Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

* * *

«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

* * *

«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

16 ottobre 2010

Lotte di classe in Francia...

Ottobre 2010


Il «problema» delle pensioni è una grande truffa, volta a farci ingoiare misure il cui obiettivo è affatto semplice: farci sgobbare di più, più a lungo, e pagarci di meno... per meglio riempire le tasche dei padroni. Reagire è naturale...

Non si tratta di difendere un sistema pensionistico marcio, o di salvaguardare pretese «conquiste» che ci costringono a lavorare 40 anni, con la sola speranza di potere, alla fine, crepare in santa pace: sprecare la vita a guadagnarsi da vivere. Si tratta di difendersi contro questa nuova offensiva dello Stato e dei capitalisti.

Da che mondo è mondo, la migliore difesa è l'attacco; dunque, riprendiamo il controllo dei nostri interessi!

Scavalchiamo i cani da guardia! Basta coi sindacati, che cercano di controllare il movimento a forza di manifestazioni straccione e pallose, per apparire responsabili e seri, e andare poi negoziare le briciole coi ministri! Basta coi partiti, che pensano soltanto alle loro elezioni e che, se fossero al governo, attuerebbero le stesse riforme!

Reagiamo!
Non seguiamo più le regole del loro gioco!

Lo sciopero è un'arma a nostra disposizione per bloccare l'economia e colpire i nostri nemici là dove fa più male: nel portafoglio.

Lo sciopero non libera solo tempo, ma anche cervelli; per riflettere, discutere, organizzarsi e agire collettivamente, al di là delle categorie professionali: comitati di sciopero, Assemblee Generali interprofessionali, Assemblee Generali di lotta, comitati di quartiere, gruppi di affinità, azioni dirette, picchettaggi, occupazioni, e tutto ciò che si può immaginare per uscire dal quadro sclerotizzato che ci viene imposto.

A noi, il compito di passare all'offensiva e di essere incontrollabili!
È questo che fa paura al potere.
È questo che può farlo vacillare.

Per un movimento reale che abolisca lo stato di cose presente, rompiamo gli argini!

Lavoratori, disoccupati, studenti, liceali...

CONTRO LO STATO, I PADRONI, I PARTITI, I SINDACATI!

TUTTI IN PIAZZA!

La lotta è classe contro classe!
Scioperi, picchetti e tutto ciò che è necessario...


[Dal sito Des Nouvelles Du Front; trad. it. Lmjf]




11 ottobre 2010

A tutti i lavoratori che salgono sui tetti...

N+1 (2010)


Cari lavoratori dell'***,

abbiamo ricevuto il vostro appello [...], al quale aderiamo inoltrandolo ai quasi 3.000 abbonati della nostra newsletter. Ma la totale solidarietà non ci deve impedire di dirvi, fraternamente, che il problema dei licenziati, dei precari, dei cassintegrati e dei disoccupati non è una questione di visibilità mediatica.

Anche nostri compagni si sono trovati a dover lottare per il posto di lavoro in situazioni difficili e l'hanno fatto ricorrendo ai mezzi e ai modi che c'erano, cercando sempre di unirsi ai lavoratori di altre situazioni (con coordinamenti ecc.). Ma hanno sempre sottolineato che la terribile parola d'ordine con cui siamo chiamati a salire sui tetti o a incatenarci, quella del "diritto al lavoro", non è che la triste liturgia di una Religione del Lavoro, quindi del Capitale.

La richiesta classica della nostra classe è sempre stata: drastica riduzione della giornata lavorativa, salario ai disoccupati.

Più una società è capitalisticamente matura, più libera forza-lavoro rendendola superflua. Non si può tornare a sfasciare le macchine come due secoli fa e sarebbe micidiale per noi anche solo immaginare una "guerra tra poveri" che contrapponga il nostro "diritto" a quello di lavoratori di altri paesi, qui o in Cina o altrove. La rivendicazione del "diritto al lavoro" non fa altro che castrare l'istinto di classe per spostare il problema dall'uso della forza alle diatribe avvocatesche intorno a un tavolino e di conseguenza alla disperazione dei gesti "mediatici".

In Italia ci sono ormai circa 10-11 milioni di lavoratori precari, sommersi o comunque "atipici" (calcolo di Luciano Gallino), più milioni di senza-lavoro, specialmente giovani. Si sta introducendo una nuova forma di schiavitù, alla quale non si può rispondere solo con arrampicate sui tetti o incatenamenti davanti alle telecamere.

Piuttosto di incatenarci dovremmo spezzare delle catene, prima di tutto quelle che impediscono di unirci obbligandoci a lottare isolati, ognuno nel proprio posto di lavoro (quando c'è ancora), senza la possibilità di mettere in campo la nostra forza, l'unico linguaggio che i nostri avversari capiscono.

Decine di lavoratori, non solo in Italia, si tolgono la vita a causa dei licenziamenti e delle tensioni sul posto di lavoro. I nostri compagni di classe di un secolo fa non facevano violenza a sé stessi, cercavano di farla all'avversario. Lottavano durissimamente e orgogliosamente contro il lavoro, chiedendo una riduzione della giornata lavorativa. Infatti il Primo Maggio scendiamo ancora oggi in piazza per ricordare gli operai che nel 1886, a Chicago, lottavano per quell'obiettivo. Facciamo in modo che non siano stati fucilati e impiccati invano.

Stanno serpeggiando battaglie alla base del sindacato anche contro i finti schieramenti di "sinistra"al suo interno. Stanno nascendo ovunque coordinamenti di lavoratori decisi, che non ne possono più di farsi rubare la vita. Dove ci siamo partecipiamo. Non possiamo sapere in anticipo quale sarà la soluzione, ma è certo che così sparpagliati non otterremo niente e naturalmente c'è troppa gente che ha tutto l'interesse a farci salire sui tetti a dieci per volta invece che permetterci di scendere in piazza a milioni.

