei lo fa l'enorme calunnia contro la rivoluzione. Durante la notte vengono effettuate in tutta Italia migliaia di perquisizioni e vengono arrestati una dozzina di "dirigenti" dell'autonomia operaia organizzata, mentre una nuova valanga di ordini di cattura cade sulla testa dei leaders già in carcere. In seguito alle dichiarazioni di un delatore (Fioroni), vengono tutti accusati di aver creato una fantomatica organizzazione militare precedente la nascita delle BR. La più consistente delle accuse specifiche, rivolta in particolare contro il capo dei capi, cioè Negri, è quella di aver organizzato il rapimento e l'omicidio di un suo amico e compagno di partito. Per la prima volta Negri, e con lui il movimento rivoluzionario, è accusato di un fatto concreto, circostanziato, preciso. E che fatto: il tradimento e l'uccisione di un compagno, membro della stessa organizzazione.
L'accusa di fratricidio è utilizzata, evidentemente, per inchiodare Negri. Ma con questa nuova arma l'apparato propagandistico scatenato vuole liquidare un nemico molto più temibile, schiacciarlo sotto il senso di colpa, disperderlo, abbatterlo, distruggerne il morale. Vuole ascoltarne le confessioni, le autoaccuse, le abiure, le penitenze, i rinnegamenti, la disillusione.
(19)
In tutta l'operazione repressiva l’aspetto di guerra psicologica è più importante della repressione immediata. Sarà proprio questo aspetto a rendere possibile in seguito una repressione generalizzata. Col 21 Dicembre si intimidano migliaia di compagni e li si informa che fra di loro c'erano degli assassini, dei traditori e dei fratricidi, dei delatori, dei venduti e dei dementi, e che questa é l'essenza stessa di tutto ciò che loro hanno fatto: violenza bruta, cieca, omicida, appena giustificata da ideologie deliranti.
(20)
Per comprendere attraverso quali canali il capitale trasmettesse direttamente al “cervello collettivo” delle masse giovanili che avevano vissuto il movimento del '77, bisogna ricordare almeno la funzione del quotidiano Lotta Continua. Questo giornale era stato per tutto il '77 il giornale del movimento, perché era l'unico che pubblicava testi e comunicati dell'autonomia, benché in tutte le situazioni in cui i militanti di L.C. erano preponderanti, essi soffocassero il movimento utilizzando, quando potevano, la violenza fisica e le insinuazioni delatorie.
Il quotidiano Lotta Continua, oltre alle rituali campagne anti-repressione "liberali", svolgeva soprattutto una campagna di depressione, demoralizzazione, confusione sistematica, che tendevano evidentemente a creare angoscia e smarrimento. Era facile trovare spunto nelle sanguinose e dementi azioni dei terroristi per gridare contro la violenza, il sangue e la morte, e invocare i sacri valori della tolleranza. della vita e della non-violenza. Da queste basi non era difficile nemmeno spingere l’acceleratore della vita alternativa, della droga, del femminismo, della liberazione individuale, e nello stesso tempo tirare il freno a mano della paura, dell'angoscia, dell'incertezza, della perdita dei punti di riferimento. E poi campagne culturali a ripetizione: dai nuovi filosofi, ai sacri valori della vita, della “creatività” e della fantasia di un movimento che si voleva esclusivamente culturale. Fino a una piccola e ambigua campagna sulla delazione.
Gli stessi arresti del 21 dicembre sono stati preceduti da un anno di discussione su Lotta Continua sul "diritto alla delazione" e sul "diritto a denunciare i compagni assassini". È Lotta Continua, per prima, a sollevare lo scandalo di un suo militante, “assassinato anni prima da compagni dell'Autonomia”, dopo aver attribuito per tre anni l'omicidio ai fascisti. Su questo episodio, riesumato al momento opportuno, si “apre la discussione” sul “diritto alla delazione”.
Dello stesso Fioroni, Lotta Continua si occupa ampiamente molto prima che la sua delazione sia resa nota, investendo tutto il movimento del dibattito sulla figura di questo compagno che “la tragica scelta della violenza ha portato inevitabilmente ad assassinare il suo migliore amico”, e sulla sua crisi psicologica, sul suo pentimento, sulla sua denuncia di quella logica rivoluzionaria che porta inevitabilmente a scannare il proprio fratello.
Nella sua delazione Fioroni chiamerà a correi gli arrestati del 7 Aprile, e ancora una volta L.C. saprà battersi in difesa della crisi di questo disgraziato.
(21)
Ciò che é più lampante è che della rivoluzione, intesa come progetto e pratica, passione e vita, non si può più parlare. Per chi si ostina ci sono l'Antiterrorismo e la Digos, ma soprattutto c'è la dimenticanza che colpisce chi si ostina a ignorare le mode. I rivoluzionari hanno perso tutti i palcoscenici, tutti gli schermi per loro si sono oscurati, lo spettacolo si volge altrove. I giovani, cinici e disillusi, non hanno più tempo per le ideologie e nemmeno per i sogni.
Una delle più gravi mancanze del movimento del '77 è stata quella di non aver avuto un momento di riflessione e neppure delle prospettive precise su quello che stava accadendo.
Lo scoppio della radicalità in quelle città che erano sfuggite al controllo serrato del capitale è stato improvviso e anonimo; ma soprattutto la ricchezza dell'azione è rimasta imbrigliata a un emotivismo politico slegato da una memoria teorica di classe.
La critica che il movimento ha portato al vecchio e nuovo revisionismo, uno figlio dell'altro, a Roma non si è ricollegata alla formulazione teorica di lotta all'opportunismo, a quella forte tradizione di classe che ha sempre caratterizzato i movimenti radicali del passato: necessità primaria per individuare il nemico che si annida e scava all’interno dell'aggregazione di classe per inficiare e frenare gli sbocchi rivoluzionari.
Questa mancanza non ha impedito, dove ci fu effettivamente un movimento autonomo dalle ideologie (per esempio nei primi mesi del '77 a Roma), all'autonomia operaia di divenire espressione del movimento stesso, identificandosi sia con la radicalità diffusa sia con la mancanza di prospettive generali. Dove invece il movimento non è riuscito ad esprimersi (nel Nord), l'autonomia operaia è rimasta imbrigliata nella logica della banda-racket, che l'ha portata a tentare ambigui rapporti con gruppi politici che erano l'espressione diretta della repressione; così, essendo rimasto il movimento intrappolato tra miti armati e femministi, giovanilisti e culturali, l'autonomia operaia riprodusse, accentuandoli, tutti questi limiti; e mentre il movimento restava sempre asfittico e privo di sbocchi sociali, minoritario, attaccato dai riformisti, semi-clandestino, tutte le ideologie ne venivano pompate e amplificate allo scopo di riprodurre le vacillanti organizzazioni.
