[Il presente testo era già stato pubblicato, a puntate, sul nostro blog. Lo riproponiamo ora, in attesa di una prossima pubblicazione in formato cartaceo, in una nuova versione ampiamente riveduta e corretta, arricchita di un vasto apparato di note e di una bibliografia integrata da una serie di nuovi riferimenti. Ringraziamo per la preziosa collaborazione Dino Erba e Antonio Pagliarone. F.B.]
COMPRENSIONE DELLA CONTRORIVOLUZIONE E RIPRESA RIVOLUZIONARIA
COMPRENSIONE DELLA CONTRORIVOLUZIONE E RIPRESA RIVOLUZIONARIA
1. Dalla sinistra tedesco-olandese a Socialisme ou Barbarie
1. Tra il 1917 e il 1921, un movimento comunista, universale per definizione, che si era posto l’obiettivo di «conquistare» il mondo sulla falsariga del capitalismo, era riuscito, in realtà, a sferrare la sua offensiva soltanto al centro del continente europeo. Occorreva ora delineare un bilancio di quell’ondata rivoluzionaria, a partire dal movimento stesso e dalle condizioni poste dalla contro-rivoluzione.
La generazione rivoluzionaria successiva ebbe il vantaggio di potere abbracciare quel periodo con uno sguardo più nitidamente critico, ma si scontrò con la difficoltà supplementare di risalire alla fonte di teorie la cui eco era diventata più distinta del suono iniziale.
La guerra, nel 1914, aveva segnato il necrogeno fallimento della civiltà borghese e dello stesso movimento operaio. Eppure, dopo che l’umanesimo borghese e il riformismo salariale erano affondati insieme nel fango delle trincee, sia l’uno che l’altro proseguirono come se la catastrofe della guerra non avesse smentito le basi su cui avevano prosperato, trascinando milioni di esseri umani verso l’abisso. Sebbene la civiltà capitalistica avesse dato prova della sua disfatta, confermando le previsioni apocalittiche dei rivoluzionari e gli allarmi dei borghesi più lucidi, essi ricominciarono a fare le stesse cose che avevano fatto prima del 1914, soltanto meglio, in forma più moderna e democratica.
Siamo gli ultimi eredi della mistica repubblicana. O forse le siamo sopravvissuti. Subito dopo di noi inizia un’altra epoca, un altro mondo, il mondo di quelli che non credono più a niente; e che se ne fanno vanto e orgoglio. (Charles Péguy, Notre jeunesse)
Ad aumentare la confusione, la Russia sovietica, l’Internazionale Comunista e i vari partiti comunisti, a dispetto della loro aura di radicalità, diedero anch’essi il proprio contributo alla ricostruzione e al rinnovamento di un movimento operaio e di una democrazia che, naturalmente, finirono ben presto per assomigliare a quelli vecchi.
Contrariamente a coloro che si gettarono vanamente nell’attivismo, la sinistra comunista colse la profondità della marea controrivoluzionaria, traendone tutte le conseguenze. Poiché, d’altronde, in questo modo essa si affermava più che altro come forma di resistenza al Capitale, in seguito essa si rivelerà incapace di uscire da questa gabbia e di immaginare, a partire da condizioni mutate – ma soprattutto dall’invarianza della natura del movimento comunista – i tratti di una rivoluzione futura, differente da quelli che avevano caratterizzato il post-1917.
L’ultrasinistra nasce e si sviluppa in opposizione alla socialdemocrazia e al leninismo (che evolverà poi nello stalinismo). Contro queste correnti, essa intende far valere la spontaneità rivoluzionaria del proletariato: per l’ultrasinistra, e per i suoi eredi, la sola soluzione «umana» risiede nell’attività dei proletari. Essa ritiene, quindi, che non vi sia bisogno né di educarli né di organizzarli; che un embrione di rapporti sociali radicalmente altri sia già presente nell’azione degli operai, quando essi agiscono da e per se stessi; che l’esperienza della autogestione delle lotte prepari i proletari alla gestione dell’intera società, nel momento in cui la rivoluzione diventa nuovamente possibile; che i proletari debbano sottrarsi oggi all’espropriazione da parte delle burocrazie sindacali e di partito, anche nelle azioni più marginali, per evitare, domani, che uno Stato sedicente «operaio» possa gestire la produzione al loro posto, instaurando quel capitalismo di Stato che già aveva costituito l’esito ultimo della rivoluzione russa; essa afferma, infine, che sindacati e partiti sono diventati parte integrante della struttura sociale capitalistica.
Prima di disperdersi in piccoli gruppi marginali, la sinistra comunista tedesco-olandese rappresentò la tendenza più avanzata (e più numerosa) del movimento rivoluzionario degli anni 1917-1921. In seguito, nonostante la sua debolezza, fu la sola corrente a porsi, senza concessioni e in ogni circostanza, a difesa degli sfruttati. Rifiutò di sostenere qualsiasi guerra, fosse essa antifascista (contrariamente ai trotzkisti e a molti anarchici) o nazionale (contrariamente ai bordighisti)(1), con la sola eccezione della guerra di Spagna, durante la quale, sulle orme dell’anarchismo, giunse a sostenere la CNT(2).
Affermandone teoricamente l’autonomia, l’ultrasinistra denuncia tutto ciò che toglie al proletariato capacità di iniziativa, ovvero il parlamentarismo, il sindacalismo, il frontismo antifascista o nazionale (ad esempio, la Resistenza francese durante l’occupazione tedesca); e, in generale, tutti gli apparati tendenti a costituirsi in partito e a porsi al di sopra della classe operaia.
«L’emancipazione dei proletari sarà opera dei proletari stessi», scrive Marx(3). Ma quale genere di emancipazione? Per la sinistra comunista tedesco-olandese, il comunismo si confonde con la gestione operaia. Essa non comprende che l’autonomia si deve affermare in tutti i settori della società e non soltanto nell’ambito della produzione; che solo estirpando lo scambio mercantile da tutte le relazioni sociali, da tutto ciò di cui la vita si nutre, i proletari possono mantenere il controllo sulla loro rivoluzione. Riorganizzare ancora una volta la produzione implica la creazione di un nuovo apparato amministrativo: chi mette in primo piano la gestione si condanna a creare un apparato di gestione.
Il controllo sulle nostre vite da parte dei burocrati è soltanto un aspetto dell’espropriazione che subiamo. L’alienazione, il fatto che altri decidano delle nostre vite, non è una realtà amministrativa, che un altro tipo di gestione possa cambiare. La concentrazione del potere decisionale in uno strato privilegiato di specialisti è una conseguenza del rapporto sociale mercantile e salariale. Nelle società precapitalistiche, l’artigiano, che lavorava in proprio, vedeva la sua attività sfuggirgli mano a mano che essa veniva assorbita nella dinamica dei prezzi. La logica mercantile lo privava poco a poco della possibilità di decidere dei propri atti. Eppure, non c’era alcun «burocrate» a dettare la sua condotta. Questo si spiega col fatto che il denaro e il lavoro salariato contengono già in se stessi la possibilità e la necessità della espropriazione. Non vi è che una differenza di grado tra l’espropriazione subita dall’artigiano e quella subita da un OS(4) della BMW. Certo, non si tratta di una differenza di poco conto, ma in entrambi i casi il loro «lavoro dipende da cause che rimangono fuori di essi» (Théodore Dézamy, Code de la communauté, 1842). I gestori della produzione non fanno che incarnare questa alienazione. Non si tratta dunque di mettere al loro posto dei nuovi organismi, i consigli operai, più di quanto non si tratti di sostituire i borghesi con burocrati prodotti dai partiti e dagli apparati sindacali – in questo caso il risultato non mancherà di assomigliare a quello dell’esperienza russa dopo il 1917.