I compagni di N+1,
23 febbraio 2010

10 ottobre 2010

La vie s'écoule

di Raoul Vaneigem (1961)



[Questa canzone, scritta dal situazionista Raoul Vaneigem, fu eseguita probabilmente per la prima volta da alcuni operai belgi, durante i grandi scioperi del 1961.]

La vie s'écoule, la vie s'enfuit
Les jours défilent au pas de l'ennui
Parti des rouges, parti des gris
Nos révolutions sont trahies

Le travail tue, le travail paie
Le temps s'achète au supermarché
Le temps payé ne revient plus
La jeunesse meurt de temps perdu

Les yeux faits pour l'amour d'aimer
Sont le reflet d'un monde d'objets
Sans rêve et sans réalité
Aux images nous sommes condamnés

Les fusillés, les affamés
Viennent vers nous du fond du passé
Rien n'a changé mais tout commence
Et va mûrir dans la violence

Brûlez, repaires de curés
Nids de marchands, de policiers
Au vent qui sème la tempête
Se récoltent les jours de fête

Les fusils sur nous dirigés
Contre les chefs vont se retourner
Plus de dirigeants, plus d'État
Pour profiter de nos combats

* * *

La vita scorre, la vita fugge / I giorni sfilano al passo della noia / Partito dei rossi, partito dei grigi / Le nostre rivoluzioni sono tradite // Il lavoro uccide, il lavoro paga / Il tempo si compra al supermercato. / Il tempo pagato non torna più / La giovinezza muore del tempo perduto // Gli occhi fatti per l'amore d'amare / Sono il riflesso d'un mondo d'oggetti. / Senza sogno, né realtà / Alle immagini siam condannati. // I fucilati, gli affamati / Ci vengono incontro dal fondo del passato. / Niente è cambiato, ma tutto comincia / E maturerà nella violenza. // Bruciate, covi di preti, / Nidi di mercanti e poliziotti. / Al vento che semina tempesta / Si mietono i giorni di festa. // I fucili puntati su di noi / saranno rivolti contro chi comanda / Niente più Stato né dirigenti /Ad approfittare delle nostre lotte.

Chanson du CMDO

Una canzone del Maggio francese (1968)


Chansons du CMDO
Alice Becker-Ho / Louis Aragon-Jacques Douai,
Mai 1968)

Rue Gay-Lussac, les rebelles
N'ont qu'les voitures à brûler.
Que vouliez vous donc, la belle,
Qu'est ce donc que vous vouliez ?

Refrain:
Des canons par centaines,
Des fusils par milliers,
Des canons, des fusils,
Par centaines et par milliers

Dites moi comment s'appelle
Ce jeu-là que vous jouiez ?
La règle en parait nouvelle,
Quel jeu, quel jeu singulier !

Refrain

La révolution, la belle,
Est le jeu que vous disiez.
Elle se joue dans les ruelles,
Elle se joue grâce aux pavés.

Refrain

Le vieux monde et ses séquelles,
Nous voulons les balayer.
Il s'agit d'être cruel,
Mort aux flics et aux curés.

Refrain

Ils nous lancent comme grêle
Grenades et gaz chlorés;
Nous ne trouvons que des pelles,
Des couteaux pour nous armer.

Refrain

Mes pauvres enfants dit-elle,
Mes jolis barricadiers,
Mon coeur, mon coeur en chancelle
Je n'ai rien à vous donner.

Refrain

Si j'ai foi dans ma querelle
Je n'crains pas les policiers.
Il faut qu'elle devienne celle
Des camarades ouvriers.

Refrain

Le Gaullisme est un bordel,
Personne n'en peut plus douter.
Les bureaucrat's aux poubelles,
Sans eux on aurait gagné.

Refrain

Rue Gay-Lussac, les rebelles
N'ont qu'les voitures à brûler.
Que vouliez vous donc, la belle,
Qu'est ce donc que vous vouliez ?

Refrain

* * *

Rue Gay-Lussac, i ribelli / hanno solo le automobili da bruciare. / Che volevate dunque, mia bella, / che cosa volevate? / [Rit:] Dei cannoni a centinaia, / dei fucili a migliaia, / dei cannoni, dei fucili / a centinaia, a migliaia. / Ditemi, come si chiama / il gioco al quale giocavate? / La regola sembra nuova, / che gioco singolare! / La rivoluzione, mia bella, / è il gioco che dite. / Si gioca nei vicoli / si gioca col pavé. / Il vecchio mondo e la sua cricca, / li vogliam spazzare via. / Si tratta d'essere crudeli, / morte agli sbirri e ai preti. / Piovono, come grandine / granate e gas clorato; / abbiamo solo pale / e coltelli di cui armarci. / Miei poveri bambini, dice, / miei bei barricadieri, / il mio cuore soffre, / non ho nulla da darvi. / Se ho fiducia nel mio “partito” / non temo i poliziotti. / Bisogna che diventi la fiducia / dei compagni operai. / Il gollismo è un bordello, / nessuno può più dubitarne. / I burocrati negli immondezzai, / senza di loro avremmo vinto. / Rue Gay-Lussac, i ribelli / hanno solo le automobili da bruciare. / Che volevate dunque, mia bella, / che cosa volevate?

7 ottobre 2010

Ma chi ha detto che non c'è...










Evviva i teppisti della guerra di classe!

Abbasso gli adoratori dell'ordine costituito!

«Il programma comunista» (1962)


[A proposito dei fatti di Piazza Statuto, Torino, 7-9 luglio 1962]

Non è mai avvenuto, nella storia del movimento operaio, nemmeno nei periodi di più vile opportunismo di partiti e sindacati, che gli operai che insorgono contro le sopraffazioni del capitale e dei suoi lacchè, e che, ricorrendo all'arma dello sciopero, non dimenticano che questo è appunto un'arma, un'arma di guerra sociale, fossero bollati come "teppisti" e come "provocatori" da quelli che sconciamente pretendono di rappresentarli.