Non è un caso che dopo lo slancio iniziale caratterizzato dallo scoppio di rabbia sviluppatosi a livelli avanzatissimi, dove l'esigenza e il bisogno di vita si identificavano con la lotta e la passione per la stessa, la qualità dei rapporti umani si abbozzava sull'antico orgoglio umano per la comunità, stravolgendo il grigiore e la ripetitività di molti aspetti della quotidianità, anche nelle sue forme moderniste. In questa prima fase di successi del movimento (tempi che Lama e scagnozzi della sua risma si ricorderanno per lungo tempo), la repressione è stata minima rispetto alle risorse di annientamento che il potere ha insite nel suo [apparato] di difesa; questo, forse, perchè la radicalizzazione dello scontro non si è estesa alle grandi concentrazioni industriali del Nord ed è stata limitata ad alcune città. Il potere ha usato limitatamente la repressione armata, eccetto che a Bologna, dove gli stalinisti al potere hanno usato (come insegna l'URSS, unica loro tradizione) i carri armati per sedare i disordini che stavano sfuggendo al controllo. Il moloch capitale si è mosso su quelle debolezze che il movimento, anche nel periodo di maggior splendore, aveva in sè: si capisce così l’enorme successo dell'eroina, nuova arma di abbrutimento sociale usata dal capitale per comprimere i conflitti sociali; tattica non nuova per il capitale, che ha sperimentato in periodi storici recenti l'uso dell'alcool per l'annientamento di un intero popolo in America del Nord, e dell'oppio, in periodi storici passati e presenti, in Oriente, per rincoglionire quel potenziale proletariato nullatenente; cambiano i veleni ma gli intenti sono gli stessi.
[...]
Assieme all'eroina ci sono altre forme di gestione mercificata della vita ad uso e consumo dell'ideologia spettacolare della sopravvivenza; la moneta di scambio del capitale è la distruzione della passione e delle tensioni reali. Il capitale non vuole distruggere l'uomo nella sua accezione di forza-lavoro, che è la [base] della sua esistenza, ma vuole annientare quelle caratteristiche di umanità della specie che ancora lo legano all'ambiente, che fanno sì che i rapporti fra gli uomini non siano ancora dominati completamente dallo spettacolo.
Il capitale, di fronte allo scoppio insurrezionale in quelle zone a forte concentrazione industriale, è bloccato all'uso della repressione omicida e attende il movimento sul piano della critica della vita quotidiana, ancora separata dall'esplosione comunitaria della radicalità. Una delle debolezze del movimento del '77 è stata quella di [porsi] ancora politicamente nello scontro col potere, senza riuscire a realizzare quel connubio, ormai imprescindibile per una futura rivoluzione, fra lotta per la vita e pratica della vita. Non ci si può proporre come soggetti separati ([questa è stata, tra l'altro,] una delle cause delle sconfitte dei movimenti rivoluzionari del passato), l'affrancamento dalla società del capitale deve essere totale. La rivoluzione non si [costruisce] sui modelli passati, ma sulla lezione delle sconfitte delle rivoluzioni precedenti. «Gli uomini sfogano sui morti la loro disperazione di non ricordarsi nemmeno di se stessi.» (Adorno - Horkheimer).
(22)
Non bisogna sottovalutare la repressione diretta: dire che in Italia della rivoluzione non si può più parlare, significa che chi ne parla viene schiaffato in galera, con o senza pretesti validi. Ma soprattutto sono cambiati radicalmente i metodi dello spettacolo.
Schematizzando: fino al '77 il potere cerca di recuperare la spinta rivoluzionaria, creandone una immagine spettacolare, diffondendola e cercando di inchiodavi il movimento reale. Fino a tutto il '77, permette una certa libertà di movimento e arriva a pubblicare le posizioni che più gli fanno comodo su tutti i giornali, dando risalto in particolare alla contrapposizione fittizia tra un movimento controculturale e un movimento armato. Non riesce a intervenire contro la lotta armata, e comunque non ci prova nemmeno con tutte le forze di cui dispone; attende, cerca di depistarla.
Permette che si sviluppino sporporzionatamente l'ideologia e la pratica dei gruppi armati. A partire dal '78, bruscamente chiude. Non informa più, si limita a calunniare i rivoluzionari, tutti grossolanamente identificati come terroristi, autonomi, teppisti.
Passa a trasmettere tutt'altri schemi, tutt’altri modelli, tutt'altre ideologie. II potere fa passare direttamente i propri messaggi: diffonde l'ideologia del riflusso, modella la vita direttamente su schemi idioti, crea lo stile della nostalgia, del revival, della spensieratezza idiota, in realtà grintosa e cinica. Nell'estate del '79 viene lanciata clamorosamente una campagna di stampa nazionale sull'eroina. Vengono proposti i nuovi consumi di massa a quelli che si vogliono orfani di politici e terroristi.
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Nel 1980 lo spettacolo del terrorismo risorge per il suo "gran finale". In sostanza, però, il potere è riuscito ad avere una influenza più decisiva e diretta sulla situazione italiana attraverso campagne culturali di largo respiro, sostenute da una crescente repressione, e nelle quali le due operazioni del 7 Aprile e del 21 Dicembre, oltre ad avere un evidente scopo terroristico, sono servite soprattutto come fonti per la propaganda. La guerra psicologica si è effettivamente sviluppata in Italia, ma non certo nei termini denunciati dalle Brigate Rosse, che uccidendo giornalisti sono diventate protagoniste spettacolari proprio dell'offensiva psicologica del potere. In realtà anche il movimento del '77 ha commesso gli stessi errori. Queste debolezze del movimento sono ora pagate duramente da molti.
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D'altra parte, questa non è tutta la verità. Il potere esperimenta in Italia l'impossibilità di riassorbire una gran parte dei giovani. In Italia nessuna fabbrica vuole più assumere giovani operai, che si rivelano immediatamente tenaci sabotatori e distruttori della produzione, incapaci ad adattarsi a ritmi e orari, assenteisti incalliti e fantasiosi. Le elezioni politiche, e l'anno dopo quelle amministrative, sono state uno shock per i politici italiani, con le più alte percentuali di astensionismo, altissime tra i giovani e nelle concentrazioni operaie.
Una massa dispersa ma coriacea di operai giovani e di disoccupati mantiene ferma una feroce estraneità ai poteri costituiti. Li guarda con faccia anonima, ma minacciosa.

