Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

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«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

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«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

19 luglio 2010

Fordismo e postfordismo...

di Maria Turchetto


[L'articolo che segue va collocato nel contesto del dibattito sviluppatosi in Italia negli anni '90 del secolo scorso, circa la natura delle trasformazioni intervenute nel modo di produzione capitalistico a partire dalla metà degli anni '70. Pur tenendo ferma la nostra totale estraneità alla Sinistra cui si rivolge l'Autrice, reputiamo che questo testo rappresenti un valido contributo alla critica di quell'ideologia “postfordista” che si è ben presto trasformata in “senso comune”, penetrando sorprendentemente ambienti – e facendo breccia presso autori – che difendono nondimeno posizioni rivoluzionarie. Lmjf]

Postfordismo: questo termine è entrato nel linguaggio corrente negli anni '90 per indicare un insieme di caratteristiche economiche, sociali e istituzionali del nostro presente, avvertite come profondamente diverse rispetto al nostro recente passato.
Il recente passato in questione è fondamentalmente – salvo dilatazioni più o meno fondate, di cui parlerò in seguito – quello del secondo dopoguerra: quarant'anni che hanno visto prima una rapida crescita economica – si è parlato di vero e proprio boom negli anni '60 – e poi una lunga e tormentata crisi; anni che hanno portato prima un aumento generalizzato del benessere e poi l'austerità, i sacrifici, la povertà per vasti strati della popolazione; anni in cui erano in campo ideali e credi politici che sembravano solidi punti di riferimento per l'una e l'altra parte schierata, e che abbiamo poi visto perdere consistenza, volatilizzarsi, bruciare in tempi incredibilmente brevi. L'impressione è che sia finita un'epoca, si sia chiuso un ciclo, e che ci troviamo ormai oltre, dopo, post.

Post

Post non è un "dopo" come tutti gli altri. Questo suffisso è entrato prepotentemente nella nostra cultura negli anni '80, attraverso la porta dell'architettura (il "postmodernismo" è stato innanzitutto un movimento architettonico), e ha colonizzato gli ambiti più diversi (il termine "postmoderno" è stato ben presto usato in ambito filosofico, ma si è parlato poi di "postindustriale", "postcomunismo"...) portando comunque con sé un significato peculiare. Post è un dopo che smentisce la direzione prevista, è un cambiamento di rotta o un'inversione di tendenza: rispetto al funzionalismo e al razionalismo sempre più spinti dello "stile moderno", in architettura; rispetto al destino di progresso e di emancipazione promesso dalle filosofie della storia ottocentesche (le "grandi narrazioni", come le chiama Lyotard che ha introdotto per primo il termine "postmoderno" in filosofia[1]).
Il termine "postindustriale", da parte sua, portava con sé l'idea di un'inversione di tendenza rispetto al caratteristico sviluppo produttivo che la nostra società ha conosciuto a partire dalla rivoluzione industriale dell'Inghilterra di fine '700. Due secoli di industrialismo sempre più pesante, concentrato, orientato alla produzione di massa standardizzata, alimentato da schiere di lavoratori sempre più simili a eserciti, uomini intruppati, disciplinati, alienati, stipati in spazi urbani omologati e senza radici: tutto questo stava per finire. Una svolta epocale, essenzialmente dovuta alle nuove tecnologie basate sull'informatica e sulla microelettronica, avrebbe portato nella direzione opposta del decentramento, dell'alleggerimento, a tecniche sempre più soft e addirittura a una "produzione immateriale", sciogliendo la dura realtà delle officine stridenti in impalpabile virtualità.

Postindustriale

Mi soffermo ancora brevemente sull'idea della "società postindustriale", che è stata in voga soprattutto tra la fine degli anni '70 e i primi anni '80, perché è la parente più prossima dell'idea della "società postfordista", in cui ha lasciato profonde tracce.
"Postindustriale" è stato lo slogan ottimista di chi si aspettava dall'informatica la liberazione dagli aspetti negativi dell'industrialismo e della produzione di massa – l'alienazione, l'inquinamento, il gigantismo industriale e metropolitano – se non addirittura dalla condanna biblica del lavoro. È un'idea che ha alimentato una letteratura euforica, spesso più fantascientifica che "seria", più orientata cioè a colpire l'immaginario collettivo che ad analizzare le trasformazioni in atto: qualcuno ha fondatamente sospettato che si trattasse di un enorme battage pubblicitario a sostegno della prima grande ondata di introduzione delle tecnologie informatiche. Sta di fatto che bestsellers come Piccolo è bello di Schumacher[2] o After Industrial Society? di Gershuny[3], o "rapporti" diventati altrettanto celebri come quello di Nora e Minc per il governo francese[4] o quello dello Japan Computer Usage Development Institute[5], o i saggi di Adam Schaff su lavoro e occupazione scritti per il Club di Roma[6] non sono indagini sulla realtà contemporanea, ma fantasie su società futuribili: società totalmente atomizzate, in cui le città sono scomparse e gli individui vivono in un'arcadia disinquinata connessi dai terminali con cui comunicano, lavorano, si istruiscono e fanno la spesa; società integralmente democratiche perché le informazioni sono finalmente a disposizione di tutti e tutti partecipano alle decisioni collettive via modem; società in cui l'umanità liberata dal lavoro grazie alle nuove automazioni può dedicarsi a un'attività di "educazione permanente": come diceva Marx, "non resta a desiderare altro se non che il re, rimasto solo nell'isola, girando continuamente una manovella, faccia eseguire per mezzo di congegni meccanici tutto il lavoro dell'Inghilterra"[7].
Quest'ultima citazione è tratta dai Manoscritti economico-filosofici del 1844, e testimonia il fatto che la fede nella liberazione dell'umanità attraverso il progresso tecnico non è nuova (e non è marxiana: tutt'al più marxista). È un fatto che le infatuazioni tecnologiche ricorrono nella storia della nostra cultura, ma su questa ricorrenza – a mio avviso significativa – tornerò più oltre.