I peggiori riformisti potevano deplorare gli "eccessi" ai quali, secondo loro, gli scioperanti si abbandonavano; ma era prassi corrente, alla quale essi stessi si inchinavano, che lo sciopero fosse non già l'innocua manifestazione aziendale, simile a una festa di parrocchia, alla quale oggi lo si vorrebbe ridurre, ma una franca e decisa battaglia dilagante dalle fabbriche nelle vie e nelle piazze; mentre per i comunisti che portavano questo nome non per forza di inerzia storica ma per milizia vissuta, il dilagare dello sciopero dai limiti aziendali e il suo scontrarsi come episodio della guerra di classe nelle forze dell'ordine, non solo era scontato, ma salutato con entusiasmo come un fatto sociale fecondo, perché spezzava le barriere delle convenzioni e delle gerarchie stabilite, e poneva anche la più modesta battaglia rivendicativa al centro di un più vasto gioco di azioni e reazioni sociali, in cui non una singola categoria operaia ma l'insieme dei proletari erano inevitabilmente travolti e recitavano, volenti o nolenti, il ruolo di protagonisti, scrollando dal sonno i dormienti, abbattendo i confini fra settore e settore, opponendo in forma netta e irrevocabile classe contro classe.

Era il risveglio della "santa canaglia", e canaglia era un titolo onorifico, così come oggi teppismo è un titolo di disprezzo; e i combattenti oscuri di queste battaglie aperte erano esaltati e contrapposti al marciume dei crumiri e dei "lavoratori in colletto duro", così come oggi si pretenderebbe che i proletari fossero tutti in colletto duro, crumiri anche quando scioperano, per distinguersi dalla "teppa" dei veri, autentici scioperanti.

Torino proletaria, che i partiti del più sconcio tradimento si sono precipitati a battezzare "teppista", con un servilismo di fronte al quale i vecchi arnesi del riformismo diventano rispettabili, ha fatto né più né meno quello che una tradizione non imbelle insegnava: ridestatasi dal lungo sonno del paternalismo vallettiano e del costituzionalismo e legalitarismo sindacale e politico dei partiti della convivenza pacifica, della democrazia, e imboccata la via dello sciopero, essa è balzata d'un salto – come già negli episodi della Lancia e della Michelin – al disopra di un trentennio di pacifismo sociale, ha ridato sangue e vita al motto marxista che lo sciopero è la "scuola di guerra" del proletariato, non una festa patronale o una celebrazione patriottica.

Violenza? Certo: non era stata violenza la firma, da parte di due sconce organizzazioni cosiddette operaie, di un contratto separato forcaiolo? Non è e non continua ad essere violenza lo sfruttamento al quale sono sottoposte le masse che affluiscono nel grande centro industriale dalle campagne e dal Sud, tallonate da una miseria che lo stamburamento degli "aiuti alle aree depresse" e delle Casse del Mezzogiorno rende ancora più amara, per un salario miserabile e duramente sudato, da consumare nelle bidonvilles del neo-capitalismo, fra il disprezzo venato di razzismo dei borghesi locali (torinesi o milanesi) "evoluti" e degli incipriati figli di papà?

È vano il tentativo, nel quale la stampa e i partiti della costellazione democratica si lanciano concordi, di separare come due fatti diversi e contrastanti lo sciopero della Fiat e gli "incidenti" di Piazza Statuto: il primo sedicentemente pacifico, rispettoso della legalità, in frac e sparato bianco, manifestazione di "coscienza democratica" e di rispetto della legge; il secondo sconciamente piazzaiolo (secondo la versione ufficiale proclamata da tutti) e teppista. I proletari torinesi – è il loro vanto – si sono mossi dal primo fino all'ultimo momento su un terreno di guerra di classe, davanti alla fabbrica e fuori: lungi dal mendicare il riconoscimento del "diritto di sciopero", se lo sono preso, questo diritto, con la forza, e lo hanno affermato come dovere! I cronisti, arrivati buoni ultimi e d'altronde consapevoli delle leggi del mestiere, si sono sbizzarriti a dipingere i fatti di piazza Statuto: nessuno ha descritto l'atmosfera di tempesta davanti ai cancelli della Fiat; nessuno ha parlato degli operai di altre fabbriche che accorrevano per una solidarietà istintiva non solo ad aiutare i fratelli finalmente in lotta, non solo a rincuorarli, ma a premere perché entrassero in lotta e poi non mollassero, né dello schieramento dei proletari decisi a picchettare gli stabilimenti gettando intorno ad essi una rete di corpi umani attraverso la quale nessun "colletto duro" potesse filtrare; nessuno ha fotografato l'immagine in carne ed ossa della divisione della società in classi inconciliabili, nei viali alberati del paradiso neo-capitalistico di Valletta, una marea di proletari coi pugni serrati da una parte, le forze d'ordine e i pompieri sindacali, gli uni e le altre impotenti, dall'altra.

Non c'era il "dialogo", non c'era la "pacifica discussione di problemi di categoria", c'era battaglia, muta ed imperiosa. Non c'era divisione fra proletari "interessati alla vertenza" ed "estranei": erano proletari senza etichetta di dipendenza da nessun padrone, con la sola e gloriosa qualifica di sfruttati in lotta aperta contro gli sfruttatori. Per la morale e la convenzione borghese erano, certo, dei teppisti: chi si rifiuta di subire servilmente i soprusi di una società che è una provocazione continua è, per definizione, il rappresentante della feccia. Per noi, alla Mirafiori o alla Lingotto come a Piazza Statuto, erano la santa canaglia. Sorprese, disorientate, le forze dell'ordine si affidavano ai buoni uffici dei pompieri e dei conciliatori, quelli che per somma ironia si chiamano gli "attivisti" del PCI, del PSI, della CGIL, della CISL: sembrava loro che tutto dovesse finire lì, sul posto e in una rapida sfuriata, certo deplorevole ma inevitabile e forse salutare, come un febbrone che prelude al ritorno della normalità fisica e psichica.