III- 1980

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Il 21 dicembre non segna affatto la punta massima della repressione, è solo il collaudo della strategia della disarticolazione e dell'annientamento dei residui organizzati del movimento rivoluzionario.
I primi sei mesi del 1980 hanno visto un crescendo della repressione e della campagna di svilimento e demoralizzazione, che si sono concretizzati nella cifra di 600 arrestati. Il via è stato dato da Peci, capo-colonna del Piemonte e membro della direzione strategica della BR che, una volta arrestato, confessa, si “pente”, fa smantellare tutta la struttura organizzativa di Torino, spedisce in carcere un centinaio di militanti. Ma questo Peci è davvero un cinico che, una volta arrestato, fa i suoi calcoli, e decide che la sua libertà vale più di quella dei suoi compagni di lotta? Questo è quello che vorrebbe far credere la polizia politica, per dimostrare che i nemici della democrazia sono senza ideali, sconfitti, demoralizzati, e preferiscono scendere a patti col potere: infatti da questo momento scoppia il fenomeno della delazione e del pentimento: in ogni gruppo clandestino vi sono due o tre delatori che, confessando, fanno arrestare 30 o 40 persone alla volta. Questa “verità ufficiale” è utile anche per nascondere il fatto che Peci collaborava già prima coi carabinieri, che, in altre parole, era un infiltrato ai livelli più alti delle BR: gli apparati repressivi conoscevano in anticipo le imprese clandestine e lasciavano fare perché erano politicamente loro favorevoli.
Nel dicembre 1979, quando era in discussione una legge che aumentava a dismisura i poteri della polizia (perquisizioni senza mandato della magistratura, fermo di 72 ore e interrogatorio della polizia, mentre prima era competenza esclusiva dei giudici, carcerazione preventiva senza processo fino a 12 anni nei casi di terrorismo, armamento pesante della polizia), i gruppi terroristi clandestini ammazzarono una serie di persone di importanza relativa; sembrava proprio che sollecitassero l'approvazione di questa legge infame, seguendo la logica schizoide per cui, costringendo lo Stato a divenire repressivo e fascista, il “popolo” si sarebbe sollevato per unirsi alle uniche strutture organizzate che avrebbero retto al ciclone repressivo: quelle clandestine.
Non si è verificato nulla di tutto questo, e i gruppi clandestini che originariamente avrebbero dovuto colpire “al cuore” lo Stato e disarticolarlo, sono attaccati duramente e potranno sopravvivere solo come fenomeno controllato che giustifichi il mantenimento del mastodontico apparato repressivo che in questi anni è stato montato in Italia.
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Con la delazione di Peci non solo – per la prima volta – viene colpita la direzione strategica delle BR con l'assassinio di due dei suoi componenti a Genova, ma ha inizio un attacco frontale contro il movimento rivoluzionario. Vengono arrestati come terroristi operai, impiegati, delegati di reparto, tecnici, infermieri. Cioè i soggetti attivi dei restanti comitati di base o collettivi autonomi, che sono sempre stati i reali obiettivi della repressione.
Costoro sono tutti aderenti alle organizzazioni militari clandestine? (Questa e la tesi dei sostenitori della lotta armata per dimostrare che essi soli rappresentano l’unica forza di opposizione rivoluzionaria). Certamente no, quei pochi che lo erano, l'hanno pubblicamente dichiarato nei processi. L'autonomia da ogni potere costituito, questo è il vero nemico che lo Stato e le forze che lo sostanziano – partiti e sindacati – debbono assolutamente debellare in Italia.
I gruppi clandestini, invece, ormai completamente abbagliati dallo spettacolo, scambiando causa per effetto, hanno finito per credere davvero che l’intensificarsi della lotta di classe si misura dal numero delle pagine che quotidianamente sono loro dedicale dai giornali, o che il ferimento o l'uccisione di un caporeparto è più eversivo di uno sciopero selvaggio o di un sabotaggio della produzione.
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Tutto ciò è paradossale, soprattutto quando si pensi alla molteplicità e radicalità della prassi del movimento che ha conosciuto il suo apice nel '77: lotte antilavorative, assenteismo, autoriduzione dei ritmi o sabotaggi nella produzione, campagne di autoriduzione delle tariffe telefoniche e elettriche (accompagnate da sabotaggi), manifestazioni di massa armate e illegali, occupazione di case, sviluppo delle comunicazioni con le radio libere o sabotaggio dei media ufficiali con la riproduzione di falsi giornali o libri che diffondevano la pratica rivoluzionaria, lotte nei licei per la promozione garantita.
Un movimento di questa portata non ha saputo riconoscere sin dal suo inizio che la logica di qualsiasi apparato che si costituisce al suo esterno, separato da sè, è profondamente antitetica e nemica dello sviluppo di un processo rivoluzionario di base; anzi aveva addirittura creduto alla possibilità di coesistenza di un movimento rivoluzionario antiriformista, antigerarchico, illegale e di massa con una minoranza specializzata in arti marziali e con un progetto non dissimile da quello del P.C.I. negli anni '50, ossia prima della "destalinizzazione".
Qualsiasi apparato che si costituisce al di fuori del divenire di un movimento, è profondamente controrivoluzionario, perchè è legato alla logica elitaria, avanguardistica, specialistica del leninismo moderno, che può esistere soltanto coltivando l'illusione di dirigere il proletariato con la spettacolarità delle azioni. Oggi, questo va detto chiaramente e semplicemente, senza alcuna remora, allo stesso tempo in cui manifestiamo tutto il nostro disprezzo per i delatori e i "pentiti".
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Lo Stato e i partiti hanno impiegato tre anni per smantellare il movimento del '77. Questo non lascia come eredità nessun apparato istituzionale, come fu per il movimento del '68 da cui si ereditarono i gruppuscoli (sottoprodotto del riformismo) che costituirono un impedimento e un ostacolo alla radicalizzazione del le lotte per molti anni.
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Ancora, dove questo movimento ha sbagliato, è stato nella comprensione e nella valutazione della funzione e della forza del riformismo, che non è affatto berlinguerismo (come si gridava a Bologna), ma democratismo coi potenti e stalinismo con gli oppositori. L'essenza stalinista del P.C.I. è stata denunciata solo quando questo aveva cominciato a reprimere, quando preparava i dossiers sui rivoluzionari, quando indicava alla polizia quali compagni arrestare, quando scacciava dalle fabbriche gli operai autonomi che non si sottomettevano ai sindacati, quando faceva arrestare dai suoi giudici gli appartenenti all’autonomia organizzata, quando ha tentato di introdurre il lavoro volontario al sabato etc.
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Con la strage di Bologna è il terrorismo di Stato che senza ambagi fa la sua ricomparsa. E riappare in tutto il suo cinismo: novanta morti, uomini donne e bambini, poveracci, vengono mandati al cimitero per terrorizzare, perché ormai chiunque può morire. Concetto molto concreto, molto palpabile, che sarà ribadito con l'uccisione di un tipografo stranamente scambiato per un giornalista. La paura tra gli intellettuali, la morte tra gli operai . La ferocia della bomba di Bologna fa subito pensare alla guerra, perché la guerra civile larvata che si combatte in Italia ha bisogno di un numero sempre maggiore di morti. La gente si assuefa alla violenza. La gravità della crisi, ormai pressante in tutti i settori, spiega a posteriori le ragioni di una tale ferocia. L'aver attribuito la paternità dell'attentato ai NAR, gruppi di estrema destra, segue la stessa logica dell’aver attribuito la paternità della bomba di piazza Fontana agli anarchici. Strage di stato quella, strage di stato questa. La campagna di stampa orchestrata dallo zoppo direttore del Giornale, culminata nella richiesta giudiziaria di ergastolo per Valpreda, serve a precisare uno degli scopi della politica statale: non c'è che un terrorismo ed è quello delle organizzazioni estremiste, comunque colorate.
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Le accuse della destra (Almirante e Rauti) al governo in quanto organizzatore della strage di Bologna, sono confermate dai pasticci crescenti che il governo e i servizi segreti hanno combinato per depistare quello che il senso comune sapeva su qualcosa che era un po' troppo la ripetizione di vecchi copioni adattati agli anni '80. La meno convincente delle spiegazioni formulate dalla destra riguarda il peso che questa stessa destra si attribuisce nel paese. Nonostante le vittorie elettorali della Thatcher o di Reagan e le convulsioni dei nostalgici franchisti in Spagna, il tentativo di screditare l'MSI è solo marginale rispetto al compito reale che si prefiggeva il massacro: terrorizzare la popolazione qui ed ora; marcare a ferro e fuoco la situazione italiana i cui bagliori risplendono già in paesi lontani. Il 2 agosto la bomba di Bologna, seguita da quelle in Germania e in Cina (quest'ultima preceduta da un gran sfarzo televisivo su quella italiana) segnano l'inizio di uno stato di tensione e di allarmismo, dove il capitale garante dell'ordine può colpire chiunque (nel caso specifico italiano, il 2 agosto diventa il 21 dicembre dei neofascisti); fatto nuovo è il metodo identico in tutti e tre i casi: in concomitanza con l'Italia e la Germania, la Cina, perfettamente allineatasi a questo capolavoro della rozzezza di intenti.
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L'autonomia proletaria nelle fabbriche è schiacciata sotto il tallone di ferro degli stalinisti che, come una moderna CEKA, costituiscono de facto una polizia operaia: l'autonomia è costretta a limitare le forme politiche con cui si manifestava (volantinaggi, contro-informazione, assemblee, scioperi anti-sindacali etc. ), deve diventare più sotterranea, anonima.
Il problema della rivoluzione è sempre presente nella società italiana, perché nessuna contro-rivoluzione culturale (nouveau philosophes, orientalismo. misticismo, droghe etc. ) può cancellare la consapevolezza dell'acquisizione avvenuta dei principi di base di una lotta anticapitalista moderna; perché nessun problema è stato risolto dal capitale italiano.
La spaccatura netta esistente tra la massa dei giovani rifiutati dal mercato del lavoro e ghettizzati nelle economie della sussistenza e del lavoro nero o dei piccoli commerci, e coloro che accettano uno dei ruoli che la società capitalistica offre, si è oggi aggravata. L'andamento positivo della produzione è il prodotto della militarizzazione del territorio settentrionale e del terrore statale scatenato nelle metropoli, ma non può reggere a lungo. Perché i nostri nemici non possono offrire nulla che possa cambiare positivamente la vita dei proletari, all'infuori di cultura e spettacoli, modelli e ideologia.
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L'atto volontaristico di coloro che a furia di stare attenti alle condizioni oggettive non sapevano più dov'erano, è stata la dimostrazione – tragica per coloro che ci hanno creduto, ma questa volta sì oggettiva – che le condizioni storiche sono cambiate. Oggi è evidente che la rivoluzione di cui parliamo non vuole nessuna presa del potere politico, ma solo la liberazione dal denaro, dallo Stato; e per quanto riguarda le costrizioni morali, non dimentichiamo – dato essenziale – che la specie umana segue le scansioni logiche della biologia, luogo di sviluppo in cui l’unico riferimento accertato è l'istinto di sopravvivenza.

[Tratto da Proletari se voi sapeste , Insurrezione, Varani, 1980]

4 aprile 2010

La Comune di Varsavia del 1944




Qualunque manifestazione autonoma del proletariato (per quanto inquinata da ideologie nazionaliste o democratiche come quella di Varsavia del 1944) suscita contro di sé l’offensiva unitaria del capitale mondiale, al di là dei conflitti stessi che in quel momento ne dividono le componenti. In genere è stata la frazione del capitale storicamente e militarmente perdente ad assumersi i compiti repressivi, benché in questo modo finisse per favorire la completa affermazione del suo concorrente. A sua volta, la frazione del capitale che si apprestava a imporre il proprio dominio ha sempre concesso in queste occasioni tregua e appoggi ai nemici che si accollavano lo sporco lavoro di sterminare migliaia di proletari. Così, nel 1944, quando all’approssimarsi delle armate sovietiche, il proletariato di Varsavia insorge contro la occupazione tedesca, Hitler impegna il meglio delle proprie truppe per annientare la resistenza della città che dovrà ineluttabilmente abbandonare ai Russi poco tempo dopo, mentre Stalin blocca l’avanzata delle forze sovietiche per dare ai nazisti il tempo di completare la loro opera di morte. Ricordando Varsavia con la pubblicazione di questo articolo apparso anonimo su "Battaglia Comunista" nel 1953-54, non vogliamo solo diffondere un documento sulla politica internazionale dello stalinismo, la cui tradizione e la cui pratica sono tuttora ben vive nei partiti e nei gruppi della sinistra. Vogliamo anche ricordare quale può essere il ruolo del Pci e dei suoi sgherri gruppuscolari nei confronti del movimento rivoluzionario esistente oggi in Italia: quello di nemici implacabili, del tutto incuranti di aprire la strada ad altre forze ed ideologie del capitale, ed anzi tanto più zelanti nel soddisfare le proprie brame repressive, quanto più si avvicini, per loro stessi, il giorno della sconfitta e dell’emarginazione. [Nota redazionale di "Insurrezione", 1977]

* * *

La quarta spartizione della Polonia (le precedenti avvennero ad opera della Russia, Austria e Prussia rispettivamente il 5 agosto del 1772, 4 aprile 1773, 24 ottobre 1795) fu sanzionata dalla Germania Hitleriana e dalla Russia stalinista col patto di non aggressione russo-tedesco del 23 agosto 1939. Operando di conserva con le armate naziste già padrone di metà del territorio polacco, le truppe sovietiche attaccarono ed invasero dall’est la Polonia il 17 settembre 1939.
