Considerazioni sul libro Critica dell’utopia capitale di Giorgio Cesarano e sull’esperienza della
corrente comunista radicale in Italia
1. Premessa
La
pubblicazione delle Opere complete di
Giorgio Cesarano, iniziata nell’estate del ’93 con l’uscita della prima
edizione integrale di Critica dell’utopia
capitale, è il risultato dell’attività di un gruppo di individui che
s’ispirano direttamente a quella «critica radicale», di cui Cesarano stesso fu
uno dei protagonisti.
Nell’83
un gruppo di compagni, provenienti dalla «corrente radicale», fondarono
l’Accademia dei Testardi, che pubblicò, tra l’altro, tre numeri della rivista
«Maelström». Questo nucleo, tuttora esistente, intraprese un bilancio della
propria esperienza rivoluzionaria (portato a termine solo in parte), che
costituisce un precedente ideale dell’attività che portiamo avanti,
ripubblicando le opere di Giorgio Cesarano e accompagnandole con la discussione
che ha prodotto gli interventi riuniti nella presente raccolta[1].
In
questo testo ci proponiamo d’inquadrare l’attività di Cesarano nel suo periodo
storico, contribuendo a una delimitazione critica dell’ambiente collettivo di
cui egli faceva parte. Ciò al fine di collocare meglio noi stessi nel presente,
chiarendo il nostro rapporto con l’esperienza rivoluzionaria del recente
passato, arma teorica necessaria per affrontare la situazione che ci circonda,
che richiede la capacità di resistere e durare in condizioni complessivamente
ostili, in un modo per alcuni aspetti simile a quello dei rivoluzionari dei
primi anni Settanta.
La
riedizione di testi di quel periodo ha un peso ben preciso nella discussione
che stiamo attualmente conducendo nel Centro d’Iniziativa Luca Rossi e nella
dialettica che intendiamo stabilire con tutte le presenze rivoluzionarie
(peraltro assai circoscritte) che ci circondano. Da un lato, infatti, come
abbiamo detto, c’ispiriamo direttamente alle espressioni teoriche centrali
dell’ultimo periodo di conflitto sociale acuto nel nostro Paese (il decennio
del cosiddetto «Maggio strisciante» ’68-’78). Dall’altro non intendiamo
rivendicare una continuità storica inesistente: la «corrente radicale» ha
raggiunto l’apice della sua partecipazione diretta al movimento rivoluzionario
tra il ’68 e il ’70, successivamente ha tanto risentito del riflusso sociale da
indebolirsi al punto di non saper sfruttare l’occasione offertale
dall’imprevista esplosione del ’77 e da non potersi poi riprendere da questo
fallimento. Per cui, i contenuti che essa ha sviluppato nella sua breve storia
vanno studiati, integrati e approfonditi, anche allo scopo di dare una
delimitazione storica definitiva al suo apporto. Anche se il bilancio di questa
esperienza critica è per noi, ora, largamente positivo, i conti col passato
vanno chiusi. L’orizzonte storico che abbiamo davanti è talmente cambiato
rispetto agli anni Sessanta e Settanta, che l’esperienza rivoluzionaria di
allora è ormai «storica».
2. La «corrente radicale» e il
suicidio di Giorgio Cesarano
Il
lettore di Critica dell’utopia capitale
non può non restare impressionato dal suicidio di Giorgio Cesarano, a
quarantasette anni, proprio quando stava lottando per produrre la sua opera
principale. All’epoca del suicidio, la sua attività teorica era in pieno
svolgimento. La sua ricerca era aperta e fu troncata di netto dalla morte,
mentre si svolgevano dure polemiche ed erano ancora possibili fruttuose
collaborazioni e nuovi incontri. Il ’77 era alle porte e Cesarano già
intravedeva la possibilità di un proprio impegno «pratico», che gli avrebbe
dischiuso le porte dell’azione, di cui sentiva un bisogno ancor più urgente di
quello della comunicazione teorica. Già da qualche tempo partecipava a «Puzz»
(giornale pubblicato dal nucleo informale Situazione Creativa di Quarto Oggiaro)
e intendeva continuare e approfondire la collaborazione.
Nella
primavera del ’75, i giovani di Quarto Oggiaro erano già impegnati nelle piazze
(insieme alla nascente Autonomia Operaia): a Milano riapparivano, anche se solo
per pochi giorni, le barricate. Per tutto il ’75, e il ’76, si manifestarono,
in vari episodi, aggregazioni spontanee di «radicali», che già costituivano un
punto di riferimento per numerosi giornalini apparsi in quel periodo in varie
città d’Italia. Ai reduci del lungo ciclo di lotte degli anni Sessanta si
sommava finalmente un buon numero di giovani; la «corrente radicale» tornava a
farsi sentire, attraeva inoltre parecchi scontenti dell’Aut. Op., nelle
università, nelle assemblee e nelle piazze; alla vigilia del ’77 si apprestava
a essere nuovamente una presenza critica centrale che godeva di una diffusa
rete di contatti.
In
questa situazione, nel complesso assai favorevole, la mancanza di Cesarano si
fece sentire: alla crescita numerica non corrispose una crescita
teorico-critica. Se fosse stato possibile concluderla e diffonderla in tempo, Critica dell’utopia capitale avrebbe
costituito un valido antidoto anche contro molti dei veleni ideologici,
soprattutto di provenienza transalpina (l’«ideologia francese»), che
impestarono fin dal primo momento la cosiddetta «ala creativa» del movimento
del ’77; inoltre la coerenza e la lucidità di Cesarano avrebbero contribuito in
modo determinante a risolvere gli equivoci in cui finì per impantanarsi la
«critica radicale».
Al
di là della sua vicenda individuale, questo atto disperato è radicato nei
limiti di una corrente che poco tempo dopo avrebbe dimostrato la propria crisi.
Uno
dei contenuti caratteristici sviluppati dall’autore del Manuale di sopravvivenza è la necessità di sostenere la «prova»
che, nei periodi di scarsa tensione sociale, s’impone a ogni rivoluzionario:
resistere nel «frattempo» della rivoluzione all’assalto omicida dei fantasmi
del senso di colpa, alla solitudine che porta allo smarrimento, alle
allucinazioni e ai traviamenti che portano alla pazzia, al ritorno dei ruoli
abitudinari, economici e familiari, che si credeva di aver spazzato via.
Giorgio Cesarano, profondamente colpito dal suicidio del suo carissimo amico e
compagno Eddie Ginosa, sottolinea il pericolo che corre il rivoluzionario
quando non può riconoscersi in un processo di lotta sociale e si smarrisce
nell’irrealtà allucinatoria e onnipervasiva del processo di valorizzazione
capitalista, rispetto al quale si percepisce come irriducibilmente altro. In
questo frangente può sentire come aliena la realtà nel suo complesso e come
esclusive e singolari, e quindi patologiche, la propria rabbia e la propria
rivolta. Per questo l’isolamento può costituire un rischio mortale, di fronte
al quale il rivoluzionario deve avere la lucidità e il distacco necessari a
ritrovare le proprie ragioni e a capire che sono quelle di tutti: «[…] il
compito biologico della rivolta segregata nella dannazione individuale è quello
di riconoscersi come prassi generica alienata dalla teoria. Non manca agli
uomini né la forza né la lucidità della critica pratica; non esiste “persona”
che non conosca, tra sé e sé, i tratti dell’incubo che essa, con tutti, chiama
vita; ciò che sembra, finché sembra, mancare è il minimo scatto di uno sguardo
che sappia trapassare il finto muro dell’individualità sofferente, cogliere tra
il sé e il sé che si rimandano, dal sonno alla veglia, i segni terribili
dell’estirpazione della vita, lo spiraglio attraverso il quale finalmente
ravvisare ciò che da sempre è patente, visibile: l’identità della mutilazione
accettata paradossalmente da tutti in nome dell’identità di ciascuno come
diverso e come specifico, la verità banale d’essere tutti spoliati d’identità
reale – identità con il bisogno d’essere, con il desiderio d’amare – in cambio
di una identità assolutamente carceraria, noumenica nella forma e numerica
nella sostanza. Il bisogno d’essere è il bisogno elementare, banale; la
sofferenza di non essere è altrettanto elementare e banale. La complicazione è
“il resto”, il “regno” labirintico di ciò che non è vita di nulla e di nessuno
e pretende d’essere la vita del tutto, e di tutti nel tutto»[2]; in modo di
trarre dall’infelicità e dalla disperazione stesse, la forza incommensurabile
di un’iniziazione rivoluzionaria alla passione e alla vita.
Nel
suo insieme, ponendo al centro dei suoi interessi la critica della vita
quotidiana e la sperimentazione di possibilità che conducessero in modo diretto
all’estasi, la corrente radicale ha dovuto pagare un prezzo altissimo alla controrivoluzione,
subendo inesorabilmente l’autodistruzione degli individui più appassionati, che
più autenticamente avevano assaporato la vita e meno potevano adeguarsi al
grigiore senza speranza della quotidianità del capitale. A differenza di altre
correnti coeve, e allora nostre «nemiche», la tendenza comunista radicale non è
stata massacrata dalla repressione, né ha annoverato nelle sue file infami e
dissociati, nel complesso non ha rinnegato se stessa. A parte pochissimi che
hanno «tradito», passando anche formalmente a collaborare con le ideologie e le
organizzazioni politiche del capitale, la maggior parte di noi ha abbandonato
la prospettiva rivoluzionaria per inerzia e conformismo, o per risentimento
accumulato (verso il proletariato che non vuole diventare rivoluzionario o
verso i compagni più brillanti e ammirati in cui si riponeva fiducia e che
troppo spesso non hanno saputo far seguire alla propria critica intransigente,
a volte spietata, dell’esistente, fatti adeguati ad armare di efficacia la loro
rabbia). Ma tutti coloro per i quali la passione rivoluzionaria era una forza
«biologica», un’energia radicata profondamente nel loro essere, hanno
continuato a tessere la tela di Penelope della teoria, e a sperimentare le
precarie soluzioni che consentissero di sopravvivere e sottrarsi comunque
all’invadenza del presente, appiattito e mistificante. Alcuni si sono buttati
in «romantiche» peripezie in Paesi esotici – anche lì tallonati dall’ideologia
dell’«avventura» turistica – altri hanno soddisfatto la propria nostalgia col
crimine. Molti sono morti, altri in carcere, quasi tutti comunque «finiti
male», come doveva succedere a individui non dotati di ricchezze patrimoniali
né di «saper vivere» accumulato, e comunque mai interessati ad aver successo in
questo mondo.
Per
la corrente radicale il peso della repressione diretta è stato relativamente
secondario, rispetto all’autentico massacro causato dall’autodistruzione o da
forme poco appariscenti di liquidazione sociale (routine poliziesca e
terapeutica; regolamenti di conti in seno alla famiglia; emarginazione coatta e
omologazione alla malavita; assassinio della passione). Da questa vicenda c’è
una lezione di vitale importanza da estrarre, tanto più in un’epoca
spietatamente cinica e nichilista come l’attuale, che esalta in modo brutale e
diretto i valori del capitale, in cui i rivoluzionari sono sottoposti a un
martellamento ideologico ossessivo che li spinge a considerare con amarezza e
pessimismo la propria inattualità.
3. Bordighisti e anarchici
In
Italia non è mai esistita una componente storica che si rifacesse alla corrente
ultrasinistra classica[3]. Ciò perché fu lo stesso Partito Comunista d’Italia a
costituirsi su posizioni «estremiste»[4], entrando subito in conflitto con
Lenin e poi con la direzione Zinov’ev dell’Internazionale Comunista. Benché il
contrasto con gli onnipotenti bolscevichi portasse ben presto all’estromissione
dei vari Bordiga, Repossi, Fortichiari, Damen ecc. – che pure rappresentavano
il 90% degli iscritti – da tutte le cariche di partito, gli esponenti della
sinistra del PCd’I si rifiutarono di rompere con l’Internazionale, come avevano
fatto invece i consiliaristi tedeschi e olandesi, e si adattarono
all’opposizione disciplinata e frazionista all’interno del partito mondiale,
conclusasi con la loro espulsione solo in epoca staliniana.
La Sinistra italiana di Bordiga, pur ritenendo illusoria e
controproducente la creazione di un nuovo partito al di fuori
dell’Internazionale Comunista, condivideva il contenuto essenziale
dell’ultrasinistra, sintetizzabile nel rifiuto di farsi riassorbire dalla
socialdemocrazia centrista per dare vita al partito di massa imposto da Lenin e
Zinov’ev e poi da Stalin. Con tutto questo, la Sinistra italiana si
differenziava nettamente dalla corrente consiliare internazionale non solo sul
piano organizzativo ma anche perché rimase sostanzialmente più fedele al nucleo
centrale dell’opera marxiana, criticando sempre ferocemente l’utopia
autogestionaria (che invece ebbe una certa importanza nelle altre correnti
«estremiste») e ponendo sempre al centro della propria critica la legge del
valore, il processo di valorizzazione capitalista, la cui abolizione
costituisce il contenuto della rivoluzione comunista.
Nel
secondo dopoguerra, la
Sinistra italiana fondò il Partito Comunista
Internazionalista, e produsse un’inestimabile mole di teoria critica (tra
l’altro disvelò con dovizia di analisi la natura sociale capitalista
dell’urss). Rigidamente fedele allo schema rivoluzionario del passato, ignorò
totalmente l’importanza del ’68, continuando a esistere fino a oggi, senza mai
incontrarsi con la «corrente radicale» (che tuttavia influenzò profondamente,
soprattutto attraverso la rivista francese «Invariance»).
L’altro
motivo per cui in Italia nel primo dopoguerra non poteva manifestarsi la
tendenza ultrasinistra consiliare, era l’esistenza di un formidabile movimento
anarchico e anarcosindacalista (fai-usi), estremamente vivo e radicale fino
all’avvento del fascismo. L’anarchismo emerse dalla Seconda Guerra mondiale
ancora numericamente consistente, ma assai più debole dal punto di vista
teorico dell’agguerrita pattuglia bordighista.
Il
movimento anarchico che affrontò la bufera del ’68 era incredibilmente
sclerotizzato e difendeva posizioni chiaramente «filo-democratiche». La sua
attività era puramente dimostrativa, in una logica tutta interna al movimento,
pesantemente condizionata dall’esperienza spagnola degli anni Trenta e dai
«traumi» del fascismo e del bolscevismo (manifestazioni contro la repressione
dei compagni spagnoli, commemorazioni rituali, anti-bolscevismo e anti-marxismo
esasperati, incubo del comunismo autoritario lenino-stalinista; adesione al
«fronte antifascista» ufficiale con Dc e Pci), e la sua teoria era confusa e
superficiale, sostanzialmente ferma al dibattito sull’«organizzazione
anti-autoritaria» risalente all’anteguerra. Il movimento anarchico, a
differenza dei bordighisti, non solo non poté ignorare il ’68, ma ne fu
addirittura travolto: dovette subire la gagliarda rivolta della sua componente
giovanile[5], e in seguito di interi gruppi organizzati, che finirono presto o
tardi per staccarsene e confluire nella nascente avventura comunista radicale,
identificandovisi o aderendo a un’impostazione consiliar-operaista.
4. Precedenti internazionali
In
Italia non esistono dunque veri e propri precedenti all’esperienza radicale,
che può considerarsi in tutto e per tutto un frutto prodotto dal ciclo di lotte
del ’67-’70 (annunciato da un notevole risveglio della lotta di classe, ancora
in parte contenuto dal Pci e dalla Cgil, a partire dal 1960).
I
precedenti delle lotte e della corrente italiana sono tutti internazionali.
Innanzitutto
la Francia,
che esplodeva nel maggio-giugno ’68 contemporaneamente all’Italia, ma che aveva
conosciuto antesignani molto significativi dal punto di vista
teorico-organizzativo: «Socialisme ou Barbarie» e, soprattutto,
l’«Internationale Situationniste». In un primo momento i situazionisti vennero
conosciuti in Italia come protagonisti di alcuni episodi clamorosi di
contestazione dell’università[6] che ebbero una certa eco in Italia, dove la
teoria radicale si diffuse inizialmente soprattutto all’interno delle
occupazioni delle scuole e delle università della fine ’67.
Ma
anche il movimento americano ’64-’67 ebbe un enorme peso nella situazione
italiana. Innanzitutto il movimento dei neri nelle due componenti fondamentali:
quella violenta – in parte espressa dal movimento di Black Power (Malcom X; lo
Snic di Stokeley Carmichael e Rap Brown) ma soprattutto incarnata dalla rivolta
«muta» dei ghetti (Watts)[7] culminata nella vera e propria insurrezione della
metropoli operaia di Detroit, che vide impegnato lo stesso esercito usa in una
settimana di combattimenti casa per casa –, e quella pacifista e integrazionista,
rappresentata da Martin Luther King.
Dalle
testimonianze e dai resoconti della rivolta di Detroit si ricava la sensazione
entusiasmante della rivoluzione: uno dei principali centri industriali e operai
dell’epoca – allora Detroit non era ancora precipitata nel pozzo senza fondo
della disperazione e della criminalità ove sarebbe stata gettata dalla
ristrutturazione e dalla deindustrializzazione degli anni Ottanta, ma era uno
dei centri pulsanti del capitale mondiale, come Torino e Milano – caduto nelle
mani dei desperados dei ghetti in
armi, che avevano inflitto una sonora sconfitta alle forze repressive locali e
affrontato un formidabile spiegamento di forze militari. Gli operai, occupate
le fabbriche, erano stati però incapaci di uscirne per partecipare in massa
all’insurrezione, bloccati nella stessa impasse, rivelatrice dei pregi e dei
limiti dell’autogestione condotta dai Consigli operai, che si sarebbe
manifestata poi nel Maggio francese. La portata di questa rivolta è dimostrata,
in negativo, dalla disperazione, espressa poi come violenza senza senso,
seguìta alla repressione di questo grande scatenamento di follia entusiasta.
L’estate
calda del ’67 accese la miccia del movimento studentesco europeo. Di grande
impatto emotivo furono anche le manifestazioni del movimento per i diritti
civili, che Martin Luther King, il quale avrebbe pagato con la vita, cominciava
a indirizzare verso tematiche sociali (sostegno a scioperi e a rivendicazioni
dei lavoratori neri che costituivano la totalità della manodopera nei mestieri
più duri e peggio pagati).
Infine
il movimento degli hippies e degli
studenti bianchi contro la guerra del Vietnam – al cui interno si manifestavano
componenti radicali – mise in pratica senza mediazioni la critica pratica della
vita quotidiana. Gli hippies e gli
studenti sperimentarono forme di vita comunitaria, liberazione sessuale,
rifiuto del lavoro, critica della famiglia e dei ruoli sociali, illegalità, uso
delle droghe che «allargano la coscienza», nomadismo, riutilizzo delle tradizioni
religiose per raggiungere l’estasi. L’originale potenza del movimento giovanile
nordamericano non va confusa con la successiva importazione dei valori
dell’underground, attuata in Italia da operatori più o meno specializzati,
sotto forma di ideologia «nuovissima», che ebbe uno scopo essenzialmente
smobilitante e destrutturante nei confronti di un movimento che aveva già
acquisito un ben preciso livello di coscienza e di radicalità.
Prima
del ’67 l’«underground» italiano era caratterizzato da poche e minoritarie
manifestazioni controculturali e comunitarie (Onda Verde, Barbonia City, case
occupate in campagna, diffusione delle «comuni» nelle metropoli), che ebbero il
merito d’incominciare a porre la questione della critica della vita quotidiana
(soprattutto la liberazione sessuale, il rifiuto del servizio militare, le
droghe leggere), ripresa poi in altri termini dai rivoluzionari che la
integrarono con l’apporto dell’Internazionale Situazionista, e di dare inizio a
quella rivoluzione dei costumi che, nella provincialissima e bigotta Italia
degli anni Sessanta, avrebbe finito per cambiare irreversibilmente la vita di
un’intera generazione e segnare tutta la società.
5. La corrente radicale italiana
nasce nel movimento studentesco del ’68
La
corrente radicale italiana è un prodotto del movimento del ’67-’68. In
particolare i primi nuclei di comunismo radicale sorsero nella turbolenza delle
occupazioni scolastiche e universitarie. Alcuni erano già influenzati
dall’Internazionale Situazionista (che nell’occasione formò un’effimera
«sezione italiana»); una componente proveniva direttamente dall’anarchismo,
che, soprattutto dopo il Maggio, fu investito da una ventata rivitalizzante.
Non per questo il movimento anarchico riuscì a trattenere gli elementi più
vivaci e determinati, ai quali, nel fuoco delle lotte, pareva inaccettabile
soprattutto l’anti-marxismo di principio.
A
Genova, per esempio, il movimento trovò un punto di riferimento nel
preesistente «Circolo Rosa Luxemburg» – un gruppo proveniente dal Pci, molti
dei cui aderenti erano passati, come anche Cesarano, per «Classe Operaia»,
staccandosene su posizioni antileniniste –, e che era molto aperto alle nuove
idee antiburocratiche. Ma la caratteristica più autentica di questo movimento
stava nella sua spontaneità (incarnata a Genova dalla Lega Studenti-Operai).