Postfordismo

Veniamo ora al "postfordismo", idea pessimista degli anni '90 che rappresenta in qualche modo la sobrietà dopo l'ubriacatura informatica. Ci si sveglia, e si constata che il mondo non è poi cambiato così radicalmente, anzi va peggio. La "liberazione dal lavoro" annunciata significa, per il momento, aumento della disoccupazione, emarginazione, povertà. Chi non lavora non trova più nemmeno strutture sociali di sostegno, poiché queste vengono sistematicamente smantellate. E chi ancora lavora non ha più gli strumenti di difesa del passato, e deve accettare ritmi e orari più pesanti, riduzioni salariali, condizioni di precarietà. Ed è perfino difficile prendersela con qualcuno, perché gli ordini arrivano dall'alto e i ricatti da lontano, da dimensioni "sovranazionali" che sembrano inaccessibili alle istanze politiche tradizionali.
Molte interpretazioni che oggi tentano di dar conto di questa situazione impiegano il termine "postfordismo", e concordano per l'essenziale nel caratterizzare questa nuova fase attraverso tre ordini di fenomeni: la tendenza a una diminuzione assoluta del lavoro, un nuovo assetto definito "flessibile" della produzione e uno spostamento dei poteri di governo dell'economia dall'ambito nazionale a una dimensione sovranazionale o "globale".
Si tratta di analisi spesso molto serie, che mettono in luce elementi importanti. Personalmente, tuttavia, ho alcune perplessità di fondo che voglio subito esplicitare, prima di passare a una più precisa disamina di quello che possiamo chiamare il "paradigma postfordista". Si tratta di una linea interpretativa che coniuga il nuovo vezzo della "cultura del post" – l'idea che siamo di fronte a una svolta epocale, cui si guarda con timore ma soprattutto con l'eccitazione di chi pensa "da questo momento niente sarà più come prima e noi siamo così fortunati da essere presenti e svegli proprio in questo momento" – con un vecchio vizio della tradizione marxista – l'idea che il capitalismo incontri un limite assoluto e "oggettivo" al proprio sviluppo, come un organismo vivente che ha un'irreversibile parabola di nascita, crescita, declino e morte, e dunque prima o poi si toglierà di mezzo da solo. Sono entrambe idee consolatorie, e proprio per questo difficili da scalzare. Ma i due secoli di storia del pensiero economico e politico che accompagnano lo sviluppo del capitalismo dalla rivoluzione industriale ai nostri giorni è una storia di svolte epocali annunciate e smentite, di pretese ultime frontiere raggiunte e superate. Perciò ritengo che ripensare il passato storico e teorico – i fatti e le loro interpretazioni – sia oggi importante almeno quanto indagare il presente, e sicuramente più dell'azzardare previsioni per il futuro.
Esplicito subito anche la mia personale ipotesi interpretativa. Come ho detto, diagnosi infauste per le ulteriori possibilità di sviluppo del sistema, da un lato, e, dall'altro, fiduciose utopie tecnologiche sono ricorrenti nella storia della nostra cultura. A mio avviso, questa ricorsività potrebbe essere il sintomo di una dinamica ciclica del capitalismo: una dinamica in cui fasi di espansione che incontrano limiti solo relativi sono seguite da periodi di crisi che non sono irreversibili, scandita da innovazioni tecnologiche che presentano potenzialità indefinite ma mettono capo a modelli di accumulazione esauribili, destinati dunque ad essere sostituiti senza che ciò coincida con la fine del capitalismo o con una trasformazione radicale della sua logica di fondo.
Ma prima di vagliare questa ipotesi, è necessario entrare un po' più nel merito di quello che ho chiamato "paradigma fordista".

Un "paradigma" per la sinistra?

Ho usato il termine "paradigma" perché ho l'impressione che, almeno nei dibattiti della sinistra italiana, dopo una lunga fase di disorientamento nel valutare e interpretare le trasformazioni degli assetti produttivi, economici, sociali e politici seguite alla crisi degli anni '70, siano state raggiunte e si siano consolidate – forse un po' troppo rapidamente – alcune "certezze" sulle tendenze emergenti. Si tratta dei tre ordini di fenomeni cui precedentemente accennavo: nell'era "postfordista" – destinata a durare in modo significativo – il lavoro diminuirà, a causa dei processi di automazione e di aumento della produttività consentiti dalle nuove tecnologie; la produzione diverrà "flessibile", cioè capace di adattarsi a un mercato variabile, dal quale comunque non ci si può più aspettare la domanda in durevole espansione e il consumo di massa del passato; la nuova produzione "magra" e "integrata", secondo i nuovi canoni del toyotismo, non sarà legata ai mercati interni ma opererà a livello mondiale, in un processo di "globalizzazione" da cui discende, sul piano politico, la crisi dello stato-nazione, progressivamente sostituito da organismi sovranazionali (la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, ecc.) nei compiti di governo dell'economia.
Su questi tre caratteri – che indicheremo per brevità come "fine del lavoro", "flessibilità" e "globalizzazione" – convergono oggi, con diversi accenti e traendone diverse indicazioni politiche, ma con un accordo di fondo, gli autori italiani che rappresentano i punti di riferimento della sinistra "vecchia" e "nuova": economisti "accademici" (absit iniuria verbis) come Giorgio Lunghini[8], autori fortemente originali come Marco Revelli[9], profeti dell'"autonomia" come Paolo Virno[10], ma anche promotori della new wave liberista-di-sinistra come Salvati, fino a personaggi più decisamente politici come Pietro Ingrao e Rossana Rossanda. Ingrao e Rossanda[11] – forse per l'autorità che deriva loro dal rappresentare in qualche modo il "sangue blu" della sinistra italiana, la tradizione alta rispetto al degrado massmediale che oggi ha travolto la politica – hanno anzi contribuito in modo decisivo al consolidamento e alla diffusione del "paradigma" postfordista con il volume Appuntamenti di fine secolo: libro fortunatissimo e commentatissimo, che ha siglato una sorta di compromesso teorico tra le due principali anime del marxismo italiano, quella ortodossa e quella operaista, acerrime nemiche alla fine degli anni '70, oggi sostanzialmente concordi sulla definizione del postfordismo.
La paternità della nozione di “postfordismo” non spetta tuttavia né al marxismo ortodosso né all'operaismo. Questi due filoni di pensiero hanno importato d'oltralpe il termine e la definizione corrispondente, adattandoli al proprio apparato concettuale. Il copyright sul postfordismo spetta infatti senza dubbio alla cosiddetta Ecole de la Régulation francese, che negli anni '70, attraverso i lavori di Michel Aglietta (considerato il caposcuola), Benjamin Coriat, Alain Lipietz e altri, ha portato avanti un'interessante proposta interpretativa fondata sull'individuazione di diversi "regimi di accumulazione". Un regime di accumulazione ampiamente studiato da questa scuola è il fordismo; un altro – ad esso subentrato e definito essenzialmente per differenza – è appunto il postfordismo. È stato soprattutto l'operaismo a introdurre in Italia le analisi dei regolazionisti [12], dandone una lettura fortemente soggettivista e collocandole sullo sfondo di un destino di "liberazione dal lavoro". Il marxismo più tradizionale ha recepito un po' più tardi questi contributi, adattandoli al proprio schema interpretativo di stampo evoluzionista: la storia del capitalismo è vista come una successione di "fasi di sviluppo" accrescitive e irreversibili, di tipo quasi biologico, e il postfordismo rappresenta la (ennesima) "fase suprema".
Nel paradigma postfordista confluiscono dunque diverse impostazioni teoriche e convivono diverse ispirazioni: una convivenza abbastanza pacifica, che dà luogo a scarsi dubbi e scoraggia l'esercizio della critica. La nozione di postfordismo è diventata ormai senso comune, e i caratteri della nuova "fase" sono dati per scontati: si discute soltanto, a valle, delle ricette politiche per contrastare gli effetti indesiderabili come l'estesa disoccupazione ("lavori utili" no profit? "salario di cittadinanza" garantito? "lavorare tutti, lavorare meno"?), ma la diagnosi è data per certa. A mio avviso occorrerebbe invece un supplemento di indagine a monte. Utilizzando un'ottica meno legata ai settori produttivi tradizionali (in particolare quello dell'automobile, non più trainante ma considerato ancora, se non decisivo, almeno emblematico dell'industria nel suo complesso) e soprattutto un po' di memoria storica è infatti possibile avanzare qualche ragionevole dubbio sulla generalizzabilità e stabilità di quelli che sono considerati i caratteri chiave del postfordismo – "fine del lavoro", "flessibilità", "globalizzazione". Vorrei in questo senso proporre qui alcuni spunti critici, partendo da un esame delle nozioni proposte dalla Scuola della Regolazione.