Non fu così. La furia dilagò nelle strade e nelle piazze e, com'era nella sua logica di fatto sociale creativo, trascinò con sé i proletari di tutte le categorie, gli sfruttati di tutte le denominazioni, gli schiavi del miracolo economico, i beffati e gli irrisi della convivenza pacifica. Per un'inconsapevole ironia, essi si concentrarono in Piazza dello Statuto: certo involontariamente, scelsero a teatro della loro collera un "campo di battaglia" intitolato alla prima costituzione borghese italiana, madre della più recente, quella che essi avrebbero dovuto e dovrebbero rispettare con affetto filiale, secondo le direttive della CGIL, con "unità e disciplina democratica" (comunicato della Camera confederale del 7 luglio, dopo gli avvenimenti). E qui, a sentire la stampa borghese, sarebbe avvenuto qualcosa come l'apocalissi, il giorno del giudizio, il diluvio universale.

Santa ipocrisia borghese! I popolani delle Cinque Giornate milanesi sradicarono ben altro che cubetti di porfido e gli equivalenti di allora dei paletti segnaletici di oggi, infransero ben altro che vetri e cristalli, usarono ben altro che temperini o bastoni; fecero le barricate: per l'ideologia corrente, trattandosi di una battaglia risoltasi a favore della nazione e della nascente borghesia italiana, furono degli eroi. I proletari torinesi che si battevano contro il nemico nazionale di classe sono dei teppisti; essi che – troppo miti, troppo generosi – non tentarono nemmeno di erigere una barricata. Nel '48 nazionale e borghese la "teppa" è salutata, blandita e coccolata, fin che fa comodo e salvo le successive repressioni: nel '62 proletario diviene, logicamente, il mostro che leva la sua testa immonda!

E giù fiumi di retorica scandalizzata. "I più non erano metallurgici": come se i proletari non metallurgici non soffrissero sotto lo stesso giogo degli altri! "La manifestazione doveva essere semplicemente sindacale": come se esistesse lotta sindacale che non fosse lotta politica! "C'erano in mezzo dei pregiudicati": come se l'enorme maggioranza degli sfruttati non avesse conosciuto la giustizia almeno per... un furto di gallina, e come se l'enorme maggioranza degli agghindati osservatori borghesi avesse la fedina pulita o almeno (poiché la fedina è elastica come la giustizia di classe) la coscienza netta! "Erano giovani": come se non toccasse appunto ai giovani di dare ai vecchi le braccia muscolose e il cuore intatto, ch'essi più non hanno! Sotto sotto, corre pure una vena sprezzante di razzismo nuovo modello: "i soliti terroni"; figurarsi, non sanno nemmeno fare la loro firma e al processo è tanto se mostrano di sapere il loro nome e luogo di nascita, come chi dicesse "i soliti negri", che poi nella stampa "d'alto livello" diventano gli incolti, gli ineducati, quelli che non hanno avuto la fortuna di andare a scuola, i non ancora castrati dalla cultura ufficiale e dal galateo, gli uomini dalla fronte bassa e dal coltello a serramanico.

Dopo la retorica, i processi per direttissima e le condanne di proletari che non solo i cosiddetti rappresentanti operai non hanno difeso, ma hanno ignobilmente sconfessato.

Erano, ecco tutto, dei proletari autentici, dei senza riserve. Chi li aveva "organizzati"? Si erano organizzati da sé. La "coscienza borghese" non potrà ammettere mai che gli incolti, i diseredati, gli straccioni, sappiano difendersi e sappiano attaccare con una loro strategia istintiva, fatta di una solidarietà che lo stesso sistema di produzione borghese, contro voglia e contro ogni suo desiderio, crea e cementa in loro: non possono accettare l'idea che come per un improvviso fenomeno di liberazione di una forza compressa che trova la sua strada per erompere, quel fenomeno sul quale i grandi militanti rivoluzionari – i Lenin, i Trotskij, la Luxemburg – costruirono non soltanto gigantesche teorie; quell' "assalto al cielo" che Marx esaltò e che è la grande forza della storia e, che è la stessa cosa, della rivoluzione. I proletari scoprano dentro di sé quelle risorse incorrotte di combattività organizzata, di solidarismo istintivo, di abilità e perfino di astuzia nel dirigersi, che hanno sempre fatto la croce delle classi dirigenti e che sono sempre stata la grande forza, la sola forza, degli oppressi, sotto qualunque regime di classe. Per i borghesi, i proletari possono soltanto muoversi come un gregge: se il loro movimento ubbidisce a una logica, a un metodo, perfino ad una strategia, bisogna che ci sia in mezzo a loro qualcuno, e il "qualcuno" per gli idealisti borghesi può essere soltanto l'organizzatore uscito dalle scuole di partito, il provocatore formatosi all'alta accademia della polizia, magari il gesuita travestito. Chi aveva "organizzato", per restare negli esempi della storia borghese, i popolani e le popolane del 14 luglio francese? Chi – per passare agli esempi nostri – aveva organizzato i proletari del quartiere di Vyborg o di Cronstadt nel 1905 e nel febbraio 1917? O la gloriosa canaglia della Comune parigina o berlinese?

Nessuno li aveva organizzati: appunto perciò si erano organizzati da sé. Nessuno era disposto a proteggerli: perciò si difesero. Nessuno ordinava loro di attaccare: ordinarono a se stessi di farlo. C'erano, al contrario, coloro che, come si vanta la famosa Federazione giovanile torinese del PSI, descritta come... estremista, "tentavano di porre ordine invitando alla calma" mentre la polizia caricava: li picchiarono, come sempre, in un secolo e più di battaglie di classe, si sono trattati i cani da guardia del padrone.