Nel
’68 venne percepita da tutti – tranne naturalmente da parte di coloro che la
negavano per fedeltà a uno schema ideologico, come i tre piccoli partiti
bordighisti[8] – la forza della grande ondata rivoluzionaria, che trascinava
con sé individui, gruppi e masse, spingendoli a entrare in azione e ad
abbandonare le precedenti affiliazioni politiche e ideologiche di qualunque
genere.
Al
di là della loro origine e formazione, gli elementi più radicali del ’68 erano
quelli più pronti a mettere in discussione innanzitutto se stessi e poi
l’organizzazione globale della vita, perché, più di ogni altra cosa,
desideravano vivere, esperimentare, godere, sottrarsi a un avvenire senza
speranza, perché senza avventura, già deciso per loro dagli adulti e da un
meccanismo sociale in cui non volevano inserirsi.
Il
’68 fornì l’occasione per attaccare prima di tutto l’istituzione
scolastico-universitaria, svelandone il funzionamento antidemocratico (l’«autoritarismo»)
e l’ingiustizia (la «selezione di classe»), la natura classista.
L’esigenza
teorica sorse come conseguenza, per la necessità di crearsi strumenti con i
quali esprimersi, scrivere, continuare a combattere con maggiore lucidità e
coerenza.
L’opera
di Marx finì con l’emergere come lo strumento teorico più adeguato a criticare
in profondità la natura della società capitalista, mentre le organizzazioni
marxiste dimostrarono di essere macchine burocratiche, votate alla mediazione,
alla trattativa, al compromesso, e quindi vennero scartate a favore di forme
organizzative assembleari, o meglio, inconsapevolmente consiliari, comunque
tendenti verso una messa in pratica dell’anarchismo.
Ecco
come nel ’68 molti anarchici potevano continuare a sentirsi tali senza
partecipare in alcun modo alla vita dello sclerotizzato movimento ufficiale,
dando vita a gruppi estemporanei, a leghe di studenti, a comitati libertari e
così via.
Si
realizzava nella pratica la fine dell’opposizione tra Marx e Bakunin, teorizzata
dai situazionisti.
Naturalmente
nel corso del ’68 gli avvenimenti francesi imposero un ulteriore slancio al
movimento italiano e favorirono la penetrazione di idee più nuove e radicali.
Lo
stesso «Movimento XXII marzo» di Cohn-Bendit, spettacolarizzato dai mass media
come il non plus ultra dell’«estremismo» (è bene ricordare comunque che lo
spazio dell’informazione-spettacolo di allora era minimo rispetto alla
pervasività ch’esso ha raggiunto nell’attuale società tele-dipendente), aveva
al suo interno una componente libertaria, e il solo fatto di vedere al
telegiornale le bandiere nere dei cortei parigini smentiva lo spettacolo
politico nostrano, occupato per tutta l’ampiezza dello schermo dallo stalinismo
picista (già allora modernizzato dallo «strappo» con l’Urss), dalle sue
filiazioni terzomondiste, e dalle invasate sètte marxiste-leniniste, già in
attività da qualche anno.
Il
gruppo libertario che editava la rivista «Noir et Rouge» aveva peraltro
contatti diretti con i giovani contestatori del movimento anarchico italiano, e
lo stesso Cohn-Bendit partecipò nell’estate al congresso anarchico di Carrara.
S’iniziava
a conoscere l’«Internationale Situationniste», del cui complesso work in
progress venne dapprima presa in considerazione soprattutto la «critica della
vita quotidiana». Questa dimensione della lotta andava esplicitamente fuori dai
limiti della politica e coincideva con il feeling che più di ogni altro
caratterizzò il ’68: la sensazione che tutto fosse in discussione.
6. Studenti e operai
Sul
’68 Giorgio Cesarano ha lasciato un romanzo, I giorni del dissenso, in cui
descrive in modo delicato e sensibile l’atmosfera della «primavera degli
studenti». Benché quando scrisse questo libro, che narra da un punto di vista
autobiografico alcuni episodi del ’68 a Milano, egli non fosse ancora un
rivoluzionario, dalle sue pagine traspare l’incontro che di lì a poco lo
avrebbe portato fino al cuore di quel movimento, ancora osservato con il
distacco e la simpatia dell’intellettuale di sinistra che si sente
maledettamente più adulto degli studenti al cui fianco partecipa alle marce di
protesta.
Anche
dalle pagine di questo libro emerge l’inconfondibile impressione di ampiezza e
grandiosità di quel movimento, che stava scuotendo il mondo. Gli operai trovarono
ben presto ispirazione nel movimento studentesco e giovanile. I rivoluzionari
in quella situazione riuscirono a collocarsi al punto d’intersezione dei due
movimenti, in generale ancora separati dal fatto che la massa degli operai
accettava provvisoriamente l’«appoggio esterno» del Pci alla propria autonomia.
Ovunque nascevano i «Comitati di base operai-studenti», di fatto aperti a tutti
i rivoluzionari[9].
La
partecipazione attiva e autonoma al movimento, sotto le più varie sigle, ma in
generale anonima, senza organizzazione né partito, contraddistinse l’esperienza
radicale in Italia, situandola al centro degli avvenimenti e dei momenti
cruciali.
Il
movimento italiano ebbe, rispetto a quello francese estremamente più radicale,
il pregio della durata: infatti continuò, in un coerente crescendo, per tutto
il 1969, ricevendo l’apporto decisivo delle masse del proletariato meridionale
impegnate in clamorosi scontri con l’apparato repressivo, che produssero una
formidabile ripercussione in tutto il Paese, e culminò nelle grandi lotte delle
fabbriche del Nord dell’«autunno caldo».
Nel
’69 comparve Ludd (cui aderì fin dall’inizio Giorgio Cesarano), che partecipò
attivamente al movimento, soprattutto a Genova, città in cui raggiunse anche
una notevole consistenza. Nell’ultima parte dell’anno, le componenti del
movimento ancora legate al corpo della sinistra e contraddistinte dalle varie
gradazioni dell’ideologia marxista-leninista od operaista si organizzarono e si
strutturarono in gruppi politici formalizzati. Ludd dovette perciò iniziare a
contrapporsi, a distinguersi, a condurre una battaglia in fondo di
retroguardia, che in quel momento non era essenziale ma che avrebbe segnato poi
profondamente l’esperienza della corrente radicale negli anni successivi.
Alla
fine dell’anno lo Stato per imporsi dovette ricorrere alle bombe. Da allora
tutta la vicenda italiana fu segnata dagli attentati e dalle azioni armate,
costringendo i rivoluzionari ad aprire un altro fronte, anch’esso difensivo,
per demistificare la violenza di Stato, cui si sarebbe aggiunta in seguito
quella della componente armata autonomizzatasi dal movimento proletario.
Tutto
questo avrebbe pesato in modo determinante sull’attività dei rivoluzionari
negli anni successivi, impegnandone le energie contro la repressione e in tutta
un’attività di smascheramento e distinguo, e finendo per costituire un freno
allo sviluppo della potenzialità rivoluzionaria.
Ciò
tuttavia sarebbe stato avvertito solo qualche tempo dopo. Per un anno o due si
stentò a riconoscere il dato di fatto del riflusso e dell’aprirsi di una fase
di ripiegamento.
7. I contenuti del comunismo radicale
Il
punto centrale nel quale si possono identificare i contenuti caratteristici
della corrente comunista radicale è la convinzione di essere entrati in
un’epoca in cui lo sviluppo delle forze produttive è tale da consentire
un’affermazione diretta del comunismo, finalmente al di là dei problemi della
transizione e del socialismo: lo sviluppo della scienza, della tecnica, del
macchinismo e dell’automazione sono tali da consentire una radicale liberazione
dal lavoro. La ricchezza accumulata dal capitale rende possibile una
realizzazione immediata del comunismo.
Questo
contenuto centrale ben corrisponde al senso generale del movimento che «rivoluziona
i rivoluzionari», scuote i limiti della loro vita e li apre a una prassi che
non segue più in alcun punto gli schemi tradizionali di tattica/strategia,
lotta economica/lotta politica, sindacato/partito. Per esempio a partire
dall’astratta rivendicazione del diritto di fare assemblee nelle scuole, si
metteva a soqquadro tutta la vita scolastica, con scioperi, occupazioni,
interruzioni delle lezioni, sabotaggi, pratica della libertà amorosa e rivolta
contro le famiglie.
Questo
ribaltamento ben si rispecchiava a sua volta nella coscienza che ormai ci si
doveva porre solo l’obiettivo distruttivo di fermare la macchina capitalista
ovunque possibile; che non si trattava di ricostruire, di trasformare, di
riformare alcunché, ma essenzialmente di abbattere, irreversibilmente, tutti
gli aspetti dello stato delle cose: la struttura produttiva e di classe così
come i costumi e le mentalità. Il nuovo sorgeva spontaneamente proprio come
esigenza di esistere nella lotta, cioè in una condizione di antagonismo permanente
che imponeva, di per sé, un uso radicalmente diverso degli spazi e delle
risorse.
Tutto
ciò implicava anche una riattualizzazione dei contenuti dell’ultrasinistra ma
essenzialmente sul piano pratico, dal momento che allora non esisteva una conoscenza
precisa del consiliarismo storico (non a caso una delle preoccupazioni di Ludd
fu appunto il chiarimento sulla «ideologia consiliarista»).
La
critica della democrazia – tematica di origine bordighiana – si esprimeva
praticamente nella convinzione che nell’«agibilità politica» conquistata da
operai e studenti l’importante era il rapporto di forza, il contenuto che si
riusciva a dare alla lotta, la sua capacità di distruzione dei rapporti
esistenti e, al contempo, di affermazione del comunismo nell’immediato.
Altrimenti assemblee e lotte sarebbero cadute nelle grinfie dei conciliatori
riformisti o dei militanti ideologici m-l, che le isterilivano e le conducevano
verso la cogestione o l’asfissia.
La
concezione unitaria dell’organizzazione richiamava le Aau-e tedesche e la lotta
storica degli anarcosindacalisti e degli anarchici: non a caso, come già detto,
nel ’68 appariva caduca la contrapposizione anarchismo-marxismo.
Allo
stesso modo ridiventavano attuali le critiche al leninismo e alla degenerazione
burocratica del movimento rivoluzionario, che includevano premesse e
conseguenze della Rivoluzione d’Ottobre. La denuncia del carattere sociale
capitalista dell’Urss così come della Cina e del Vietnam, distinse subito i
«radicali» da tutte le correnti gruppettare in formazione, incluse quelle
trotzkiste (queste ultime peraltro in Italia non trovarono mai uno spazio
paragonabile, ad esempio, a quello francese: la specifica «ideologia italiana»
infatti fu sempre nettamente contraddistinta dallo stalinismo).
Allo
stesso modo fu immediato per i «radicali» identificarsi con una serie di
contenuti e di pratiche – tra cui: l’azione diretta; l’autonomia della lotta;
la denuncia dei partiti e dei sindacati quali rappresentanti del capitale; i
Consigli operai, l’intransigenza verso ogni mediazione operata dai riformisti e
dai progressisti – che a suo tempo erano stati tipici della corrente
ultrasinistra tedesco-olandese e in parte anche della Sinistra italiana.
8. Ludd e il consiliarismo
Nel
1969, Cesarano, ormai personalmente impegnato nelle battaglie di prima linea
del movimento – dal Cub Pirelli all’occupazione dell’Hotel Commercio nel centro
di Milano, all’autogestione della casa editrice il Saggiatore – aderì a Ludd.
Al
di là delle differenziazioni interne (il gruppo era infatti tutt’altro che
omogeneo), la partecipazione di Cesarano andò indubbiamente nel senso di
sottolineare i caratteri originali e nuovi di questa formazione, che infatti si
qualificava – fin dalla scelta del nome, Ludd – come prodotto di un inizio, di
una svolta che non aveva più niente in comune con il movimento operaio, defunto
per lo meno a partire dal Maggio ’68.
Ludd
si pose bensì il problema del precedente storico cui veniva inevitabilmente
ricondotta la sua critica, e aveva ben chiaro il problema: la teoria
consiliarista era quasi del tutto sconosciuta in Italia.
Nelle
convulsioni rivoluzionarie seguite alla fine della Prima Guerra mondiale,
infatti, l’«estremismo», caratterizzato dal rifiuto dell’elettoralismo e del
fronte unico con i socialisti, si manifestò in Italia nella corrente
bordighiana, che però era nettamente ostile al consiliarismo, a favore di una
distinzione molto chiara tra partito politico e organizzazioni
economico-sindacali e di gestione. L’istanza consiliare era allora
rappresentata dal gruppo torinese dell’Ordine Nuovo (Gramsci, Terracini,
Togliatti, Tasca) che emerse come forza consistente, insieme agli anarchici,
durante l’occupazione delle fabbriche del settembre 1920. Al contrario, come
avrebbe egli stesso ricordato al termine della sua vita, la posizione di
Bordiga era: «Non bisognava occupare gli stabilimenti e le officine, bisognava
occupare lo Stato e tutte le sue propaggini». Tuttavia, malgrado la sua
formazione indubbiamente rivoluzionaria (anche se, secondo Bordiga, a-marxista)
e le posizioni marcatamente «estremiste» sostenute in un primo momento, in
seguito, la corrente dell’Ordine Nuovo divenne lo strumento della
riunificazione con la maggioranza socialista «centrista», imposta da Lenin e
dalla direzione cominternista di Zinov’ev, e fornì poi i quadri alla
«bolscevizzazione» del partito e a tutte le «svolte» dello stalinismo.
Per
questo, in Italia, non è mai esistita una tradizione consiliare affine a quella
tedesco-olandese (se si escludono minuscole minoranze nell’emigrazione tra le
due guerre quali quella costituita da Michele Pappalardi, Piero Corradi e le
loro riviste: «Réveil Communiste» e «l’Ouvrier Communiste»). La rivalutazione
della rivoluzione tedesca e del comunismo dei Consigli fu posteriore al ’68, e
legata in buona parte all’attività che la Vieille Taupe stava
svolgendo già da alcuni anni in Francia[10].
Il
primo numero di «Ludd» pubblicò gli atti della riunione organizzata a Bruxelles
da Information Correspondence Ouvrière nel luglio ’69 alla quale partecipò un
po’ tutto lo schieramento consiliare, includendo anche i testi dei gruppi
«immediatisti», che ponevano al centro della loro prassi forme di realizzazione
immediata della critica della vita quotidiana (illegalismo, rifiuto immediatista
del lavoro, edonismo), e avevano perciò duramente contestato gli altri
partecipanti alla riunione di Bruxelles. Fin dall’inizio una componente di Ludd
simpatizzava chiaramente con questo tipo di atteggiamento. Sicuramente il
gruppo milanese, di cui faceva parte Cesarano, metteva al centro dei propri
interessi la critica della vita quotidiana nella forma di una ricerca di
coerenza estrema nei rapporti personali e di disvelamento dei «bisogni reali».
Su
«Ludd» venne pubblicato anche Critica
dell’ideologia ultrasinistra di Jean Barrot che faceva propria la critica
sostenuta dalla Sinistra italiana di Bordiga alla corrente ultrasinistra.
Barrot, criticando l’ideologia consiliarista, ne respingeva le tendenze
gestionarie in favore di una difesa dell’essenziale dell’opera di Marx, cioè la
critica del valore, del processo di valorizzazione capitalista, la cui rottura
e la cui abolizione costituiscono il contenuto della rivoluzione comunista.
Ludd
non può essere ricondotto al filone consiliarista: perché prendendo subito le
distanze dal progetto dell’autogestione nel suo complesso, respingeva anche
l’eredità del consiliarismo storico.
Ludd
non si sentiva erede di alcuna corrente storica, affermava anzi che il
proletariato non ha alcun programma da realizzare.
Questa
connotazione negativa della critica (fine della politica, del militantismo, del
movimento operaio e sindacale, dell’attivismo) avrebbe assunto un peso
determinante nella fase successiva a quella di maggiore attività e influenza
della tendenza comunista radicale (’67-’71).
Il
riflusso infatti venne all’inizio percepito soprattutto come ritorno delle
organizzazioni politiche staliniste o neo-staliniste: alla fine del ’69 vi fu
un vero e proprio boom delle organizzazioni (tra l’altro nacquero Lotta Continua,
Potere Operaio e l’infame Movimento Studentesco di Capanna e Toscano che si
distinse per la selvaggia repressione dei «provocatori»), e ai rivoluzionari
s’impose l’esigenza di distinguersi, di tracciare bene la linea della
separazione.
Questa
esigenza tese a manifestarsi in negativo, soprattutto come rifiuto del
militantismo, ripudio della politica e del proselitismo, e come vera e propria
messa in discussione «nichilista» di ogni tipo d’intervento pubblico al di
fuori del ristretto ambito dei compagni, se non per mezzo di «azioni
esemplari», o al massimo sfruttando le occasioni offerte dagli scontri con la
polizia per sfogare la rabbia accumulata. I tempi stavano cambiando. Nel ciclo
successivo –’71-’76 – l’influenza dei rivoluzionari sarebbe stata molto
ridotta.
Iniziò
un processo di «autoconsumazione» della corrente radicale, che l’avrebbe
portata a trovarsi in ginocchio alla riapertura di un altro ciclo di lotta tra
il ’77 e il ’79.
9. Il riflusso. Azione Libertaria e
«Invariance»
Tradizionalmente,
abbiamo sempre considerato il 12 dicembre 1969 come la data che conclude il
ciclo del ’68 e apre il primo ciclo di riflusso. Tuttavia, come tutte le date
storiche, anche questa ha un valore relativo. Innanzitutto sul piano
internazionale l’ultima grande manifestazione di lotta, la grande rivolta
polacca, esplose alla fine del 1970.
In quell’anno si verificò anche l’invasione americana
della Cambogia e il movimento usa raggiunse un vertice di mobilitazione contro
la guerra, in seguito ai famosi fatti dell’Ohio, concludendo vittoriosamente il
suo ciclo, mentre le truppe e soprattutto la flotta statunitensi in Vietnam
conoscevano un crescendo di ammutinamenti e d’insubordinazione. Anche in Italia
il ’70 fu ancora un anno di grande agitazione sociale, malgrado la repressione,
e la chiusura dell’«autunno caldo». Le università e le scuole continuavano a
essere occupate, mentre nuclei di operai che sfuggivano al recupero dei gruppi
«extraparlamentari» creavano reti di contatto autonome. A Milano un’aggregazione
anarchica influenzata direttamente da elementi «radicali», Azione Libertaria,
riuscì a mobilitare fino a 3.000 persone in un paio di manifestazioni di
piazza. In una di queste, in occasione del primo anniversario della strage di
Piazza Fontana, organizzata dalla sola Azione Libertaria, in rotta con tutto il
movimento anarchico, che non ne voleva sapere a causa del divieto della
questura, si accesero duri scontri nel centro cittadino, nel corso dei quali
Saverio Saltarelli, un giovane militante di Rivoluzione Comunista, venne ucciso
dalla polizia.
Azione
Libertaria nel corso dell’anno si staccò dal movimento libertario e, pur senza
stabilire rapporti organici con Ludd, realizzò un notevole approfondimento del
concetto e della prassi dell’autonomia operaia, in modo simile a Information
Correspondence Ouvrière.
L’ipotesi
centrale era quella di sviluppare il contenuto dell’autonomia operaia,
collegando tra loro i nuclei di fabbrica che non avevano accettato di farsi
assorbire dai gruppi extraparlamentari; venne quindi approfondita soprattutto
la tematica del conflitto nei luoghi di lavoro e vennero pubblicate varie
riviste di cui una, nel ’71, dal profetico nome «Autonomia Operaia» [le altre
sono «Azione Libertaria» (1970) e «Proletari Autonomi» (1971)]. Va detto che
rispetto alla successiva e celebre tendenza omonima del periodo ’75-’79, questa
esperienza era qualitativamente superiore non essendo inquinata dalle ideologie
staliniste e militariste di cui l’Autonomia del ’77 non seppe mai liberarsi del
tutto. In seguito si verificò una rottura tra coloro che volevano limitarsi a
collegare i gruppi di fabbrica e i comunisti radicali che percepivano già
l’annunciarsi del riflusso e intendevano quindi, da una parte sviluppare
un’attività teorica e dall’altra «chiudere» a gruppi come Lotta Continua,
Potere Operaio e Collettivo Politico Metropolitano, fino al ’71 occasionali
alleati dei radicali e degli anarchici.
Si
faceva sentire l’influenza teorica bordighiana. Come in altre situazioni, quali
Ludd e la Libreria La
Vecchia Talpa, il punto di riferimento teorico principale diventò «Invariance»,
ancor più che l’«Internationale Situationniste», del resto conosciuta solo fino
a un certo punto (i principali riferimenti erano soprattutto il Trattato di saper vivere ad uso delle
giovani generazioni di Raoul Vaneigem e l’unico numero apparso
dell’edizione italiana dell’«Internazionale Situazionista», mentre La società dello spettacolo fu in genere
letto poco e male)[11].