Presa nella tenaglia della SPD(5) e del CIO(6) – le due forme della controrivoluzione sorte dalle lotte operaie del periodo – la sinistra comunista tedesco-olandese riuscì ad opporsi a entrambi. Tuttavia essa stentò a comprendere come gli IWW(7) fossero condannati a una tragica scelta: diventare un’organizzazione riformista o scomparire. A questa organizzazione operaia autonoma, invece, vengono retrospettivamente attribuite tutte le virtù. Non è sufficiente che una struttura sia operaia e anti-burocratica affinché sia anche rivoluzionaria. Tutto dipende da ciò che fa: se si ricade nell’azione sindacale, si finisce per essere un sindacato! Per la stessa ragione, la sinistra tedesco-olandese si è ingannata sulla natura della CNT(8). Nondimeno, da un punto di vista generale, essa mostra che sarebbe superficiale prendersela soltanto con i sindacati, poiché è l’attività riformista degli operai che alimenta il riformismo organizzato e apertamente controrivoluzionario.
La sinistra tedesco-olandese comprende come il mondo borghese del periodo precedente la Prima guerra mondiale abbia ceduto il testimone al mondo capitalista. Essa mostra di saper riconoscere il Capitale ovunque si trovi, Russia inclusa, laddove occorrerà aspettare il 1945 affinché Bordiga dica in modo altrettanto chiaro come stessero le cose. Sebbene il comunismo dei consigli finisca per cristallizzarsi nell’ideologia consiliarista, all’indomani della Seconda guerra mondiale esso coglie infine la necessità di uscire dal quadro teorico definito nel periodo tra le due guerre. Nel 1946, Pannekoek giunge alla conclusione che il proletariato ha subito «uno scacco a causa dei suoi obiettivi troppo ristretti», e che «la vera lotta per l’emancipazione non è ancora cominciata».
Espressione più pura del proletariato rivoluzionario del post-1917, la sinistra tedesco-olandese ne rispecchia anche i limiti, che evidentemente non poteva, da sola, superare.
2. Erede dell’ultrasinistra nel secondo dopoguerra, la rivista «Socialisme ou Barbarie» viene pubblicata in Francia tra il 1949 e il 1965. Da un punto di vista organizzativo, il gruppo che si costituisce attorno alla rivista non proviene dalla sinistra tedesco-olandese, ma dal trotzkismo, anche se presto vi confluiranno alcuni transfughi della Sinistra comunista italiana. Sebbene non abbia mai rivendicato esplicitamente tale filiazione, «Socialisme ou Barbarie» è in ogni caso ascrivibile alle posizioni del consiliarismo, alle quali perviene a partire da una riflessione sulla burocrazia, nata appunto dal rifiuto delle posizioni trotzkiste sull’Urss.
Uno dei principali meriti di «Socialisme ou Barbarie» è quello di cercare «la soluzione» nel proletariato. Senza scadere nel populismo né pretendere di recuperare pretesi «valori operai», «Socialisme ou Barbarie» comprende che la presa di parola da parte degli operai costituisce una condizione essenziale del movimento comunista. Per questo motivo, offre il proprio sostegno a forme di espressione come «Tribune ouvrière», che pubblicava testi di operai della Renault. Da questo punto di vista «Socialisme ou Barbarie» è inscritto nel più vasto movimento che, dando vita ad alcuni embrioni di organizzazione operaia autonoma (ad esempio, Inter-Entreprises), culminerà nel maggio ’68.
Laddove sindacati e i partiti operai propongono i loro servizi ai salariati in cambio di un riconoscimento e di un sostegno, anche finanziario, i gruppi dell’estrema sinistra pretendono di offrire ai salariati una difesa dei loro interessi migliore rispetto a quella che offrono i burocrati, che essi giudicano troppo «moderati». Come contropartita, essi richiedono ancora meno rispetto ai loro antagonisti: un’adesione, per quanto distratta, al loro programma. Dirigisti o libertari, essi presuppongono la stessa soluzione di continuità tra proletariato e comunismo: concepiscono il contenuto del comunismo come qualcosa di esteriore al proletariato. Non cogliendo il rapporto intrinseco tra proletari e rivoluzione – se non per il fatto che saranno i primi a dar vita alla seconda – essi sono costretti a introdurre un programma.
«Socialisme ou Barbarie» ha mostrato come l’azione degli operai sia qualcosa di più di una semplice lotta contro lo sfruttamento, e contenga, in nuce, un insieme di relazioni nuove. Ma ha colto queste ultime soltanto nell’autorganizzazione, piuttosto che nella prassi proletaria – mutazione mostruosa della vita umana prodotta dal Capitale che, esplodendo, genera potenzialmente un mondo nuovo.
A condizione di non rimanere invischiati nelle problematiche dell’organizzazione e della gestione del lavoro, l’osservazione della vita di fabbrica consente di mettere in luce il significato comunista della lotta dei proletari. Così, la testimonianza dell’operaia americana Ria Stone(9), pubblicata sul primo numero della rivista, va ben oltre le tesi esposte nello stesso numero da Chaulieu(10) sul contenuto del socialismo (anche se la pubblicazione del testo della Stone non sarebbe stata possibile senza l’«errore» di Chaulieu).
«Socialisme ou Barbarie» rompe con l’operaismo. L’esperienza proletaria di Claude Lefort, apparso sul n.11 della rivista (1952), è senza dubbio il testo più profondo prodotto dal gruppo. Ma ne mostra anche i limiti, annunciandone l’impasse. In effetti, si continua a cercare una mediazione tra la miseria della condizione operaia e la rivolta aperta contro il Capitale. Ora, è in se stesso che il proletariato trova le ragioni della propria rivolta e il contenuto stesso della rivoluzione, non già in una organizzazione definita preliminarmente, che apporta la coscienza «dall’esterno» o fornisce una base di aggregazione. Lefort coglie, sì, la dinamica rivoluzionaria nei proletari stessi, ma la coglie nella loro organizzazione piuttosto che nella loro natura contraddittoria. In questo modo egli finisce per ridurre il contenuto del socialismo alla gestione operaia.
