[...] I primi successi della lotta portarono l’Internazionale ad affrancarsi dalle influenze confuse dell’ideologia dominante che sopravvivevano in essa. Ma la disfatta e la repressione che essa
incontrò ben presto fecero passare in primo piano un conflitto tra due concezioni della rivoluzione
proletaria, che contengono entrambe una dimensione autoritaria dalla quale l’autoemancipazione
cosciente della classe viene abbandonata. In effetti, la polemica divenuta inconciliabile fra i marxisti
e i bakuninisti era duplice, incentrandosi volta a volta sul potere nella società rivoluzionaria e
sull’organizzazione presente del movimento, e passando dall’uno all’altro di questi aspetti le
posizioni degli avversari si capovolgevano. Bakunin combatteva l’illusione di una abolizione delle
classi con l’uso autoritario del potere statale, prevedendo il ricostituirsi di una classe dominante
burocratica e la dittatura dei più sapienti, o di coloro che sarebbero stati ritenuti tali. Marx, convinto
che il maturarsi inseparabile delle contraddizioni economiche e dell’educazione democratica degli
operai avrebbe ridotto il ruolo di uno Stato proletario a una semplice fase di legalizzazione dei
nuovi rapporti sociali che si sarebbero imposti oggettivamente, denunciava in Bakunin e nei suoi
partigiani l’autoritarismo di una élite cospirativa che si era deliberatamente posta al di sopra
dell’Internazionale, e che concepiva il disegno stravagante di imporre alla società la dittatura
irresponsabile dei più rivoluzionari, o di coloro che si sarebbero designati da sé come tali. Bakunin
reclutava effettivamente i suoi partigiani sulla base di una tale prospettiva: «Piloti invisibili nel
cuore della tempesta popolare, noi dobbiamo dirigerla senza un potere visibile, ma tramite la
dittatura collettiva di tutti gli alleati. Dittatura senza fascia, senza titolo, senza diritto ufficiale, e
tanto più potente per il fatto di non avere alcuna delle apparenze del potere». Così si sono opposte
due ideologie della rivoluzione operaia contenenti ciascuna una critica parzialmente vera, ma
perdendo l’unità del pensiero della storia, e istituendosi esse stesse come autorità ideologiche.
Organizzazioni potenti, come la socialdemocrazia tedesca e la Federazione Anarchica Iberica,
hanno fedelmente servito l’una o l’altra di queste ideologie; e dappertutto il risultato è stato molto
diverso da quello che si era voluto.
Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)
«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»
(«NonostanteMilano»)
* * *
«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione.»
(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).
* * *
«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»
(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)
2 settembre 2011
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento