Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

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«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

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«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

20 novembre 2008

Alle origini di Wu Ming... il revisionismo anti-situazionista

[Estratti da Leonardo Lippolis, ‘Togliti i baffi, ti abbiamo riconosciuto’. La vera storia di un bluff (il LutherBlissett Project e i suoi padrini) e della sua cattiva coscienza (l’Internazionale Situazionista), Invarianti, n. 34, 2000 e Leonardo Lippolis, Una volta per tutte. Del dover essere o non poter essere situazionisti in tempi Bui, Invarianti, n. 35, 2001. Il testo originale, in formato .pdf, è reperibile qui]

…Penetrati nottetempo all’interno delle mura dell’inaccessibile cittadella dello Spettacolo,dietro la maschera di quel cavallo di legno a cui avevano dato lo strano nome di Luther Blissett, i nostri eroi misero in atto una variante rispetto al piano che avevano raccontato nei lunghi anni di preparativi e con cui avevano lasciato ad aspettarli fuori dalle mura i numerosi compagni che li avevano scortati fino a lì. Invece di approfittare del favore delle tenebre per muoversi come ombre senza nome e senza volto e dare fuoco alla città, aspettarono le prime luci dell’alba. Quando, tra i primi rumori della città che si andava risvegliando, alcune guardie si avvicinarono a loro con fare minaccioso, essi gli andarono incontro con le mani alzate e con un sorriso tranquillizzante. “Salve, veniamo in pace”, disse uno di loro, “Io sono Federico Guglielmi e questi sono i miei amici Luca Di Meo, Giovanni Cattabriga e Roberto Bui; ecco le nostre carte d’identità. Volevamo soltanto portarvi questo lavoro, è un romanzo. Magari potrebbe  interessarvi”. La città visse una giornata intensa, incuriosita da questi ardimentosi giovani sconosciuti che erano riusciti ad entrare in città in modo così strano e originale. Mentre i Giornalisti si accalcarono attorno a loro per saperne di più, intervistandoli e fotografandoli, e mentre le Guardie furono tranquillizzate dalle loro rassicurazioni sulle proprie buone intenzioni, il Gran Consiglio degli Editori si riunì d’urgenza per affrontare questo vero e proprio caso e dopo febbrili consultazioni convenne che il lavoro di questi intrepidi giovani era valido e coraggioso almeno quanto la loro azione. Andavano premiati, anche perché il loro prodotto era proprio ciò che essi cercavano per ridare un po’ di vitalità ad uno dei quartieri più in decadenza della città. Dopo il gran cerimoniale nel corso del quale i nostri eroi firmarono un contratto con uno dei più potenti della città, il grande Einaudi, il capo delle Guardie delle città si permise di sottolineare la necessità di rimuovere l’ultimo ostacolo al perfetto svolgimento di quella giornata così ricca di soddisfazione per tutti. Si trattava di quella chiassosa e poco decorosa marmaglia di giovani selvaggi che stazionava dal primo mattino sotto le mura, urlando e reclamando un certo Luther Blissett. I nostri eroi si assunsero subito la responsabilità della situazione, promettendo di risolverla immediatamente. Si affacciarono all’orlo più alto delle mura e, con un megafono prestato loro dalle Guardie, esclamarono: “Compagni, la missione è pienamente riuscita, Luther Blissett ha vinto ancora una volta. Noi ora, per poter continuare la nostra azione sovversiva, dobbiamo temporaneamente restare qui. Purtroppo, per ragioni strategiche, non possiamo più chiamarci Luther Blissett; adesso siamo Wu-Ming e per il momento – almeno per un po’ – nessuno di voi potrà raggiungerci qui a condividere la nostra lotta. Ma Luther Blissett è più vivo che mai. Ora che qui ci siamo noi voi potete tornare a casa e continuare come prima…”. Mentre dicevano queste cose essi raccolsero il cavallo di legno con cui erano entrati in città e lo gettarono giù dalle mura, per restituirlo ai loro compagni. Ma nell’impatto il cavallo si ruppe in molti pezzi. Alcuni dei giovani corsero a raccogliergli e tentarono di rimetterli assieme; altri invece se ne andarono con una strana sensazione di fastidio dentro di sé…

Come a livello internazionale il Luther Blissett Project era stato ideato per pubblicizzare i film di Kipper/Blissett/ Cooper (nonché i romanzi di Home, le performance di Healy ecc.), così la sua versione italiana è stato sfruttata dai bolognesi per crearsi un nome ed un mercato letterari (...) 

Come Luther Blissett facesse domanda di assunzione per un posto di becchino, accecato dalla frenesia di seppellire il cadavere di colui che lo aveva smascherato quarant’anni prima che nascesse.