Fordismo: un "modo di produzione"...

Il fordismo e il postfordismo di cui parla la Scuola della Regolazione non sono "fasi" nel senso del marxismo ortodosso: non sono cioè stadi di sviluppo, tappe obbligate di un percorso di cui si conosce la direzione. Aglietta e la sua scuola tentano anzi di sottrarsi a questo schema tradizionale, sospendendo il giudizio circa le "leggi evolutive" del capitalismo e il suo destino storico, e cercando piuttosto di definire un "idealtipo" capace di rappresentare in un quadro coerente il modello di crescita economica prevalso nei paesi capitalistici sviluppati dopo la seconda guerra mondiale. Tale modello viene descritto come un sistema strutturato intorno a tre dimensioni principali: un tipo di produzione fondato sul paradigma tecnologico "fordista" (organizzazione del lavoro a catena per la produzione di massa entro la grande fabbrica centralizzata), un modo di regolazione imperniato sulle politiche keynesiane di sostegno della domanda e dell'occupazione, un blocco sociale centrato su un "compromesso" relativamente stabile tra classe operaia e capitale garantito dallo stato. La sinergia di queste dimensioni avrebbe prodotto il circolo virtuoso del dopoguerra, in cui profitti, salari, occupazione e benessere sociale riuscivano a crescere contemporaneamente.
L'analisi della produzione, sviluppata soprattutto da Coriat[13], è particolarmente interessante e innovativa rispetto al marxismo ufficiale dei partiti comunisti degli anni '70, piuttosto incline a fare del lavoro e della produttività valori indiscussi, fatti propri dal movimento operaio e contrapposti al "parassitismo" di un capitale finanziario "tagliatore di cedole", ormai estraneo alla produzione. La produzione fordista si basa sui criteri dello "scientific management " introdotto da Taylor, i cui metodi – la spinta divisione del lavoro, la rigida separazione tra direzione ed esecuzione, l'imposizione tassativa di tempi e mansioni standardizzate – producono alienazione e subordinazione. Vista in quest'ottica, la stessa introduzione di tecnologie di automazione e di processo – nel caso specifico, le macchine operatrici e la catena di montaggio su nastro ideata da Ford – perde l'aura del "progresso tecnico" e si rivela un mezzo per imporre in modo inesorabile gli alienanti metodi tayloristi: incorporati nelle macchine, essi diventano una "necessità tecnica" impersonale e oggettiva. Per questa via, viene sviluppata una prospettiva di critica dell'organizzazione capitalistica del lavoro e della stessa tecnologia, critica assai carente se non addirittura assente nel marxismo ortodosso, tutto preso dalle magnifiche sorti e progressive dello "sviluppo delle forze produttive", in cui l'Unione Sovietica degli anni della guerra fredda si distingue al punto da contendere agli Stati Uniti i primi posti in classifica. E viene anche recuperato un Marx assai trascurato dalla tradizione interpretativa ufficiale, quello che nel Capitale analizza la nascita della "grande industria meccanizzata", descrivendone con grande efficacia gli effetti – l'impoverimento oggettivo e soggettivo del lavoratore che diventa "appendice della macchina", ingranaggio di un meccanismo di cui non capisce il funzionamento e non conosce il risultato.
Per la verità, l'analisi di Marx si riferisce all'industria tessile inglese, al centro della rivoluzione industriale alla fine del '700: le macchine citate nel Capitale sono il filatoio idraulico a lavoro continuo di Arkwright brevettato nel 1769 e il telaio meccanico di Cartwright del 1787. Che tale analisi si attagli tanto bene all'industria automobilistica che decolla oltre un secolo più tardi (la catena di montaggio su nastro viene introdotta alla Ford Motor Company di Detroit nel 1908) è oggetto di una curiosa interpretazione da parte di Coriat: egli non pensa che il processo di "trasformazione dell'operaio di mestiere in operaio massa" – per usare la sua terminologia – sia già avvenuto altrove, pensa piuttosto che Marx sia stato un profeta, abbia saputo di cogliere i primissimi indizi di un processo destinato a giungere al pieno compimento solo cent'anni dopo.

... e un "modo di regolazione".

Ma proseguiamo con l'esposizione delle altre dimensioni del "sistema fordista" indagate dalla Scuola della Regolazione. L'"operaio massa", creato dai metodi di lavoro inaugurati dall'industria automobilistica e poi esportati in altri settori, mette capo a una "produzione di massa", la quale a sua volta richiede un "consumo di massa" che il mercato concorrenziale non è in grado di garantire. Secondo Aglietta[14], la causa fondamentale della crisi del 1929 risiederebbe appunto nell'inadeguatezza di un modo di regolazione rimasto concorrenziale, soprattutto nei meccanismi di formazione dei salari, rispetto alle esigenze della produzione di massa. Saranno le nuove linee di politica economica di ispirazione keynesiana, basate sul sostegno della domanda effettiva attraverso la politica fiscale redistributiva e la spesa pubblica, a colmare lo scarto, a partire dagli anni '30 – i "trente glorieuses" che permettono l'uscita dalla crisi.
Questa svolta negli indirizzi di politica economica richiede l'assunzione da parte dello stato di compiti affatto nuovi, sconosciuti al capitalismo concorrenziale. Ma richiede anche un "compromesso istituzionalizzato" – de jure o de facto – tra il padronato e le organizzazioni dei lavoratori: un patto in base al quale "aux gestionnaires le choix concernant les méthodes de production, aux salariés une part 'des dividendes du progrès', c'est à dire des gains de productivité ainsi obtenus"[15]. Lo stato è anche qui chiamato in causa: nelle condizioni imposte dalla produzione fordista, non può più essere soltanto "un comitato, il quale amministra gli affari comuni di tutta quanta la classe borghese", come Marx lo definiva nel Manifesto, ma deve gestire e garantire l'accordo tra le parti sociali.
Nel secondo dopoguerra le condizioni strutturali necessarie alla "coerenza del fordismo" sono ormai presenti e messe a punto nella maggior parte dei paesi sviluppati. Esistono diverse "varianti nazionali" del fordismo (la Scuola della Regolazione parla ad esempio di un fordismo "entravé", cioè impastoiato o bloccato, nel Regno Unito, "atipico e ritardato" in Italia, "flessibile" in Germania), ma nel complesso si tratta di un modello ben riconoscibile che deriva fondamentalmente dal prototipo statunitense. Va sottolineato che, nella concezione regolazionista, il fordismo non costituisce un "sistema mondo", ma piuttosto un insieme di sistemi nazionali "autocentrati", rispetto ai quali la dimensione internazionale ha un'importanza relativa e strumentale: le stesse corporations multinazionali hanno una patria, sono legate a doppio filo alla politica portata avanti dallo stato cui appartiene la casa madre.

Grandi trasformazioni

A ben vedere, la ricostruzione proposta dalla Scuola della Regolazione non descrive soltanto l'assetto economico e sociale dei paesi sviluppati nel secondo dopoguerra, ma fornisce un'interpretazione di tutto il '900: il nostro secolo viene letto come vicenda della lenta formazione di un capitalismo profondamente diverso da quello ottocentesco. Il capitalismo del XIX secolo opera su dimensioni contenute, è concorrenziale, liberale e liberista; quello del XX secolo è "di massa", gigantesco in tutte le sue dimensioni, non concorrenziale, statalista, assistito. Si forma lentamente, un pezzo per volta: il nuovo modo di produzione "fordista", nei primi decenni del '900; il modo di regolazione ad esso adeguato negli anni '30 e '40, dopo lo choc della crisi del 1929. Il sistema funziona a pieno regime solo dal dopoguerra agli anni '70, ma la sua storia, dalla formazione alla decadenza, occupa l'intero secolo.
L'idea di un capitalismo novecentesco strutturalmente diverso da quello ottocentesco non è nuova. È un'idea che prende piede soprattutto negli anni '40. L'opera più significativa, in questo senso, è forse La grande trasformazione di Polany[16]: l'autore vede nella crisi del '29 compiersi il "crollo della civiltà del XIX secolo", civiltà che presenta certamente le sue luci e le sue ombre, ma che ha garantito pace e libertà, mentre il XX secolo è l'era delle guerre mondiali e dei regimi totalitari. Nella letteratura più strettamente economica, la "grande trasformazione" del '900 è al centro delle cosiddette teorie del ristagno, teorie che negli anni '40 hanno goduto di molto successo negli Stati Uniti, rappresentando tra l'altro il principale veicolo di diffusione della teoria keynesiana e delle politiche ad essa ispirate[17]. Secondo queste teorie, le condizioni che avevano permesso l'espansione del capitalismo nell''800 – identificate soprattutto nella crescita della popolazione, nell'espansione territoriale e nel progresso tecnico – si presentano ormai esaurite nel XX secolo. Il sistema tende perciò a una condizione di ristagno, che soltanto il massiccio intervento dello Stato può sanare.
Come si vede, si tratta di teorie fortemente pessimiste: il capitalismo – esse sostengono – non sarà mai più quello di prima, non porterà più "spontaneamente" ricchezza e progresso, non possiamo più "lasciarlo fare" sperando nelle virtù della mano invisibile del mercato, poiché ora ha bisogno di essere opportunamente indirizzato e sostenuto. Conclusioni certamente influenzate dalla vicenda della grande crisi, cui non seguì una pronta e solida ripresa (gli anni '30 non sono affatto "glorieuses" come pretendono i regolazionisti) ma una lunga fase di precarietà. La Scuola della Regolazione dà invece della "grande trasformazione" una versione più equilibrata, col senno del poi di chi ha visto il boom del secondo dopoguerra: il capitalismo del XX secolo è diverso, ma non necessariamente in peggio, visto che è ancora capace di sviluppo. La diversità è comunque individuata – come negli stagnazionisti – nei nuovi compiti assunti dallo stato e nel carattere non più concorrenziale del capitalismo.
A quanto pare gli economisti sono molto attenti al presente, molto disposti ad azzardare previsioni di lungo periodo per il futuro, ma assai poco memori del passato. I teorici della stagnazione, così come gli autori della Scuola della Regolazione, sembrano infatti non ricordare che una "grande trasformazione" del capitalismo era già stata ampiamente teorizzata a cavallo del secolo, in opere importanti come Il capitale finanziario di Hilferding[18], The Evolution of Modern Capitalism e L'imperialismo di Hobson[19]. Con toni diversi (Hobson è profondamente pessimista, probabilmente perché scrive in un'Inghilterra ormai declino, mentre Hilferding, dall'osservatorio di una Germania in piena espansione, prevede un'era di maggiore stabilità economica) gli autori in questione individuano il punto di svolta intorno al 1870, parlano entrambi di un capitalismo non più concorrenziale, di un nuovo ruolo svolto dallo stato, di processi di mondializzazione e finanziarizzazione dell'economia. Per certi versi sembrano dunque anticipare aspetti del fordismo, per altri addirittura caratteri del postfordismo (Hobson, in particolare, parla di deindustrializzazione, terziarizzazione e perfino di "produzione immateriale"). La trasformazione è comunque segnalata con tanto vigore che Lenin ne deduce l'imminente fine del capitalismo: le opere di Hilferding e di Hobson citate vengono infatti ampiamente riprese (quella di Hobson quasi integralmente, anche nel titolo) nel saggio L'imperialismo fase suprema del capitalismo[20], in cui l'aggettivo "suprema" significa, senza ombra di dubbio, ultima.
Come accennavo all'inizio, le diagnosi infauste per il capitalismo e le svolte epocali annunciate ricorrono con una certa frequenza nella storia del pensiero economico. I casi sono due: o sono tanti i profeti, oppure le "grandi trasformazioni" avvengono più spesso di quanto normalmente si ammetta, e forse vengono così prontamente dimenticate perché il cambiamento non è poi così profondo come ci si aspettava.

