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In questa società la Legge svolge molteplici funzioni: regola
e indirizza il rapporto di sfruttamento su cui si basa garantendone
il mantenimento; ordina le relazioni sociali e assegna a ciascuno un
ruolo in funzione dei propri interessi; costituisce la principale
mediazione tra tutti gli individui isolandoli gli uni dagli
altri nel mentre li riunisce in rapporti giuridici.
La Legge si esercita per il tramite della violenza, senza la
quale è lettera morta. La reclusione è una parte importante
di questa violenza.
Il carcere nasce con la Rivoluzione Industriale per formare dei
lavoratori disciplinati e addomesticarli alle rigide esigenze
spazio-temporali della macchina. Oggi è una delle tante strutture
del controllo sociale e assolve diversi scopi: punire chi
delinque per isolarlo dalla società; riabilitare, almeno
formalmente, alcuni elementi e restituirli ad una regolata vita
sociale; agitare lo spettro dell’esclusione per gli onesti
cittadini, lavoratori e consumatori.
Il Diritto è fondato su un criterio di utilità economica e sociale,
prodotto del dominio e strumento della sua difesa. La pena è,
infatti, commisurata all’entità del danno economico e al grado di
rifiuto dell’ordinamento sociale.
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La prigione è in simbiosi con la società e si trasforma al passo
con questa. Una delle tendenze di questi mutamenti è la
dematerializzazione del carcere e la sua diffusione nel territorio.
Evoluzione questa che consente un maggior controllo sociale a costi
più bassi: le manette elettroniche utilizzano le abitazioni come
succursali delle galere; l’urbanistica, il satellite e le
telecamere rendono le città prigioni.
Al carcere si affiancano forme alternative di detenzione. Centri di
accoglienza per clandestini, comunità terapeutiche per tossici,
comunità di reinserimento per detenuti e ospedali in genere sono
forme non-carcerarie di imprigionamento.
Il carcere si diluisce nel territorio attraverso la pianificazione
dei luoghi dell’abitare, degli spostamenti e del senso di questi.
Il controllo si insinua persino nel corpo tramite la medicalizzazione
del rapporto con la salute e la malattia, attraverso la
sofisticazione del cibo.
Alla struttura carceraria tradizionale si prospetta la funzione di
parcheggio per una parte crescente della popolazione.
3
Lo Stato sociale, risultato di un periodo di lotte, ha costituito uno
strumento efficace per la produzione di pace sociale. Lo
smantellamento progressivo di questo apparato, che ha lo scopo di
mettere in circolazione una maggiore quantità di capitali, e
l’introduzione della flessibilità produttiva provocano come
conseguenza l’estendersi della precarietà, creando una realtà in
cui i più non sono garantiti e inducendo l’aumento della
marginalità e dell’illegalità. Il potenziamento delle
strutture repressive risponde a questo mutamento. Il numero dei
detenuti è, infatti, in aumento in tutti i paesi occidentali.
Non potendo sopprimere tutti i criminali il potere dà loro una morte
apparente, rinchiudendoli: la deprivazione sensoriale, la noia, la
paura e il dolore mirano a far perdere all’individuo la sua
identità e il controllo sul proprio corpo. Il carcere è un
luogo altamente patogeno, in cui lo stress indebolisce le difese
immunitarie, le cure sono insufficienti e imposte; i detenuti sono
spesso le cavie di terapie sperimentali o oggetto di annichilimento
farmacologico. In questa situazione il suicidio rappresenta spesso
l’unica soluzione. In galera la negazione della vita è visibile al
massimo grado.
Il carcere speciale, diffuso in tutta Europa, si rivolge ai
detenuti irrecuperabili accrescendo, rispetto al carcere comune, le
potenzialità di annientamento fisico, psicologico e sociale. Esso è
un luogo di maltrattamenti, di torture e di omicidi sovente celati.
Il carcere speciale sorge con lo scopo di separare una parte dei
detenuti, creando un carcere all’interno del carcere.
La divisione tra detenuti politici e detenuti comuni è la
prima forma di separazione. Essa nasceva con il duplice obiettivo di
impedire, all’interno del carcere, la diffusione della critica
rivoluzionaria e l’organizzazione della sua pratica e, all’esterno,
di frantumare il fronte della lotta e di impedire che la questione
carceraria fosse posta nella sua interezza.
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Il Capitale non dichiara più di essere il migliore dei mondi
possibili, esso è semplicemente l’unico. Ogni giustificazione
ideale che lo sorreggeva è caduta: al principio formale della
giustizia subentra la necessità pragmatica di sicurezza. Al
carcere come luogo di rieducazione del reo, finalizzato al suo
reinserimento sociale, è il potere stesso a non credere più.