«Invariance»
traeva origine da una scissione della sezione francese del Partito Comunista
Internazionale («Programme Communiste»), che rivendicava il ruolo della teoria
contro il partito accusato di attivismo e assimilato alle sètte trotzkiste (per
la verità piuttosto ingenerosamente).
«Invariance»
fondamentalmente contestava l’utilità di un partito organizzato con tanto di
attività sindacale ecc., e contrapponeva all’organizzazione formale dei
militanti il «partito storico», cioè l’insieme della teoria e del programma
marxiani, che solo nei periodi rivoluzionari si struttura come formazione
militante, mentre nelle epoche controrivoluzionarie si dissolve per evitare di
farsi coinvolgere nella degenerazione opportunistica: così Marx provocò il
dissolvimento della Prima Internazionale; così Bordiga non ricostruì un vero
partito nel dopoguerra, ma si servì del Partito Comunista Internazionale solo
come di uno strumento per continuare il suo lavoro teorico, senza nemmeno
prenderne la tessera.
«Invariance»
diffuse soprattutto l’immensa opera di Bordiga, traducendola in francese, si
avvicinò positivamente alla corrente ultrasinistra (tradizionalmente messa
all’indice dall’ultra-leninismo bordighista) e produsse dei testi originali
notevoli, in particolare Il capitolo VI inedito e l’opera economica di Karl Marx,
scritto da Jacques Camatte quand’era ancora nel partito, e rivisto dallo stesso
Bordiga.
Indubbiamente
l’accostamento a una tale prospettiva era contraddittorio da parte di una
corrente – e soprattutto da parte di un gruppo come Ludd – che aveva fatto del
’68 un nuovo inizio, l’apertura di un’epoca rivoluzionaria del tutto nuova.
Ma
questa contraddizione scompariva davanti allo smarrimento generale portato con
sé dal riflusso del ciclo di lotte ’67-’70: non ci si ritrovava, non ci si
adattava alla nuova realtà. La teoria, in precedenza solo orecchiata, prese
tutto il suo rilievo. Con avidità ci si gettò su Marx e su Bordiga, riscoprendo
le armi della critica in tutta la loro potenza.
Il
modello del partito bordighiano, piccola setta braccata dagli stalinisti, che
negli anni Cinquanta aveva sostenuto posizioni anticonformiste (come la famosa
sezione di Asti che faceva opera di crumiraggio in occasione degli scioperi
staliniani), sembrava corrispondere alla situazione della nostra corrente
all’inizio degli anni Settanta: le lotte rifluivano, l’orizzonte era occupato
dai vocianti gruppi maoisti, che espellevano sistematicamente i comunisti
radicali dalle assemblee.
Il
«partito storico» di Marx non era la struttura burocratica e terroristica dei
bolscevichi, e assumeva un fascino esoterico di fronte alla nostra reale
indigenza: era un partito che poteva ridursi allo scaffale di una biblioteca, a
una casella postale, alla corrispondenza e agli incontri di due o tre amici. Ma
nello stesso tempo era un’entità che, per quanto disincarnata, si estendeva al
di là dello spazio e del tempo unificando le generazioni e i continenti
nell’invarianza del programma comunista, stabilito una volta per tutte da
un’illuminazione storica (affine a quella dei grandi profeti delle religioni
rivelate) che tra il 1844 (Manoscritti economico-filosofici) e il 1848
(rivoluzione) aveva permesso di percepire la prospettiva di tutta l’epoca
successiva. Effettivamente il contatto con «Invariance» stimolò l’accostamento
alla ricchissima produzione bordighiana e lo studio dell’opera di Karl Marx;
l’isolamento cessò di essere considerato un problema, anzi venne valorizzato:
ogni forma di attivismo era d’intralcio all’attività teorica. L’egemonia tra i
nostri interessi passò agli opuscoli, alle riviste, ai ciclostilati.
Lo
schema logico era il seguente: il movimento proletario internazionale è
ricomparso sulla scena storica tra il ’65 e il ’70; l’epicentro della
rivoluzione si è spostato negli Stati Uniti; l’ondata rivoluzionaria ha
spazzato l’Europa arrivando fino all’Est; dal 1971 questo periodo si è chiuso,
e si è aperta una fase di riflusso in cui non si tratta più d’intervenire
attivamente, per non venire riassorbiti nella realtà dominata totalitariamente
dal capitale; durante il riflusso vi è da compiere un’immensa attività teorica:
assimilare l’opera di Marx e Bordiga, la rivoluzione tedesca e la corrente
ultrasinistra, la Scuola
di Francoforte e utilizzarle per passare all’affermazione del comunismo;
comunismo che dev’essere dimostrato sulla base dei movimenti recenti e dei
teorici che li hanno meglio descritti (oltre all’Internazionale Situazionista,
a seguito dell’interesse per il movimento americano vennero riscoperti anche
Norman O. Brown ed Herbert Marcuse[12]).
Questo
implicava il rigetto definitivo della politica con la quale si trattava di
chiudere i conti: nessuna delle varianti estremiste o militariste offriva
niente d’interessante per noi, anzi, anche l’Autonomia Operaia andava respinta
perché non faceva che appiattirsi sui limiti di una situazione bloccata e
asfittica. Solo la prossima ripresa del movimento avrebbe riproposto le
questioni dinamicamente nella loro reale dimensione. Nel frattempo si trattava
d’investire con la critica l’interiorità che tendeva a essere colonizzata dal
capitale, e tutte le sfere discrete e private, sequestrate dal capitale totale
che si stava impossessando degli individui. Di fronte al prossimo riapparire
della rivoluzione, era necessario essere pronti avendo forgiato le armi
teoriche non più della negatività, ma dell’affermazione e della fondazione
teorica del comunismo.
La
possibilità concreta era quella di arricchire immensamente le nostre armi con
l’apporto della tradizione marxiana e bordighiana. Ma da una parte la tendenza
immediatista si sarebbe ostinata nella sua utopia, creando Comontismo;
dall’altra Cesarano avrebbe prodotto lo sforzo teorico più intenso, assumendo
su di sé, vivendole nel suo percorso teorico-pratico, le contraddizioni di
tutta la corrente.
10. Lo scioglimento di Ludd e il
revival dell’immediatismo
Se
il riflusso comportò anche una crescita teorica e un’immersione più o meno
fruttuosa negli studi secondo il nuovo modello bordighiano-invariantista, esso
significò però la fine dei gruppi che, come Ludd, si erano identificati con i
contenuti nuovi del movimento, traendone tutta la loro forza.
La
natura eterogenea di Ludd rese la sua dissoluzione un fatto spontaneo e quasi
indolore. Il problema di come resistere a un’ondata controrivoluzionaria non
era stato nemmeno posto. Non c’era stato nessun tentativo di darsi
un’organizzazione che potesse durare. Anzi lo scioglimento del gruppo poteva
persino essere un fatto positivo perché evitava il recupero ideologico, il
riassorbimento nell’essere del capitale.
Tuttavia
con l’esaurirsi di Ludd, non si bruciò con esso il residuo dell’immediatismo,
che continuò a influenzare anche la produzione teorica successiva.
Troppo
facilmente i rivoluzionari genuini (all’opposto dei cultori settari di
un’ideologia che li valorizza), stretti tra la schiacciante superiorità del
capitale e l’apparente inconsistenza della loro presenza di antagonisti, non
appena non trovano più riscontro in un movimento reale che incarni socialmente
la loro prospettiva, tendono a non prendersi sul serio.
Lo
scioglimento «spontaneo» di un’aggregazione è sempre il prodotto di una
debolezza, tende a essere rimosso in fretta dai rivoluzionari, a causa
dell’insicurezza sulla reale portata di ciò a cui si è partecipato e di un
inconscio senso di modestia. Negli anni Settanta questa fretta era aggravata
dall’ansia di passare a una sfera di attività superiore o comunque più
coerente, fondata sull’illusione che in quanto individui, non solo si sarebbe
stati meno impediti, ma addirittura potenziati nella propria ricerca di radicalità.
(Peraltro, allora, questa scelta poteva trovare conferma in un ambiente sociale
molto più interessante e praticabile per un esploratore avventuroso rispetto a
quello attuale.)
Può
essere del tutto giustificato, e anzi prova di una profonda esigenza di
radicalità, il fatto che un gruppo, in un periodo di riflusso, si sciolga per
rifiutare di cadere in una ripetizione rituale dei propri gesti, che sostanzia
il perpetuarsi dell’organizzazione come fine in sé, e quindi autonomizza
l’attività degli individui che la compongono, trasformandoli in militanti.
Abbiamo tanti esempi della miseria di quei gruppetti che si ostinano a fare del
proselitismo con lo scopo di reclutare qualche militante che tenga in vita il
lumicino dell’organizzazione.
Ciò
non significa però che la scissione e lo scioglimento di un gruppo, ancorché
numericamente inconsistente – e questo non era il caso di Ludd – non siano dei
fatti estremamente importante per ciò che verrà dopo, e non debbano essere
affrontati molto seriamente.
La
vicenda di Ludd è esemplare perché da un lato testimonia dell’essenza
rivoluzionaria del gruppo, che non aveva nulla da guadagnare a perpetuarsi come
«azienda» autonomizzata nel momento in cui né il movimento immediato né la
tensione teorica erano tali da tenerlo in vita, ma dall’altro testimonia anche
della superficialità con cui fu «lasciato perdere».
Dal
punto di vista del movimento rivoluzionario le rotture, le scissioni, gli
scioglimenti devono avere una funzione di arricchimento, di chiarezza per gli altri.
Per questo quando si chiude un’esperienza è decisivo che si facciano i conti
con essa, e che questi conti vengano chiusi coscientemente ed esplicitamente.
Altrimenti rimangono residui confusi, che poi continuano a produrre conseguenze
non volute.
Così,
nel caso di Ludd, vi furono degli strascichi, assolutamente deleteri.
Vi
fu innanzitutto lo strascico della delusione e del risentimento, che si
sviluppò anche ad anni di distanza, nella tendenza a sostituirsi alla classe
operaia. Questa fu la tendenza dell’immediatismo «armato», che prese varie
forme nel movimento degli anni Settanta, e nella multiforme Autonomia Operaia,
per avere il suo sbocco più regressivo e catastrofico nella drammatica
esperienza di Azione Rivoluzionaria.
Inoltre
non vennero fatti fino in fondo i conti con l’ideologia della vita quotidiana,
dogmatismo immediatista, che diede vita a gerarchie occulte che trovavano
corrispondenza nell’automortificazione dei militanti più deboli. Cesarano fu
chiaramente sensibile a questa degenerazione e ne produsse una critica molto
dura e precisa. Ma, sorprendentemente, questa critica restò nell’ambito
«privato», degli intimi, degli amici. Nelle opere, Cesarano diede per scontata
questa critica, come se fosse stata già portata a termine in altre occasioni.
In realtà il problema venne liquidato senza essere mai chiarito fino in fondo.
Comontismo, erede dichiarato di questa «ideologia della vita quotidiana»,
spinse l’immediatismo fino al paradosso di denominare «comunità umana» la
cerchia dei compagni (appunto, Comontismo = Gemeinwesen).
Cesarano, benché molte volte avesse dichiarato la propria profonda estraneità
verso la teoria, la pratica e la prospettiva comontiste, non arrivò mai a una
vera resa dei conti teorica che chiarisse esaurientemente la questione. La
«critica della vita quotidiana» era stata ridotta a odiosa precettistica
inquisitoria, concretizzandosi in un’organizzazione ben viva e concreta, verso
cui si può provare tutta la simpatia personale e umana di questo mondo, ma di
cui non si può negare il carattere teoricamente regressivo rispetto a Ludd.
Il
fatto è che il lascito immediatista di Ludd andò al di là delle ingenue e
grossolane manifestazioni di Comontismo e della sua rozza ed enfatica
«ideologia della criminalità». È, in generale, in tutto l’orizzonte radicale
che il quotidianismo continuò ad attecchire. Al rifiuto della politica, del
militantismo, della continuità organizzativa, del valore della durata nel tempo
dell’attività comune facevano da pendant da un lato la chiusura esclusiva nella
teoria (che, di per sé, non fa male a nessuno) dall’altro la scelta di modelli
di azione non più nella classe – o in nuclei autorganizzati della classe – ma
nell’ambito della disgregazione sociale e psichica. (Lo stesso rifiuto
dell’organizzazione oggi va rivisto criticamente, perché in assenza degli
invadenti gruppuscoli gauchisti ha perso gran parte della sua pregnanza, e a un
rivoluzionario di oggi può apparire una incomprensibile fobia, soprattutto
perché ha un effetto d’inibizione, genera impotenza, depriva di efficacia e di
strumenti validi di comunicazione che si possono forgiare solo nel tempo, nega
l’esperienza acquisita.)
Le
manifestazioni rivoluzionarie di punta, vennero ricercate nella follia, nel
delirio, nella criminalità, nelle esplosioni inconsulte e senza senso di
violenza, o, al massimo, come ultimo legame con l’ideale dell’azione
collettiva, nelle rivolte dei ghetti neri negli Stati Uniti e persino nelle
rivolte fascistoidi e a sfondo clientelare delle città dell’Italia meridionale
(Reggio Calabria, Caserta). «L’esplosione “selvaggia” (la parola è delle
gerarchie del sapere, che infatti sanno) dell’estraniazione contro
l’alienazione, della passione contro il patire, là dove il proletariato moderno
si palesa all’attacco, nei ghetti già impraticabili a borghesi e poliziotti
isolati di Detroit e di New York – come di Reggio Calabria e di Caserta e del
Quartiere Latino, quando per “futili motivi” la rabbia è scaturita –, mostra
con quali tratti la lotta per la vita contro il “progresso” della necrosi deve,
perché vuole, apparire. Sono i tratti, appunto, belluini,
dell’inselvatichimento, della violenza selvaggia. […] il selvaggio conquista
nelle notti lo spazio che di giorno battono padroni e servi, i borghesi non
s’avventurano per le medesime vie dove si aprono gli uffici delle loro
rappresentanze che, in quel tempo-spazio riconquistato dal loro nemico, non li
rappresentano più. E anche di giorno, il selvaggio appare in scorrerie
disperate e fulminee, i mitra si affacciano agli sportelli dei cassieri, sotto
l’occhio elettronico della Tv poliziesca.»[13].
Questo
punto è molto importante per comprendere la «svolta» della corrente radicale
agli inizi degli anni Settanta, che avrebbe portato al suo successivo
isterilirsi. In special modo è fondamentale se si vuole comprendere Critica dell’utopia capitale che si
trovò proprio di fronte al compito di dare uno sbocco teorico a questo momento
storico cruciale.
Anche
nell’opera più importante di Cesarano si può trovare la radice di questo immediatismo:
le rivolte dei ghetti neri, ma anche le espressioni individuali di violenza
immotivata, le bande criminali, o le crisi interiori che dilagano nella nevrosi
e nella pazzia non più contenibili da nessuna struttura repressiva o
terapeutica vengono valutate già nella loro immediatezza come manifestazioni
del movimento comunista, della prassi rivoluzionaria che sopprime lo stato
delle cose.
Cesarano
inserì questi atti di rivolta in un discorso teorico generale che tendeva a
dimostrare il carattere «biologico» della rivoluzione, il suo radicarsi nel
corpo vivente della specie umana che attacca simultaneamente l’universo
inorganico, l’Ego-persona e il linguaggio prodotto della «razionalità»
dominante. «Ogni volta che un uomo “impazzisce”, ribalta violentemente la
gabbia che lo imprigiona e dichiara inesistente e menzognero l’esistente,
l’immaginazione si realizza. “Ogni volta” sta per diventare sempre. Negli
indici crescenti di criminalità, di nevrosi e follia, nella frequenza crescente
delle esplosioni collettive di collera “immotivata”, nell’insubordinazione,
l’estraniazione, l’assenteismo striscianti, sono visibili le tappe intermedie
del cammino dell’immaginazione verso il rovesciamento definitivo della realtà
come organizzazione dell’irreale e verso la conquista di una totalità organica
che realizzi la fine dell’utopia inorganica capitalista, la fine della
preistoria e l’inizio della storia come equilibrio raggiunto dell’esserci con
l’essere, congiunzione finalmente raggiunta della volontà di vivere con la
vita.»[14] Ma l’apologia dei momenti di disgregazione sociale e psichica e
delle improvvise esplosioni di vitalità mortifera era preesistente e aveva
caratterizzato il periodo di dissolvimento di Ludd e dei prodromi di
Comontismo. Era parte di un tentativo di cooptare nel «movimento reale» tutte
quelle forme di ribellione inconsulta, in sostituzione del proletariato che in
quel periodo era costretto a rifluire in vertenze particolari all’interno delle
fabbriche o sul problema della casa.
Per
comprendere meglio l’origine di questa prospettiva bisogna ritornare a
«Invariance» che in questo periodo fornì la fonte principale d’ispirazione a
tutta l’area comunista radicale italiana, anche se spesso con esiti diversi.
Infatti,
questa rivista affiancò alla ristampa dei testi di Bordiga e agli studi
marxiani degli interventi originali, che ebbero una notevole influenza sulla
nostra corrente, e in particolare su Cesarano.
In
seguito nella sua seconda serie «Invariance» iniziò il distacco a marce forzate
dalla teoria marxiana che l’avrebbe portata poi – pur mantenendo il nome, ormai
contraddittorio – a numerose svolte di 180° su tutte le questioni fondamentali,
fino ad arrivare nel 1977 – data cruciale anche per il distacco dalla teoria
rivoluzionaria di numerose mosche cocchiere – all’abbandono della problematica
rivoluzione-controrivoluzione.
In
Critica dell’utopia capitale si
ritrovano due contenuti tipici d’«Invariance».
Il
primo è il concetto di «classe universale»: la condizione proletaria tende a
generalizzarsi, le nuove classi medie (quelle che oggi si chiamano comunemente
«terziario») tendono a vivere una condizione di sfruttamento e di alienazione
analoga a quella del proletariato. Nel corso di una crisi rivoluzionaria, il
proletariato ha così la possibilità di dislocare sul proprio terreno di scontro
la grande maggioranza dell’umanità, unificata appunto come «classe
universale»[15]. Questo concetto venne inserito da Cesarano nella sua
prospettiva di rivoluzione biologica, in cui ogni distinzione di classe diviene
obsoleta, giacché ormai l’«utopia capitale» si contrappone all’intera specie
umana.
Il
secondo concetto è quello che vede nelle rivolte delle metropoli americane
l’affermazione concreta del comunismo. Questo concetto venne amplificato dalla
concezione di una rivoluzione «muta», caratterizzata da Cesarano solo per la
sua opera distruttrice, negatrice del capitale, che trova una continuità nella
violenza senza senso, incluse le sue manifestazioni più sporadiche e
individuali. «Mentre il sipario sta calando sullo spettacolo delle guerre
d’ideologia, combattute fuori dai confini, la guerra è davvero, come dice
Marcuse, dappertutto e in ogni istante, ma è dappertutto e in ogni istante di
ciascuno, non c’è confine che la escluda, è inseparabile dai processi di
produzione. Questa guerra è la critica pratica che si esprime, nient’altro che
questo. Le ottiche di comodo della politica e della sociologia prestano alla
critica maschere e panni di ricambio ogni volta che essa si affaccia – ma si
affaccia sempre – nello sforzo patente di esorcizzarla. Il criminale, la teppa,
i drogati, i dropouts, i settari di religioni e di ideologie aliene, i
disadattati, i “giovani”, i sottoproletari, i “nevrotici”, gli alienati mentali
(!): il nemico originale, l’anticristo, coloro che con la loro stessa esistenza
negano l’insieme hanno troppi connotati per non vedere, semplicemente, che sono
tutti. La critica è latente in ciascuno.»[16]
Le
manifestazioni visibili del proletariato sono sempre e solo o manifestazioni
individuali delle crisi dell’Ego-persona, o esplosioni indifferenziate e
cieche: non si pone il problema d’identificarle storicamente né in un settore
di classe in lotta né in un insieme di princìpi né, tanto meno, in una prassi
collettiva e coerente. Scompare il concetto di comunismo, incluso in quello di
«totalità organica naturante», più ampio ma ancor più astratto e generico. Per
questo la sua opera contiene il pericolo di venire intesa come una critica
disperata, che trae la sua indiscutibile forza solo dal dolore e dalla follia.
Ma
non è possibile comprenderla se non la si considera come il prodotto di tutta
la corrente storica di cui faceva parte e della sua impasse teorica, che a sua
volta era il riflesso esatto della situazione di blocco pratico in cui si
trovarono i comunisti radicali alla chiusura del ciclo di lotte ’67-’70. In
quel frangente, la corrente radicale cercò di sostituire altre manifestazioni
«nuove», che fossero irrecuperabili dagli apparati capitalisti, all’azione
generalizzata e offensiva del proletariato, che stava rifluendo, e ai diffusi
valori «giovanili», che venivano rapidamente cooptati dall’industria culturale
in grado di trasformare la stessa liberazione sessuale, il comunitarismo, la
critica della famiglia, le droghe psichedeliche e il rock in altrettante nuove
merci.