Toyotismo

Ma torniamo alla Scuola della Regolazione. Sappiamo che negli anni '70 il fordismo entra in crisi. La domanda è allora da che cosa sia destinato ad essere sostituito, e la risposta, da parte dei regolazionisti, è fin troppo pronta: un nuovo "modo di produzione", diverso e anzi opposto nella sua logica di funzionamento, è già stato messo a punto in Giappone dall'ingegner Ohno e applicato con successo alla produzione di automobili Toyota. Il toyotismo è presentato dalla Scuola della Regolazione come la forma ormai compiuta e ineluttabile del postfordismo: è destinato a prenderne il posto, diffondendosi dal Giappone al resto del mondo e dal settore automobilistico al resto dell'industria, e pretenderà un "modo di regolazione" adeguato, smantellando in primo luogo le politiche e le istituzioni del welfare di stampo keynesiano.
Le novità del toyotismo sono molte, e vengono descritte marcando (spesso forzando) la differenza rispetto alla produzione fordista[21]. La catena lineare e rigidamente sequenziale di Ford viene sostituita da sistemi modulari (a "rete" o a "isole") o a "U" che rendono più flessibile il montaggio. Il principio taylorista "un uomo, una mansione" viene meno, gli operai vengono addetti a più macchine, devono essere essi stessi flessibili e "polivalenti", e lavorare in gruppi o squadre secondo modalità che sembrano andare nella direzione opposta rispetto ai classici principi della divisione del lavoro e della parcellizzazione delle mansioni. Perfino l'"alienazione" del lavoro sembra venir meno, poiché si chiede al lavoratore di condividere gli obbiettivi dell'azienda.
Ma una differenza viene soprattutto enfatizzata: la produzione non è più di massa, nel duplice senso che non ha più le grandi dimensioni del passato e non è standardizzata. Questo punto è cruciale nell'argomentazione della Scuola della Regolazione: essa ritiene infatti che la crisi del fordismo sia essenzialmente dovuta ai limiti raggiunti dal consumo. Il mercato non è più in grado di assorbire una produzione di massa, dunque la produzione deve adeguarsi a una domanda ormai "matura", inferiore per dimensione e mutevole per gusti. Il postfordismo sembra dunque promettere quella "sovranità del consumatore" di cui parlava un secolo fa Vilfredo Pareto e che Ford arrogantemente aveva smentito sostenendo che "il cliente può comprare l'automobile del colore che vuole, purché sia nera".
L'immagine del futuro suggerita dalla Scuola della Regolazione – per la verità soprattutto da Coriat, critico del capitalismo nella versione fordista ma decisamente apologeta della sua versione toyotista – non è forse euforica come quella "postindustriale" ma, nella sua sobrietà, abbastanza consolante (non a caso è stata ampiamente ripresa dai nostrani fautori del "modello giapponese" e della "qualità totale", Romiti in testa). La produzione deve diminuire, per raggiunti "limiti dello sviluppo", e di conseguenza diminuirà il lavoro. In compenso, il lavoro sarà meno alienato – meno scisso e indifferente – e il consumo più gratificante – più personalizzato e vicino ai bisogni reali.
Quanto al "modo di regolazione" prossimo venturo, i giochi non sono forse ancora fatti come nel campo della produzione (del resto anche la storia del fordismo registra una sfasatura, una certa lentezza delle istituzioni ad adeguarsi), ma sicuramente vanno nella direzione della "crisi della forma stato", inadeguata ormai per dimensioni e funzioni.