Che senso ha analizzare quest’operazione in un’ottica di pubblico interesse? O per costruirsi un’immagine che compensi la scarsezza di valori artistico/letterari autosufficienti, o per una reale autoconvinzione di rappresentare la coscienza critica più avanzata della controcultura contemporanea – oppure per entrambe le cose assieme, ed altri motivi simili –, i vari Home, Healy, Baroni, Ciani, Guglielmi, Bui-Bellettati ecc. non si accontentano di fare gli artisti o i romanzieri, ma aspirano a fare anche i rivoluzionari. Il primo atto teorico del Luther Blissett italiano era stato Guy Debord è morto davvero (dicembre 1994), un pamphlet necrofilo in cui si salutava il recentissimo suicidio del padre dell’Internazionale Situazionista come una liberazione per l’umanità. Da allora, ogni volta che ha potuto Luther Blissett non ha perso occasione di diffamare non solo Guy Debord, ma tutta la teoria e la prassi situazioniste degli anni Sessanta come un’inutile incrostazione ideologica del pensiero rivoluzionario di questo secolo. Sentite, a titolo di esempio, il “necrologio” con cui Home e la sua Neoist Alliance festeggiarono la morte di Debord:   

«Il 30 novembre 1994 Guy Debord si è suicidato, apparentementesenza motivo. Aveva sessantadue anni e nei precedenti quarant’anni era stato un intellettuale bohémien. Questo saggista d’”avanguardia” si era assicurato grandi affari editoriali, case ben arredate a Parigi e a Champot, televisioni, lavatrici, frigoriferi, unità di smaltimento della spazzatura e persino un acquario. Mentre intorno a noi risuona ancora l’eco delle orazioni funebri e degli altri “tributi”, la Neoist Alliance sostiene che il compito di chi difende la libertà è la distruzione degli idoli e la soppressione dei cadaveri, soprattutto quando, come nel caso di Debord, si presentano nel nome della libertà… Debord non è morto per i nostri peccati, questo non-uomo si è ucciso perché la sua immagine altamente autospettacolare potesse essere riprodotta dappertutto… La morte cancella le frontiere tra l’io e l’altro, tra vero e falso, e riduce il suicidio di Debord alla retorica autopromozionale. Solo la Neoist Alliance ha afferrato la congiuntura necessaria tra nichilismo e coscienza storica, permettendo adesso alle nuove generazioni di sputare sulle tombe degli epigoni neosurrealisti» (S.Home, Neoismo e altri scritti, p.150).

Ancora nell’ottobre 1999, poco prima del suicidio virtuale del nucleo storico bolognese, alcuni Luther Blissett romani cercano di liquidare la teoria situazionista come «un luogo comune deprimente e noioso, quindi controrivoluzionario, di cui non se ne può davvero più!» (da L.Blissett, Due note sull’ideologia situazionista, in “Infoxoa”, n°10, cit.).

Perché Luther Blissett ha sentito la necessità di dover concentrare le proprie forze nel tentativo di screditare il più possibile pensiero e prassi dei situazionisti? Lo stesso Guy Debord, nel 1989, scriveva: «Ci si è talora meravigliati, a partire in verità da una data estremamente recente, di scoprire l’atmosfera di odio e di maledizione che mi ha costantemente circondato e, quanto più possibile, dissimulato. Certuni pensano che sia a causa della grave responsabilità che mi è stata spesso attribuita delle origini, o anche nel comando della rivolta del maggio 1968. Io credo piuttosto che quanto, di me, è dispiaciuto in modo molto durevole sia ciò che ho fatto nel 1952» (G.Debord, Panegirico, Castelvecchi, Roma, p.24).

Cosa aveva fatto Debord di così terribile, in quel lontano 1952, per turbare la pace, al giorno d’oggi di LB e di tanti altri?

Nel 1951 Guy Debord, ventenne e appena uscito dalle scuole secondarie, entra nel Lettrismo di Isidore Isou. Questa avanguardia postdadaista nutre il fervido ambiente della Parigi esistenzialista del secondo dopoguerra con un’attività scandalistica basata sull’assalto alle arti che esprimevano la cultura borghese; Isou vuole destrutturare i linguaggi e le forme di espressione con cui essa perpetra se stessa e il proprio potere: la poesia – per citare il campo da cui derivava il nome del movimento – deve ridursi alla lettera. Inizialmente affascinato dallo spirito contestatario del gruppo, Debord matura in pochi mesi una certa diffidenza verso un’attività che continua a ripetersi sempre uguale a se stessa, in un modo che finisce per rendere innocua la contestazione. Già lucidamente convinto che il dadaismo – pur avendo avuto un ruolo storico fondamentale – avesse conosciuto il proprio scacco nel non aver saputo superare il proprio nihilismo in una dimensione “costruttiva”, Debord non sopporta che lo stesso gioco si ripeta trent’anni dopo. La sua unica opera del periodo lettrista, il film Hurlements en faveur de Sade (1952), unisce una dimensione formale in linea con l’ortodossia del gruppo (film senza immagini e con un parlato fatto di sole citazioni che si alternano con lunghissime pause di silenzio e buio totali) ad una contenutistica (il senso di quelle stesse citazioni) che lascia invece presagire la necessità di superare quell’impasse. Nel 1952 Debord, assieme a tre compagni, si stacca da quelli che ormai chiamava dispregiativamente i lettristi-esteti di Isou, fondando l’Internazionale Lettrista, un gruppo che vuole ribaltare l’idea borghese di felicità non nelle forme d’arte, ma in un uso diverso della vita quotidiana. Se l’arte non era più in grado di mantenere la propria promessa di felicità, questa doveva essere cercata nello spazio ed nel tempo concreti del vivere collettivo.