Non erano soltanto metallurgici: certo, tutti i proletari avevano capito che in quei giorni si giocava il comune destino di ogni sfruttato. Non erano sempre in regola con la giustizia: per definizione, i proletari non sono mai in regola con la giustizia, se non si lasciano pecorescamente sfruttare. Erano straccioni: certo, li avete resi straccioni voi. Erano incolti: è proprio il fatto che non abbiano digerito la vostra cultura da chierichetti e da macellai che li rende la classe levatrice della storia, come rese tali i sanculotti che voi esaltate solo perché vi prepararono, inconsciamente, la tavola imbandita di due secoli di banchetti.

C'era un provocatore, in mezzo a loro? Certo, ma questo provocatore si chiama la società borghese, il capitale e i suoi sgherri, la vendita quotidiana di forza-lavoro, l'estorsione quotidiana di lavoro non pagato, l'inganno della "libertà di lavoro" e della "libertà del cittadino", la beffa dell'eguaglianza per tutti, la menzogna della democrazia e delle riforme, la realtà del miracolo economico che è, per i proletari, sinonimo di lacrime, sudore e sangue. Tutto questo li ha spinti, giovani prima e vecchi lietamente poi, meridionali e piemontesi, infine uniti!

Falso che li abbia mobilitati il PCI: esso sogna il pacifico viale che conduce non al socialismo, ma alla più miserabile versione dei capitalismo in termini economici, e della democrazia in termini politici. Sciocca e peggio, infine, l'accusa che li abbia mobilitati Valletta: egli non paga nulla, egli si fa pagare profumatamente l'appoggio al governo di centro-sinistra; intasca, non sborsa. Contro costoro e contro tutto lo schieramento del conformismo democratico, si sono battuti gli operai; e non ci fu neppure bisogno che gli dessero l'imbeccata quei "quattro gatti" che sono i rappresentanti fisici di correnti rivoluzionarie (oggi è venuto di moda tirar fuori ad ogni piè sospinto, secondo come gira, o gli anarco-sindacalisti, o noi internazionalisti, o tutti due insieme, mescolati e confusi nella stupefacente ignoranza dei coltissimi e degli intelligentissimi); bastò ad ispirarli, questo sì – e bisogna gridarlo alto e con fierezza – la tradizione accumulata in più di un secolo di lotta non codarda, di predicazione non vile, di battaglia politica, ideologica e organizzativa a viso aperto, che ha come punto di partenza il Manifesto e faro più vicino ma non ultimo l'Ottobre Rosso. Se questa tradizione viva nella memoria subconscia non degli individui ma della classe, e richiamata alla coscienza dalla lotta aperta e dalla sofferenza; se questa tradizione è teppista, è un retaggio da teddy-boy, ebbene, noi siamo pronti a dire con fierezza: viva i teppisti, viva i teddy-boy! Se noi che battiamo quotidianamente sul chiodo di un metodo di lotta che gli operai nella grandi svolte ritrovano da sé, siamo "provocatori", ebbene; siamo pronti a gridare: viva i provocatori! Se poi, oggi, questa furia "teppista" possiamo solo esaltarla contro tutti, non dubitate: ci prepariamo a dirigerla!

La collera proletaria si è scatenata a Torino (e si è scatenata in una misura che è solo, purtroppo, un millesimo di episodi gloriosi del passato, perfino del passato torinese: 1917! 1920!); per tutta risposta, i partiti e le organizzazioni che si dicono operaie hanno gridato, con una precipitazione degna soltanto di lacchè gallonati, allo scandalo. Apriamo le pagine del vecchio Marx nell'Indirizzo del 1850 del Comitato Centrale della Lega dei Comunisti:

"Ben lungi dall'opporsi ai cosiddetti eccessi, casi di vendetta popolare su persone odiate o su edifici pubblici cui non si connettono altro che ricordi odiosi, non soltanto si devono tollerare quegli esempi, ma se ne deve prendere in mano la direzione".

I cosiddetti comunisti e socialisti di oggi non solo non ne hanno preso in mano la direzione (il che era escluso in partenza), ma si sono opposti agli "eccessi" perfino quando erano modesti sfoghi di collera santa – e li hanno sconciamente deplorati: pochi giorni dopo sedevano al tavolo delle trattative con la stessa UIL e con lo stesso padronato contro i quali si era diretta la furia proletaria. Cada sui "deploratori", sui costituzionalisti, sugli esperti in denunzie alla polizia e alla giustizia, il disprezzo e la maledizione di tutti gli sfruttati.

Da "Il programma comunista" n. 14 del 17 luglio 1962

2 ottobre 2010

Abbasso le assicurazioni sociali!

«L'Ouvrier Communiste» (1930)


Dino Erba, Ottobre 1917 – Wall Street 1929. La Sinistra comunista italiana tra bolscevismo e radicalismo: la tendenza di Michelangelo Pappalardi, Colibrì, Milano, 2005.

All’inizio degli anni Venti, sorsero tendenze comuniste radicali che, prima, criticarono, poi cercarono di contrastare, le scelte del movimento comunista internazionale, trascinato dal riflusso della rivoluzione d’Ottobre e sempre più sottomesso al governo sovietico. Fin dai suoi primi passi, si distinse la Sinistra comunista italiana. I suoi militanti, costretti all’esilio, ebbero occasione di conoscere altre voci critiche; da questo confronto, nel 1927, nacque in Francia il gruppo animato da Michele Pappalardi, che ebbe come riferimenti la Sinistra tedesco-olandese (in particolare il gruppo di Karl Korsch) e la Sinistra russa di Gavril Mjasnikov.
L’attività del gruppo si esaurì nel giro di pochi anni, dal 1927 al 1931, durante i quali pubblicò dapprima «Le Réveil Communiste» e, in seguito, «L’Ouvrier Communiste». Furono, quelli, anni decisivi, in cui l’onda lunga dell’Ottobre russo si andava esaurendo, rivelandosi impotente ad affrontare una crisi di profonda portata come il «crollo di Wall Street», con tutte le implicazioni che la precedettero e la accompagnarono: fascismo, keynesismo e guerra; le cui conseguenze, nello scontro di classe, sono oggi di impellente attualità.
Nella nuova edizione del libro [Quaderni di Pagine marxiste, 2010] non sono presenti due articoli apparsi nella prima. Si tratta di articoli che presentano un notevole interesse, motivo per cui abbiamo ritenuto opportuno renderli pubblici attraverso Internet.
Il primo articolo, Che fare? («Le Réveil Communiste», a. I, n. 1, novembre 1927) ha un carattere programmatico; la critica all’esperienza dell’Internazionale comunista e dei partiti a essa affiliati, aiuta a capire l’impostazione complessiva dell’organizzazione politica animata da Pappalardi: i Gruppi d’Avanguardia Comunista.
Il secondo articolo, Abbasso le assicurazioni sociali! («L’Ouvrier Communiste», a. II, n. 11, agosto 1930) affronta una questione contingente, ma di notevole importanza per i successivi sviluppi: la legge sulle assicurazioni sociali, premessa di quella politica borghese che diverrà nota come Welfare State.
[D.E.].