La
forza e i limiti di Cesarano stanno nell’aver prodotto una sintesi potente e
unitaria della teoria di tutta un’epoca, creando una complessa macchina
critica, contenente però anche le contraddizioni di fondo del movimento di cui
era espressione. Egli stesso rimase profondamente coinvolto nell’impasse
generale. Bruciandosi tutti i ponti alle spalle abbandonò anche la prospettiva
collettiva che sarebbe stata necessaria proprio in quel momento. Rinviando a un
movimento futuro impregiudicato la soluzione dei problemi incombenti – benché Critica dell’utopia capitale fosse il
prodotto e il rispecchiamento di quella situazione –, Cesarano non si pose in
modo esplicito e dichiarato il problema dell’attraversamento di una fase di
riflusso.
L’astrattezza
di certe conclusioni di Cesarano è dunque da ricercarsi nella crisi dei
comunisti radicali di fronte alla nuova fase di arretramento. La stessa
profondità e ricchezza, per contro, del suo pensiero possono offrire gli
elementi per spiegare e demistificare il crollo di tutta la corrente, di fronte
alle possibilità e alle prove del ciclo di lotte successivo.
10 bis. Due punti di vista opposti
sull’organizzazione
Nel
’71 si costituì Comontismo e si sciolse il gruppo che si era raccolto attorno a
«Invariance». È il caso di ricordare questi due atteggiamenti diametralmente
opposti sul «problema dell’organizzazione», il secondo dei quali fu fatto
proprio da Cesarano e da gran parte della corrente. Il primo, quello di
Comontismo, identificò tout court il gruppo-ambiente di compagni che lo
costituivano (in gran parte reduci dell’analoga Organizzazione Consiliare di
Torino) con il partito storico del proletariato, o meglio con la «comunità
umana». Creò così un’organizzazione, diffusa in varie città italiane (cfr.
«Maelström», n. 2), che abbatteva ogni distinzione tra attività teorica e
pratica, vita pubblica e privata, individuo e organizzazione. Comontismo
pretese di dar vita a un comunismo concreto tra i suoi componenti i cui fondamenti
erano:
1)
collettivizzazione di tutte le risorse per la sopravvivenza;
2)
convivenza «totale»;
3)
pratica costante della «critica della vita quotidiana» per evitare di cedere
alla pressione ambientale-familiare-giuridica ecc. della società.
L’illusione
immediatistica del gruppo consistette nella dimenticanza di un dato
fondamentale e cioè che fra capitalismo – quindi fra i rapporti personali
dominati dalla valorizzazione – e comunismo c’è di mezzo una rivoluzione che,
secondo Marx, serve tra l’altro a «liberarsi di tutta la vecchia merda». Per
Comontismo la Gemeinwesen veniva
messa in pratica sui due piedi: si trattava di passare al comunismo, anche in
venti o in trenta, e di comunistizzare subito i rapporti: questo rese
inevitabile il passaggio immediato alla produzione ideologica: all’immediatismo
si affiancò subito la produzione di una serie di corollari «teorici».
Retrospettivamente
proviamo simpatia verso Comontismo: si trattò di un gruppo coraggioso, che
rimase sempre all’interno del fronte rivoluzionario, affrontando con valore una
dura repressione, battendosi contro i gruppuscoli maoisti-operaisti tutti
dotati di strutture militari specializzate create allo scopo di mantenere
assemblee e manifestazioni in un ambito accettabile per il loro padre-padrone
pci (con l’unica eccezione – oltre naturalmente ai gruppuscoli di ascendenza
bordighista che conoscevano anch’essi la repressione armata degli
«extraparlamentari» stalinisti – di Potere Operaio, gruppo di vocazione
guerrigliera, che, pur senza difendere i rivoluzionari pubblicamente, fu sempre
estraneo alle persecuzioni). L’atteggiamento provocatorio e ripugnante di
Comontismo (che brillò per umorismo macabro il 12 dicembre 1972 devastando la Banca dell’Agricoltura di
piazza Fontana a Milano) dovette tra l’altro far fronte alla calunnia
sistematica della sinistra per la quale, fino a pochi anni fa, valeva
l’equazione situazionisti = fascisti. È indiscutibile, invece, che Comontismo
fosse un gruppo rivoluzionario, che giustamente Cronaca di un ballo mascherato
citava come una parte integrante della corrente comunista radicale. Non priva
di fondamento fu la sua pretesa di essere rimasto sul terreno pratico
rivoluzionario, mentre molti altri ex luddisti avevano accettato la separazione
tra vita pubblica «militante» e vita privata, che doveva ben presto condurli al
nichilismo passivo e, in molti casi, al rinnegamento della scelta
rivoluzionaria, a favore della carriera o semplicemente del quieto vivere.
D’altra
parte non possiamo fare a meno di denunciare ancora oggi il regresso di
Comontismo rispetto al livello raggiunto da Ludd. L’immediatismo comontista
altro non è che sostituzionismo del proletariato spinto all’estremo. Da questo
punto di vista Comontismo costituì un vero e proprio modello di ideologia,
basato su di una gerarchia, non dichiarata ma facilmente visibile, che
sottoponeva le reclute a prove iniziatiche e a esami di radicalità. Si trattava
dell’aspetto funesto di Ludd, cui abbiamo già accennato a proposito della
critica rivoltagli da Cesarano, assurto a ideologia, applicato sistematicamente
senza un attimo di respiro. Tra i suoi corollari ideologici troviamo:
l’apologia della criminalità (unico modo sopravvivere che in realtà fosse
ammesso e rispettato); l’elogio, non pubblico ma costante all’interno del
gruppo, della droga pesante come strumento di destrutturazione e liberazione
dai rapporti familiari e repressivi; l’atteggiamento settario, di superiorità,
verso tutto ciò ch’era esterno all’organizzazione; l’ostilità del gruppo contro
il proletariato, lavoratore e pecorone, colpevole come tutti coloro che non
entravano nell’organizzazione, che si trasformava così in una banda in guerra
con l’umanità intera, secondo il modello criminale accettato acriticamente. Non
a caso parliamo d’ideologia: la teorizzazione di questi atteggiamenti pratici
infatti sfuggiva a un procedimento critico che ne mettesse in luce le basi
materiali: si trattava di dogmi che stavano essi stessi alla base
dell’esperienza estremamente coattiva di chi entrasse nel gruppo. L’esistenza
di questa forma d’immediatismo fu certo uno dei motivi che resero così ardua
per Cesarano l’indicazione di un qualsiasi sbocco pratico, perdendosi a volte
in un’astrattezza disarmante.
Ma
alla base di questa e di altre impasse di Cesarano stavano piuttosto le prese
di posizione diametralmente opposte a quella comontista: quelle d’«Invariance»
La
questione dell’organizzazione venne «risolta» da «Invariance» studiando le
misure prese da Marx per evitare che nei periodi di riflusso controrivoluzionario
il partito cadesse nel riformismo borghese. Tale analisi era estremamente
parziale, perché prescindeva da tutta l’attività marxiana volta a costruire il
partito comunista, e costituì una forzatura della tradizione rivoluzionaria che
tra l’altro evitava di valutare criticamente l’attività strettamente politica
di Marx nel suo complesso. Tale atteggiamento è esplicito in un testo del ’69,
pubblicato tre anni dopo da «Invariance» col titolo Sur l’organisation a firma di Camatte-Collu, che si può così sintetizzare:
1)
nel dominio reale del capitale ogni organizzazione tende a divenire un racket o
una setta;
2)
«Invariance» ha evitato questo pericolo sciogliendo l’embrione di gruppo che si
stava costituendo attorno alla rivista;
3)
ogni aggregazione organizzativa è esclusa a priori perché si trasformerebbe in
racket;
4)
i rapporti tra rivoluzionari sono utili solo al livello più alto della teoria,
che ciascuno deve conseguire in modo autonomo e personale, pena la caduta nel
suivisme.
Secondo
Camatte e Collu, il pericolo dell’individualismo sarebbe stato evitato perché
era già in corso – nel 1972 – la «produzione dei rivoluzionari»: la portata del
processo rivoluzionario era tale che una rete di contatti interpersonali al
livello «più alto» della teoria era garantita e anzi data per scontata. In
maniera molto precisa Camatte e Collu esprimevano un errore tipico di tutta la
corrente e di Cesarano stesso. In realtà nel ’72 non si stava affatto aprendo
una fase prerivoluzionaria sul piano internazionale (semmai il movimento
resisteva ma solo in Italia), non stava per verificarsi un’inesauribile
produzione di rivoluzionari (gli stessi Camatte e Collu diserteranno), e quindi
il rifiuto dell’individualismo era un’illusione. Non c’era nulla di glorioso
nell’aver disciolto i piccoli gruppi costituitisi attorno alle riviste, anzi si
accelerava soltanto ciò che stava già succedendo: la dispersione delle poche
forze rivoluzionarie che rimanevano dal ’68 e che non si sarebbero più
ricostituite (in Francia non si verificarono più rotture sociali di grande
portata, e in Italia la corrente rivoluzionaria arrivò al ’77 così debilitata
dall’individualismo che non fu in grado di produrre alcun intervento
rilevante). Anzi l’individualismo favorì lo sganciamento dalla dimensione
rivoluzionaria: o perché la vita nell’isolamento produce un senso di
smarrimento – al quale si sfugge solo col confronto con i propri pari – in cui
il movimento non viene più percepito e quindi genera delusione e depressione,
perdita delle difese di fronte all’«esterno» invadente e cedimento all’andazzo
dominante, o perché nasconde il personalismo, l’elitarismo, e quindi sgombra il
terreno da imbarazzanti rapporti che potrebbero danneggiare il reinserimento
opportunistico nell’ideologia borghese. Negli anni Settanta e Ottanta
l’accentuazione dell’opera di liquidazione dei residui organizzativi (peraltro
già informali e fragilissimi) e la paura immotivata del riflusso nella politica
o nell’«operaismo» o nel gauchismo sono sempre state le premesse del passaggio
«dall’altra parte della barricata» da parte di qualche esponente dell’«élite»
che aveva fatto un feticcio della teoria e che mostrava schizzinosità verso un
presunto pericolo di suivisme (in
realtà assolutamente inventato e inesistente: in Italia nessun gruppo e nessun
personaggio, e in Francia non certo «Invariance», hanno mai esercitato un
fascino paragonabile a quello dell’I.S. oltralpe, e tali da procurare loro
seguaci passivi.
Abbiamo
qui esposto due modi di vedere l’organizzazione tipici dell’inizio degli anni
Settanta, che possono essere respinti senza rimpianti, a maggior ragione senza
alcuna mitizzazione da parte di elementi più giovani.
Il
primo, quello comontista, è il modello della comunità umana-partito
storico-banda di delinquenti. Benché stimabile su di un piano umano (come lo è
il suo attuale epigono: il gruppo francese Os Cangaceiros), e sovente
interessante per le soluzioni pratico-organizzative-abitative che propose (i
rivoluzionari devono vivere «come se» il comunismo fosse già realizzato e
possono affrontare solidalmente la terribile lotta per la sopravvivenza, per
loro doppiamente dura) è fondato sul risentimento: il proletariato non è
rivoluzionario, perciò «noi» (piccolo gruppetto) siamo il proletariato; siamo
la comunità umana già realizzata. Ciò porta a valutare dogmaticamente e
ideologicamente il proprio operato di setta e a offrire gli sbocchi più
disastrosi: dal terrorismo sempre incombente dell’autocritica imposta a ogni
gesto e parola, al feticcio della coerenza; dalla sempre possibile regressione
politica, causata soprattutto dal fascino dell’azione, alla trasformazione pura
e semplice in banda di delinquenti. Il tutto fondato sul ricattatorio
feticcio-totem della «pratica», sul disprezzo ideologico per la teoria e l’azione
lucida.
L’altro,
quello invariantista, estesosi poi a gran parte della corrente radicale, è il
modello dei rapporti tra «teorici». In questo caso l’enorme feticcio-totem
della teoria nasconde l’unilateralità di rapporti limitati a una ridottissima
élite di «critici».
Questo
atteggiamento, ora che sono scomparse le illusioni sulla rapida e abbondante
«produzione dei rivoluzionari», sarebbe puro e semplice individualismo.
In
compenso non farebbe altro che appiattirsi sulla realtà in cui i rivoluzionari
sono già isolati. Aumentare ancor più la loro attuale impotenza con una tale
presa di posizione contro l’organizzazione non avrebbe senso. Il possibile
sbocco di chi continuasse ancor oggi, in piena e angosciante atomizzazione dei
rivoluzionari, a insistere nella fobia anti-rackettistica o nella esclusività
dei rapporti tra pochi eletti (sempre che riuscisse ancora a trovare qualcuno)
al livello più alto (e poi: più alto di che?) della teoria, non sarebbe
particolarmente stimabile.
Mentre
oggi è palese che ogni rinascenza dell’attivismo e del militantismo conduce di
volata al ritorno nella politica, d’altra parte dev’essere chiaro che il
feticcio della teoria separata dall’efficacia e dalla pratica collettiva, se
possibile organizzata, non offre una prospettiva per niente allettante. I
princìpi comunisti, unitamente a una teoria critica vivificata dal confronto
con la produzione teorica dell’ultimo ventennio e al principale risultato del
recente passato – e cioè l’istanza di una rivoluzione della e per la vita, la
messa in discussione dei limiti dell’Ego e dell’identità personale (di cui
l’opera di Cesarano costituisce un’esauriente ed entusiasmante denuncia),
l’esperienza vissuta della rivoluzione nella rivoluzione –, sono le uniche
garanzie contro la degenerazione rackettistica, cui non si sfugge con
l’isolamento autovalorizzante e tantomeno attraverso vie originali e personali
a una presunta creatività.
È
evidente che nel ’70 non esisteva il pericolo di creare un gruppuscolo
attivista-militante attorno a «Invariance» o a un nucleo di «teorici». Anzi, il
pericolo era esattamente opposto: la disgregazione e l’abbandono delle
questioni più importanti da affrontare:
1)
la riproposizione dell’apporto delle ultrasinistre storiche (Bordiga e il
nucleo portante della Rivoluzione tedesca, decisiva per tutta le rivoluzione
mondiale);
2)
un bilancio dell’apporto nuovo degli anni Sessanta;
3)
la necessità di creare un insieme di rapporti che resistessero nel tempo e
fossero in grado di affrontare le possibilità rivoluzionarie che si
presentavano negli anni Settanta.
Secondo
Camatte e Collu la «produzione dei rivoluzionari» risolveva magicamente ogni
difficoltà, mentre ciò che stava per accadere era la dispersione dei
rivoluzionari, e la dimostrazione della loro incapacità di cogliere l’occasione
che ancora, e solo in Italia, si presentava.
In
anni successivi venne posta, ancora in termini capovolti rispetto alla realtà,
la questione del nichilismo: in realtà manifestazioni nichiliste furono
l’abbandono della tradizione rivoluzionaria, la fine della tensione verso
rapporti comunisti tra i sovversivi, il rinnegamento del bisogno di divenire
una collettività operante, la sottovalutazione della necessità di non farsi
spazzare via dalla controrivoluzione.
Comontismo
costituì una caricatura dei rapporti tra rivoluzionari, e l’illusione che tutti
i problemi potessero essere magicamente risolti da un’ideologia bell’e pronta,
che pretendeva di essere il concentrato della teoria degli anni Sessanta, già
completa, che si trattava di applicare nella pratica, senza tante storie.
Per
quanto aberrante e insostenibile su di un piano teorico, nondimeno questa
semplificazione si basava su esigenze profondamente vere: la teoria non può
essere un’attività separata e specialistica, è tutt’uno con la coerenza
quotidiana dei rivoluzionari e con il bisogno di cambiare le cose nella realtà
di tutti, d’incidere nella società e nella storia.
Comontismo
ebbe un risultato doppiamente controproducente:
1)
perché creò una banda che si voleva nemica della società e del proletariato,
precludendosi ogni possibilità di aggregazione e di efficacia;
2)
perché in seguito fu agevolmente recuperato dall’ideologia più tipica degli
anni Settanta – l’apologia, esemplificata da Toni Negri, dei gruppi prodotti dalla
disgregazione sociale, invece della loro critica radicale –, e fu quindi
incapace di fornire una prospettiva a un’area, piuttosto consistente nel ’77,
di giovani che si staccavano dalla pratica armata strumentale e gerarchica
dell’Autonomia Organizzata, e cercavano di muoversi in prima persona,
coraggiosamente, ma con poche e confuse idee.
Ma
Comontismo aveva ragione nel respingere l’elitarismo dei pochi che si muovevano
«al livello più alto della teoria». Ciò non poteva che portare alla creazione
di rapporti fondati solo sul piano intellettuale.
Cesarano
fu l’unico a muoversi davvero al più alto livello, producendo una teoria chiara
ed esplicita del tutto anti-esoterica, cercando vanamente uno sbocco umano in
questo ambiente pseudo-intellettuale, contraddistinto da una fragilità assoluta
e da una formidabile incoerenza (se si escludono Piero Coppo e Joe Fallisi, gli
unici tra i suoi collaboratori ad aver mantenuto la coerenza rivoluzionaria,
senza peraltro aver mai nutrito pretese di superiorità derivanti dal possesso
della teoria).
11. Il comunismo profetico
Un
altro aspetto caratteristico della nostra corrente negli anni Settanta fu la
diffusione delle profezie.
Secondo
la periodizzazione da noi adottata, con il 1971 si chiuse il ciclo aperto nel
’64 dalle rivolte dei neri e dal movimento per i diritti civili negli Stati
Uniti. Si aprì una nuova fase di attesa, che tuttavia nella percezione dei
rivoluzionari avrebbe dovuto essere breve: il ’68 aveva riaperto l’èra delle
rivoluzioni. Soprattutto Detroit (’67) dimostrava che gli Stati Uniti erano il
nuovo epicentro della rivoluzione mondiale (contro la previsione di Bordiga),
anche se Danzica e Stettino (’70) confermavano l’importanza dell’«area tedesca»
(con Bordiga). Poiché la teoria è previsione o non ha ragione di essere, le
profezie, fondate su calcoli accurati dei cicli di crisi, formulate da Bordiga
negli anni Cinquanta, divennero spontaneamente tra di noi un «articolo di fede»
semiserio, in quanto risolvevano tutti i dubbi teorici: una profezia faceva
riferimento al ’75, un’altra, maggiormente precisa e specifica, indicava nel
’77 la data di una crisi e di una violenta convulsione del capitalismo: per
noi, tout court, la data della rivoluzione.
Tutto
l’alone di setta esoterica, che circondava il Partito Comunista Internazionale,
derisorio come organizzazione formale, ma fascinosa incarnazione del partito
storico, era confermato dai mitici Bordiga e Vercesi (Ottorino Perrone), membri
del Comitato centrale ma non iscritti al partito formale, puro espediente e
strumento del partito storico, ovvero della formidabile attività teorica del
profeta partenopeo.
Altre
forti interpretazioni profetiche venivano estratte da Norman O. Brown e da
Herbert Marcuse: dal primo si traeva una interpretazione di Freud che prevedeva
l’acuirsi del conflitto inconscio tra l’istinto di vita e quello di morte sino
a un’esplosione finale distruttivo-vitale o autodistruttivo-narcotizzata; nel
secondo si coglieva l’avvento di una nuova èra che spostava definitivamente l’orizzonte
rivoluzionario verso il trionfo dell’Eros, la nuova sensibilità e i nuovi
valori inaugurati dal movimento hippy americano. Tutte le profezie esoteriche e
astrologiche sentenziavano l’approssimarsi della crisi finale e dell’età
dell’Acquario. Tutto all’alba degli anni Settanta poteva, non senza una certa
dignità teorica e una certa coerenza nella dimostrazione, venire letto in
questo senso.
In
questo clima «teorico», che esprimeva la disperazione e il rifiuto di accettare
veramente, con il cuore, il ripiegamento sui libri (rifiuto di cui abbiamo
visto il riflesso ideologico in Comontismo), la diffusione de I limiti dello
sviluppo del Massachusetts Institute of Technology (Mit) era benvenuta, giacché
costituiva una conferma indiscutibile proprio in quanto proveniva dal centro
pensante del nemico.