Per di più, anziché raccogliere e pubblicare testimonianze operaie, come aveva auspicato Lefort, «Socialisme ou Barbarie» si cimentò sul terreno della «sociologia operaia», finendo per imperniare tutto il suo discorso sulla dicotomia tra direzione ed esecuzione. Si distinse, in questo, da «Informations et Correspondance Ouvrières» (ICO), bollettino e gruppo operaista e consiliarista, espressione più immediata dell’autonomia operaia, al quale si unirà Lefort, e dal «Groupe de Liaison pour l'Action des Travailleurs» (GLAT), fondato nel 1959, anch’esso di matrice operaista, ma impegnato a pubblicare analisi minuziose dell’evoluzione del capitalismo. Ognuno alla sua maniera, ICO e GLAT, saranno presenti al centro universitario Censier, occupato dai rivoluzionari nel maggio 1968.
L’insurrezione ungherese del 1956 diede nuovo vigore all’attività di «Socialisme ou Barbarie», ma condusse il gruppo ad impantanarsi ulteriormente nell’ideologia consiliarista. Esso finì, infatti, col vedere confermate le proprie tesi, laddove invece la forma-consiglio mostrava di essere in grado di fare l’esatto contrario di ciò che sostenevano i consiliaristi – come, ad esempio, appoggiare uno stalinista liberale(11).
«Socialisme ou Barbarie» finirà con l’abbandonare i suoi originari riferimenti marxisti per lanciarsi in un vagabondaggio intellettuale che si concluderà nel 1965(12). Questa evoluzione portò alla scissione da parte dei «marxisti», che nel 1963 costituiscono «Pouvoir Ouvrier» (PO). Sarà proprio un membro di PO, Pierre Guillaume, a fondare, due anni più tardi, la «Vieille Taupe», del cui ruolo parleremo in seguito(13).
Come l’Internazionale Situazionista, anche se con modalità diverse, «Socialisme ou Barbarie» seppe far «aderire» la teoria alla modernizzazione della società occidentale. Le sue tesi sul capitalismo e sulla società burocratici, che nascevano dal fantasma della presa del potere da parte degli stalinisti e del rivolgimento della società francese orchestrato dallo Stato, riflettevano la crisi che, soprattutto in Francia, stava corrodendo il modello industriale dominante. Facendo propri slogan quali «Potere operaio – Potere contadino – Potere studentesco» (volantino del Parti Socialiste Unifié, giugno 1968) e facendo della «gestione autonoma e democratica» il suo principale obiettivo, il movimento del maggio ’68 popolarizzò i temi di «Socialisme ou Barbarie», mostrando al tempo stesso i limiti del gruppo e quelli dell’intero movimento.
Nel 1969, sulla rivista «Invariance» si poteva leggere: «“Socialisme ou Barbarie” non è stato un accidente. Esso esprime in modo nitido una posizione diffusa su scala mondiale: l’interpretazione dell’assenza del proletariato e dell’ascesa delle nuove classi medie […]. “Socialisme ou Barbarie” ha assolto al suo compito di superare il settarismo, perché si è collocato nell’immediato, nel presente, tagliando tutti i legami con il passato» (n.6 serie I, p. 29).
2. La Sinistra comunista italiana e Bordiga
Seguendo l’esempio di altre correnti della sinistra comunista, la Sinistra comunista italiana mostra come il proletario sia qualcosa di più di un produttore che lotta per porre fine alla propria povertà (tesi della sinistra socialdemocratica) o al proprio sfruttamento (tesi del gauchisme). Essa, viceversa, riconosce nell’opera di Marx «una descrizione dei caratteri della società comunista» (Bordiga), affermando il carattere anti-mercantile e anti-salariale della rivoluzione e riallacciandosi in tal modo all’utopia:
Siamo i soli a fondare la nostra azione sul futuro.
Bordiga esprime una critica implicita della cesura, teorizzata da Engels nell’Anti-Dühring, tra scienza e utopia. Mentre infatti, secondo Engels, quest’ultima riposa su «una base falsa», Bordiga afferma che i rivoluzionari sono gli «esploratori nel domani»(14). Per Bordiga l’utopia non è previsione, ma prospettiva del futuro. Egli, quindi, restituisce alla rivoluzione la sua dimensione umana; e inoltre approccia la questione di quella che vent’anni più tardi sarà definita «ecologia». D’altra parte, Bordiga concepisce la rivoluzione come l’applicazione di un programma che ha nel «partito» il proprio esecutore, anziché come una dinamica che unifica gli uomini, mano a mano che essi «comunizzano» il mondo.
Ora, si può ipotizzare che un movimento comunizzatore – che distrugge lo Stato, erode la base sociale del nemico, si estende per effetto dell’irresistibile forza di attrazione che esercita la nascita di relazioni umane di tipo nuovo – unificherebbe il campo rivoluzionario assai più efficacemente di un qualsivoglia potere che – nell’attesa di avere conquistato l’intero pianeta per procedere poi, solo in un secondo tempo, alla comunizzazione del mondo – non si comporterebbe altrimenti che come… uno Stato! Una serie di misure elementari, e i loro contraccolpi, consentirebbero un enorme risparmio di mezzi materiali e decuplicherebbero la creatività; il comunismo porterebbe ad abbandonare un gran numero di produzioni e consentirebbe di fare a meno delle «economie di scala», che sono dettate dal principio di redditività. La valorizzazione, che impone un processo di concentrazione, spinge la società capitalistica verso il gigantismo (megalopoli, superconsumo di energia etc.) e lo porta a trascurare tutte le forze di produzione non redditizie. Al contrario, il comunismo potrà decentralizzare, utilizzare le risorse locali; e questo non perché l’umanità centralizzata in un partito avrà così deliberato, ma in quanto i bisogni nati dalla loro stessa prassi spingeranno gli individui a vivere diversamente. Soltanto allora sarà superato il conflitto «spazio contro cemento», definito da Bordiga.
La Sinistra comunista italiana ha posto come propria priorità il comunismo, soprattutto dopo il 1945, senza però averlo compreso come movimento dell’attività umana che tende a emancipare se stessa. Questo si spiega con il fatto che, dopo il 1917, il proletariato si era battuto senza realmente intaccare i fondamenti della società, cosicché i gruppi radicali avevano avuto difficoltà a cogliere teoricamente tali fondamenti e, di conseguenza, a definire il contenuto della rivoluzione.
Bordiga non trae tutte le implicazioni della sua visione del comunismo. Anziché definire la «dittatura del proletariato» a partire dalla comunizzazione, Bordiga la racchiude all’interno di una dittatura politica, facendone anzitutto una questione di potere(15). La sinistra comunista tedesco-olandese aveva intuito che il fondamento della rivoluzione si trova nell’essere-proletario, ma non aveva compreso la natura autentica del comunismo. La Sinistra comunista italiana, al contrario, coglie l’essenza del comunismo, ma priva i proletari della sua realizzazione, che viene invece affidata al partito, custode dei princìpi e incaricato di imporli attraverso la forza.