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Premessa

Nel 1928-1930, il parlamento francese varò una serie di leggi in materia di assistenza sociale. Erano i primi passi in direzione del Welfare State, che la crisi del 1929 avrebbe poi reso più spediti.
L’articolo dell’«Ouvrier Communiste» prende spunto dalle trattenute sui salari operai che, in base alla nuova legge, sarebbero confluite in una cassa gestita dallo Stato, in cui sarebbero state unificate le numerose casse mutue, amministrate fino ad allora da svariati organismi privati.
Il giudizio dei Gruppi Operai Comunisti sulla nuova legislazione sociale borghese è, ovviamente, connesso alla loro concezione catastrofista della crisi in atto. L’articolo mette comunque in luce alcune importanti questioni. In primo luogo, evidenzia come questi provvedimenti, ricorrendo alla parvenza della "solidarietà proletaria", attuino in realtà una razionalizzazione, volta a favorire il drenaggio e la centralizzazione delle risorse finanziarie, a tutto vantaggio del modo di produzione capitalistico. In realtà, la solidarietà operaia può essere sostenuta e gestita unicamente dagli operai stessi, attraverso i propri organismi di lotta. Benché appena abbozzata nell’articolo, è questa la seconda questione, di estrema importanza per lo sviluppo, teorico e pratico, di una reale autonomia operaia – premessa alla rivoluzione sociale e alla trasformazione del modo di produzione capitalistico in senso socialista. Infine, l’articolo rileva come, di fronte alla crisi, la soluzione borghese trovi il suo riferimento nel fascismo, verso cui convergono le democrazie (in primis gli Stati Uniti, con il New Deal).
Riguardo alle conseguenze della crisi del 1929 in Francia, resta valido lo scenario tracciato, a suo tempo, da Daniel Guérin:

«Quanto alla Francia, premunita dallo stato relativamente arretrato e artigianale di gran parte della sua produzione, da un protezionismo da incubatrice che isolava la sua economia dal resto del mondo e che non la spinse a rinnovare né il suo equipaggiamento industriale né le sue strutture agricole, essa entrò molto lentamente nella crisi. Ma, già alla fine del 1930 si assisteva alle prime bancarotte finanziarie e si registravano i segni premonitori della disoccupazione, della caduta dei prezzi all’ingrosso, mentre al potere si alternavano, in una pestilenza di arbitrio, le équipe governative reazionarie di André Tardieu e di Pierre Laval» (1).

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Abbasso le assicurazioni sociali!