Critica dell’utopia capitale non si limitava a questa ingenua religiosità
rivoluzionaria. Il rapporto Mit vi occupa un posto centrale. Il concetto di
«utopia capitale» è assolutamente chiaro: di fronte alla realtà della crisi
ultimativa, il capitale appronta anche degli sbocchi nettamente utopici – la
cui sola realtà è la mistificazione ideologica –, tra i quali quello di una
società a crescita zero, tenuta insieme da surrogati comunitari e da una quasi
completa liberazione dal lavoro; questi progetti, secondo Cesarano, verranno
vanificati dalla catastrofica crisi e dall’insorgere del proletariato
rivoluzionario. L’incombere di questa esplosione finale liberatrice rafforzò
moltissimo il senso di attesa e previsione profetica che permeava tutta
l’atmosfera della nostra corrente. Questa tensione pervade le conclusioni dei
lunghi aforismi di Critica dell’utopia
capitale, la cui struttura, nella prima parte dell’opera[17], tende a
essere la seguente: 1) un attacco, violento come un saccheggio armato, in cui
si mettono a ferro e fuoco le tesi di biologi, fisici, genetisti, antropologi,
psicanalisti, linguisti ecc. che devono invariabilmente mostrare la corda
ideologica, con cui intendono nascondere, non potendola strangolare,
l’esplodere della contraddizione ormai cosmica con la vita biologica della
specie e del pianeta; 2) il disvelamento della natura utopica dei loro
orizzonti e la loro inconsistenza di fronte all’imminente insorgere del
proletariato rivoluzionario.
In
questo schema non vi è alcuna concessione al misticismo, nutrito di droghe e di
esoterismo, dei piccoli gruppi che si lanciavano nel frattempo della
rivoluzione, sperimentando ogni sorta di combinazioni «estatiche», comunitarie,
sessuali e amorose; vi era al contrario il tono rigoroso di chi confuta
inesorabilmente gli specialisti del capitale sul loro stesso terreno,
saccheggiandone le conoscenze e il linguaggio; tuttavia, non solo il richiamo
esplicito all’lsd è ripetuto varie volte, ma il sapore, la tensione stessa
dell’acido circolano tra quelle righe, riconducendo il lettore all’eredità
profetica degli anni Sessanta, trasmettendogli la durezza e la drammaticità di
una teoria temprata, appunto, nell’acido dell’esperienza reale e personale.
12. Il «caso» Cesarano
«La
partenza non può essere che l’intuizione folgorante, e in questo senso
concretamente e vitalmente iniziatica, del punto di vista della totalità.»[18]
Questa frase sorprendente balza fuori dalle pagine del libro e dà la dimensione
dell’esperienza di Cesarano. Se nelle restanti pagine di questo nostro scritto,
per scelta, non si parla di lui se non come singola molecola di un movimento
storico e, all’interno di quest’ultimo, come esponente della corrente più
radicale e portatrice del più ricco e innovativo apporto teorico, per un
momento vogliamo sottolineare la singolarità di Cesarano. «Intuizione
folgorante […] del punto di vista della totalità»! Come non pensare,
immediatamente all’lsd? E folgorante è il suo procedere critico, in coerenza
con la sterzata radicale data alla sua vita dal ’69 in poi, che gli imprime il
senso di marcia, mantenuto implacabilmente fino alla fine.
Prima
l’esperienza collettiva, pubblica, di Ludd. Poi dal ’71 inizia la stesura
dell’opera della sua vita, quella Critica
dell’utopia capitale – già anticipata da L’utopia capitalista, in «Ludd»,
Milano, n. 3, 1969 –, con cui fa definitivamente i conti con il mondo della
cultura e dell’intellettualità ufficiale, da cui si allontana sempre più,
inesorabilmente, nella pratica.
Nelle
prime pagine del libro si hanno gli enunciati fondamentali: 1) lo sviluppo
della specie fin dalla più remota origine è la storia della sottomissione al
lavoro e alla produzione di utensili-protesi, che sempre più prendono il
sopravvento sul corpo vivente, ridotto ad appendice alienata; 2) lo sviluppo
della psiche individuale, separata dal corpo, come pensiero che si pensa,
diviene la storia dell’Ego colonizzato dal capitale come «persona»,
interiorizzazione del «valore» in processo; 3) la produzione del linguaggio,
come insieme di segni autonomizzato, si accumula come il lavoro morto, e
finisce per acquisire un peso determinante sulla comunicazione umana, giungendo
a dominare il soggetto, che è ormai parlato dalla lingua.
Queste
tre sfere costituiscono un unico processo, visto da angolazioni (e discipline)
differenti, attraverso il quale la specie, a partire da una propria carenza
istintuale originaria, si è separata dal corpo vivente del mondo (e dal proprio
corpo biologico), estraniandosene fino al punto di minacciarlo, oggi, di
estinzione come un nemico esterno. E il corpo, dopo i millenni di sopravvivenza
irriducibile, carcerata da sempre nell’inconscio, nel rimosso, nell’altro,
reagisce alla minaccia di estinzione con la critica armata, con la follia, con
la rivoluzione «biologica».
Mentre
tutto l’esistente non è che un deserto dominato dal capitale, la passione
«muta» dei corpi si appresta a esplodere, affermandosi come «totalità
naturante», battendo in breccia i progetti cibernetici o di clonazione – che
chiuderebbero per sempre la partita –, e rivelandone il carattere utopistico.
A
questo enunciato segue l’attacco. Un saccheggio disordinato e passionale degli
scienziati e dei teorici del capitale (e anche di vari pensatori critici come Horkheimer
e Adorno, ma anche la lezione di Freud e Reich è tenuta ben presente).
La
teoria è usata come strumento di effrazione per confutare le conclusioni
spietate che i teorici del capitale riservano alla vita, e per strappare loro i
dati che dimostrano la vitalità incoercibile della specie biologica di fronte
al fallimento catastrofico della società del capitale, che si riproduce ormai
solo più come cancro del mondo.
Procedendo
sullo stesso terreno dei propri avversari, sul filo dell’astrazione scientifico-filosofica,
impadronendosi di materiali teorici via via che irrompe nei vari campi del
pensiero separato, Cesarano riesce a chiudere i conti col mondo della cultura e
delle mode intellettuali, imperversanti allora e negli anni seguenti, anche nel
movement del ’77, riservando pagine
spietate all’arte, agli psicoanalisti, ai terapeuti, agli esperti di
linguistica e di linguaggi, ai futurologi propugnanti soluzioni «indolori» per
un mondo votato alla catastrofe.
Nello
stesso tempo riesce a comunicarci con drammaticità la propria vicenda
individuale. Da una parte l’assedio subìto dall’individuo isolato, immerso
nella quotidianità allucinatoria in cui viaggia incarnando via via i vari ruoli
economico-sociali cui deve piegarsi la «personalità», impossibilitata
all’incontro con gli altri dall’equivoco sociale della circolazione degli
uomini ridotti a «quanta» di capitale (almeno finché la passione, rischio e
prova iniziatica, non apra la strada al riconoscimento di un altro, e per
questo passaggio a quello degli altri). Dall’altra, il percorso che lo porta a
rompere col mondo della cultura e dell’arte, in cui egli stesso aveva vissuto
fino al ’68, a cui ritorna, da nemico, per chiudere i conti in sospeso, per
mezzo della critica e della lotta, le uniche espressioni possibili non
immediatamente asservite e incorporate dal capitale totale.
Varie
volte rimanda all’esperienza-prova dell’acido lisergico.
La
violenza e la drammaticità del suo linguaggio, che pure è rigidamente astratto
e non abbandona mai il terreno dell’avversario, traducono la condizione
«segregata» del rivoluzionario, rimasto isolato alla fine del ciclo ’67-’70, ma
deciso a utilizzare la propria condizione disperata per produrre la propria
grande sintesi teorica che saluta come una certezza la prossima ricomparsa,
definitiva, ultimativa, del proletariato rivoluzionario. O saprà essere e
vincere o il capitale lo trascinerà con sé nella catastrofe. L’irriducibilità
del fondamento biologico della rivoluzione garantisce l’invincibilità della
specie.
Forza
e limite della sua opera sono la convinzione che la crisi del capitale,
annunciata dal rapporto del mit, così come dai sintomi che denunciano la crisi
psichica della persona – follia, nevrosi, ormai incontenibili da ogni controllo
e da ogni struttura repressiva – e della società – rivolte immotivate,
saccheggi e violenza collettiva, criminalità –, è irreversibile e ultimativa, e
costringerà la specie a vivere, finalmente, se non vorrà scomparire ed
estinguersi.
Nei
primi anni Settanta, la consapevolezza che la catastrofe del capitale minaccia
realmente la sopravvivenza dell’umanità e del pianeta, e la scommessa disperata
e passionale sulla vitalità della specie che ha dato già prova di sé nel ciclo
di lotte appena conclusosi, è una caratteristica forte, di fondo, che può
giustamente costituire una sintesi delle posizioni, pur diversificate, di tutta
la corrente radicale all’alba della nuova epoca.
La
forza dell’alternativa, la vita contro la morte, invece che proletariato contro
capitale, è segno della relativa vitalità teorica, ma è anche segno di
difficoltà a fondare le proprie ragioni nella contraddizione specificamente
sociale.
Nel
disconoscimento del dato di fatto che a produrla è stato un ben preciso
movimento sociale, si annuncia anche l’isterilirsi di tutta la corrente, che,
illusoriamente, allucinatoriamente, «alza la posta» delle proprie affermazioni,
ma si appresta a vivere il proprio declino e tramonto nel giro di pochi anni.
13. Bruciare le navi
Riferimenti
come quelli all’lsd imprimono su questa teoria il marchio di ciò che non sarà
mai assimilabile dalla cultura. Il mondo degli intellettuali, degli scrittori,
dei poeti, degli artisti, degli accademici italiani non è stato capace di
rispondere, se non con l’emarginazione e il silenzio, a un uomo come Cesarano,
che non si limitava a compiacersi del generalizzarsi della rivolta altrui bensì
faceva combutta non con gli studenti ma con i «provocatori», non con la
sinistra ma con i gruppi più «ambigui» (accusati, come sempre allora in Italia,
di «fascismo»), e che non proponeva disquisizioni masturbatorie sulla «droga»
ma si temprava con l’acido lisergico.
La
forza e la drammaticità della teoria di Cesarano sono così palesemente
espressione diretta della vita e dell’esperienza da essere letteralmente
«intoccabili» per tutti gli ambienti culturali, ancorché «rivoluzionari» degli
anni Settanta. «Per denaro si “vive” morendo asserragliati nelle case, per
vivere si spende sangue sui marciapiedi del denaro. Di stupefacenti sarebbero,
secondo i sapienti, avvelenati i selvaggi. Infatti, la droga guadagna spazio,
mentre sulla droga guadagna il capitale. Ma la droga allucinogena, quella per
intenderci che libera dall’allucinazione della “vita”, con l’abbassare la
soglia che filtra cioè economizza le percezioni, attacca direttamente
l’economia che impoverisce ciascuno inchiodandolo alla scheda perforata delle
percezioni programmate per lui dalle gerarchie del sapere, e, con il
consentirgli finalmente di vedere ciò che non aveva mai visto prima, lo dischioda
dal “reale”, gli restituisce la verità che gli pertiene. Non può essere, tale
verità, che atroce: umiliante e terrifica. Ma definitiva, indimenticabile. Lo
strappo non è reversibile, si lamentano i sapienti. Terrorizza, sgomenta,
inselvatichisce. Ciò che terrorizza, ciò che sgomenta e ciò che, nei migliori
dei casi, inselvatichisce non è, al contrario, che la visione della loro
“verità”, di colpo denudata.»[19]
14. Si apre una nuova fase
Nei
primi anni Settanta vi fu un grande allargamento della prospettiva e delle
fonti teoriche dei rivoluzionari, corrispondente anche a una notevole ricchezza
esistenziale e alla sperimentazione di nuove dimensioni.
La
volontà di realizzazione pratica immediata non trovava più sbocco nelle lotte
sociali, e vi era il tentativo di mantenere una dimensione radicale nella vita
quotidiana.
Le
teorie immediatiste trovavano un vasto terreno di applicazione: criminalità,
follia, sperimentazioni sessuali corrispondevano alla verità pratica di molti
di noi.
Sotto
forme comunitarie o come avventure individuali, esclusa ormai totalmente dai
nostri interessi la «politica», si cercò di passare a una dimensione creativa,
affermativa, che corrispondesse alla esigenza teorica prevalente: quella di
fondare il comunismo.
La
ricchezza di queste esperienze sfugge in gran parte alla ricostruzione a
posteriori, giacché si tratterebbe di discutere peripezie individuali che non
sono state mai raccontate.
Un
notevole peso ebbero anche i movimenti di liberazione sessuale, femministi,
omosessuali.
Nell’insieme,
malgrado i rischi, e le cadute, la portata dell’esperienza complessiva di
quegli anni ci pare molto ricca e nel complesso degna del movimento che l’ha
preceduta, tanto da meritare, all’occasione, una trattazione a parte. Nel suo
insieme esprime già l’esigenza di uscire dai limiti di un’esperienza storica
che invece, nei suoi connotati più specifici – che possono essere identificati
attraverso le espressioni teoriche – tende a perdere un po’ il contatto con il
reale.
Sicuramente
Cesarano avrebbe vissuto positivamente l’inserimento nel movimento della
seconda metà degli anni Settanta. Il suo entusiasmo per gli scontri dell’aprile
’75, in cui inizia la storia dell’Autonomia Operaia, era stato notevole.
In
molti altri individui e gruppi vi fu invece una tendenza a staccarsi sempre più
dalla realtà, facendo tra l’altro un pessimo uso dell’opera dello stesso
Cesarano.
Il
’75 e ancor più il ’76 produssero, insieme a un apparente accentuarsi del
riflusso, anche decisi sintomi di un risveglio, soprattutto nel settore
giovanile che non aveva conosciuto niente delle lotte del ciclo precedente.
Gli
anni Settanta sono spezzati in due dal suicidio di Giorgio Cesarano. Abbiamo
già detto che si trattò di una sconfitta collettiva. L’apporto di Cesarano non
sarebbe stato affatto indifferente nella nuova fase. Egli stesso aveva
percepito con molta lucidità i nuovi spiragli che si aprivano. Si trovò da solo
di fronte a pesanti difficoltà. Aveva lasciato la situazione rassicurante della
famiglia e della casa di campagna in Toscana, non riuscendo a sopportare
quell’isolamento.
«Invariance»
aveva accolto alcuni punti fondamentali del lavoro di Cesarano, in particolare
l’antropomorfosi del capitale[20], e stava passando da un lato alla
pubblicazione di testi che avrebbero dovuto fondare in positivo l’affermazione
del comunismo, dall’altro a una vasta descrizione dell’«erranza dell’umanità»,
una sintesi della storia che aveva punti di contatto con quella di Cesarano.
Ma, nel caso d’«Invariance», si trattava di una fase di passaggio: l’abbandono
della stretta ortodossia marxiana doveva portare a un superamento della
questione «rivoluzione-controrivoluzione» e allo spostamento dell’interesse
verso un immediatismo realizzativo, che, al di là di tutte le sue peculiarità,
può essere sintetizzato come un vero e proprio ritorno alle concezioni
«naturiste» di certi hippies del decennio precedente, applicate, è giusto
dirlo, alla lettera, dal fondatore e principale esponente della rivista
ex-bordighista.
Il
fatto è che per molti la «teoria radicale» si rivelò in questi anni uno
strumento per liberarsi dalla tradizione marxiana, o ultrasinistra, o
rivoluzionaria in genere e per incanalarsi nei percorsi opportunistici e
carrieristici o nelle varie riautentificazioni della religione, dell’arte,
della famiglia repressiva ecc., che abbiamo visto poi «fiorire» negli anni
Ottanta.
15. Comunismo-individuo solo e
alienato
Durante
il riflusso degli anni Settanta era data per scontata l’impossibilità di
sopravvivere a lungo nella società del capitale senza integrarvisi. Era
inaccettabile cercare di resistere come organizzazione durante una fase
controrivoluzionaria. Implacabile era la critica dei gruppuscoli
extraparlamentari – le bande-racket in cui tende a trasformarsi qualsiasi
organizzazione che cerchi di perpetuarsi nella sfera della politica (oppure nei
circuiti economici «alternativi», nell’arte, o comunque in una qualsiasi
dimensione estetica come «stile di vita»). La stessa critica venne
spietatamente applicata a noi stessi, a quel po’ di organizzazione che avevamo
creato, ed estesa alle forme di aggregazione autonome di fabbrica e di
quartiere che stavano nascendo in quegli anni, tutte rifiutate in quanto
manifestazioni «gestionarie», che finivano per far parte di quella miseria che
si trattava di criticare e di abbattere.
In
questo senso la linea di tendenza di Cesarano è paradigmatica: scioglimento di
Ludd; rottura delle ultime illusioni ideologiche (le ideologie quotidianiste e
l’apologia del crimine); isolamento, anche geografico (nella campagna toscana)
consacrazione a un’attività teorica, dagli orizzonti pressoché sconfinati.
Per
noi il riflusso negava la possibilità di realizzazioni formali, organizzative,
attivistiche. Tuttavia il ’68 aveva effettivamente riaperto l’epoca delle
rivoluzioni e quindi si trattava di forgiare la teoria per affrontare l’estrema
crisi del capitalismo. Veniva fortemente sottolineato il contenuto del
comunismo. Mentre tutte le ragioni d’essere storiche delle fasi intermedie, del
socialismo e della transizione erano cadute, si affermava il comunismo quale
superamento di tutte le rivoluzioni precedenti, liberazione del rimosso delle
epoche storiche passate e all’interno della psicologia dell’intera specie. Si
trattava di liberarsi di tutta la vecchia merda, di affrontare con lucidità e
nel profondo quella rivoluzione nella rivoluzione che era stata una
caratteristica così determinante del biennio ’68-’69, e che continuava a essere
la dimensione, affatto particolare, in cui vivevano e agivano i rivoluzionari.
Al
rifiuto netto e reciso di continuare la lotta nei modi della «politica
rivoluzionaria», che inevitabilmente ci avrebbe integrati all’essere del
capitale, non corrispondeva alcun cedimento sul piano individuale.
La
critica dell’ideologia quotidianista, dell’«ideologia della critica della vita
quotidiana», non deve trarre in inganno. Essa non corrispondeva affatto a un
ripiegamento nel «privato» o nella dimensione dimessa del «teorico»
rivoluzionario. La tensione individuale restava fortissima.
Anzi.
La «pratica dell’isolamento» costituì una radicalizzazione estrema della
dimensione rivoluzionaria, che si sottraeva a ogni compromesso. E continuava a
sperimentare l’avventura della passione individuale, del sovvertimento dei
rapporti familiari e borghesi, dell’ampliamento in ogni direzione e con ogni
mezzo della coscienza.
Di
questa dimensione Critica dell’utopia
capitale costituisce un’esemplificazione cristallina. Nell’opera di
Cesarano è assolutamente evidente la tensione cui si sottopone l’individualità
stessa del rivoluzionario: il tono drammatico esprime come non si tratti certo
«solo» di «teoria». L’attacco contro l’identità fittizia è portato a fondo. La
critica mette in discussione l’Ego «rivoluzionario» stesso, le sue maschere autovalorizzanti,
e i diversi ruoli che deve forzatamente interpretare nella dimensione irreale
della sopravvivenza. La vera guerra è una dimensione di cui, sottolineando la
natura «biologica» della rivoluzione, si chiarisce, al di là di ogni possibile
equivoco, la materialità.
È
«guerra d’amore»: di carne, sangue, sofferenza ed estasi.
Ciò
che, di questa dimensione soggettiva specifica, può, dopo tanti anni, e tante
disfatte, sfuggire al rivoluzionario che legga oggi Critica dell’utopia capitale è l’esigenza, quasi preliminare, di
Cesarano di sfuggire a ogni nuova ideologia.
Infatti,
mentre lottava a fondo contro la riconciliazione, sotto qualsiasi forma, con la
società del capitale, egli doveva mantenere una critica intransigente di quella
neo-precettistica rivoluzionaria, di quei nuovi modelli di «stile di vita», che
proprio in quegli anni erano ben presenti nell’ambiente a lui più vicino.
Ricapitolando,
la lotta di Cesarano doveva svolgersi simultaneamente su vari piani: da una
parte la critica concreta, la vera guerra, l’affermazione della dimensione più
profonda del comunismo, risoluzione di tutte le contraddizioni dello sviluppo
della preistoria, «affermazione della specie umana», della vera Gemeinwesen
dell’uomo, affermazione «a titolo umano», ma che non prescinde assolutamente
dalla contraddizione vivente che la sostanzia: l’individuo rivoluzionario,
«sospeso» sull’ignoto, ma in movimento con una direzione ben precisa verso
l’estasi, l’avventura, la passione, messo alla frusta dalla sua fame di nuovo e
di autentico: armato solo di capacità critiche e di creatività, privo di
esperienze storiche prefabbricate, incontrava sul suo cammino trappole sempre
più numerose. Per cui Cesarano doveva evitare ogni possibile ricaduta in una
precettistica della radicalità, in quell’intransigenza formalizzata di cui
aveva già potuto constatare gli effetti. Nello stesso tempo aveva ben presente
lo stemperarsi del movimento rivoluzionario nella sua dimensione più ampia,
mondiale, nelle nuove ideologie fornite dal recupero dello «stile dei Sixties».
Se, per esempio, fino al ’67, l’esperienza degli hippies statunitensi aveva costituito un aspetto nuovo e autentico
del movimento rivoluzionario, già all’inizio degli anni Settanta il capitale
aveva fatto saldamente propria l’ideologia «trasgressiva» degli «alternativi»
californiani, e la stava diffondendo su tutti i mercati dell’ideologia.
Cesarano
affermava il profondo contenuto «individuale» della rivoluzione, la critica
implacabile di tutte le forme della quotidianità alienata incorporata
definitivamente dalla rivoluzione a partire dagli anni Sessanta; negava
l’autonomizzarsi della teoria in dogmatismo terroristico, in quella sorta di
falloforia del negativo che aveva preso, attorno a lui, la forma di ideologia
dell’«illegalità», di elogio del teppismo e del furto; e attaccava la
diffusione ormai generalizzata di frammenti di critica della vita quotidiana da
parte delle centrali culturali direttamente sottoposte al capitale, che
coinvolgeva ampi settori di movimento giovanile già contestatari.
Negli
anni Novanta, il capitale diffonde i propri messaggi in modo estremamente più
diretto e non ha alcun problema a propagandare le ideologie più reazionarie e
decrepite. Perciò oggi può sfuggire la necessità dei veri e propri tour de force critici che Cesarano
dovette effettuare per non rischiare di riproporre un modello ideologico di
radicalità immediatistica, o un ammiccamento giovanilistico à la Marcuse, nel mentre in cui
faceva riferimenti chiarissimi all’lsd e, più in generale, all’abbattimento dei
confini dell’Ego.
In
Critica dell’utopia capitale Cesarano
spiega chiaramente come nel delirio schizofrenico cada il muro con cui il
linguaggio prodotto imprigiona la comunicazione, e quindi cada la barriera
percettiva che traccia il confine tra Ego e mondo, aprendo la possibilità
esplosiva di un rapporto dialettico tra individuo e altro. Nello stesso tempo
deve denunciare il rischio della «dannazione privata» che attende «chi
nell’esplosione del senso vivo vissuto come peripezia individuale ha voluto
bruciare tutt’insieme la totalità del proprio senso»[21], e nel Manuale di sopravvivenza sente
l’esigenza di mettere in guardia contro nuove forme di autovalorizzazione che
trasformino l’esperienza «psicotica» o «nevrotica» in un nuovo ruolo
spettacolare.
Effettivamente,
da tanti punti di vista, oggi le cose si sono semplificate. Il capitale ha
superato la fase in cui estraeva dall’esperienza psichedelica nuove forme
culturali e artistiche o, su di un altro piano, si annetteva vasti settori di
nuove generazioni tendenzialmente e spontaneamente ribelli. Oggi è attualissimo
l’individuo tratteggiato in Critica
dell’utopia capitale che percepisce con una vertigine il proprio
appartenere a un mondo Altro da sé, e l’impossibilità di comunicare con le
altre persone che, fuori dall’allucinazione, gli appaiono come maschere. È, tra
l’altro, proprio nella descrizione della realtà allucinatoria del flusso
continuo di rapporti alienati costituente la quotidianità del capitale, in cui
l’individuo impersona via via i ruoli del suo ciclo di valorizzazione – al
lavoro, in famiglia, nei rapporti «sentimentali» codificati –, che Cesarano
scrive alcune delle sue pagine più forti, che possono essere immediatamente
fatte proprie dal rivoluzionario «perso» nella realtà di oggi.
Adesso,
ancor più presente di allora è il rischio di sradicamento e di smarrimento
completi, poiché manca il rapporto con un passato recente di rivolta
generalizzata.
16. L’attività del Centro
d’Iniziativa Luca Rossi
Per
questo, acquista rilievo un’attività quale quella intrapresa dal Centro
d’Iniziativa Luca Rossi che sintetizziamo come segue:
1)
chiarificazione della tradizione rivoluzionaria, necessaria per stabilire dei
princìpi che siano al di là delle vere e proprie ondate di barbarie con cui il
capitale investe il mondo che ha colonizzato (razzismo, guerra, riproporsi
sanguinoso di problematiche nazionali anteriori al primo conflitto mondiale,
espansionismo guerrafondaio delle religioni del passato), con particolare
riguardo alle correnti ultrasinistre nell’epoca del fascismo e dello
stalinismo.
Questo
lavoro implica la ripresa dei progetti iniziati ma non portati a termine negli
anni Settanta: affermazione del comunismo e sua descrizione positiva. Perché
bisogna far fronte alla mistificazione che accompagna il crollo di ciò che
settant’anni di controrivoluzione hanno contrabbandato come «comunismo», e, nel
contempo, fascismo e razzismo non sono più spauracchi spettacolari ma
giganteschi zombies armati di tutto
punto;
2)
realizzare un bilancio della corrente radicale italiana, perché la fretta
rivoluzionaria di quegli anni ha «bruciato» una serie di questioni senza
risolverle, e ha incontrato una clamorosa impasse nel momento potenzialmente
più favorevole (il ’77), per cui tutta quella esperienza storica va delimitata,
traendone le dovute lezioni. Vi è la precisa esigenza, tra l’altro, di rendere
disponibili i risultati di quella vicenda, ma non è pensabile riproporli
separatamente da una discussione che li renda comprensibili e criticabili anche
dai rivoluzionari di oggi. Si tratta perciò di affrontare il duplice compito di
diffondere i principali testi radicali degli anni Settanta e di tentarne un
bilancio critico;
3)
nell’immediato, evitare di ripetere quello che già allora era un errore e oggi
sarebbe del tutto improponibile: cioè la valorizzazione dell’isolamento (che
rende astratta e inverificabile l’attività teorica). Al contrario, vanno
valutate con estrema cura e senza alcuna trascuratezza le esperienze dei
rivoluzionari nei luoghi di lavoro, negli organismi di base del proletariato,
nei Centri sociali, giacché esse sono una linfa vitale, senza la quale oggi non
sono realizzabili nemmeno i compiti preparatori riguardo la tradizione
rivoluzionaria.
Una
lezione che si può trarre immediatamente dalla teoria radicale degli anni
Settanta è che i rivoluzionari non possono separarsi da concreti rapporti con
le lotte sociali senza imboccare le tangenti che già abbiamo visto percorrere
da tanti geniali pensatori ex-rivoluzionari; e, nello stesso tempo, non possono
rinunciare alla concreta e vissuta critica della vita quotidiana senza penose
ricadute nel nichilismo passivo;
4)
non avere paura di tutte le soluzioni organizzative e organizzate che possano
servirci per raggiungere la piena efficacia operativa.
Nelle
condizioni attuali di profonda crisi del capitalismo, da cui non sboccia però
il fiore del proletariato internazionale rivoluzionario, e nemmeno un chiaro
movimento di classe in grado di autodifendersi, i rivoluzionari vivono tutti i
rischi tipici delle fasi precedenti di riflusso, ma non hanno più alcun
rapporto storico con un movimento di lotta globale recente. Quindi in un certo
senso, ben più che negli anni Settanta, si trovano a procedere sull’orlo
dell’abisso, insidiati dalle trappole della disperazione, della delusione,
della crisi «catastrofica» di devalorizzazione, in cui è però sempre più
difficile trovare una via d’uscita di attacco e di rivolta, che, in fondo,
rispetto a oggi, era allora a portata di mano. Perciò nessuno può più
permettersi alcuna indulgenza sul terreno dell’isolamento. Comunità,
organizzazione e solidarietà rivoluzionaria sono esigenze urgenti, di cui si
avverte drammaticamente la mancanza, ma la cui realizzazione è terribilmente
lontana. Tutto ciò va nel senso di un forte legame tra i rivoluzionari, da
realizzare senza riproporre alcun settarismo. Lo stadio attuale di lavoro
«preparatorio», di chiarificazione dei princìpi, richiede oltre che coerenza e
intransigenza, anche un grande arricchimento di contatti, di fonti, di
discussione. L’ambiente rivoluzionario in quanto tale è troppo asfittico, è una
parodia «nostalgica» di quello che fu, per potere costituire da sé solo un
valido punto di riferimento. Per questo ci servono tutti gli apporti, per creare
un po’ di circolazione di idee, di ricerche, di studi, che pongano almeno le
condizioni minime di una ripresa.
Non
ci potrà più essere movimento senza princìpi e senza teoria, ma non
riprodurremo la chiusura mentale tipica del tramonto dei radicali.
17. Esaurimento della corrente
radicale nel periodo di riflusso
Viviamo
un presente tragico e sanguinoso. La crisi attuale manifesta simultaneamente i
classici tratti di una battuta d’arresto dell’economia in senso stretto
(disoccupazione, sovrapproduzione, supersfruttamento, concorrenza sfrenata,
esportazione del disastro in Africa e in America Latina) e in senso lato
(incapacità di controllo della situazione mondiale[22], tracollo finanziario,
carestie, guerre, distruzione forsennata dell’ambiente e delle risorse).
Insieme
agli aspetti della bancarotta generale denunciati dalla teoria radicale negli
anni Settanta con la demistificazione dell’«apocalittica» del capitale, tornano
sulla scena storica tutti i conflitti interetnici, razziali e religiosi, in
apparenza propri di fasi precedenti dello sviluppo capitalista. Il capitale non
ha risolto nessuno dei problemi che ha iniziato a creare dall’epoca della sua
espansione planetaria alla fine dell’Ottocento. All’interno delle cittadelle
dell’iper-sviluppo capitalista le patologie irrisolte della società
(criminalità, violenza cieca, e psicosi), sintomi di una crisi profonda, si
sono stabilizzate come incubo quotidiano di milioni di proletari.
Si
fa più che mai pressante l’esigenza di armi teoriche atte a distruggere le
trappole delle false alternative riattualizzate e attivate dai conflitti e dal
caos che circonda da Sud e da Est l’Europa «civilizzata», e che ormai s’insinua
nei suoi ghetti coi lineamenti del razzismo, dell’integralismo islamico e
dell’orrendo fascismo, di tutto ciò che all’inizio della nostra vicenda ci
sembrava un residuo del passato, ormai condannato senza speranza. Per
analizzare e combattere, servono i princìpi del programma comunista, punti di
riferimento che non possiamo trarre solo dal nostro presente, dal museo degli
orrori che ci assedia. La posizione comunista rivoluzionaria di fronte alle
guerre mondiali, all’internazionalismo, alle questioni di razza e nazione è
perfettamente attuale; al di fuori di essa non si danno prospettive che non
conducano a guerre e a pogrom. Accanto a essa la complessa e variegata «critica
radicale» costituisce la sintesi più completa dei movimenti rivoluzionari
recenti nelle metropoli del capitalismo. Nel loro insieme, globalmente più
ricco e vasto della prospettiva comunista radicale propriamente detta – che ne
costituisce solo una componente, per di più limitata nel tempo –, questi
movimenti esprimono anche delle caratteristiche nuove e che hanno arricchito la
prospettiva comunista. Con grande coerenza Giorgio Cesarano, traendo la propria
prospettiva storica dal movimento del ’68, quando parlava di «critica radicale»
faceva riferimento ai precedenti dell’Internationale Situationniste – e, in
misura minore, di «Socialisme ou Barbarie» – in Francia, e a Ludd – e, in
minore misura, all’Organizzazione Consiliare e a Comontismo – in Italia. A
Cesarano interessava ciò che si stava manifestando di nuovo e di diverso
rispetto al movimento operaio e alla tradizione rivoluzionaria. Le nostre
esigenze attuali sono altre. Oggi noi dobbiamo ricercare un maggiore
radicamento storico di fronte alla tempesta del presente e perciò situarci più
profondamente nello spazio e nel tempo, riprendere lo studio (allora arenatosi
su conclusioni provvisorie) della teoria di Marx e della sua parziale ripresa
attorno al 1920 (negli anni Settanta era impensabile, p. es., che la questione
balcanica o il conflitto turco-armeno trovassero quotidianamente spazio sulle
prime pagine e nei telegiornali).
Chiarite
le proprie premesse storiche, la teoria di Cesarano si apriva all’infinito
verso il futuro, verso la prospettiva rivoluzionaria, e si accingeva all’immane
compito di fornire le sue ragioni e i suoi strumenti alla futura rivoluzione,
presentita certo ben più prossima di quanto non sia percepibile a noi, ora. In
questo lavoro illimitato egli pensava si stessero già coinvolgendo le riviste e
i gruppi radicali di allora («Invariance», «Errata», «Négation») e tutta una
serie di individui e di situazioni – al cui centro stava Puzz-Situazione Creativa
– che sembrava si stessero mettendo in moto alla metà degli anni Settanta. Per
questo non ci si deve ingannare, traditi da una rappresentazione anacronistica,
sul carattere della sua opera: una ricerca aperta, inconclusa, ansiosa di
confrontarsi con altri apporti. Invece, Cesarano rimase sostanzialmente
isolato. La corrente teorica cui faceva riferimento s’inaridì. Il periodo del
riflusso post-’68 indebolì gravemente la corrente radicale, che verso la fine
del decennio divenne quasi del tutto incapace di produrre analisi critiche, e
negli anni Ottanta fornì solo apporti sporadici, isolati, non più, a nostro
avviso, riconducibili a un punto di vista comune.
Il
progressivo sgretolarsi della teoria radicale fu segnato da due debolezze
principali: l’innovazione teorica a ogni costo; la mancanza di sbocchi pratici,
sociali, che generò l’atteggiamento nichilista-passivo.
Lo
stesso Cesarano, e con lui buona parte di Ludd, percepiva il movimento
rivoluzionario come qualcosa di completamente nuovo, in nessun modo erede della
tradizione rivoluzionaria precedente. Questo atteggiamento produsse in lui
l’esigenza di una nuova grande sintesi, che andasse nettamente al di là dei
limiti contingenti del momento, e a cui si dedicò con spirito appassionato di
ricercatore, buttandosi a capofitto in una grande battaglia teorica che
attaccasse simultaneamente i fronti nemici dell’economia, della psicoanalisi,
della linguistica ecc. Tuttavia Cesarano, anche quando usciva dai confini della
teoria rivoluzionaria classica – che peraltro riteneva in buona parte superata
e da superarsi da parte della «nuova» teoria che inevitabilmente avrebbe fatto
la sua comparsa con la nuova rivoluzione –, tuttavia non l’abbandonò mai per
arretrare sul terreno del riformismo, del pacifismo o di qualsiasi altra
ideologia «conciliatoria» del capitale.
Da
parte di molti altri l’innovazione teorica fu invece sostanzialmente lo
strumento da scasso non delle scienze del capitale ma degli stessi princìpi
rivoluzionari.
Su
questa linea molti rivoluzionari si misero a inseguire una novità teorica dopo
l’altra, una scoperta dopo l’altra, fino al rinnegamento completo delle
premesse e all’abbandono definitivo della prospettiva rivoluzionaria. Tra
coloro che erano più vicini a Cesarano abbiamo già accennato alle svolte di
180° d’«Invariance»; potremmo citare anche il caso di Gianni-Emilio Simonetti,
più nettamente opportunista nella ricerca di uno sbocco dalla teoria
rivoluzionaria, ottenuto attraverso un approfondimento «critico» di tutte le
varie mode culturali e filosofiche del momento.
L’esaurirsi
del movimento nella società, favorì invece il riflusso di molti dei nostri
compagni nel nichilismo passivo. Si è già sottolineato come in Cesarano la
critica dell’ideologia quotidianista non corrispose mai ad alcun rilassamento
della tensione individuale, ad alcun abbassamento del livello della critica
sempre rivolta alla «vita» alienata. In molti casi invece la perdita
dell’impegno sociale significò semplicemente un cedimento anche nella vita
quotidiana, un ritorno di tutte le abitudini precedenti, della formidabile
forza d’inerzia della struttura provinciale e familiarista tipica della società
italiana.
Molto
spesso al terrorismo ideologico dei comontisti si contrappose un puro e
semplice atteggiamento specularmente opposto, cioè legalitario e conformista,
passivo, incapace di ritrovare le ragioni della propria rivolta, nel momento in
cui veniva meno l’atmosfera calda, viva, della lotta e della critica sociale
collettiva. Per molti lo scioglimento di Ludd, p. es., significò solo un
ritorno a una condizione di vita in qualche modo precedente, o un inserimento
nelle istituzioni universitarie ecc.
In
alcuni casi pesò negativamente in questo senso uno dei riferimenti teorici
principali di Cesarano, cioè Adorno e la Scuola di Francoforte. Mentre in Cesarano fu
sempre ben chiara la tensione dialettica che lo distingueva dai teorici
«critici» tedeschi, separati dal movimento rivoluzionario, da altri fu
parodisticamente imitato il loro atteggiamento di distacco critico, che finiva
per produrre un riflusso nell’accettazione del presente e della sopravvivenza.
Si potrebbero ripercorrere tante vicende individuali, ma sostanzialmente quel
che importa sottolineare è l’indebolimento generale della corrente
rivoluzionaria. In questo senso fu possibile fare un uso «controrivoluzionario»
dello stesso Cesarano. Tipica fu la cantonata di coloro che pervennero alla
«critica della politica» proprio nel momento in cui – dal ’75 in poi – la
situazione sociale cominciava a riaprirsi. Il sabotaggio di «Puzz» fa parte di
questo percorso (cfr. i due numeri pubblicati di «Provocazione»). In parte
anche come reazione al cripto-gruppo comontista che collaborava con «Puzz»
(Comontismo, benché sciolto, continuò a esistere informalmente fino al 1977)[23]
alcuni degli animatori della rivista imitarono l’atteggiamento d’«Invariance»:
distruzione di ogni forma organizzativa, ancorché informale, nonché di ogni
espressione collettiva, per non parlare di azione pratica o d’intervento a
fianco dei movimento sociali di più ampia portata che cominciavano a
manifestarsi. Proprio quel rinascere dell’effervescenza sociale che aveva tanto
appassionato Cesarano alla fine della sua vita, fu liquidato in quanto
«politica» o «nichilismo», una tipica scoperta dei neofiti della teoria
radicale[24]. E la fragilissima aggregazione di Quarto Oggiaro, formata da
ragazzi molto giovani (che si stava ramificando in altre città) venne sabotata,
al fine di sviluppare la «soggettività critica»[25]. Effettivamente in Cesarano
il concetto di «autogenesi creativa» esiste, ma non è contrapposto all’attività
collettiva e coerente di una comunità o di un gruppo. Invece questo concetto
venne diffuso come soggettivismo, individualismo, elogio dell’isolamento
(contro cui Cesarano aveva condotto la sua battaglia estrema), realizzando dei
classici esempi di «autovalorizzazione dell’Ego» permessa dai ruoli di
intellettuale creativo e critico cólto, che dovevano evidentemente essere
affascinanti per dei giovani con lo spirito del parvenu della critica radicale.
Ovviamente alcuni di costoro andarono poi a parare nella vecchissima solfa
dell’autovalorizzazione artistica e delle regressione filosofica. Peggior uso
possibile di Cesarano. La sua teoria venne tradita sfruttando quel senso di
vuoto che deriva dall’eccessiva ampiezza della sua visione, che rende troppo
astratta la sua esposizione, che a tratti pare sconfinare nella filosofia.
Proprio ciò che sconcerta il lettore rivoluzionario che fatica a comprendere
Cesarano in modo equilibrato diventò un punto di forza per chi voleva crearsi
un ruolo come autore di aforismi moralistici. Fu compiuta così la regressione
verso i campi della filosofia, dell’intellettualità, dell’arte, che Cesarano
pensava di avere devastato irrimediabilmente.
In
Cesarano l’atteggiamento intrepido che privilegia il gesto inconsulto di
violenza e rivolta, la follia, era forzatamente meno sviluppato dell’analisi
delle teorie del nemico. Fu facile perciò, magari col condimento di un po’ di
critica del nichilismo contemporaneo, considerare caduche le poche formulazioni
che chiaramente difendono la rivolta dei pazzi o dei criminali, ed estrapolare
tutta la parte che prendeva le distanze dalle manifestazioni del movement esistente, o che metteva in
luce la parzialità dei conflitti particolari o il loro recupero, per fondare la
ritirata in una critica distaccata, ostile al reale, ma senza nemmeno un
briciola dell’autentica passione distruttiva propria di Cesarano, che a tratti
ne armava la critica di un eroico furore. Le caricature di Adorno che
continuavano l’esercizio critico come una sorta di hobby snobistico non si
accorgevano nemmeno della rozza rabbia degli Autonomi che cacciavano a
bastonate Luciano Lama dall’università di Roma, o dei bassi bisogni che
portavano i disoccupati delle metropoli a occupare le case, a saccheggiare i
supermercati, a sfruttare la contraddizione momentaneamente riapertasi nella
riproduzione sociale per sbarcare la sopravvivenza con i furti, a scagliarsi
negli scontri contro la polizia con la gioia derivante dalla rabbia lungamente
repressa e dall’accumulo delle frustrazioni. Il problema non stava certo nel
fatto che ci fosse troppa violenza o che nel movimento circolassero con estrema
frequenza le armi da fuoco. Eppure anche queste critiche da educande vennero
fuori dalla corrente radicale in via di putrefazione nel ’77.