Alcune critiche

1. Molti autori – per la verità non molto ascoltati – hanno contestato le mirabilia del toyotismo, mettendo in luce come la Toyota sia tutt'altro che un paradiso[22], come i metodi ivi impiegati rappresentino una razionalizzazione estrema del taylorismo più che il suo rovesciamento[23], facendo osservare che molte pretese "ricomposizioni" o "riqualificazioni" del lavoro messe in atto dagli emuli di Ohno sono consistite semplicemente nell'assegnazione di un operaio a due o tre macchine anziché a una sola, per eseguire mansioni comunque parziali, esecutive, ripetitive, spesso con un aumento dell'intensità del lavoro[24].
Queste critiche possono essere ulteriormente sviluppate mettendo il naso fuori dal settore automobilistico, a torto considerato ancora rappresentativo della produzione industriale nel suo complesso. Anche rimanendo nei tradizionali poli dello sviluppo industriale, e ignorando il resto del mondo, si può ad esempio osservare che in un nuovo settore chiave, quello dell'informatica, i vecchi principi del taylorismo sono ancora in auge. Non mi riferisco tanto alla produzione di software (che pure potrebbe fornire ottimi esempi di taylorismo applicato al "lavoro intellettuale"), quanto alla componentistica, industria strategica del settore – non a caso oggetto di pesanti politiche protezionistiche da parte degli Stati Uniti – troppo spesso ignorata a causa del luogo comune secondo cui quella informatica sarebbe una produzione "immateriale". Nella Silicon Valley come in Giappone, questo settore mantiene le più classiche caratteristiche della produzione "industriale" pesante, rigida, concentrata, con mansioni lavorative standardizzate e ripetitive.
Se poi si guarda al di là di quelli che sono stati i centri dello sviluppo industriale di questo dopoguerra, le sorprese possono essere ancora maggiori. Si scoprirà, ad esempio, che la stessa produzione automobilistica è tuttora più "fordista" di quanto non si creda: solo che non si svolge più soltanto a Torino o a Detroit, ma in larga percentuale, ad esempio, in Brasile, dove impiega le tecniche rigide di esecuzione parcellizzata secondo "one best way" caratteristiche del taylorismo. Studi recenti mostrano che nelle "semiperiferie" di nuova industrializzazione – come il Messico, l'Indonesia, l'India, il Brasile, il Sud Corea e, oggi, la Cina – la diffusione dei metodi tayloristi e fordisti tradizionali è vastissima anche in quei settori in cui le innovazioni organizzative attuate dalle case madri dei "centri" fanno parlare di "postfordismo". La fabbrica taylorista sembra anzi uno strumento particolarmente efficace per l'esportazione dei metodi di lavoro capitalistici nei paesi cosiddetti "in via di sviluppo". Se in queste aree – come è stato osservato[25] – è difficile prevedere l'evoluzione di produzioni artigianali o semiartigianali locali verso forme comandate da principi di produttività e di efficienza simili a quelle del mondo capitalistico sviluppato, a causa della resistenza opposta dalle diverse culture autoctone, ci si può invece ragionevolmente aspettare che il trapianto di una produzione altamente taylorizzata abbia ragione di tali resistenze, e ottenga in tempi brevi il disciplinamento di una popolazione priva di tradizione industriale.
Sulla base di queste considerazioni è forse legittimo mettere in dubbio una delle certezze del "paradigma fordista": a livello mondiale, il lavoro non diminuisce affatto, piuttosto si sposta dove maggiori sono i margini di profitto e le possibilità di sfruttamento. E occorre aggiungere che "lavoro" e "occupazione" sono nozioni diverse (la loro differenza aveva messo in imbarazzo Keynes, può ben aver fatto prendere un abbaglio a Lunghini!): non è affatto scontato sostenere che il capitale impiega meno "lavoro vivo" quando a fronte della diminuita occupazione esiste un aumento dello sfruttamento.

2. Anche l'idea di una nuova "sovranità del consumatore", di una inversione dei rapporti di forza tra domanda e offerta che costringerebbe la produzione a diventare "flessibile" per rispondere al mercato, pecca, a mio avviso, di "automobilocentrismo". Le nuove caratteristiche dell'offerta – la differenziazione dei prodotti, l'individuazione e la creazione di fasce di mercato diversificate, ecc. – non riguardano a ben vedere tutto il mercato: sono piuttosto tipiche dei mercati maturi o saturi, come appunto quello dell'automobile. Di nuovo, basta guardare a un settore recente, come quello dell'informatica – soprattutto a quella sua parte specificamente indirizzata al consumo di massa dell'home computer – per osservare tendenze opposte: negli ultimi dieci anni, la direzione è stata quella della standardizzazione e della concentrazione dell'offerta.
A questa contestazione per così dire "geografica" dell'impianto regolazionista vorrei aggiungere qualche considerazione di tipo storico. La strategia di differenziazione e personalizzazione dei prodotti non è affatto nuova. Essa viene ampiamente teorizzata negli anni '30 e '40, dunque in anni di "produzione di massa", quando gli economisti scoprono – se non per l'ennesima, almeno per la seconda volta – che il capitalismo non è più concorrenziale, in opere come L'economia della concorrenza imperfetta di Joan Robinson e Teoria della concorrenza monopolistica di Edward Chamberlin[26]. La stessa idea viene ripresa negli anni '60, quando il fordismo funziona a pieno regime, in Il capitale monopolistico di Baran e Sweezy[27]. A meno di non aver a che fare, ancora una volta, con profeti, risulta sensata una diversa interpretazione. Evidentemente, Ford impone le famose automobili nere nei primi decenni del secolo, finché è il solo produttore in serie su grande scala; dovrà farle gialle, rosse, verdi e dotarle di inessenziali accessori (contro il suo motto "ogni pezzo in più è un pezzo in più che si rompe") nei decenni successivi, quando entreranno sulla scena la General Motors e la Chrysler; e dovrà rincorrere la moda nel dopoguerra, quando il mercato dell'automobile diventa "globale".

3. Gli inizi del fordismo presentano un'altra caratteristica troppo spesso taciuta: il clima non è affatto di pace sociale, di compromesso tra le parti, ma di feroce attacco padronale ai diritti dei lavoratori. Fin dalla sua fondazione nel 1903, la Ford non tollera alcuna presenza dei sindacati, neppure di quelli "gialli": i sindacati rimangono fuori dai cancelli della Ford fino al 1941. Questo non perché le istituzioni non si siano ancora adeguate, ma perché la Ford non vuole. Il suo decollo è infatti legato a condizioni di sfruttamento altissime, consentite dalla vasta disoccupazione, dalla povertà, dalla pressione degli immigrati. La Ford non "trasforma" gli operai di mestiere in operai-massa: li butta fuori, e li sostituisce con disoccupati ricattabili, immigrati, disperati di ogni genere che sottopone a condizioni di lavoro infernali. Allora come oggi, disoccupazione e sfruttamento vanno insieme. Welfare e politiche di piena occupazione verranno dopo, e dopo verrà anche la spesa pubblica a sostegno del settore: queste politiche sono fondamentali per la diffusione e l'assestamento del "modo di produzione" fordista, ma probabilmente incompatibili con il suo decollo.
Per tirare le somme: flessibilità e disoccupazione non sono a mio avviso caratteristiche di un'era (un'età del ferro dopo l'età dell'oro), e nemmeno di un modello di accumulazione, ma piuttosto del periodo di passaggio da un modello a un altro. Segnano la fine di un ciclo e sono le condizioni perché un ciclo successivo decolli.

Un'ipotesi di lavoro...