Da oltre un mese, la legge è in vigore. Forse, fra tutti quelli che sono sottoposti a questa legge, ossia la gran massa dei proletari, non ce n’è uno che, di fronte alle ritenute salariali, non abbia provato una rabbia impotente e disperata. Il capitalismo monopolistico, che è tanto forte da realizzare in pochi mesi un rialzo concertato dei prezzi tra il 10 e il 25%, è parimenti capace di spezzare ogni resistenza individuale e collettiva sul terreno delle rivendicazioni immediate. Ecco ciò che intuisce ciascuno di noi, vedendo la propria paga tagliata di qualche biglietto da cento.
Allo stesso tempo, subiamo la beffa amara di versare al capitalismo una tangente, con la prospettiva di ricevere poi una rendita annuale di 1200 franchi oppure 1000 franchi per il nostro funerale, che ci attende fra trent’anni. Ma noi abbiamo la certezza vendicatrice, che il capitalismo è condannato, e che anch’esso lo sa, ed è per questo che oggi vuole rubare dalle nostre tasche una rendita di invalidità e per le spese del funerale! Ma, fra trent’anni, quelli di noi che non saranno morti, vivranno in un mondo libero!
La borghesia si sente minacciata da un immenso pericolo, per questo oppone contro di noi un immenso fronte, formato dal suo Stato, dalla sua burocrazia, dai suoi intellettuali, dalla piccola borghesia, dai diversi strati contadini, con tutte le sue organizzazioni, di fronte alle quali il proletariato è solo. La borghesia francese sa che l’onda della crisi, con la disoccupazione e i fallimenti, presto la colpirà, tanto più brutalmente quanto più fino a oggi ne è stata risparmiata. Sa che si troverà fra i piedi milioni e milioni di disoccupati, che non potrà né mantenere né sterminare, come si fa in Australia con i conigli. Per questo, organizza in tempo la razionalizzazione della miseria; gestisce la transizione, cominciando ad affamare a poco a poco i lavoratori, cerca di aumentare il proprio margine di profitto, per poter tenere sul proprio carro l’aristocrazia operaia con qualche briciola e per poter trasformare i disoccupati in poliziotti o in squadristi prezzolati, inquadrandoli nei ranghi del fascismo e schierandoli, armati fino ai denti, contro i loro vecchi compagni di lavoro e di lotta. Siccome la distruzione fisica di una parte del proletariato è la condizione per prolungare la propria esistenza, il capitalismo francese, seguendo l’esempio dell’Inghilterra, organizza per tempo un regime di sopravvivenza "vegetativa" per i disoccupati, che non è né vita né morte, ma una sorta di progressiva inedia la quale, costringendo a restare sottomessi, impedisce ogni reazione e, alla fine, senza eliminare la disoccupazione, fa sì che diminuiscano comunque i sussidi e il numero dei superstiti da aiutare, mentre nuovi strati operai precipitano verso una china mortale.
L’attuale politica di assicurazioni sociali e di fascistizzazione dello Stato – d’altro canto simile a una politica di militarizzazione e di preparazione di una nuova guerra mondiale – scaturisce da una borghesia che trova la sua forza in una perfetta coesione interna, nell’assoluto dominio sul movimento operaio e nei vantaggi temporanei che mantiene a livello internazionale, e di cui approfitta per trarre tutti i vantaggi da questa situazione: caro-vita, imposta di un peso inaudito, aggravamento delle condizioni di lavoro e diminuzione dei salari operai, per far pagare i costi della preparazione borghese alla guerra civile e alla guerra internazionale, che ne è una variante, così come i costi per abituare il proletariato alla miseria.
Di fronte a questo complessivo progetto borghese, di cui le assicurazioni sociali sono solo un aspetto, seppur molto significativo, quale posizione devono assumere le organizzazioni che si dichiarano proletarie?
Come ci si doveva aspettare, la legge fascista trova la completa approvazione da parte dei seguaci del socialismo di Stato e del sindacalismo di Stato (2).
Nell’interminabile commedia parlamentare, che ha preceduto il voto, mascherando l’offensiva della borghesia contro i salari con il caro-vita, il ruolo di avvocato del diavolo è stato svolto da François Coty (3) e dal suo «Ami du Peuple», ma gli interessi generali della borghesia sono stati sostenuti anche da Jouhaux (4) e da Blum (5), per la CGT e per il Partito socialista, che non sono, teoricamente e praticamente, i pilastri meno importanti del fascismo.
La burocrazia sindacale di ogni sfumatura e l’aristocrazia operaia, di cui essa esprime le tendenze egoiste, non hanno perso l’occasione per compiacersi del supplemento di importanza accordato al movimento sindacale con l’istituzione delle casse sindacali di riscossione. Il sindacato diventa così poliziotto e agente del fisco… Bell’idea! Disgraziatamente, è stato necessario abbassare la cresta, con la prospettiva di annettere al sindacato tutti coloro che sono obbligatoriamente assoggettati. Costoro vedono i proprî versamenti trattenuti nella cassa padronale, sfuggendo così all’influenza del sindacalismo universale, caro alle vecchie cariatidi anarco-riformiste e popolari, che controllano la minoranza unitaria (CGTU)(6). Sulla stessa linea è il giudizio del «Cri du Peuple» (7), secondo il quale la nuova legge è una conquista operaia strappata alla reazione» (André Juin (8) dixit), resta solo qualche imperfezione da correggere. È buona, ma potrebbe essere migliore (9)!
È cattiva, ma potrebbe essere buona! Rispondono i bolscevichi de «L’Humanité» (10). E, in attesa che la collera degli operai del Nord si plachi davanti agli inganni parlamentari, davanti all’ipocrisia legalitaria e alla derisione del paternalismo di Stato, Thorez (11) arringa i manifestanti di Saint Quintin (12), esortandoli a lottare per le vere assicurazioni sociali!
«Vere assicurazioni sociali, per un bolscevico, significa assicurazioni sociali come quelle che ci sono in Russia». Ma, se le assicurazioni sociali di tipo russo possono far parte di un programma di rivendicazioni immediate in un Paese capitalista, ciò non significa forse che anch’esse, le assicurazioni russe, fanno parte di un sistema di dominio e di sfruttamento della classe operaia? A questo punto, non capiamo perché dovremmo combattere per introdurre in Francia, con o senza rivoluzione, il sistema russo di socialismo di Stato, con il suo ordinamento di assicurazioni sociali.
Al contrario, noi sappiamo molto bene perché dobbiamo combattere ogni specie di fascismo e di socialismo di Stato (il fascismo italiano non è forse una forma abortita di socialismo di Stato alla Bismarck?). Per questo motivo, combattiamo ogni forma di assicurazione sociale e ogni specie di riformismo! La tendenza al socialismo di Stato è l’ultimo sussulto di vitalità del capitalismo, in preda al disordine economico e timoroso della rivoluzione; ma è un obiettivo che non può raggiungere, di fronte alla catastrofe mondiale, in cui l’ha precipitato il suo stesso sviluppo. È questo il dilemma, che pone l’attuale fase di sviluppo storico. È un dilemma che non lascia spazio al socialismo di Stato. L’alternativa è solo tra comunismo e barbarie…
Gli avvenimenti di questi ultimi vent’anni sono la smentita più evidente alle tesi riformiste, che credono in un progresso capitalistico verso forme più organizzate, con un miglioramento delle condizioni materiali e un elevamento del benessere. Allora, il riformismo non è più una lotta di solidarietà operaia verso il generale progresso. No, è solo una lotta ipocrita e fratricida: benessere per pochi, miseria e morte per tutti gli altri… e ciò non è più possibile, o lo sarà meno di prima. Di conseguenza, il riformismo non è altro che un’ideologia aberrante, che spinge l’operaio nelle braccia del capitalismo assassino, in una fase in cui il capitalismo può solo condurre l’umanità alla rovina, senza neppure salvare se stesso. È solo il gesto istintivo della bestia, che molla la mano di chi le dava le bastonate e morde invece quella di chi potrebbe salvarla. Quando scoppia la lotta decisiva, il riformismo non si distingue assolutamente dalla più feroce reazione, e allora dev’essere abbattuto come un cane rabbioso!
Dal momento che i partiti operai e tutte le organizzazioni sindacali utilizzano il riformismo, lo incoraggiano o ne fanno la loro ragione d’essere, noi, operai comunisti, giudichiamo un crimine rincoglionire gli operai nel rispetto delle leggi, dei parlamenti, delle formule di arbitraggio, dei consigli di probiviri, delle municipalità, delle istituzioni sindacali e delle cooperative. Noi siamo contro ogni forma di assicurazione sociale, con o senza versamenti operai, con o senza "rivoluzione" – perché la classe operaia ha il compito di liquidare lo Stato, attraverso lo sviluppo permanente della sua rivoluzione di classe, senza perdersi in obiettivi diversi. Il nostro scopo non è la creazione di una nuova burocrazia, ossia di una nuova borghesia che, come in Russia, detiene tutto quanto consente di dominare e sfruttare gli operai o di farli morire di fame, privandoli di quella tessera del sindacato che dà diritto a tutto ciò che permette di vivere, comprese le assicurazioni sociali. A ogni forma organizzativa di carattere burocratico, si deve opporre lo sviluppo cosciente dell’iniziativa delle masse, con una sua direzione collettiva, nell’ambito della produzione e della distribuzione, e in tutti gli altri settori.
La solidarietà operaia, come noi l’intendiamo, non ha nulla a che vedere con la logica meccanica delle mutue e delle assicurazioni sociali, che sono solo organismi burocratici, fondati sull’egoismo individuale o familiare di ciascuno dei suoi membri. E non è necessario aspettare il compimento della rivoluzione, per rendersene conto.
Già nel nostro movimento, in contrapposizione allo Stato e ai padroni, abbiamo dato spazio a una sorta di collettivismo pratico. Ciascuno di noi sa che se disoccupato, malato, incarcerato, espulso alla frontiera potrà contare con la massima sicurezza sull’aiuto degli altri. Una giornata di lavoro alla settimana, questa è la quota che versano i Gruppi Operai Comunisti per la propaganda e la solidarietà. E la solidarietà, se necessario, passa davanti alla propaganda! E inoltre, il disoccupato si siede alla tavola comune, senza pagare il costo del pasto, e uno o l’altro dei suoi compagni gli offre un alloggio a casa propria. Ciascuno trattiene solo ciò di cui ha bisogno, nessuno si sogna di abusare di una fraternità che è moralmente indispensabile nella lotta contro un mondo nemico. I nostri compagni, provenienti dall’estero, sono considerati ospiti e, da parte nostra, contiamo su di loro, nel caso che qualcuno di noi dovesse andare in un altro Paese.
Tuttavia, è sufficiente la solidarietà individuale, che non rifiutiamo a un vero rivoluzionario, anche se è in contrasto con noi?
Basta la solidarietà spicciola, quella del pane quotidiano?
A queste due domande, rispondiamo: No!
La solidarietà rivoluzionaria si dimostra con l’azione.
Per questo motivo, noi sosteniamo chiaramente che è impossibile conciliare la distruzione del sistema di assicurazioni sociali con la possibilità di aggiustarlo a favore della classe operaia. Noi, ci riteniamo compagni di lotta dei 100 mila scioperanti del Nord e dichiariamo di essere pronti a partecipare a ogni azione di solidarietà in loro favore.