Giocò
anche un equivoco intorno alla questione del «capitale totale»[26]. Questo
punto, effettivamente centrale per esempio in Critica dell’utopia capitale, se bevuto sine grano salis dallo zelante neo-critico radicale, gli faceva
credere che il processo rivoluzionario fosse un fatto strettamente interiore,
che si trattasse di lottare solo per espellere da sé l’armatura capitalistica.
Questa ottica intendeva realizzare quei rapporti tra individui autonomi «al
livello più alto della teoria» auspicati a suo tempo da «Invariance».
L’isolamento
diveniva un fattore autovalorizzante: ciascuno degli eletti teorici portava il
suo granello di valore, rispecchiando l’autocompiacimento altrui. Nel pieno del
’77 questo atteggiamento significava nichilismo passivo, neutralismo, abbandono
del campo rivoluzionario, ormai svuotato di ogni senso. Questo iper
soggettivismo portò proprio all’abbandono puro e semplice del fronte
individuale dello scontro (la critica della vita quotidiana); il risultato
finale fu sempre nichilista passivo.
18. la grande occasione del ’77
Verso
la fine del ’76, mentre i piccoli nuclei di «radicali» presenti in varie città
d’Italia tendevano a prendere un atteggiamento di vuota superiorità che li rese
incapaci di realizzare qualsivoglia intervento efficace, esistevano occasioni
d’incontro con i Circoli del Proletariato Giovanile e l’incipiente Autonomia.
Per
limitarci a fornire un solo esempio di questo atteggiamento, abbiamo
considerato l’infelice esito di «Provocazione», la rivista succeduta a «Puzz»,
con maggiori ambizioni teoriche.
A
partire dalla fine del ’76, con l’esperienza dei Circoli del Proletariato
Giovanile, preannunciata dagli scontri della primavera del ’75, la situazione
italiana si riaprì rapidamente, e tornò a offrire ai rivoluzionari ricche
occasioni di comunicazione col sociale.
La
comparsa sul palcoscenico della politica dell’Autonomia Operaia non costituì in
sé una novità. Infatti l’Autonomia può essere giustamente considerata solo una
forma di militantismo di sinistra conseguente. La spiegazione del successo
dell’Autonomia sta essenzialmente nella chiara scelta della pratica
dell’illegalità e della violenza. Lo scompiglio provocato nel quadro politico
dai gruppi autonomi aprì un varco nel quale poterono irrompere i selvaggi delle
metropoli.
Verso
la fine del ’76 si susseguirono a tambur battente gli espropri proletari di
massa. I Circoli del Proletariato Giovanile condussero i giovani delle periferie
a diffuse occupazioni di case nei centri metropolitani. A Milano l’Università
Statale, tempio dello stalinismo, venne duramente devastata.
I
grandi movimenti di Roma e Bologna dei primi mesi del ’77 realizzavano il sogno
delle grandi rivolte armate fuori e contro i racket politico-sindacali covato
dai radicali per tanti anni. Il ’77 non ebbe la portata, la profondità sociale
e la durata del movimento precedente del ’67-’69; tuttavia determinò una
situazione ancora più favorevole per il comunismo radicale.
Intanto
questa volta la politica militante dei gruppettari che per tanti anni aveva
costituito un freno e un blocco, con cui volenti o nolenti i rivoluzionari
avevano dovuto fare i conti, fu investita subito dalla critica feroce e
irridente di un movimento che esprimeva come proprio presupposto l’esigenza di
lottare per sé, per la vita di ciascuno, contro il sacrificio, la noia, il
lavoro, per cambiare immediatamente se stessi, affrontando nel contempo a viso
aperto l’assedio del mondo delle merci.
Inoltre
stavolta il blocco staliniano Pci-Cgil venne identificato come il nemico: si
schierò subito apertamente contro il movimento, e per la prima volta perse
completamente il controllo della piazza.
La
situazione bolognese, estremamente ricca ai suoi inizi, vide l’entrata in scena
di Radio Alice-A/traverso, che con la formula del neo-dadaismo si cimentò
addirittura nel recupero dei situazionisti. Ciò – al di là dell’estrema
ambiguità di questa formazione[27], rientrata nei ranghi di fronte alla
repressione seguita al fatti di marzo – dimostra l’enorme potenzialità che si
apriva al movimento rivoluzionario, e che quest’ultimo non seppe sfruttare.
L’Autonomia
Operaia romana, che metteva in campo un’eccellente organizzazione, sorretta da
un radicamento sociale ben articolato e assai profondo, pose i suoi notevoli
mezzi tecnici, innanzitutto Radio Onda Rossa, a disposizione dei «radicali»,
tanto erano grandi la sua fame di teoria e il suo bisogno di idee e di
prospettive di fronte al tentativo d’isolamento e di accerchiamento successivo
alle battaglie di marzo. Gli autonomi di Via dei Volsci erano troppo barbarici
e schietti per riuscire digeribili anche agli stomaci di ferro dei recuperatori
di professione. Mancava loro qualsiasi attitudine alla riconversione in intellettuali,
e il loro protervo militantismo da anni Cinquanta li rendeva inadatti a
introdurre qualsiasi nuova moda nel movimento, entrando nel ruolo per
eccellenza moderno degli operatori culturali. Per forza di cose non restava
loro che opporsi tenacemente a tutto ciò che non rientrava nel loro scopo
principale: mettere a ferro e fuoco la città di Roma un paio di volte al mese,
nel corso di scontri con la polizia gestiti con grande intelligenza e un
perfetto senso tattico della misura. Si trattava di gente che non aveva
assolutamente niente a che vedere con la teoria radicale: puntavano al sodo con
grandi capacità organizzative; il loro incontro con gli epigoni della teoria
radicale fu positivo e costituisce un’eccezione in quegli anni di demissione vergognosa.
In
queste circostanze molto favorevoli l’unico sbocco concreto dei radicali fu la
rivista «Insurrezione», la cui produzione, tra l’altro, fu per i pochissimi
elementi che la realizzarono estremamente secondaria rispetto all’entusiasmante
peripezia che si apriva tra le belle città italiane in lotta.
È
vero che un prezzo pesante fu pagato anche al «nichilismo attivo»: proprio
mentre i giovani dell’Autonomia continuavano a staccarsi dalle organizzazioni,
stanchi di essere usati come strumenti dalla leadership opportunistica di Toni
Negri, vi fu una componente di origine radicale che fraintese tutto e, invece
di soddisfare l’esigenza diffusa di un supporto teorico, di esperienza e di
consapevolezza – che mancavano a un movimento estremamente disarmato da questo
punto di vista –, si fece prendere dal complesso d’inferiorità verso i militari
del terrorismo politico e tentò di far loro concorrenza sullo stesso terreno.
Il caso di Azione Rivoluzionaria fu l’esempio più eclatante di questa ondata
autocolpevolizzante, e il suo esito disastroso rasentò l’autodistruzione. Ma vi
furono altri casi – per fortuna non altrettanto spettacolari – d’imitazione
grottesca e impotente di quel militarismo che costituiva uno degli aspetti più
deboli del ’77.
Il
movimento di quell’anno era composto quasi interamente da elementi molto
giovani. Il manifestarsi di un’«ala creativa» fu espressione dell’esigenza
profonda di staccarsi dall’orbita della politica per cercare nuovi strumenti
teorici adatti al deturnamento di tutti i ruoli della sopravvivenza. In assenza
della corrente radicale, scioltasi come neve al sole dopo i primi mesi del ’77
di fronte alle prime concrete difficoltà del movimento, colpito assai
efficacemente dalla repressione statale (che allora aveva il pieno sostegno di
tutta la sinistra picista ed extraparlamentare), ciò che si espresse
effettivamente nell’«ala creativa» fu la tendenza più debole e opportunistica,
che tese a contrapporsi a una condotta coerente e intransigente, divenendo uno
dei tanti «freni» del movimento.
Si
dovette constatare che l’esperienza collettiva di cui avevamo fatto parte, si
era esaurita, non aveva retto al logoramento del quinquennio precedente.
In
alcuni aveva prevalso un atteggiamento risentito verso la classe che non aveva
«voluto» essere rivoluzionaria. Da cui l’analisi che rinnegava totalmente la
concezione della lotta di classe, considerava il proletariato come
controrivoluzionario, ed elogiava l’immediatismo, purché aggressivo, violento,
folle. Grosso modo è questo atteggiamento psicologico-teorico che avrebbe dato
il via al nichilismo attivo, armato. La sfiducia nella classe rivoluzionaria –
non più tradita ma traditrice – produsse la sostituzione del proletariato da
parte dell’avanguardia rivoluzionaria stessa, che provvedeva a prendere
direttamente le armi in prima persona. Questa tendenza provò a ricattare tutti
col senso di colpa verso le vittime che ben presto la repressione statale fece
nelle sue fila, diffondendosi nelle metropoli dove lo scontro era più duro. Ma
ebbe breve durata, dato il suo scarso respiro organizzativo. Più che altro
brillò di luce riflessa delle imprese degli stalinisti delle Brigate Rosse.
In
altri, invece, il ruolo privilegiato assunto dalla teoria generò l’equivoco
d’identificare la rivoluzione con la produzione di qualche pamphlet in cui
criticare tutto e tutti. Questa tendenza, che aveva i suoi precedenti nel
nichilismo passivo già descritto prima, ebbe l’effetto più disastroso: alla
passione rivoluzionaria si sostituirono grottesche ambizioni intellettualistiche.
Tale atteggiamento ebbe la sua più tipica diffusione in paciose realtà di
provincia, dove un certo atteggiamento saputo poteva produrre risultati
autovalorizzanti. Oppure in altre realtà, al primo affievolirsi del movimento,
mancando le occasioni per criticare il gauchisme degli autonomi, la «teoria»
dei radicali finì con l’isterilirsi da sola per mancanza di oggetto, e la
pratica con l’esaurirsi nel solito isolamento compiaciuto dalla realtà della
volgare plebaglia rossa.
Entrambe
queste tendenze avrebbero potuto trovare il loro antidoto nelle opere di
Cesarano, se lo avessero capito. Tra l’altro egli aveva fornito tutti i dati
per una critica dei processi di autovalorizzazione dell’Ego e per il rifiuto
senza appello delle putride piste dell’arte e della cultura, e in Cronaca di un ballo mascherato – testo
scritto insieme a Piero Coppo e Joe Fallisi – aveva prodotto per tempo una
critica esauriente dello sviluppo e del destino del lottarmatismo.
19. Conclusioni
Naturalmente
quando parliamo di fine dell’esperienza radicale, vogliamo esprimere una
valutazione storica, delimitare una corrente per superarla. Ciò non significa
certo dire che gli individui che la componevano non abbiano continuato ad agire
e a sviluppare la stessa prospettiva; anzi proprio l’assoluta intransigenza
tipica della corrente comunista radicale nei confronti di tutti i tentativi di
recupero ha permesso che una tendenza rivoluzionaria abbia continuato a
esprimersi fino a oggi[28]. «Insurrezione» produsse in tutto cinque
pubblicazioni tra il ’77 e l’81. A Milano un’aggregazione di «radicali»,
riunificata nell’occasione con il nucleo di «Collegamenti», tentò fra il ’79 e
l’81 di dare vita a una radio (contemporaneamente «Rosso» dava vita a Radio
Black-out). Abbiamo già ricordato l’esperienza di «Maelström». Vanno segnalati
almeno i due notevoli interventi di Mario Lippolis: Teoria radicale, lotta di classe (e terrorismo)[29] e Ben venga Maggio e ’l gonfalon selvaggio[30]
(il primo, tra l’altro, fornisce un’ampia analisi della corrente radicale, che
la delimita storicamente secondo una periodizzazione che ha evidentemente
influito anche su questo nostro intervento).
Tuttavia
queste manifestazioni appartengono già alla nuova epoca, quella del grande
riflusso successivo al ’77: le ultime due pubblicazioni d’«Insurrezione» sono
dedicate quasi interamente a un’analisi del riflusso; «Maelström», come noi,
intendeva tracciare un bilancio critico degli anni Settanta, da cui far
scaturire una nuova prospettiva.
Nelle
condizioni attuali si ripropongono in tutto il loro tragico peso le «questioni
di razza e nazione» e questo sarà certamente un caposaldo della critica del
prossimo futuro. La prospettiva internazionalista, la necessità del superamento
delle nazioni, delle religioni, del razzismo si ripropongono in tutta la loro
attualità in un momento in cui il mondo è devastato dal nazionalismo, dal
razzismo e dai nuovi integralismi religiosi. La stessa situazione italiana è
oggi segnata dal localismo e dal razzismo, che c’impongono non solo le
tematiche con cui dovremo inevitabilmente confrontarci, ma anche il taglio con
cui affrontare la questione del comunismo, che va fondato proprio in quanto
antitesi dei particolarismi rivitalizzati dal capitalismo decrepito della
nostra epoca.
Vi
è stato un lungo momento storico in cui tali questioni apparivano ormai
superate da un capitale totalitario arrivato a omogeneizzare tutte le classi
sociali e a unificare tutto il globo sotto il suo dominio, lasciando ai
conflitti etnici e religiosi, circoscritti all’Asia e all’Africa un ruolo di
spauracchio nell’informazione-spettacolo. Si è trattato di un’illusione,
indubbiamente condivisa dalla teoria radicale (e dallo stesso Cesarano fin dai
tempi de L’utopia capitalista), che
ha trascurato l’analisi di contraddizioni apparentemente superate per spingersi
a volte, alla ricerca di una sintesi superiore, lontano dal campo insanguinato
della storia sfuggendo in parte alla contraddittorietà del presente. Questa
debolezza dell’analisi è stata il prodotto delle illusioni generate dal
movimento sovversivo del ’68: a tratti la teoria radicale è stata quasi
affascinata dal «capitale totale» in grado di assorbire e riprodurre a propria
immagine tutti i conflitti lasciati irrisolti dalle epoche delle guerre e dei
colonialismi.
Il
movimento rivoluzionario degli ultimi decenni non deve tuttavia essere
sottovalutato, in favore della tradizione rivoluzionaria classica, che pure sta
trovando tante conferme negli eventi contemporanei. Questo perché esso ha
portato dei cambiamenti irreversibili nella coscienza collettiva del
superamento necessario.
In
particolare l’esperienza del movimento «controculturale» del passato, se è
stata per parecchio tempo rimasticata dalle ganasce del mercato e diffusa sotto
forme merceologiche, nondimeno ha portato alla luce una consapevolezza
fondamentale, un dato centrale, sviluppato in tutta la sua portata dalla
critica radicale e in particolare proprio da Cesarano, ma manifestatosi anche
nel femminismo, nel movimento giovanile, soprattutto americano, e in tutti
coloro che hanno esplorato le peripezie della follia, della ricerca
dell’allargamento della coscienza e delle potenzialità umane: la rivoluzione
moderna mette profondamente in discussione il principio d’identità personale e
collettivo, l’Ego come sede separata e gerarchicamente dominante, il pensiero
che si pensa. La rivoluzione moderna si affaccia sull’abisso degli istinti,
dell’inconscio, del rimosso, per spiccare il volo alla ricerca dell’estasi, del
superamento dell’individualità nella dialettica coi mondi che sono attorno a
noi. Il decennio ’67-’77 ha modificato irreversibilmente la soggettività
rivoluzionaria e il suo modo di percepirsi. In questo senso torna sul cammino
delle tradizioni religiose e della magia, per svelare conoscenze che nei secoli
sono state sequestrate dall’esoterismo delle caste dominanti precapitaliste.
Queste
conclusioni ci portano nettamente al di fuori dei confini di questa
trattazione, ma Cesarano nella sua opera sa porre un possibile approccio a quest’avventura
conoscitiva, escludendo l’impossibile ritorno delle tradizioni ma senza negarne
il profondo nucleo di verità. Il superamento del capitale implica il
superamento delle tradizioni arcaiche, che si stanno estinguendo sotto la
riduzione di tutto a mera funzione dell’economia. La rivitalizzazione odierna
della religione e delle tradizioni profonde di popoli e razze, costituisce solo
il travestimento di conflitti interni al capitalismo e in realtà sempre agiti
contro il proletariato, che non ha più, da molto tempo, alcun tratto nazionale
o religioso da difendere. Quelle che oggi si presentano come forze tradizionali
sono solo le frazioni più guerrafondaie e sanguinarie del capitale mondiale,
che inquadrano il proletariato in mostruose comunità sottoposte a ideologie
totalitarie. Nessuna delle moderne ideologie nazional-religiose grottescamente
comunitarie[31] ha più nulla a che vedere con i contenuti delle tradizioni: si
tratta solo di manifestazione della «modernità» decrepita del capitale
contemporaneo.
Il
nucleo del superamento presente delle tradizioni – il superamento dei limiti
del Sé individuale – sta tutto altrove e può essere ritrovato: anche di questa
ricerca Critica dell’utopia capitale
fornisce valide basi. Nei suoi punti di forza e nei suoi limiti, questa
prospettiva costituisce un ulteriore livello di lettura, forse il più profondo
e autentico, dell’opera che abbiamo riproposto.
Luglio
1994
Note
[1]
Quest’attività si colloca in un momento che vede, finalmente, la reperibilità
dei principali testi di riferimento della «corrente radicale». In particolare
va segnala la prima traduzione italiana integrale dell’«Internationale
Situationniste», comparsa quest’anno [1994] presso Nautilus, Torino.
[2]
Giorgio Cesarano, Critica dell’utopia capitale
(Opere complete, vol. III), Colibri, Paderno Dugnano, 1993, pp. 125-26.
[3]
Col termine “ultrasinistra” definiamo l’opposizione internazionale «estremista»
alla «sinistra» (bolscevichi-Kpd), contrapposta al «centro» pacifista
(Kautsky-Bernstein-Psi) e alla «destra» socialpatriota
(Ebert-Scheidemann-Noske-Kerenskij-Bissolati), che si manifestò nel corso del
movimento rivoluzionario che coinvolse tutta l’Europa capitalista tra il 1917 e
il 1923. Questa corrente si diffuse potentemente anche in Russia come
opposizione al potere bolscevico, e pose al centro della sua attività la difesa
dei Consigli operai (da cui la denominazione di «comunisti dei consigli» o
«consiliari» con cui gli ultrasinistri sono designati).
A
mo’ di excursus introduttivo alle problematiche dell’ultrasinistra storica
riproduciamo qui un brano di Pierre Nashua (Pierre Guillaume) del 1974, che
rappresenta un esempio tipico di come questa esperienza storica sia stata
analizzata dalla corrente radicale dopo il Maggio: «Uno degli aspetti più
notevoli è che la rivoluzione tedesca fu fatta sulla parola d’ordine: “Usciamo
dai sindacati!”. Mentre nessuno si era autonomizzato rispetto ai sindacati e
alla socialdemocrazia prima della guerra, le organizzazioni ultrasinistre
raggrupparono centinaia di migliaia e persino milioni di lavoratori su
posizioni rivoluzionarie. Le organizzazioni politiche quali il Kapd [Partito
Operaio Comunista di Germania] furono in certi momenti strutture di massa più
potenti del Partito comunista legato all’Internazionale Comunista.
Da
una parte, i sindacati si erano completamente integrati alla guerra, come
d’altronde negli altri Paesi, a gradi diversi. Luddendorff doveva rendere loro
omaggio dichiarando che giammai lo sforzo bellico sarebbe stato possibile senza
la collaborazione dei sindacati e del Partito socialdemocratico. Dall’altra, i
comunisti di sinistra non raccomandavano di uscire dai sindacati per formarne
altri. Questa parola d’ordine corrispondeva a un rifiuto totale delle forme
sindacali di organizzazione, e si accompagnava alla creazione pratica da parte
del proletariato di organismi assai differenti: le “Unioni” controllate alla
base. Una delle acquisizioni di questo periodo è del resto il rigetto della
separazione tra organizzazioni politiche ed economiche (partito/sindacato). […]
I
gruppi come il Kapd fecero fin dall’inizio un’analisi profondamente giusta
della Russia e del ciclo della rivoluzione mondiale. Bisogna dire che furono
egualmente i soli a sostenere militarmente ed efficacemente, con insurrezioni,
attacchi a convogli militari eccetera, la Rivoluzione russa,
malgrado la loro severa critica dell’orientamento dei bolscevichi e
dell’Internazionale Comunista. L’evoluzione di questi gruppi illustra tutto il
problema delle organizzazioni rivoluzionarie. Queste formazioni scomparvero
rapidissimamente, man mano che la rivoluzione veniva vinta e che il
proletariato rifluiva verso posizioni disperate o difensive (puramente
riformiste: integrazione alla società capitalista). L’arrivo di nuovi problemi
le fece scoppiare su quasi tutti i punti con le reazioni abituali: terrorismo
generato dalla disperazione, attivismo… Non dimentichiamo che la rivoluzione
tedesca fu schiacciata dalla socialdemocrazia: l’intera storia tedesca tra le
due guerre, compresa la nascita del fascismo, non si comprende se non in
relazione a questo annientamento. Tutta l’evoluzione del fascismo non ha senso
se non la si lega alla rivoluzione tedesca, giacché esso ne fu in gran parte
l’esecutore testamentario. I rivoluzionari e le frazioni più radicali della
classe operaia (in particolare i disoccupati) erano stati battuti, ma nondimeno
la Repubblica
di Weimar (1919-1933), inizialmente creata e animata dalla socialdemocrazia e
dai sindacati, era stata incapace di mettere ordine nell’economia e di
soddisfare le rivendicazioni dei disoccupati, unificando il capitale nazionale
tedesco: solo il fascismo poté ridare lavoro a tutti, ricuperare l’aspirazione
alla “comunità” apportandovi una soluzione (alla sua maniera), e disciplinare
tutti i gruppi sociali dietro gli interessi del capitale nazionale veramente
unificato. Il fascismo soddisfò in modo mistificato le rivendicazioni
(materiali e ideologiche) della rivoluzione del 1919, che la socialdemocrazia
aveva schiacciato, ma le cui aspirazioni non poteva soddisfare durevolmente,
essendo incapace di unificare politicamente la Germania. Di fronte a
questa situazione, dall’inizio degli anni Venti, i rivoluzionari furono a poco
a poco ridotti allo stato di setta, e solo quelli che accettarono la prospettiva
di una controrivoluzione molto lunga furono in grado di resistere teoricamente.