La spartizione diventava così un fatto storico. Applicando altre clausole segrete del patto Molotov-Ribbentrop le truppe russe occuparono altresì la Bucovina, la Bessarabia, gli stati baltici. Il patto russo-tedesco che la storiografia aulica del Cremlino ha tentato, a partire dal giugno 1941, di presentare come un espediente machiavellico adoperato per guadagnare tempo, non fu limitato alla sistemazione territoriale della preda di guerra. In base ad esso furono concordati gli accordi commerciali, per cui la Russia fornì alla Germania forti quantitativi di petrolio, carbone, cotone grezzo e minerali necessari all’alimentazione della produzione di guerra nazista. Francia, Belgio, Olanda, Norvegia, Iugoslavia e Grecia, successivamente piegate e sommerse dall’invasione nazista, lo furono anche per gli aiuti materiali offerti dalla Russia al governo di Hitler. Ben vero è che oggi il governo di Mosca si presenta come il governo protettore paterno dell’indipendenza di queste nazioni contro l’imperialismo americano, ed ogni volta che al parlamento Francese è di scena il riarmo tedesco nell’ambito della Ced, stalinisti e gollisti reclamano la rimessa in valore del patto franco-russo, firmato al Cremlino dal generale De Gaulle e da Bidault nel natale del 1944. Ma il fatto inoppugnabile resta: dal settembre 1939 al giugno del 1941, la coalizione Germania-Russia concordemente si spartì l’Europa, riservando solo a se stesso il diritto alla indipendenza nazionale. Di questo avviso non furono le borghesie nazionali spodestate e le nazionalità proscritte e oppresse dagli invasori.
La reazione all’occupazione doveva effettuarsi però nelle forme e nei modi tipici della classe borghese, imposti dalle esigenze della dominazione di classe. Da una parte si lavorò a costituire governi di paglia, i cosiddetti governi "Quisling", volontariamente assoggettati al volere delle autorità militari occupanti; dall’altra si utilizzò scaltramente la disperazione e la rivolta degli strati inferiori delle popolazioni, delle classi lavoratrici affamate e dissanguate da una guerra feroce, ai fini della resistenza nazionale e nazionalista contro gli invasori. Le borghesie, calcolando che una pace dettata dalla coalizione russo-tedesca era un’eventualità improbabile, per cui urgeva predisporre le condizioni per un loro futuro inserimento nella opposta coalizione Stati Uniti-Impero britannico, impiantarono audacemente un pericoloso doppio gioco; ma si guardarono bene dall’addossarsi il ruolo più pesante e sanguinoso che fu addossato alle classi lavoratrici, intrappolate nelle insidie pseudopopolari del partigianesimo. La repressione delle potenze occupanti si disfrenò con micidiale spietatezza. Alleati nella guerra, soci nello sfruttamento economico delle terre occupate, Germania e Russia, ad onta delle pretese differenze ideologiche, condussero con altrettanta concordia la repressione della resistenza nazionale polacca, ed in seguito schiacciarono l’insurrezione proletaria di Varsavia.
Se gli Stati Maggiori russo e tedesco avevano, nel settembre del 1939, proceduto ad occupare e spartirsi la Polonia, secondo un piano preordinato, le polizie di stato non funzionarono con minore accordo. Nel marzo del 1940, funzionari della Gestapo (la famigerata polizia politica nazista, che in seguito Mosca doveva accusare dei peggiori delitti e fare severamente giudicare al processo di Norimberga) si incontrarono con una delegazione della Nkvd (la polizia speciale di Beria) per concordare un piano di repressione comune diretto a schiacciare le organizzazioni clandestine polacche. Gli staliniani che dopo la rottura del patto russo-tedesco dovevano creare attorno a se stessi una meravigliosa mitologia partigiana, stettero assolutamente tranquilli durante l’occupazione russo-tedesca della Polonia. Un libro sulla resistenza polacca recentemente apparso, L’historie d’une armée secrete di Bor-Komorowsky, ci fa conoscere che su 168 pubblicazioni antinaziste in Polonia, solo nel novembre 1941, cioè a cinque mesi dallo scoppio della guerra tra gli ex alleati Russia Germania e a 20 mesi dall’occupazione tedesca, apparve un foglietto clandestino staliniano. Lo scrittore del libro, un polacco rifugiato in Francia, deve essere nelle grazie dei ministeri degli esteri occidentali, ma ciò non toglie che quanto dice sull’atteggiamento degli staliniani polacchi all’epoca della occupazione russa della Polonia corrisponde alla verità. Accettando l’occupazione russa della Polonia orientale, gli staliniani non potevano opporsi all’annessione della parte occidentale di essa che i tedeschi avevano effettuato d’accordo con i russi. I risultati della collaborazione tra Gestapo e Nkvd, si videro nella cruenta campagna antisemita, che culminò nella distruzione del ghetto (quartiere ebraico) di Varsavia, commessa dai nazisti, e nel massacro di Katyn, che costò la vita a migliaia di ufficiali polacchi che i gendarmi del Nkvd soppressero in una colossale esecuzione di massa. Ognuno nella sua zona di occupazione, e in vista di un obbiettivo comune, gli occupanti russi e tedeschi provvidero a sbarazzarsi del nemico interno, l’ebraismo e il nazionalismo militarista polacco. Nel 1944, nonostante lo stato di guerra, gli ex alleati dovevano condurre al di sopra del fronte, una terribile e sanguinosa operazione di polizia contro la Comune di Varsavia insorta contro l’occupante tedesco, ripetendo così i nefasti della politica dei prussiani e francesi, federati contro la Comune di Parigi, nel 1871, nonostante l’armistizio, nonostante la vergogna di Sedan.
Il Cremlino, fin dall’aprile del 1943, allor quando il governo nazista denunciò il ritrovamento di migliaia di cadaveri di ufficiali polacchi nelle fosse comuni scoperte nella foresta di Katyn, situata nella Polonia orientale occupata dai russi fino al giugno del 1941, ed accusò la Nkvd di aver perpetrato il massacro orrendo, fin d’allora il Cremlino rispose furiosamente respingendo la tremenda accusa. Ma come può negare la soppressione in massa degli ebrei che, almeno nei primi tempi, fu operata con la tacita complicità delle autorità militari russe, dalla Gestapo tedesca? A quell’epoca Russia e Germania erano alleate; dominavano insieme sulla Polonia; svolgevano sul piano internazionale una politica comune convergente. Se la strage di Katyn fu uno stomachevole macello di poveri cristi inermi e legati, condotti sull’orlo delle fosse comuni e fattivi precipitare con una pallottola nella nuca, la distruzione del ghetto di Varsavia, che costò la vita di 400.000 ebrei di ambo i sessi e di ogni età, avvenne nel corso di una furibonda lotta nelle strade, nelle cantine e nelle fogne. Fu una guerra atroce tra gendarmi trasformati per rabbia in belve antropofaghe, e combattenti votati per disperazione a un suicidio assetato di vendetta. Il massacro sistematico degli ebrei cominciò sin dall’inizio dell’occupazione germanica. I nazisti procedettero anzitutto ad eliminare le comunità ebraiche delle città meno importanti, trasferendole in massa nei grandi centri abitati. In conseguenza di ciò, all’inizio del 1942, il ghetto di Varsavia conteneva 400.000 persone, uomini donne e bambini che vivevano in spaventose condizioni per la promiscuità e la miseria. Le autorità tedesche concedevano quattro libbre e mezzo di pane a persona per un mese. Si otteneva così di sopprimere per fame migliaia di persone tenendo le armi nei foderi. 130.000 ebrei prelevati nel ghetto di Lublino sparivano nel campo di concentrazione di Belzec, uccisi nelle camere a gas. Durante i mesi di luglio e agosto le stragi continuarono: ebrei condotti nei campi di Belzec, Salilor, Treblinka, ricevevano l’ordine di spogliarsi completamente, venivano introdotti nelle camere a gas, sepolti nelle fosse comuni scavate da mezzi meccanici nel folto delle foreste. Le notizie agghiaccianti delle stragi giungevano nel ghetto di Varsavia facendo conoscere agli abitanti la crudele sorte che li attendeva. Erano presi in trappola: non esisteva altra possibilità tranne quella di scegliere tra la morte nelle camere a gas o l’uccisione in combattimento.
La notte del 19 aprile 1943, una compagnia di Ss penetrò nel ghetto, ma venne accolta da un nutrito fuoco di fucili e di mitragliatrici. Certi di essere uccisi se presi prigionieri, gli ebrei avevano deciso di morire con le armi in pugno. Si difesero con furioso eroismo, sfidando per sette giorni, dal lunedì di Pasqua al sabato, il fuoco micidiale dei cannoni puntati a distanza ravvicinata contro le case del ghetto, gli incendi applicati dai guastatori, le bombe lacrimogene. Alla fine di maggio l’ultima casa fu distrutta, l’ultimo ebreo ucciso.
La propaganda diretta da Mosca ha sollevato in occasione dell’esecuzione dei coniugi Rosemberg, di origine israelita, fieri attacchi al governo americano accusandolo di fomentare l’antisemitismo. L’odio di razza, specie contro i negri, macchia di infamia la borghesia americana. Ma è altrettanto vero che la campagna di sterminio condotta dai nazisti contro gli ebrei polacchi, fu iniziata fin dall’epoca in cui i Russi occupavano in condominio la Polonia, e la Gestapo si consigliava con la Nkvd.
La Santa Alleanza stalino-nazista sperimentata contro gli ebrei e i nazionalisti rivoltosi, doveva ripristinarsi, malgrado lo stato di guerra tra Russia e Germania, contro il proletariato di Varsavia insorto eroicamente contro i carnefici hitleriani. La Comune di Varsavia dell’agosto 1944 rappresentò, nella bestiale carneficina di popoli-armenti che fu la seconda guerra mondiale, l’unico esempio di eroismo collettivo. Infatti non fu lo scontro stritolatore di mostri meccanici trascinatisi dietro moltitudini inebetite e passive che caratterizzò la battaglia degli eserciti; fu l’eroica follia di una lotta di uomini armati di bottiglie incendiarie e di bombe a mano contro le colonne motorizzate e blindate della Werhrmacht, resa furiosa per la vittoriosa offensiva del maresciallo Rokossowskj, le cui truppe avanzanti da giugno su un fronte di 400 chilometri erano giunte il 23 luglio alle porte di Varsavia, nello stesso tempo che gli americani allargavano la testa di ponte in Normandia. Tanto più infame doveva essere il comportamento dei russi, di fronte alla insurrezione proletaria scoppiata dentro Varsavia il 1° agosto, più vergognosa ancora della condotta dei nazisti, i quali potettero annegare nel sangue – e quale sangue! – la rivolta, solo per effetto della decisione del governo di Mosca di bloccare l’avanzata del maresciallo Rokossowskj. Si ha la scellerata associazione dell’epoca degli abboccamenti tra Gestapo e Nkvd. La lotta entro Varsavia assume aspetti terribili. Rivoltosi indossanti uniformi di Ss prelevate in un deposito conquistato, assaltano di sorpresa le truppe naziste, catturano dei mezzi blindati. I tedeschi usano dei carri armati "Tigre", cannoneggiano e incendiano interi quartieri, bruciando vivi gli abitanti, costringono uomini, donne e bambini a scendere nelle cantine e ivi li sterminano a colpi di granate. Ma perdono i depositi della posta centrale, dello stabilimento del gas, della stazione di filtraggio e della principale stazione ferroviaria. Interi quartieri vengono liberati dagli insorti in testa ai quali combatte il proletariato. Si attende l’arrivo dei russi, la ripresa dell’avanzata di Rokossowskj. Ma inspiegabilmente le truppe russe sono ferme. La Bbc da notizia in lingua polacca dell’insurrezione; radio Mosca tace. La Luftwaffe bombarda e mitraglia i quartieri occupati dagli insorti. Non un solo aereo russo compare nel cielo della città. È chiaro che i russi si assunsero il compito di aiutanti del carnefice nazista.