Abbasso le assicurazioni sociali!

Viva la rivoluzione!

«L’Ouvrier Communiste», n. 11, agosto 1930


Note:
(1) Daniel Guérin, Fronte popolare e rivoluzione mancata, Jaca Book, Milano 1971, p. 59.
(2) La legge, che aumenta in modo esorbitante l’ingerenza dello Stato nella cosiddetta libertà di lavoro e crea un apparato di molte decine di migliaia di scribacchini, può essere considerata una rottura definitiva della borghesia monopolistica con l’ormai obsoleta fase dell’economia liberista.
(3) François Coty (Joseph Marie François Spoturno) (1874-1934), fondatore di una famosa industria di profumeria, sostenne finanziariamente le organizzazioni di estrema destra. Proprietario di due importanti quotidiani («Le Figaro» e «Le Gaulois»), fondò «L’Ami du Peuple». [NdC]
(4) Léon Jouhaux (1879-1954), segretario generale della CGT nel 1909; presidente del Consiglio economico francese nel 1947, premio Nobel per la pace nel 1951. [NdC]
(5) Léon Blum (1872-1950), esponente socialista (SFIO) di tendenza riformista, fautore nel 1924 di un cartello delle sinistre. Presidente del governo di Fronte Popolare dal giugno 1936 al giugno 1937 e, nel 1946-1947, di un governo socialista. [NdC]
(6) CGTU (Confédération Générale du Travail Unitaire), sorta nel 1921, in contrasto con l’indirizzo piattamente riformista della CGT di Jouhaux. Vi aderirono 400-450 mila lavoratori comunisti e di orientamento rivoluzionario. La riunificazione avvenne nel marzo 1936, nel clima del Fronte Popolare: la CGT superò allora i due milioni e mezzo di iscritti. [NdC]
(7) «Cri du Peuple» settimanale pubblicato dalla minoranza sindacalista rivoluzionaria della cgtu, al quale collaborarono Pierre Monatte e Daniel Guérin. [NdC]
(8)  André Juin, esponente sindacale del PCF. Dal 1927 collaborò con il gruppo dell’opposizione di sinistra che pubblicava la rivista «Contre le Courant». [NdC]
(9) Ci ammanniscono questo sofisma: le assicurazioni sociali sviluppano la solidarietà nella classe operaia. Bella solidarietà, quella il cui motto è: ciascuno per sé e lo Stato per tutti!
(10)  «L’Humanité», quotidiano fondato nel 1904 da Jean Jaurès, fu prima organo del Partito socialista (SFIO) e quindi, dal 1920, del PCF. [NdC]
(11) Maurice Thorez (1900-1964), dal luglio 1930 segretario generale del PCF. Stalinista professionale, mantenne la carica fino alla sua morte, nel 1964. [NdC]
(12) Saint Quintin, città industriale della Francia settentrionale, nell’estate del 1930 fu al centro di grandi scioperi dei metallurgici e dei tessili. [NdC]