[…]
Nella
rivoluzione tedesca, le minoranze radicali colsero il problema rivoluzionario,
ma l’insieme della classe rimase prigioniera di un atteggiamento rivendicativo.
La Sinistra
tedesca è al fondo l’espressione teorica di quel che i rivoluzionari – sovente
operai senza formazione teorica pregressa – avevano vissuto. Questa espressione
deriva al contempo da tutta l’esperienza, e dalla sconfitta, della rivoluzione
più significativa dell’epoca moderna, e dai limiti della situazione tedesca.
Questa doppia eredità si esprime nei gruppi che sopravvissero, generalmente
riuniti attorno a uno o due emigrati. Le uniche aggregazioni rilevanti sono la Sinistra comunista olandese
(Gik-H [Gruppe Internationaler Kommunisten-Holland: Gruppo dei Comunisti
Internazionali-Olanda]) e Paul Mattick, in diverse riviste statunitensi
(«International Council Correspondence», «Living Marxism», «New Essays»).
Bisogna distinguere tra i testi contemporanei alla rivoluzione e quelli
posteriori. I primi sono assai ricchi, a causa dell’esperienza concreta di cui
sono il prodotto. Molto spesso quegli stessi che giungevano a queste «scoperte»
teoriche uscite dalla lotta non vi erano preparati. Per esempio, la critica
della rivoluzione russa fu fatta a seguito di una quantità di esperienze
concrete, di rapporti con delegati dell’Internazionale Comunista, di misure
pratiche prese dalla Russia e dall’Internazionale eccetera. Numericamente molto
deboli, i gruppi sopravvissuti non hanno avuto, per così dire, influenza su
alcuna lotta importante; malgrado contatti periodici con degli operai, sono
restati per l’essenziale in un profondo isolamento. Ma, al pari della “Sinistra
italiana”, grazie a una rete di relazioni poco numerose ma complesse ed estese,
hanno potuto giocare un ruolo teorico assolutamente fondamentale. Nei gruppi e
nelle tendenze (anche non direttamente legati a questa tradizione) che sono
esistiti (per esempio Socialisme ou Barbarie in Francia), si ritrova
generalmente la traccia di uno o due membri della Sinistra tedesca. Vi è una
continuità tra questa, la
Sinistra italiana, e l’insieme delle “Sinistre”» (Pierre
Nashua, Perspectives sur les Conseils, la
gestion ouvrière et la Gauche
allemande, Éditions de l’Oubli, Paris, 1977, pp. 7-9).
[4]
V. I. Lenin, L’estremismo malattia
infantile del comunismo
[5]
La Fagi fu
costituita nel 1965 e sciolta nel 1969. Ne faceva parte Eddie Ginosa, che al
congresso di Carrara del novembre 1969, insieme a Cesarano, Gallieri e Fallisi,
presentò Tattica e strategia del
capitalismo avanzato nelle sue linee di tendenza, provocando vivaci
polemiche (questo testo, dopo essere stato discusso e rielaborato all’interno
di Ludd, venne pubblicato sul n. 3 di «Ludd-Consigli Proletari).
[6]
[Si pensi allo scandalo di Strasburgo e al pamphlet Della miseria nell’ambiente studentesco, frutto della
collaborazione tra alcuni studenti universitar della suddetta città e del
situazionista Mustapha Khayati, ndr].
[7]
Cfr. Caduta e declino dell’economia mercantil-spettacolare, «Internazionale
Situazionista», Milano, n. 1, luglio 1969.
[8]
Partito Comunista Internazionale (Il Programma comunista); Partito Comunista
Internazionale (La
Rivoluzione comunista); Partito Comunista Internazionalista
(Battaglia comunista).
[9]
Dobbiamo distinguere i Comitati Unitari di Base (Cub) totalmente autogestiti
del ’68-’69 e gli organismi omonimi della prima metà degli anni Settanta,
egemonizzati da Avanguardia Operaia (gruppo radicato soprattutto a Milano, di
provenienza trotzkista ma convertitosi poi al maoismo, che avrebbe
successivamente dato vita a Democrazia Proletaria, per confluire infine nel
Partito della Rifondazione Comunista).
[10]
«Nel 1965, Pierre Guillaume, membro di Socialisme ou Barbarie e poi di Pouvoir
Ouvrier, fondò la libreria La
Vieille Taupe, in Rue del Fossés-Saint-Jacques a Parigi.
Attorno a essa si aggregò un polo di riflessione e di attività in cui ci si
interessava all’Internationale Situationniste – che per qualche tempo intrattenne
rapporti con La Vieille
Taupe –, tanto quanto alla Sinistra italiana, conosciuta
allora quasi unicamente attraverso il filtro del Partito Comunista
Internazionale («Programme Communiste»). Pierre Guillaume prese parte, per
esempio, all’edizione inglese del testo dell’I.S. sulla sommossa di Watts. […]
Fin dalle sue origini, la libreria rifiutò un’etichetta dottrinale. Non era né
la sede di Pouvoir Ouvrier (fintanto che Guillaume ne fu membro), né la sua
libreria. In un’epoca in cui era difficile procurarsi i testi rivoluzionari
essenziali, poco numerosi “sul mercato”, esauriti eccetera, essa volle
innanzitutto facilitarne il reperimento. Il semplice fatto di selezionare testi
di Marx, di Bakunin, dell’I.S., di «Programme Communiste», dell’ultrasinistra
nel 1965 aveva un senso teorico e politico. A modo suo La Vieille Taupe
partecipò alla sintesi teorica indispensabile in tutte le epoche. Superò le
sètte senza radunare tutto ciò che era “a sinistra del Partito comunista” […].
Nel
1967, la libreria ricomprò le considerevoli giacenze dei fondi Costes, il solo
vero editore di Marx nella Francia dell’anteguerra, quando il Partito Comunista
Francese si preoccupava più di pubblicare Thorez e Stalin. All’inizio del 1968,
essendo esaurito presso le Éditions Sociales, il solo posto ove ci si poteva
procurare Il Capitale era La
Vieille Taupe. La libreria diffuse l’invenduto di «Socialisme
ou Barbarie», ma anche i «Chaiers Spartacus», che dopo la guerra avevano
pubblicato parecchi titoli sull’insieme del movimento operaio dall’estrema
sinistra all’estrema destra. Migliaia di esemplari della Luxemburg, di
Prudhommeaux…, che dormivano da anni in una cantina del municipio del V
arrondissement furono così di nuovo offerti al pubblico.
La
Vieille Taupe non
negava il bisogno di coerenza. Riteneva solamente che non la si potesse
raggiungere né a partire da una sola delle correnti radicali (tutte
unilaterali) di allora, né mettendosi all’ascolto degli operai (come ico), né
studiando le forme assunte dal capitalismo moderno (come auspicato da Souyri,
che si tenne lontano dalle polemiche provocate dalla scissione di Pouvoir
Ouvrier), ma attraverso un’appropriazione teorica delle correnti della sinistra
comunista (e dunque anche del terreno storico sul quale avevano visto la luce),
dell’Internazionale Situazionista e una riflessione sul comunismo e in
particolare sull’apporto di Marx.
Il
piccolo gruppo eterogeneo uscito da Pouvoir Ouvrier fece poco o nulla di
«pubblico» nei mesi che precedettero il Maggio ’68. Per l’essenziale lesse
collettivamente Il Capitale e cominciò ad assimilare l’apporto teorico delle
diverse componenti della Sinistra comunista, così come dell’Internazionale
Situazionista. La
Vieille Taupe non era un gruppo; era piuttosto il luogo di
passaggio di diversi fili, con una dominante antileninista in cui l’arrivo
d’«Invariance» creava una problematica nuova» (Le roman des nos origines, in «La Banquise», Paris, n. 2,
1984).
[11]
Guy Debord, La società dello spettacolo,
trad. it. di Paolo Salvadori, Vallecchi, Firenze, 1979 (ripubblicata, insieme
ai Commentari alla Società dello
spettacolo, da SugarCo, Milano, 1989); Raoul Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle giovani generazioni, trad.
it. di Paolo Salvadori, Vallecchi, Firenze, 1973 (nel 1972 ne era uscita una
traduzione di Mario Lippolis, ciclostilata a Genova, con il titolo Saper vivere. Trattato ad uso delle giovani
generazioni).
[12]
Norman O. Brown, La vita contro la morte,
Adelphi, Milano, 1964 e Corpo d’amore,
il Saggiatore, Milano, 1969 (ora disponibile per i tipi dello Studio
Editoriale, Milano, 1990). In quegli anni di Marcuse leggevamo soprattutto Saggio sulla liberazione (Einaudi,
Torino, 1969) e Controrivoluzione e
rivolta (Mondadori, Milano, 1973).
[13]
Giorgio Cesarano, Critica…, cit., pp.
30-1.
[14]
Giorgio Cesarano, Critica…, cit., p.
52.
[15]
[J.Camatte, G.Collu, Transizione, in appendice a Apocalisse e rivoluzione, Dedalo, 1973].
[16]
Giorgio Cesarano, Critica…, cit., pp.
48-9.
[17]
Cioè la parte portata a termine e rivista dall’Autore. Il resto del libro è
costituito dal materiale di lavoro di Cesarano, dai suoi appunti e schede.
[18]
Giorgio Cesarano, Critica…, cit., p.
389.
[19]
Giorgio Cesarano, Critica…, cit., p.
31.
[20]
Giorgio Cesarano, Critica…, cit., p.
121.
[21]
Alcune aree del continente africano sono ormai abbandonate al caos (Zaire,
Uganda, Burundi, Liberia, Angola, Ruanda). Il fallimento del «Nuovo Ordine»
americano in Somalia è evidente. Altrove in Africa il collasso economico è
completo. Il disastro dell’Algeria minaccia direttamente l’Europa. In America
Latina la guerriglia persiste in vaste zone. È dubbio che la Russia sia in grado di
controllare le guerre nelle Repubbliche dell’ex-Urss.
[22]
Tra l’altro, se vogliamo demistificare il recente passato in Italia, non
possiamo certo trovare granché nella declinante produzione teorica degli ultimi
comunisti radicali. A tutt’oggi non esiste nessun tentativo di bilancio della
vera guerra degli anni ’77-’79 (dalla cacciata di Lama all’Università di Roma
alla lotta dei lavoratori ospedalieri). La mistificazione dominante anche nella
cultura di sinistra tende a occultare o rimuovere tutti i caratteri profondi e
tipici di quel momento e a riproporne una lettura profondamente falsificata
come «anni di piombo», che sottolinea unicamente la falsa guerra spettacolare
tra Stato e gruppi politici militarizzati. Un tipico aspetto di questa
interpretazione ufficiale è la versione della «sconfitta» di quel movimento,
fornita tra gli altri da parecchi esponenti dell’Aut. Op. e dei gruppi
militari, presentata come se fosse stata la conclusione di una guerra civile o
di un movimento rivoluzionario in grado di prendere il potere. Sconfitta si
dette, non certo in una battaglia in campo aperto, ma fu sociale, e dovuta alla
profonda debolezza e fragilità di quel movimento. Manca inoltre completamente
da parte degli stessi Autonomi una seria valutazione storica dell’Autonomia,
che ebbe una parte così importante nella realtà di quel movimento.
Esiste
una «critica radicale» della tendenza militare delle Brigate Rosse, aperta da
Cesarano e Collu in Apocalisse e
rivoluzione, e completata abbastanza esaurientemente da parecchi altri dei
nostri, e anche da molti esponenti di primo piano dell’Autonomia Operaia. Manca
però del tutto una critica radicale dei contenuti espressi e difesi dalle
organizzazioni armate come le Brigate Rosse, Azione Rivoluzionaria, Prima
Linea; per trovare qualcosa del genere ci si può rifare solo a qualche testo
degli Autonomi.
Gli
avvenimenti del triennio ’77-’79 sono stati decisivi per tutto il quindicennio
successivo ’80-’94, e sono per forza di cose totalmente ignorati oggi dai
giovani che non possono reperire facilmente nemmeno le riviste e i libri
dell’Autonomia che godevano allora di notevole diffusione. Questa mancanza,
insieme alle mistificazioni grossolane delle ricostruzioni della cultura e
dell’intellettualità – che a differenza del ’68, giudicò subito intoccabile il
movimento del ’77, a causa della sua contrapposizione violenta al Pci –
contribuisce pesantemente allo smarrimento, e alla conseguente timidezza,
dell’ambiente sovversivo giovanile attuale.
[23]
A metà degli anni Settanta l’ideologia della criminalità propria di Comontismo,
che in precedenza costituiva una provocazione rivoltante per la sinistra –
donde le incredibili calunnie, reiterate poi in altre occasioni, che nel ’75,
due anni dopo lo scioglimento del gruppo, avevano colpito i comontisti, in
occasione dell’incendio di una sede milanese del Psdi – era ormai diventata
pratica diffusa dei selvaggi delle periferie metropolitane.
Lo
zoccolo duro di Comontismo continuò a esistere anche dopo lo scioglimento
formale del gruppo, contribuendo moltissimo, tra l’altro, a quella crescita
teorica di «Puzz», che finì per convincere anche Cesarano, il quale nei mesi
precedenti il suicidio era in cerca di uno sbocco umano operativo e di
diffusione delle sue idee.
Toni
Negri fu il solerte recuperatore di Comontismo, sfornando la teoria nuova di
zecca dell’«autovalorizzazione (sic!) proletaria», che costituì il cavallo di
battaglia suo e di «Rosso» negli anni di maggior successo dell’Aut. Op. Il
recupero tardo comontista operato da Negri – che pure in altre occasioni non
aveva difeso Riccardo d’Este dalla calunnia di essere un fascista, nonostante
lo conoscesse fin dai tempi di «Classe Operaia» – produsse un’apologia delle
bande giovanili illegali e violente dell’epoca degli espropri proletari. Usiamo
il termine apologia per chiarire che manca del tutto nella visione negriana il
concetto della necessità di «liberarsi della vecchia merda» tipico della teoria
rivoluzionaria e di Comontismo, l’idea cioè che la rivoluzione implichi la
critica e l’abolizione del proletariato.
[24]
Con questo non vogliamo dire che non avessero fondamento la riscoperta della
teoria nietzschiana del nichilismo e la sua applicazione a tanti fenomeni della
vita sociale contemporanea. Caratteristica della rivista «Provocazione» e dei
suoi precedenti fu però di usare la categoria «nichilismo» per designare tutte
le manifestazioni del movimento del ’77: Brigate Rosse, Autonomia Operaia,
movimenti giovanili generici, violenza (battezzata invariabilmente
«aggressività», perché la vera violenza era un concetto «buono»), scontro
sociale (anch’esso sempre «falso» e qualificato come «assenza di scontro»)…
Questo
tipo di posizione si può così riassumere: ogni lotta pratica è ridotta a
nichilismo attivo; la «teoria» consiste nella liquidazione di tutto e nella
scelta dei termini «giusti» (anche se molto spesso non se ne conosceva il
significato: gli strafalcioni tipici di «Provocazione» sarebbero stati pure
divertenti se non avessero fatto parte di una tendenza che ebbe un’influenza
disarmante).
[25]
In fondo la stessa cosa successe nella sinistra politica, al cui interno,
appena ci fu sentore che il ’77 era una cosa seria e comportava il rischio di
bruciarsi anni di preparazione alla carriera politica, si verificò un massiccio
esodo verso il pacifismo, il legalitarismo, il riformismo, il Partito Radicale:
della tempestività di questa fuga si è accorto chiunque in questi anni abbia
acceso la televisione, trovando invariabilmente le facce di bronzo di Lotta
Continua nelle vesti di conduttori dei più svariati programmi d’intrattenimento
culturale. Scalzone e Piperno (ex Pot. Op.) hanno a lungo recriminato, convinti
di aver subìto un’ingiustizia non essendo stati premiati per anzianità di
servizio nel campo del gauchisme. In fondo tutti, ma proprio tutti gli altri
hanno ottenuto posti di lavoro ben pagati! Ma occorreva aver chiarito – entro
il marzo ’77 – da che parte si stava per aver titolo a concorrere. Le domande
di ammissione all’albo degli ideologi professionali presentate fuori termine
non sono state ritenute valide.
Per
restare nel campo dell’umorismo macabro, ricordiamo che proprio «Re Nudo»,
l’acerrimo nemico di Max Capa, appena il clima del ’77 si scaldò di qualche
grado centigrado fu anch’esso illuminato dalla «soggettività creativa», non
facendone però una iper-critica come il pur sempre rivoluzionario Capa, ma
ancorandola alla religiosità eclettica di Bhagwan Shree Rajneesh, come via per
la demissione. Nell’insieme, tutto, da John Travolta a Brahma, fu utilizzato
per smobilitare il violento e trucido movimento giovanile del ’77 e per mettere
al sicuro le proprie sante chiappe (tutto ciò venne denunciato a suo tempo da
«Insurrezione», nell’opuscolo Proletari
se voi sapeste, Insurrezione, Milano, 1980).
[26]
Il capitale ormai non è più identificabile con una sfera separata, economica o
strutturale, ma è identico al sociale, essendo divenuto soggettività alienata
della specie.
[27]
Questo gruppo, rappresentante dell’«ala creativa» dell’Autonomia, aveva avuto a
varie riprese contatti diretti con i pochi comunisti radicali che ancora
s’interessavano di problemi triviali come il movimento reale. Ma il materiale
umano che lo componeva era interessato al proprio ruolo d’intellettuale e alla
possibilità di usarlo in futuro per integrarsi nell’industria culturale. La
loro prospettiva non andava al di là della sopravvivenza. Sorprendentemente,
perché la rivista «A/traverso», almeno prima del ’77, aveva saputo descrivere
criticamente il movimento con interventi nel complesso eccellenti, almeno
rispetto al livello teorico del resto degli Autonomi. Radio Alice, poi, era
stata semplicemente geniale, il vero centro propulsore del movimento bolognese.
Si trattava evidentemente di un gruppo, che aveva saputo rappresentare
l’esigenza dell’enorme massa di studenti e di sbandati di ogni risma gravitante
nell’ambiente universitario di Bologna, contribuendo a innescare una vera e propria
reazione a catena. Da quel momento in poi ebbero paura dell’incendio che
avevano tanto contribuito ad alimentare. Caddero così in pieno nella categoria
di «autovalorizzazione» di Cesarano: cercarono esclusivamente di utilizzare la
loro identità di rivoluzionari per accedere a quella, da loro ben più ambita,
di operatori culturali, finendo per la verità nella categoria della più
prosaica «autovalorizzazione» di Toni Negri. Stando così le cose, i loro
incontri con i «radicali», che da questo orecchio non ci sentivano, non furono
che dialoghi tra sordi.
[28]
Segnaliamo, come riferimenti recenti fuori dall’Italia, le seguenti riviste:
«Encyclopédie des Nuisances», «Les mauvais Jours finiront…», «La Guerre sociale», «La Banquise», «Le
Brise-Glace», «Mordicus», «Théorie Communiste», «Temps Critiques».
[29]
In Raoul Vaneigem, Terrorismo o
rivoluzione, seguito da Wolf Woland, Teoria
radicale, lotta di classe (e terrorismo). Appunti per il bilancio di un’epoca,
Nautilus, Torino, 1982.
[30]
Edito dall’Accademia dei Testardi, Milano, 1987.
[31]
A titolo di curiosità, giacché ben presto si dimostrò una solenne cantonata, va
citato il tentativo di «recupero» della pseudo-comunità religiosa operato nel
’79 da Lotta Continua, che si scatenò in una sfrenata apologia del movimento
sciita di Khomeini, ben presto rivelatosi non solo un rigoroso suddito della
ratio capitalista internazionale ma anche un vampiro, eccezionalmente sadico,
del proletariato e delle nazionalità oppresse dell’Iran, ben peggiore degli
stessi aguzzini cosacchi Pahlevi e figlio.