Cerco di chiarire meglio, sia pure in modo schematico, la mia proposta interpretativa, mettendo le mani avanti sul suo carattere provvisorio: non è che un'ipotesi di lavoro. In breve, la storia dei fatti e delle interpretazionI mi sembra suggerire una dinamica ciclica dello sviluppo capitalistico.
Parlando di dinamica ciclica è impossibile non fare riferimento all'approccio schumpeteriano. Com'è noto, la dinamica delineata da Schumpeter è esplicitamente non accrescitiva (il capitalismo non si sviluppa "come un albero", mediante crescita continua e cumulativa). L'impianto è ciclico, marcato da discontinuità definite come "innovazioni", le quali a loro volta hanno un peculiare ritmo di introduzione, dapprima faticoso e poi rapidamente accelerato (attribuito da Schumpeter prevalentemente a fattori di "mentalità", quali la resistenza al nuovo e la distribuzione gaussiana della capacità imprenditoriale).
Lo schema tracciato nella Teoria dello sviluppo economico[28] presenta varie difficoltà, non ultima una definizione troppo ampia di "innovazione": quest'ultima, definita come "introduzione di nuove combinazioni nella produzione", fa pensare soprattutto a interventi di riorganizzazione dei "fattori produttivi", ma Schumpeter vi comprende in realtà anche situazioni che riguardano l'assetto del mercato più che della produzione (come l'"apertura di nuovi mercati" e la "riorganizzazione di un'industria" intesa come passaggio dal regime di monopolio a quello di concorrenza o viceversa). Nei Cicli economici l'attenzione si focalizza maggiormente sull'innovazione propriamente tecnologica, soprattutto in riferimento ai tre (o quattro? la cosa non è del tutto chiara) Kondratieff individuati: tessile (fino al 1842), ferrovia (fino al 1897), elettrificazione e chimica/trasporto su gomma[29]. Tale classificazione è dichiaratamente empirica (in ciò nulla di male) e non del tutto coerente, nella misura in cui il ruolo di tecnologia "epocale" spetta in alcuni casi a tecnologie produttive in senso stretto (come il telaio meccanico), in altri a tecnologie energetiche (elettricità e chimica, quest'ultima da intendersi come raffinazione del petrolio), in altri ancora a tecnologie connesse ai trasporti (ferrovia, trasporto su gomma). Lo schema è comunque affascinante, e la tentazione di aggiungere "informatica" o "telematica" come quinto (o quarto) Kondratieff è molto forte...
Ma quest'ultimo ciclo è davvero decollato? E a quale tipologia tecnologica (produzione, energia, comunicazioni) appartengono l'informatica, l'elettronica, la telematica?
Prima di porre queste domande, vorrei tentare di "fare ordine" nei Kondratieff schumpeteriani, distinguendo tecnologie industriali di punta (generalmente legate a produzioni di serie e consumi di massa) e tecnologie infrastrutturali (relative a comunicazioni, trasporti, energia e legate soprattutto a processi di riallocazione dei poli produttivi e di diffusione della produzione industriale). La periodizzazione che ho in mente è di questo tipo (sono indicati tra parentesi i cicli su cui non esiste un consenso consolidato nella letteratura corrente):
(PRIMARIO?) ... idrico-fluviale ... TESSILE ... ferrovia-vapore ... (CHIMICO?) ... ferrovia-elettricità ... MECCANICA LEGGERA ... trasporto su gomma-petrolio ... (INFORMATICA?) ... (telematica, new media?)
Lo schema proposto, oltre a "mettere ordine" evitando una serie di incongruenze, potrebbe dar conto di due diversi ritmi della dinamica capitalistica, uno "accelerato" e uno "diffusivo", fornendo una spiegazione diversa da quella schumpeteriana (che considera in una medesima innovazione un difficile inizio, una rapida accelerazione e una successiva perdita di incisività con il procedere della diffusione). In sostanza, avremmo una accumulazione accelerata nella fase in cui "parte" un settore industriale di punta, e una successiva dinamica diffusiva legata alla "seguente" creazione di grandi infrastrutture.
Quest'ultima osservazione permette di collegare almeno in parte i cambiamenti tecnologici segnalati dall'impianto schumpeteriano con le trasformazioni istituzionali messe in luce dalla tradizione marxista. Il ritmo che ho definito "accelerato" corrisponde infatti a periodi di forte concorrenza, di innovazione molto spinta e rapida obsolescenza tecnologica, di alto rischio nell'investimento. Prevale inoltre l'aspetto – per riprendere l'espressione schumpeteriana – della "distruzione creatrice": i vecchi settori produttivi entrano in crisi e inizia il processo della loro sostituzione o dislocazione in aree diverse (verso le periferie o semiperiferie del mondo capitalistico), ma essi esercitano una resistenza, un'inerzia che ha un effetto frenante sulla crescita economica.
Viceversa, il ritmo "diffusivo" corrisponde alla fissazione di standard che rallentano l'innovazione (o comunque l'incanalano su binari abbastanza obbligati), a processi di trustificazione e monopolizzazione, a un forte intervento dello stato legato soprattutto alla creazione di infrastrutture.

... e qualche conclusione provvisoria.

È certamente troppo presto per dire che la telematica e le autostrade elettroniche supporteranno un nuovo boom, una nuova ondata di consumi di massa, un nuovo "benessere" (se si può chiamare benessere "la vita pagata a rate / con la seicento, la lavatrice" di cui cantava Ivan Della Mea negli anni '60). Ma forse non è troppo tardi perché la sinistra, che oggi sembra convinta di aver messo le braghe alla nuova fase con la formula del postfordismo, vagli questa possibilità e prenda qualche precauzione.
Il neoliberismo non è probabilmente l'ideologia definitiva del capitale: lo slogan "meno stato, più mercato" oggi è funzionale alla dismissione degli apparati pubblici legati al vecchio modello di accumulazione, ma quando i giochi saranno fatti e sarà chiaro chi guiderà il cablaggio del mondo forse la borghesia riscoprirà la propria anima statalista e l'intervento statale smetterà di nuovo di risultare "ostile" al capitale... La sinistra farebbe dunque bene a non mettersi acriticamente dalla parte del "pubblico" solo perché si inneggia al "privato", a non sposare tout court la causa dello stato (e magari della nazione) solo perché è una bandiera lasciata provvisoriamente cadere. Così facendo rischia di trovarsi schierata non già dalla parte del "popolo" contro il capitale, bensì – assai meno eroicamente – dalla parte dei vecchi padroni contro i padroni emergenti.
La stagnazione non è probabilmente la condizione definitiva del capitalismo. Se la sinistra beve troppo fiduciosamente l'amaro calice dei "limiti dello sviluppo", e si attrezza a gestire sobriamente e responsabilmente un futuro di povertà, rischia di fare la parte del pompiere (se non del gendarme) negli anni delle vacche magre per trovarsi poi spiazzata – per l'ennesima volta – quando il sistema ripresenterà la faccia delle vacche grasse. Oggi il capitalismo dispensa miseria: dobbiamo ribellarci, non farcene responsabilmente carico. E se domani dispenserà di nuovo il suo benessere a rate dobbiamo ricordare bene la faccia feroce che oggi ci mostra e saper riconoscere la profonda ingiustizia su cui fonda le fasi alte come quelle basse del suo ciclo, l'insanabile iniquità con cui distribuisce la ricchezza come la povertà.