Certo, Bordiga articola una critica rigorosa della democrazia. Si è spesso rimproverato alla democrazia di dividere i proletari, uniti nell’azione, attraverso il voto, e auspicato una «vera democrazia», una «democrazia operaia», in cui le decisioni siano prese da tutti, attraverso assemblee generali etc. Come ha mostrato Bordiga, la democrazia determina una divisione sul piano della decisione perché separa il momento della decisione. Far credere che tutto venga sospeso, in un dato momento, per sapere che cosa verrà deciso – chi prevarrà – e creare un’istanza di deliberazione: ecco l’illusione democratica! Nell’attività umana è possibile isolare formalmente il momento della decisione, soltanto nella misura in cui tale attività è essa stessa contraddittoria, se cioè è attraversata da conflitti e già vi si sono instaurate delle forze antagonistiche. Il meccanismo di raccolta delle opinioni, allora, non è altro se non una facciata che nasconde la vera decisione, imposta dal gioco dei rapporti di forza preesistenti.
La democrazia stabilisce una cesura nel tempo, si comporta come se si ripartisse da zero. Si potrebbe applicare al rito democratico l’analisi di Mircea Eliade sulle religioni, là dove, periodicamente, si mette in scena il passaggio dal caos all’ordine, collocandosi per un breve istante fuori del tempo, come se tutto fosse di nuovo possibile. La democrazia è stata elevata a principio nella polis greca, allorché i signori dovevano riunirsi per ripartirsi il potere, rispettando le regole di un gioco, con la clausola che si sarebbe fatto ricorso alla dittatura (forma di governo ammessa nell’antica Grecia) nel caso in cui il giocattolo si fosse inceppato.
Pur dimostrando che il principio democratico è estraneo ai fondamenti dell’azione rivoluzionaria e della vita umana, Bordiga si mostra incapace di immaginare l’interazione delle pratiche sovversive dei proletari e non riesce a concepire altra soluzione che la dittatura (del partito). Laddove la sinistra comunista tedesco-olandese era caduta nell’errore democratico a causa del feticismo della forma-consiglio, la Sinistra italiana si perde nella falsa antinomia che essa stessa aveva demistificato e si pronuncia a favore della dittatura – certa di avere colto in tal modo le potenzialità sovversive del proletariato e l’attitudine di quest’ultimo a centralizzare la propria azione, perfino a imporre una disciplina ferrea, in caso di necessità.
Profondamente contraddittorio, Bordiga critica implicitamente Lenin, la socialdemocrazia, il marxismo; ma lo fa «a metà». Egli giunge persino a scrivere un lungo elogio dell’Estremismo di Lenin(16), fatto che ingannerà buona parte della generazione di rivoluzionari apparsa intorno al 1968, che vedranno nel bordighismo nient’altro che una variante del leninismo(17).
Per la sinistra tedesco-olandese, gli organismi operai unitari e di base rappresentano la classe. Per la Sinistra comunista italiana sono i sindacati a rappresentarla. Il fatto che gli operai ne facciano parte le appare più importante di ciò che essi effettivamente fanno nell’ambito di quelle organizzazioni. «Il sindacato, anche quando risulta corrotto, rimane pur sempre un centro operaio» (Bordiga, 1921). Il sindacato, quindi, includerebbe sempre un potenziale di azione rivoluzionaria. In entrambi i casi, la forma organizzativa passa in primo piano rispetto al suo contenuto.
L’errore fondamentale di Bordiga è stato quello di non superare la scissione tra il politico e l’economico, retaggio della Seconda internazionale, che la Terza non rimise mai in causa. L’offensiva proletaria del 1917-1921 aveva operato nella pratica il superamento di questa separazione, ma non era andata abbastanza lontano da imporlo alla coscienza dei comunisti di sinistra nel loro insieme.
La coscienza proletaria può rinascere nella misura in cui le battaglie economiche parziali si sviluppino, fino a raggiungere la fase superiore, politica, che pone il problema del potere («Communisme», n.1, aprile 1937)(18).
No! Occorre che esista già, embrionalmente, nelle prime fasi di un movimento come in quelle successive, una critica sociale che rimetta in causa la politica e l’economia attraverso il rifiuto del «concretismo» (rivendicazioni compatibili con la sopravvivenza dell’impresa) e della mediazione (spartizione del potere, fiducia accordata agli organismi che mediano il rapporto tra Capitale e lavoro). La questione è come rendere esplicita questa critica e come aiutarla a maturare.
La defaillance di Bordiga dipende dalla mancata comprensione del fatto che il comunismo nasce dai bisogni e dalle pratiche prodotte dalla reale situazione del proletariato. Bordiga si pone il problema del passaggio della lotta operaia dall’economia alla politica; in tal modo delinea in modo fuorviante il processo rivoluzionario: egli sa che il comunismo non si costruisce, che la rivoluzione si limita a fare saltare gli ostacoli che si oppongono a una vita i cui elementi sono già in gran parte presenti «nelle viscere» del capitalismo (Marx); ma nondimeno identifica la rivoluzione con l’azione di un potere politico che trasforma la struttura economica. Egli non comprende che la comunizzazione e la lotta contro lo Stato sono necessariamente simultanee.
Le speculazioni sulle diverse forme di organizzazione (consiglio, partito, organismi operai di massa) e la separazione, a livello teorico, tra politica ed economia, testimoniano che il proletariato, perduta la propria unità sin dal 1914, non era riuscito a ritrovarla nemmeno dopo il 1917. L’organizzazione si incaricava di colmare il vuoto lasciato dalla pratica rivoluzionaria dei proletari.
Quando le contraddizioni sociali non producono un movimento sovversivo, si va in cerca di una chiave teorica per uscire dall’impasse. Bordiga la trova nel movimento economico degli operai, che suppone possa generare, con l’aiuto del partito, l’azione rivoluzionaria. L’a priori teorico sostituisce la visione della totalità.
«Invariance», che riprendeva le tesi di Bordiga, iniziò le proprie pubblicazioni prima del maggio ’68. Alla «Vieille Taupe», Pierre Guillaume insisteva presso gli amici e i clienti sull’importanza di questa rivista. Il più grande merito di «Invariance» fu quello di attirare l’attenzione sugli aspetti più ricchi della teoria bordighiana, nel momento in cui il Partito Comunista Internazionale, principale custode di quell’eredità teorica, ne parlava poco, tacendo il nome dello stesso Bordiga, per salvaguardare l’anonimato del partito, e preferiva mettere l’accento su ciò che la Sinistra comunista italiana rifiutava: l’antifascismo, l’educazionismo etc.
Bordiga aveva visto nell’opera di Marx una descrizione del comunismo. Fin dal primo numero, redatto da Camatte e Dangeville, «Invariance» affermava che «è dalla descrizione della società comunista che Marx e Engels hanno tratto i caratteri della forma-partito». Ma «Invariance» resta prigioniera della metafisica del partito.
Nel periodo 1917-1937, e ancor meno all’apogeo della controrivoluzione segnato dalla Seconda guerra mondiale e dalla Ricostruzione, il proletariato non era riuscito ad imporsi per ciò che è – la risultante di pratiche e bisogni che nascono dalla sua condizione profonda. Per resistere alla controrivoluzione, la Sinistra comunista italiana costruì una sorta di metafisica del Proletariato, entità astratta che si sostituisce al movimento reale assente. Il suo riferirsi al partito le serve a preservare una prospettiva rivoluzionaria; allo stesso modo, la sua diffidenza verso l’«anarchismo» (categoria che includeva anche il consiliarismo) costituisce una sorta di garanzia contro i rischi di una deriva democratica.
3. L’Internazionale Situazionista
La colonizzazione della totalità della vita da parte del Capitale, che aveva subito un’accelerazione con il ciclo di prosperità economica innescatosi a partire dal 1950, non poteva non produrre la sua critica liberale: le opere di Vance Packard sull’obsolescenza programmata, quelle di David Riesman sulla «folla solitaria», quelle di Henri Lefebvre sulla vita quotidiana e così via. I paesi industrializzati più tardivamente «mercantilizzati», come la Francia, a lungo opposero una reazione di cauto ripiegamento dinnanzi all’«americanismo» (si veda in particolare «Le Monde»). Intorno al 1960, nel momento in cui la critica pratica dei proletari coincise con le prime inquietudini sul senso e i limiti dello sviluppo, è lo stesso modo di vita capitalistico moderno a trovarsi sul banco degli accusati.
In questo contesto, al punto di intersezione tra il nuovo mondo, orgoglioso della sua modernità, e quello vecchio, che il consumo di massa faceva ormai vacillare, appare l’Internazionale Situazionista (1957-1971). L’IS, che riunisce da una parte tedeschi, scandinavi e americani e, dall’altra, francesi e italiani, apporta un contributo decisivo alla critica della colonizzazione mercantile generalizzata.
Figlia della prosperità degli anni Sessanta, l’IS può dispiegare la sua critica del mondo senza rinchiudersi nella sfera dell’economia, della produzione, della fabbrica. Va considerato che, in questo periodo, gli operai stessi – ad esempio alla Fiat durante le lotte del 1969 – fanno dello spazio extralavorativo (alloggi e trasporti) un terreno di lotta. L’IS si riallaccia così alla critica dell’economia politica del periodo anteriore al 1848.
È lo sviluppo storico stesso che conduce a vedere come la vita salariata non si svolga soltanto all’interno dei luoghi della produzione. Il vecchio movimento operaio, scomparso in quanto rete sociale e trasformatosi in un sistema di organismi di negoziazione, estende le sue ramificazioni a tutti gli aspetti della vita dei proletari. Partiti e sindacati sono, oggi, niente più che organizzazioni di propaganda, che svolgono la funzione di servizi sociali e costituiscono, in larga misura, mere appendici amministrative dello Stato.
L’IS ha sviluppato la critica dell’«urbanistica», intesa come scienza della ricostruzione delle relazioni sociali, in un contesto in cui le radici dei legami collettivi precedenti sono state recise. Il Capitale, sopprimendo la divisione tradizionale tra città e campagna, ha prodotto uno spazio ibrido, una città senza centro; dunque uno spazio che ne rispecchia l’immagine, quella di una società senza un centro e il cui centro è dappertutto.
I numerosi tentativi di costruire città modello sperimentali (Pullman presso Chicago, alla fine del XIX secolo, ad esempio) non hanno mai risolto le contraddizioni sociali né impedito il manifestarsi di insorgenze operaie. Il progetto di una città operaia-padronale, come ad esempio quello di Nicolas Ledoux ad Arc-et-Senans, alla fine del XVIII secolo, fallisce perché la vita del salariato non può avere come unico centro il luogo di lavoro. La città moderna «normale» integra in modo più efficace gli operai, in quanto presenta un contesto di vita capitalistico, anziché padronale. Tale contesto mantiene in effetti in vita una comunità, anche se si tratta in buona parte (seppure non interamente) di una comunità mercantile, costituita attorno alla televisione, al supermercato e all’automobile in quanto mezzo di collegamento tra luoghi atomizzati. Ma televisione, supermercati e automobili presuppongono pur sempre l’esistenza di esseri umani che guardano, consumano e guidano (più o meno) insieme.
Posta di fronte alla città moderna, l’IS cerca di inventare un diverso utilizzo degli spazi urbani. Essa ridà quindi vita all’utopia, riprendendo tanto i suoi aspetti positivi quanto quelli negativi. In un primo tempo i situazionisti affermano la possibilità di sperimentare sin da subito nuovi modi di vita, per arrivare poi a dimostrare che questa riappropriazione delle proprie condizioni di esistenza da parte di ciascuno, passa niente meno che per la riappropriazione collettiva di tutti gli aspetti della vita. Essi, quindi, ridanno senso all’esigenza di creare relazioni sociali nuove. Laddove la maggior parte dei rivoluzionari dibattevano sul «potere operaio» e sulla «estinzione dello Stato», l’IS concettualizza la rivoluzione non come questione politica ma come trasformazione della vita nel suo complesso. Una «banalità», si dirà. Certo, ma una banalità che è stata reintrodotta nel movimento rivoluzionario soltanto negli anni Sessanta e grazie, tra l’altro, proprio all’attività dell’IS.
Generata, al contempo, dalla sinistra consiliarista (Debord fece parte per qualche mese di «Socialisme ou Barbarie») e dalla sua critica, l’IS parte dalla denuncia dello «spettacolo», inteso come passività, come trasformazione di ogni atto umano in mera contemplazione, per giungere alla definizione del comunismo come attività.
Iconoclasta, libera dalla problematica dell’organizzazione operaia (dalla quale gruppi come Pouvoir Ouvrier o ICO non erano riusciti a emanciparsi), l’IS ottiene il risultato di dare uno scossone all’ultrasinistra. Ma la sua teoria dello spettacolo la porta presto a una impasse: quella del consiliarismo. Espressione di assalti contro la merce più che di un movimento – allora assente – contro il Capitale nel suo complesso, la teoria situazionista non può articolare un’analisi della totalità del processo capitalistico. Al pari di «Socialisme ou Barbarie», essa vede nel Capitale una forma di gestione della società che priva i proletari di ogni controllo sulla propria esistenza, e ne desume che si debba trovare un meccanismo che permetta la partecipazione diretta di ciascuno alla vita sociale (sovrapponendo poi a questo schema l’opposizione attivo-passivo). Concependo teoricamente il capitalismo più come spettacolo che come Capitale, essa conclude che si debbano individuare un mezzo, un luogo e una forma di vita che consentano di spezzare la passività, e ritiene di averli trovati rispettivamente nella democrazia(19), nel consiglio e nell’autogestione generalizzata.
La categoria dello spettacolo, sussumendo quella del Capitale, opera un rovesciamento della realtà. L’IS dimentica, in effetti, che «il tratto dominante della divisione capitalistica del lavoro è la metamorfosi del lavoratore da produttore attivo a spettatore passivo del proprio lavoro» (Root and Branch, Le nouveau mouvement ouvrier américain, Spartacus, 1978, p. 90). Lo spettacolo affonda le proprie radici nei rapporti di produzione, ovvero in ciò che è costitutivo del Capitale. Lo spettacolo deve essere quindi compreso a partire dal capitalismo, non il contrario. Lo spettacolo e la contemplazione passiva sono l’effetto di un fenomeno più profondo; è la soddisfazione relativa di «bisogni» creati dal Capitale (cibo, impieghi, alloggi) a suscitare la passività nel comportamento. La concezione teorica dello spettacolo come motore o come essenza della società è una concezione idealista.
L’IS, come già la sinistra comunista tedesco-olandese, pone al centro la spontaneità rivoluzionaria, ma non riesce a definire la natura di tale attività spontanea. Così, finisce col glorificare le assemblee generali, i consigli, anziché indicare il contenuto che queste forme organizzative dovrebbero realizzare. In altri termini, essa cade nello stesso formalismo di quell’ultrasinistra dei cui aspetti troppo vetusti si faceva beffe.
L’IS mette in luce gli aspetti religiosi del militantismo, pratica separata nella quale l’individuo agisce in nome di una causa, astraendo dalla sua vita personale, reprimendo i propri desideri e sacrificandosi in vista di uno scopo che gli è esteriore. Lasciando da parte la partecipazione alle organizzazioni politiche classiche (PC, estrema sinistra etc.), è senz’altro vero che l’azione rivoluzionaria permanente talvolta si rovescia in militantismo: interamente consacrato a un gruppo, obnubilato da una certa visione del mondo, l’individuo perde ogni disponibilità a compiere degli atti rivoluzionari nel momento in cui essi diventano possibili.
Ma la critica del militantismo, anziché ancorarsi a una pratica e a una comprensione dei rapporti reali, capace di impedire lo sviluppo di questo tipo di comportamento, partecipa piuttosto, nell’IS, di un dover essere radicale. Alla morale del militante se ne sostituisce un’altra, quella della radicalità, altrettanto impraticabile e insostenibile.
Non paga di denunciare lo spettacolo, l’IS cerca di rovesciarlo contro la società che lo produce. Lo «scandalo di Strasburgo», che annuncia il maggio ’68, è certamente un successo. Ma l’IS erige questo comportamento a sistema e ne abusa al punto che esso finisce per ritorcerlesi contro. L’utilizzo di tecniche pubblicitarie e scandalistiche approda ben presto alla contro-manipolazione sistematica. Non esiste una pubblicità anti-pubblicitaria; non si può fare uso dei media per propagandare idee rivoluzionarie!
In opposizione alla falsa modestia militante, l’IS si autorappresenta ingigantendo oltre misura il proprio impatto reale sulla situazione mondiale. I suoi continui riferimenti a Machiavelli, Clausewitz e altri strateghi, non sono una semplice civetteria. L’IS è persuasa che una strategia adeguata possa permettere ad un gruppo sufficientemente abile di manipolare i media e di influenzare l’opinione pubblica in senso rivoluzionario. Questa è la prova di quanto questa organizzazione sia schiava della nozione di spettacolo e, in definitiva, della sua mancata comprensione del fenomeno spettacolare.
Quando l’IS si presentava come il centro del mondo, come l’agente della maturazione rivoluzionaria etc., si pensò inizialmente che stesse semplicemente ironizzando su se stessa. Ma quando fece di questo atteggiamento un leitmotiv del proprio discorso, si fu costretti a domandarsi se essa credesse veramente alle enormità che diffondeva sul proprio conto.
Le tesi dell’IS, tra le teorie che hanno avuto una reale diffusione sociale prima del 1968, forniscono la migliore approssimazione del comunismo. Tuttavia, l’IS resta prigioniera delle vecchie illusioni del consiliarismo, a cui ha aggiunto le proprie illusioni sull’affermazione di un «saper vivere» rivoluzionario. Essa crea un’etica nella quale il «godimento» prende il posto dell’attività umana. Da questo punto di vista, essa non esce dal quadro capitalistico incentrato sull’abbondanza consentita dall’automazione, accontentandosi di descrivere l’abolizione del lavoro come una sorta di «tempo libero», illimitato e appassionante.
La Sinistra comunista italiana aveva definito il comunismo come abolizione della merce e aveva rotto con il culto delle forze produttive, ma non aveva saputo cogliere la potenza sovversiva delle misure comunizzatrici concrete. Bordiga rimandava la comunizzazione all’indomani della presa del potere. L’IS vede nella rivoluzione una de-mercificazione immediata e progressiva e incentra il processo rivoluzionario sulle relazioni umane. In effetti, lo Stato non può essere distrutto soltanto sul piano militare: in quanto mediazione sociale, esso deve essere annientato distruggendo i rapporti sociali capitalistici che ne costituiscono il presupposto.
L’IS cade nell’errore simmetrico rispetto a quello di Bordiga. Questi aveva ridotto la rivoluzione all’applicazione di un programma. L’IS ne fa un semplice rovesciamento delle relazioni immediate. Né l’uno né l’altra riescono a cogliere il processo rivoluzionario nella sua totalità: il primo vede un tutto astratto di relazioni reali e di misure pratiche; la seconda un tutto senza unità né determinazione, una somma di punti parziali che si dovrebbero estendere poco a poco. Incapaci di dominare teoricamente la totalità, entrambi sono costretti a ricorrere a dei palliativi organizzativi: il partito l’uno, i consigli l’altra.
Nella sua pratica politica, Bordiga depersonalizza il movimento all’eccesso, giungendo a negare se stesso, nascondendosi dietro ad un anonimato auto-mutilante, che lascia spazio alle manipolazioni del PCInt. All’opposto, l’IS afferma la centralità dell’individuo fino a trascendere nell’elitarismo e a porre se stessa al centro del mondo.
In ogni caso, pur avendo pressoché ignorato Bordiga, l’IS contribuì nella stessa misura alla sintesi rivoluzionaria che si realizzerà con il ’68.
NOTE:
* Le roman de nos origines apparve nel secondo numero de «La Banquise. Revue de critique sociale» (1983), di cui quattro numeri furono pubblicati in Francia tra il 1983 e il 1986. Il collettivo redazionale era composto da Gilles Dauvé (alias Jean Barrot), Serge Quadruppani e Jean-Pierre Carasso.
Questo testo, al momento della sua pubblicazione, suscitò aspre polemiche nei circoli dell’ultragauche parigina, in quanto rendeva pubblica la rottura con Pierre Guillaume e con la rivista «La Guerre Sociale». Tra le ragioni del dissidio vi era il supporto fornito da questi ultimi allo storico «negazionista» Robert Faurisson (Faurisson, sul finire degli anni Settanta, aveva raggiunto una certa notorietà negando l’esistenza delle camere a gas nei campi di concentramento nazisti). Da allora la questione del coinvolgimento dell’ultragauche con il negazionismo è esplosa, nel corso degli anni, in una serie di «scandali» minori, per lo più collegati all’attività pubblicistica di Pierre Guillaume, divenuto nel frattempo il più importante editore francese nel campo della letteratura «revisionista».
In Italia se ne ebbe una pallida eco, trasmessa da Aa. Vv. (Noam Chomsky, Serge Thion), Il caso Faurisson, Castenedolo (Brescia), sid (ma 1981), edizione italiana del pamphlet pubblicato in Francia da La Vieille Taupe (II), curato da Guillaume. Nell’ambito della Sinistra comunista italiana di ispirazione bordighista, la questione fu allora affrontata da C.S. [Cesare Saletta], Il caso Rassinier, «Quaderni de L’Internazionalista», n. 10, dicembre 1980-marzo 1981, p. 28 e Note raissineriane (con appendice sulla persecuzione giudiziaria di R. Faurisson), «Quaderni de L’Internazionalista», n. 11, dicembre 1981-marzo 1982. Successivamente l’autore, pubblicò: Cesare Saletta, Per il revisionismo storico contro Vidal-Naquet, (in appendice un articolo di Robert Faurisson), Graphos, Genova, 1993.
Nel 1996, uno di questi scandali coinvolse gli stessi Dauvé e Quadruppani, che, malgrado la rottura con Guillaume e «La Guerre Sociale», consumatasi tredici anni prima, furono surrettiziamente accusati di «negazionismo». Dauvé rispose a queste accuse pubblicando l’articolo Bilan et contre-bilan, mentre, tra le numerose risposte di Qudruppani, possiamo ricordare Quelques éclaircissements sur «La Banquise». Entrambi i testi sono reperibili sul web.
Al di là di queste vicende, la ragione che rende ancora oggi questo articolo (e in modo particolare i paragrafi che presentiamo al lettore) di un certo rilievo, è il suo tentativo di dare conto della «nascita del comunismo moderno» e della genesi della corrente politica – la cosiddetta «critica radicale» – nel contesto della quale possono essere collocati molti degli scritti di Dauvé. Va da sé che non si tratta di una storia imparziale o peggio «oggettiva».
Gli estratti dell’articolo che pubblichiamo nella presente raccolta sono tratti dalla Seconda parte, «Comprensione della controrivoluzione e ripresa rivoluzionaria». [N.d.T.].
(1) Sulla questione nazionale e coloniale, a partire dalla fine degli anni Venti, prima il gruppo Pappalardi (Cfr. Dino Erba, Ottobre 1917 – Wall Street 1929. La Sinistra comunista italiana tra bolscevismo e radicalismo: la tendenza di Michelangelo Pappalardi, Colibrì, Milano, 2005, p. 38-39) e poi la Frazione di sinistra del PCd’I, condivisero l’orientamento della Luxemburg e della Sinistra tedesco-olandese (Cfr. [Philippe Bourrinet], La Sinistra comunista italiana. 1927-1952, Corrente comunista internazionale, Napoli, 1984, pp. 132 e ss.). Dopo la guerra, il PCInt. sostenne la medesima posizione. Solo all’inizio del 1951, in seguito alla guerra di Corea, Bordiga fece un esplicito riferimento alle Tesi della Terza Internazionale sulla questione nazionale e coloniale (cfr. Alfa [Amadeo Bordiga], Oriente, «Prometeo», Seconda serie, a. VI, n. 2, febbraio 1951, p. 53; ora in I testi del partito comunista internazionale n. 6, Per l’organica sistemazione dei principi comunisti. «Sul filo del tempo», 1953, Valutazioni critiche di eventi significativi del ciclo postbellico 1946-1950. Le tesi della sinistra, Edizioni il programma comunista, Milano, 1973, p. 187.). In seguito alla scissione del 1952, la tendenza Damen-Battaglia Comunista mantenne il precedente indirizzo «luxemburghiano», mentre la tendenza Bordiga-Programma Comunista riaffermò le tesi leniniste, benché non fossero condivise da tutto il partito, in particolare da esponenti di primo piano, come Ottorino Perrone. [N.d.T.]
(2) Seppur criticamente e con diverse eccezioni [N.d.T.]
(3) Nell’Indirizzo inaugurale all’Associazione Internazionale dei Lavoratori (1864). [N.d.T.]
(4) Gli Ouvriers Spécialisés sono, a dispetto del nome, operai non qualificati, addetti al lavoro alla catena o in serie; sono l’equivalente dell’operaio-massa. [N.d.T.]
(5) Sozialdemokratische Partei Deutschlands, Partito socialdemocratico tedesco. [N.d.T.].
(6) Congress of Industrial Organizations, organizzazione sindacale statunitense. [N.d.T.].
(7) Industrial Workers of the World, sindacato internazionale fondato il 27 giugno 1905, durante il Continental Congress of the Working Class tenutosi a Chicago, da un gruppo di 186 militanti tra socialisti, anarchici e altri rivoluzionari. [N.d.T.].
(8) Confederaciòn Nacional del Trabajo, organizzazione sindacale spagnola di matrice anarchica fondata nel 1910. [N.d.T.].
(9) Pseudonimo di Grace C. Lee Boggs.[N.d.T].
(10) Pseudonimo di Cornelius Castoriadis. [N.d.T].
(11) Il riferimento è a Imre Nagy, primo ministro «riformatore» del governo ungherese all’epoca dei «fatti d’Ungheria» (1956). [N.d.T.]
(12) Anno dello scioglimento del gruppo. [N.d.T.]
(13) In Italia, l’orientamento di Pouvoir Ouvrier venne in parte condiviso dal gruppo Unità Proletaria animato da Danilo Montaldi: cfr. Danilo Montaldi, Bisogna sognare. Scritti 1952-1975, Colibrì, Paderno Dugnano (Mi), 1994. Altrettanto può dirsi di Riccardo d’Este a Torino, del Circolo Rosa Luxemburg, sorto a Genova attorno a Gianfranco Faina, e del gruppo Ludd, che a Milano ebbe un significativo contributo da parte di Giorgio Cesarano: cfr. Francesco «Kuki» Santini, Apocalisse e sopravvivenza. Considerazioni sul libro «Critica dell’Utopia Capitale» di Giorgio Cesarano e sull’esperienza della corrente comunista radicale in Italia, (Cox), Milano, 2005. [N.d.T.]
(14) [Amadeo Bordiga], Esploratori nel domani, «Battaglia Comunista», n. 6, 20 marzo-3 aprile 1952; ora in Amadeo Bordiga, Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, Iskra, Milano, 1978. Ricordiamo che nel «più leninista dei testi leninisti», il Che fare?, Lenin afferma: «Bisogna sognare!», cfr. Luigi Nolli [Danilo Montaldi], Bisogna sognare. Lenin, «Azione Comunista», n. 36, agosto 1958, ora in Danilo Montaldi , Bisogna sognare. Scritti 1952-1975, cit. [N.d.T.]
(15) Con tutti gli annessi e connessi del «terrore rosso». [N.d.T.]
(16) [Amadeo Bordiga], Il testo di Lenin su «l’estremismo, malattia d'infanzia del comunismo», condanna dei futuri rinnegati, in La sinistra comunista in Italia sulla linea marxista di Lenin, ed. Il Programma comunista, 1964.
(17) Nel 1960 Bordiga, con Camatte, avrebbe voluto «archiviare» l’esperienza leninista della Terza Internazionale, ma trovò un’unanime disapprovazione all’interno del partito; la questione fu riproposta e passò nel novembre 1964 a Firenze, con l’opposizione dei «milanesi», che costituirono allora Rivoluzione Comunista. Cfr. [Jacques Camatte], Origine et fonction de la forme parti, «le programme communiste», n. 13, 1961, poi ripubblicato più volte, anche in versione italiana.
(18)«Communisme» era la rivista pubblicata dai comunisti belgi di sinistra, dopo la loro rottura con la Ligue des Communistes Internationalistes in merito alla guerra di Spagna e il conseguente approdo alla posizione sostenuta da una parte della Sinistra «italiana» («Bilan»), anch’essa contraria all’intervento: cfr. Michel Olivier (Michel Roger), La Gauche Communiste Belge (1921-1970), Paris, 2005. In seno alla Sinistra «italiana», l’orientamento sul ruolo dei sindacati non era univoco. Alla fine degli anni Venti, il gruppo animato da Michele Pappalardi pubblicò un saggio dal titolo: Il faut-il conquérir les syndicats ou les détruire?, [«L’Ouvrier Communiste», a. I, n. 1 febbraio 1929, n. 2-3 ottobre 1929 e n. 4-5 novembre 1929], le cui conclusioni approdavano alla seconda ipotesi [cfr. Dino Erba, Ottobre 1917 – Wall Street 1929. La Sinistra comunista italiana tra bolscevismo e radicalismo: la tendenza di Michelangelo Pappalardi, cit., p. 41]. Anche in seguito furono presenti posizioni assai critiche sui sindacati e tendenzialmente vicine alle tesi consiliariste. Esponente di questa tendenza fu Luciano Stefanini [cfr. Luciano, La questione sindacale. Contributo alla discussione sul rapporto Vercesi, «Il Seme Comunista», Bollettino interno della Frazione italiana della sinistra comunista, n. 5, febbraio 1938, p. 13]. Nel dopoguerra, Stefanini mantenne la sua precedente posizione, in polemica con altri compagni, tra i quali Albert Masó (Vega), che poi aderì a «Socialisme ou Barbarie», divenendo esponente della corrente operaista, e in seguito collaborò al mensile «Pouvoir Ouvrier]. [Cfr. Il partito e il problema sindacale, in Documenti della Sinistra Italiana, Resoconti: Convegno di Torino 1945. Congresso di Firenze ‘48. Introduzione: la nascita del PCInt., Edizioni Prometeo, Milano, sid [ma 1971], pp. 3-4, 25-26. pp. 18-22]. All’inizio degli anni Cinquanta, la tesi di Stefanini fu fatta propria dalla tendenza animata da Onorato Damen (ed è tuttora punto cardine del PCInt. – Battaglia Comunista), in netto contrasto con l’indirizzo «sindacalista» di Bordiga e del gruppo a lui vicino. [Quaderni di Battaglia comunista, 1952. La scissione internazionalista (documenti), Edizioni Prometeo, Milano, 2003, p. 20]. [N.d.T.].
(19)Il riferimento è evidentemente alla «democrazia diretta» propria dei consigli operai [N.d.T.]
BIBLIOGRAFIA**
1. Dalla sinistra tedesco-olandese a Socialisme ou Barbarie:
- Denis Authier (a cura di), La Gauche allemande: pour l’histoire du mouvement communiste en Allemagne. Textes, Spartacus, Paris, 1974.
- Denis Authier, Jean Barrot, La sinistra comunista in Germania. 1918-21, La Salamandra, Milano, 1981.
- Mario Baccianini, Angelo Tartarini, Socialisme ou barbarie, Guanda, Parma, l969.
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- Philippe Bourrinet, Alle origini del comunismo dei consigli. Storia della sinistra marxista olandese, Graphos, 1995.
- Serge Bricianer, Pannekoek e i consigli operai, Musolini, Torino, 1975.
- Paul Cardan, Capitalismo moderno e rivoluzione, Ed 912, Milano, 1969.
- Paul Mattick, Intégration capitaliste et rupture ouvrière, EDI, 1972.
- Paul Mattick, Ribelli e Rinnegati, Musolini, Torino, 1976.
- Paul Mattick, Il marxismo ultimo rifugio della borghesia?, Scritti scelti a cura di Antonio Pagliarone, Sedizioni, Milano, 2008.
- Danilo Montaldi, Korsch e i comunisti italiani. Contro un facile spirito di assimilazione, Savelli, Roma, 1975.
- Pierre Souyri, Révolution et contre-révolution en Chine, C.Bourgeois, Paris, 1982.
- Riviste animate da Paul Mattick tra il 1934 e il 1943: «International Council Corrospondence», «Living Marxism» e «New Essays», poi ripubblicate da Greenwood Corp., Westport, Connecticut, USA. Una selezione di questi testi si trova in Aa.Vv., La Contre-révolution bureaucratique, UGE, 10/18, Paris, 1974.
- A proposito di «Socialisme ou Barbarie», si veda anche la Postfazione di Pierre Guillaume a Pierre Chaulieu, I rapporti di produzione in Russia, Samonà e Savelli, Roma, 1971.
- Gilles Dauvè, Karl Nesic, Bisognerà ancora attendere. Breve rapporto sullo stato del mondo dopo l’11 settembre, Giovane Talpa, Milano, 2006.
2. La Sinistra comunista italiana e Bordiga:
- [Philippe Bourrinet], La Sinistra Comunista Italiana. 1927-1952, ed. Corrente Comunista Internazionale, Napoli, 1984.
- Jean Barrot [a cura di], «Bilan». Contre-révolution en Espagne 1936-1939, UGE, 10/18, Paris, 1978.
- Jean Barrot, Communisme et «question russe», Editions de la Tete de feuilles, 1972 (contiene Critique de l’Idéologie ultra-gauche e Capitalisme et communisme).
- Jean Barrot, De la politique, in «Le Mouvement communiste», n.5, 1973; Pour une critique de l’idéologie anti-militariste, Editions de l’Oubli, Paris, 1975.
- Jacques Camatte, Bordiga e la passione del comunismo, introduzione a Amadeo Bordiga, Testi sul comunismo, La Vecchia Talpa, Edizioni Crimi, Napoli-Firenze, 1972.
- Nel corso degli ultimi vent’anni, i testi di Bordiga sono stati pubblicati – «con nome e cognome» – sia in volume sia nei numerosi periodici della galassia (esplosa) della Sinistra comunista «italiana». Sono disponibili molte traduzioni in francese, inglese, spagnolo e tedesco. La bibliografia completa è in: Arturo Peregalli - Sandro Saggioro (a cura di), Amadeo Bordiga. 1889-1970. Bibliografia, Colibrì, Paderno Dugnano (Milano), 1995.
3. L’Internazionale Situazionista
- Av.Vv. (a cura di Isabella de Caria e Riccardo d’Este), Internazionale situazionista. 1958-1969, Nautilus, Torino, 1994.
- Guy E. Debord, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano, 2001
- Raoul Vaneigem, Trattato di saper vivere a uso delle giovani generazioni ed altri scritti, Massari, Roma, 2004.
- Wolf Woland, Teoria radicale, lotta di classe (e terrorismo). Appunti per un bilancio di un’epoca, in Raoul Vaneigem, Terrorismo o rivoluzione, Nautilus, Torino, 1982.
**A cura del traduttore.
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