Solo pochi preti, tanto illusi quanto imbecilli, continuano a
professare la pedagogia della reclusione. Da parte loro, i criminali
sono sempre stati perlomeno scettici. Il crimine non è una malattia
curabile di alcuni individui, è la malattia incurabile della società
del Capitale.
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Le disposizioni in merito alle strategie repressive vengono
prese con criteri di natura tecnica da commissioni di esperti
coordinate internazionalmente. Le campagne mediatiche, quanto la
farsa del dibattito parlamentare, servono a far credere ai cittadini
di essere partecipi di decisioni prese altrove. Le emergenze e
i nemici – di volta in
volta mafia, terrorismo, droga, microcriminalità – sono prodotti
spettacolari funzionali a garantire le trasformazioni della
repressione.
Il mostro è la figura che esemplifica la più grossolana
delle mistificazioni associate alla presunta necessità della
prigione. L’attenzione riservata al caso particolare e al fatto
eccezionale viene utilizzata per mascherare la caratteristica
sostanziale del carcere: essere una struttura creata per contenere
e annullare il conflitto sociale.
Quelle lotte che contestano formalmente l’esistenza di alcuni
reclusori e l’ingiusta detenzione che in essi si attuerebbe,
puntellano di fatto le ragioni del diritto avvallando l’idea di una
detenzione giusta. Anche i politicanti di Via Corelli *sostengono
la necessità del carcere. Mediando il conflitto sociale, questi
collaboratori di giustizia contribuiscono alla razionalizzazione del
dominio.
Meno becera ma parimenti funzionale è la tesi di quanti sostengono
la distinzione tra detenuti politici e detenuti comuni. Limitarsi a
reclamare la liberazione dei compagni, o degli amici, significa non
vedere nel carcere un luogo decisivo dello scontro sociale e il ruolo
di recupero che queste divisioni svolgono in esso.
Le tesi di quegli accademici che propongono l’abolizione delle
galere hanno il merito di mostrare la relatività del concetto di
giustizia e di guardare in maniera disincantata alla condizione
carceraria. Non ne hanno altri. Essi credono nella possibilità di
una gestione dei conflitti diversa da quella punitiva e reclusoria
connaturata al sistema di controllo. Incapaci di comprendere le
ragioni materiali del conflitto,
astraggono il crimine dal contesto sociale sistemandolo su di
un piano squisitamente sociologico. In questo modo il crimine non è
più considerato elemento di rottura delle norme della società, ma
suo strumento di autoregolazione. L’ideologia
abolizionista, come tutte le visioni utopistiche, immagina un
punto finale dell’evoluzione della storia in cui ogni conflitto
sarà neutralizzato nel quadro del raggiungimento di una società
perfetta, il paradiso terrestre. Su questo punto tutte le
ideologie abolizioniste e le critiche astratte al carcere concordano
con l’Utopia del Capitale che sogna una società costituita di
cittadini che hanno introiettato le sue norme.
Chi vuole una società liberata dallo sfruttamento, del carcere non
sa che cosa farsene. Viceversa chiunque parli di un mondo senza
galere deve spiegare come ciò possa realizzarsi se non tramite lo
scontro rivoluzionario.
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Oggi il conflitto sociale è diffuso e sostenuto dagli esclusi anche
se in forme non coscienti e non comprese. Il crimine è
un’espressione del conflitto sociale; è un prodotto, anche
ideologico, del processo di espropriazione materiale e di senso,
realizzato dal dominio ai danni del vivente; al contempo ne
rappresenta la negazione. Le ragioni del crimine sono quindi storiche
e sociali e non valutabili secondo i canoni del senso comune.
Oggi una parte importante delle lotte sociali si realizza all’interno
dei luoghi di reclusione: carceri, centri di accoglienza, ghetti
urbani. Queste sono di fatto lotte parziali; tuttavia nella volontà
di farla finita con questi reclusori si intravede la possibilità di
una critica complessiva al dominio. Mettere in luce la teoria critica
insita nella pratica di tali lotte è il senso della critica
rivoluzionaria. Diversamente esse non sfuggono alla mediazione
politica e alla pratica recuperatrice che consente al sistema
l’amministrazione del conflitto.
* Nota: Nel 1998 le Tute bianche (ora Disobbedienti)
organizzarono una manifestazione fuori dal lager per immigrati di via
Corelli a Milano. Fu una delle prime manifestazioni basate sullo
scontro con la polizia, più o meno concordato preventivamente, per
ottenere maggiore risalto sui mezzi di informazione. La pratica venne
utilizzata fino al luglio 2001. A Genova, durante le manifestazioni
contro il G8, lo schema venne ampiamente criticato nella pratica
dalle migliaia di insorti che misero sottosopra la città.
Marzo 2000
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