Solo al quarto giorno della rivolta, il 4 agosto, il partito comunista dà ordine ai propri organizzati di partecipare alla rivolta mettendosi agli ordini del generale Bor. Lo stesso giorno i nazisti scatenano un’offensiva, mentre avviene uno scambio concitato di messaggi tra Churchill e Stalin. Il premier inglese, desideroso di sfruttare ai fini della propria politica la sollevazione, invita Stalin ad accorrere in aiuto degli insorti, che ritiene impotenti a fronteggiare le quattro divisioni corazzate tedesche, tra le quali la "Hermann Goering", che difendono Varsavia. L’obbiettivo comune dei capi dei governi inglese e russo consiste nel, ripetiamo, neutralizzare l’insurrezione, utilizzandola ai propri fini imperialistici. Churchill propone ai russi di prenderla sotto tutela, ordinando a Rokossowskj di conquistare Varsavia; Stalin, fedele al principio che i nemico cessa di essere tale solo se morto, ordina a Rokossowskj di bivaccare, lasciando ai nazisti di massacrare i rivoltosi. In Stalin parlava il Bismark dell’epoca della Comune di Parigi.
Chiusa in una trappola gigantesca di cemento e acciaio, la Comune di Varsavia non si arrende. Tradita da coloro che credeva alleati sa trovare tanto eroismo da superare la delusione, nemico più terribile della stessa paura fisica. I tedeschi distruggono uomini e case con ferocia sistematica: attaccando le strade con bombe incendiarie ed esplosive, unendo il bombardamento aereo col fuoco dell’artiglieria. Fatto il deserto, la fanteria avanza irrorando le macerie, crollate sui morti e feriti, con le vampate dei lanciafiamme. Scagliando contro gli stabili gli uebelw, bombe di fosforo ed esplosivo a scoppio multiplo; adoperando per la prima volta i "Goliaths", piccoli carri armati carichi di esplosivo guidati elettricamente. Sono ordigni formidabili, distruggono ogni cosa. Il 10 agosto aerei alleati tentano di paracadutare armi e munizioni agli insorti, ma i tedeschi convergono il fuoco nella zona nettamente individuata dai segnali luminosi a terra, scorrono torrenti di sangue. Il 13 agosto l’agenzia russa "Tass" diffonde un comunicato a cui si addebita agli esuli Polacchi a Londra la responsabilità della rivolta, e si smentisce la notizia circa il collegamento tra partigiani di Varsavia e truppe russe. Ma se fosse vero quanto afferma Mosca, non sarebbe dovere del governo russo alleato di guerra dell’Inghilterra e protettore di un "comitato di liberazione nazionale" costituito di comunisti polacchi, correre in aiuto della rivolta?
Il 17 la Comune entra in agonia. I tedeschi iniziano un infernale offensiva preparandola con cannoneggiamenti di obici da 600 millimetri i cui proiettili pesano una tonnellata e mezzo. Battuti ferocemente dall’artiglieria terrestre, dai carri armati tigre, dai "Goliaths", dagli aerei, gli insorti continuano a lottare. 70.000 uomini della Werhmacht si scagliano contro i quartieri difesi dai comunisti, che hanno con loro donne vecchi e bambini acquattati come bestie nelle cantine, tormentati dalla fame e dalla sete, continuamente minacciati di morire sotto le macerie dei fabbricati sbriciolati dalle bombe. Per tre giorni gli insorti, costretti ad indietreggiare, si rifugiano nelle fogne e nei passaggi sotterranei della città; i tedeschi lanciano nei cunicoli granate e bombe a gas, fucilano sul posto i prigionieri. Fino all’ultimo gli insorti attendevano l’arrivo delle truppe. Invano! Arrivarono tre mesi dopo il massacro. Il 29 settembre i tedeschi sferrarono l’attacco generale contro la rivolta. Il 3 ottobre, dopo 63 giorni di epici combattimenti, gli ultimi difensori della Comune si arrendono ai tedeschi i quali, in riconoscimento dell’eroico comportamento, si impegnano di applicare la convenzione di Ginevra e trattare gli insorti come prigionieri di guerra.
Lo stesso boia è soffocato dal sangue. 150.000 morti giacciono nei quartieri distrutti. Apparentemente il rifiuto del governo di Mosca di portare aiuto agli insorti, può attribuirsi all’interesse nazionalistico di sbarazzarsi delle forze politiche facenti capo al governo polacco in esilio, costituito da profughi polacchi in Londra, notoriamente legati all’imperialismo britannico. La cosiddetta Guerra Fredda scoppiata tra i vincitori del conflitto, e prima ancora i violenti contrasti scoppiati in Polonia tra gli stalinisti e i partiti filo occidentali, parvero comprovare l’ipotesi. Ma il fatto stesso che l’occupazione militare russa della Polonia garantiva il controllo politico degli stalinisti, come la successiva evoluzione storica doveva confermare, sta a dimostrare che Mosca, lasciati intrappolare gli insorti, contava su ben altro scopo. Il governo di Stalin si prefiggeva di salvare di fronte al proletariato internazionale il suo falso prestigio di agente rivoluzionario. La Comune di Varsavia, voluta e difesa dal proletariato rivoluzionario, doveva morire. Evitando di sporcarsi le mani, il governo russo passava l’infame compito all’esercito nazista. La fine gloriosa della Comune di Varsavia è una prova sanguinosa del gesuitismo politico del governo di Mosca, un’accusa provata del compito controrivoluzionario dello stalinismo mondiale. Essa sta a dimostrare che dovunque il proletariato dichiarerà e combatterà nell’avvenire la guerra civile rivoluzionaria contro il capitalismo, si troverà alle spalle, come a Varsavia nell’estate del 1944, o di fronte, come a Berlino nel 1953, i gendarmi stalinisti della controrivoluzione. Ma la resa dei conti verrà. Allora lo stalinismo dovrà pagare anche i centocinquantamila caduti della Comune di Varsavia.

3 aprile 2010

Dresda 1945. La carneficina democratica del proletariato tedesco

“Sul filo rosso del tempo”, novembre 2008


Ricorre questo mese [febbraio] l'anniversario dell'atroce massacro e bombardamento della città di Dresda, nel 1945, quando le sorti della Seconda guerra mondiale erano ormai ampiamente segnate. Come ogni anno, in quest'ultimo decennio, alla data dell' inutile carneficina ad opera delle potenze democratiche, passata sotto il nome di Operazione Vinegrove, si assiste a Dresda allo scontro tra neonazisti pronti a una marcia funebre per commemorare i caduti, ed antifascisti che non vogliono dar voce agli immondi eredi del nazismo. L'uno e l'altro sono parodie delle forze della borghesia e del capitale.
Non ci interessa chi sia stato tra le potenze in lizza nella Seconda guerra mondiale il "più cattivo"; ma il bombardamento di Dresda, come pure le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, la dice lunga sulla "superiorità morale" delle potenze democratiche rispetto al nazi-fascismo.
In occasione di questo anniversario riproduciamo un breve scritto apparso nel numero di novembre 2008 di “Sul filo rosso del tempo”, rivista pubblicata dai compagni di Schio del Partito comunista internazionale. [Tratto da “Avanti Barbari!”]

* * *

Il bombardamento anglo-americano di Dresda del 13-15 Febbraio 1945 fu un premeditato e scientificamente programmato massacro di “civili”, ossia di proletari, concentratisi in gran numero in una città ritenuta sicura perché priva di obiettivi militari. Che Dresda sia stata letteralmente rasa al suolo lo sanno anche i sassi. Che la città, nel momento in cui fu bombardata dopo l’arrivo dei profughi, ospitasse circa 1 milione di persone (630.000 abitanti più 400.000 profughi), anche. Adesso una commissione di illustri studiosi ed esperti tedeschi vorrebbe farci credere che ci siano stati 18.000 morti o poco più, anziché i 250.000 che erano stati sinora attribuiti agli effetti del bombardamento. C’è da restare allibiti di fronte alla spudoratezza delle classi dominanti. Neanche a un bambino che crede a Babbo Natale si potrebbe dare a bere la favola secondo cui in una città di 1 milione di abitanti, completamente distrutta da un’inesorabile tempesta di fuoco, 98 abitanti su 100 sarebbero rimasti vivi!
Il motivo di una menzogna così grossolana è palese: seppellire in vista del nuovo macello imperialista che si va preparando, assieme ai morti liquefatti dal calore a 1000 gradi, anche il ricordo della criminalità congenita del capitalismo, che si manifesta senza ritegno nella guerra moderna; una criminalità che a Dresda meglio che altrove ha svelato il suo osceno segreto: non si distruggono vite umane per vincere la guerra, ma si fa la guerra per distruggere quelle vite umane senza alcun pregio che si classificano come forza-lavoro eccedente.
Forse qualcuno si stupirà del fatto che la menzogna sia “made in Germany” e non “made in USA”. Nel clima tricolorato che i fiancheggiatori della banda Berlusconi hanno apparecchiato, con l’ausilio dell’opposizione costruttiva e premurosa degli ex stalinisti in doppiopetto, tutto può accadere. Dall’obbligo di cantare l’inno di Mameli nelle scuole alla presunzione idiota secondo cui le classi dominanti nazionali si dovrebbero sentire in dovere di rispettare i “loro” proletari, il passo è breve. Non agli odierni Mameli in formato venditore di aspirapolveri o presidente di cineforum rionale, ma ai proletari che li stanno ad ascoltare ricorderemo allora che è dal 1871 che abbiamo messo alla gogna il nazionalismo borghese; che è dal 1871 che le borghesie nazionali si sono confederate tra loro per meglio stritolare e massacrare la classe operaia tutte le volte che è necessario; e quindi che alla borghesia tedesca nulla importa che quelle cataste di cadaveri al fosforo, ridotti a un metro di altezza, fossero fatte di cadaveri tedeschi: importa solo che fossero cadaveri proletari, e che in quanto tali erano allora da mettere in mucchio e sono oggi da dimenticare, allo scopo di poterne produrre con la stessa facilità altre cataste nella guerra mondiale che si preannuncia.
Noi ci stupiamo invece del fatto che molti, che pure hanno orecchiato il marxismo, stentino a orientarsi. I borghesi si fermano davanti all’enigma di un bombardamento di straordinaria intensità su una città del tutto priva di obiettivi militari, balbettando che lo scopo sarebbe stato quello di mostrare a Stalin i muscoli anglo-americani; ovvero quello di stroncare il morale della popolazione tedesca, ancora solidale con un regime in disfacimento. È normale che i borghesi siano portati a raccontare frottole. Ma qui sentiamo anche dei “rivoluzionari” che balbettano. Raccontano anche loro che l’attacco sarebbe stato messo in cantiere – alla vigilia della conferenza di Yalta – per spaventare l’URSS. Ma raccontano anche altre frottole; e cioè che gli anglo-americani volevano mettere in ginocchio il proletariato tedesco, preoccupati che i lavoratori d’Europa scendessero in lotta per regolare i conti col nazi-fascismo in profondità, attaccandolo alle radici e compiendo il miracolo di trasformare la lotta antifascista in lotta anticapitalista. Immaginare che il proletariato, nel corso della Seconda guerra mondiale, avesse la possibilità di tornare alla tradizione spezzata della lotta di classe può essere confortante.
Ma i rivoluzionari hanno il dovere di guardare in faccia la realtà: il fatto che gli operai fossero intruppati nell’antifascismo democratico, sta a significare che ogni soluzione rivoluzionaria della crisi bellica era irrimediabilmente preclusa. Anche se scioperi operai ve ne furono, insieme a diserzioni e ammutinamenti di truppe – addirittura episodi di fraternizzazione – si trattò, per l’appunto di episodi, che non valsero certo a spezzare la cappa di piombo nell’attesa della liberazione da parte delle truppe di Mosca. C’è poi una seconda considerazione, non meno importante: se veramente nel 1945 fosse serpeggiata in Europa la minaccia di una rivoluzione proletaria, la borghesia avrebbe posto mano a ben altri rimedi: invece di gettare bombe al fosforo sul fuoco che covava nelle viscere del Vecchio Continente, col rischio di far divampare l’incendio che voleva spegnere, avrebbe prima di tutto arrestato il macello bellico ancora in corso e poi avrebbe tentato di calmare la “belva assetata di sangue” col solito suppostone socialdemocratico per accopparla in tempo differito. La lezione che i sedicenti “rivoluzionari” traggono dalla storia è disfattista e pacifista: se il proletariato fosse stato davvero in procinto di risollevare la testa, il bombardamento di Dresda non sarebbe mai avvenuto!
Il riarmo materiale e morale della classe operaia, cari “rivoluzionari”, non aizza la borghesia al massacro, ma la paralizza, almeno momentaneamente. Non inasprisce la crisi bellica e non provoca diluvi di ferro e di fuoco su chi osa ribellarsi alla dittatura del Capitale, ma arresta la guerra e previene le carneficine e le ecatombi. È stato il disarmo del proletariato, viceversa, che ha reso possibile il dispiegamento della guerra imperialista fino in fondo e, quindi, il consumarsi fino in fondo della distruzione del lavoro vivo e del lavoro morto che la ripresa del ciclo di accumulazione richiedeva, lungo un cammino del Golgota passato attraverso Dresda, Hiroshima e Nagasaki.