NOTE:

[1] Cfr. J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1978.
[2] E. F. Schumacher, Piccolo è bello, Miozzi, Milano 1977.
[3] J. Gershuny, After Industrial Society? The Emerging of Self-service Economy, The Macmillian Press Ltd, London 1978.
[4] S. Nora, A. Minc, Convivere con il calcolatore, Bompiani, Milano 1979.
[5] Japan Computer Usage Developement Institute, Verso una società dell'informazione. Il caso giapponese, Ed. Comunità, Milano 1974.
[6] A. Schaff, Occupazione e lavoro, in G. Friedrichs e A. Schaff (a cura di), Rivoluzione microelettronica. Rapporto al Club di Roma, Mondadori, Milano 1982.
[7] Un'ampia rassegna degli "scenari" fantatecnologici degli anni '70 è contenuta nell'antologia P. M. Manacorda (a cura di), La memoria del futuro, NIS, Roma 1986. Per un giudizio critico, si vedano soprattutto i saggi della Manacorda in essa contenuti.
[8] Cfr., ad esempio, G. Lunghini, L'età dello spreco, Bollati Boringhieri, Torino 1995.
[9] Marco Revelli è stato un importante e originale studioso - tutt'altro che accademico - dell'industria italiana e soprattutto della Fiat. Oggi sostiene posizioni "postfordiste" assai meno originali, come testimonia il suo saggio Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo in P. Ingrao, R. Rossanda, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma 1995.
[10] Cfr. i numerosi articoli di questo autore comparsi sulla rivista Luogo comune e sul Manifesto.
[11] P. Ingrao, R. Rossanda, Appuntamenti di fine secolo, cit.
[12] Gli esuli italiani a Parigi, raccolti intorno alla figura carismatica di Toni Negri e alla rivista Futur antérieur, si dedicano da tempo a un vivificante import-export di autori francesi. La rivista ha tra l'altro dedicato un ricco e interessante quaderno alla Scuola della Regolazione, che contiene sia testi degli autori che si riconoscono in questa scuola, sia interventi critici, e risulta molto utile per chi voglia farsi un'idea complessiva. Cfr. Futur Antérieur, Ecole de la Régulation et critique de la raison économique, L'Harmattan, Paris 1994.
[13] Cfr. soprattutto B. Coriat, La fabbrica e il cronometro, Feltrinelli, Milano 1979.
[14] Cfr. M. Aglietta, Régulation et crise du capitalisme. L'expérience des Etats-Unis, Calman-Levy, Paris 1976.
[15] Ivi, p. 48.
[16] K. Polany, La grande trasformazione, Einaudi
[17] L'autore che esercita maggiore influenza è forse A. Hansen, di cui è tradotto in italiano il saggio Progresso economico e declino dell'aumento della popolazione, in M. G. Muller (a cura di) Problemi di macroeconomia, Etas libri, Milano 1969; cfr. inoltre J. Steindl, Maturità e ristagno del capitalismo americano, Boringhieri, Torino 1960. Su questi autori, non molto noti in Italia, si veda M. Bonzio, La teoria economica di J. Steindl, in Economia Politica, aprile 1994.
[18] R. Hilferding, Il capitale finanziario, Feltrinelli, Milano 1961.
[19] J. A. Hobson, The Evolution of Modern Capitalism , Allen & Unwin, London 1935; L'imperialismo, ISEDI, Milano 1974.
[20] V. I. Lenin, L'imperialismo fase suprema del capitalismo, Editori Riuniti, Roma 1974.
[21] Significativamente Coriat fa suo il motto di Ohno "pensare all'inverso": il riferimento è all'inversione del flusso di informazioni attuato dal sistema Kan Ban (i pezzi necessari al montaggio non sono programmati "a monte" ma chiesti "a valle" man mano che si rendono necessario, in modo da diminuire scorte e magazzini), ma il senso è quello di una inversione completa della logica fordista. Cfr. B. Coriat, Ripensare l'organizzazione del lavoro. Concetti e prassi del modello giapponese, Dedalo, Bari 1991 (la traduzione italiana non ha rispettato il titolo originale che è, appunto, Penser à l'envers).
[22] Cfr. ad esempio S. Kamata, Toyota, l'usine du désespoir, Editions Ouvrière, Paris 1976.
[23] Cfr. C. Filosa e G. Pala, Il terzo impero del Sole. il neo-corporativismo giapponese nel nuovo ordine mondiale, Synergon, Milano 1992.
[24] Una ricchissima bibliografia su questi argomenti è contenuta in P. Barrucci, Fattore lavoro e qualità totale, Bari 1996.
[25] Cfr., ad esempio, S. Latouche, Capitalismo popolare o convivialità frugale, in Capitalismo, natura, socialismo, n. 1, 1994.
[26] J. Robinson, Economics of Imperfect Competition, Londono 1933; E. H. Chamberlin, Teoria della concorrenza monopolistica, La Nuova Italia, Firenze 1962.
[27] P. Baran, P. Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1968. Questa letteratura, tra l'altro, è assai più avvertita degli attuali teorici del postfordismo: mette in luce, quanto meno, che nelle condizioni di concorrenza monopolistica il consumatore non conta comunque nulla, è semplicemente conteso dalle grandi corporations che hanno bandito l'arma dell'abbattimento dei prezzi dalla competizione considerata corretta, e blandito con promesse di esclusività spesso affatto illusorie.
[28] Cfr. J. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, Sansoni 1971.
[29] Cfr. J. Schumpeter, Il processo capitalistico: cicli economici, Boringhieri, Torino 1977.

[Tratto da http://www.intermarx.com/]

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