Da queste basi sarebbe germinata cinque anni dopo l’Internazionale Situazionista, nata sull’asse d’intesa stabilito da Debord e dal pittore danese Asger Jorn. Fedele ai propri assunti di partenza, l’IS ebbe fin dalle origini il progetto “iperpolitico” di diffondere una cultura che rivoluzionasse il senso della civiltà occidentale. Su questa strada, ricca di incontri e di eventi, Debord si trovò a dover fronteggiare chi, all’interno del gruppo, cercava di restare avvinghiato al mondo dell’arte istituzionalizzata, rischiando di fare dell’IS l’ennesima avanguardia che lo stesso mondo dell’arte avrebbe trovato il modo di catalogare e museificare come aveva da poco fatto con il Surrealismo, il loro padre rinnegato, e come si stava altresì apprestando a fare con lo scandalo dada. Proprio per evitare ciò, nel corso degli anni, tutti gli “artisti” dell’IS decisi a rimanere tali, ovvero a continuare a realizzare l’arte nelle sue forme tradizionali invece di tentare di farlo nella vita quotidiana delle persone, o se ne andarono di volontà propria (vedi Constant) o furono espulsi, ed il risultato finale dell’attività del gruppo fu l’elaborazione di una nuova critica radicale del capitalismo (in tutte le sue varianti, da quella consumistica occidentale a quella burocratica orientale) che sarebbe culminata nell’ormai celebre ma sempre mal letto o misconosciuto libro La società dello spettacolo di Debord e avrebbe costituito la base della rivolta del maggio parigino. Il ’68 non fu, come i situazionisti avrebbero voluto, la rivoluzione da cui avrebbe dovuto nascere la nuova civiltà, ma “soltanto” una festa della storia erede della Comune di un secolo prima. Una volta che gli avvenimenti, i quali realizzavano in se stessi la propria radicalità e non potevano quindi preoccuparsi di storicizzarsi agli occhi di un futuro che viceversa speravano di poter costruire ex novo, hanno lasciato spazio alla storia postuma, l’anima radicale del maggio ‘68 è stata sommersa dalle banalizzazioni che tutti sappiamo. Per questo Debord era perfettamente conscio che avrebbe urtato molto di più il suo essersi staccato dal Lettrismo di Isou svelandone il ruolo di contestatore innocuo del potere che non l’aver contribuito alla formazione della coscienza critica e «allo stile di comportamento» di una rivolta presto scaduta nelle riduzioni patetiche del ricordo generazionale.

Quando, nel 1951, Debord abbandona la natia Cannes e la famiglia per seguire quella sconosciuta avanguardia di Isou a Parigi, è un ventenne in condizioni potenzialmente simili – nel principio generale di “giovane ribelle” e non nei ben diversi contesti storici e personali – a quelle di McLaren quando frequenterà la Croydon Art School (1966), di POrridge quando fonderà il Coum Transmission (1969), di Kipper/Blissett/Cooper quando dividerà i suoi vent’anni tra il punk e la nascente performance art (1977), di Stewart Home quando deciderà di voler diventare un’artista (1982), di Brizzi, Bui e soci quando, usciti dal liceo, si chiedevano cosa fare del loro futuro (1994). Ma Debord, pur avendo un talento infinitamente superiore a questi neoartisti, ha rifiutato il ruolo di “artista maledetto” che il sistema, allora come oggi, offre a quelli che si presentano con quelle credenziali. «Il fenomeno che era questa volta assolutamente nuovo», ricorda lo stesso Debord, «e che ha materiamente lasciato poche tracce, è che il solo principio ammesso da tutti era appunto che non poteva più esserci né poesia né arte; e che si doveva trovare di meglio» (Panegirico, cit., p.25).

Prima Debord uscendo dal Lettrismo nel 1952, e poi i situazionisti tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta hanno mostrato quanto la figura dell’artista “contro” fosse ormai, nella migliore delle ipotesi, quella di un impotente che si agitava convulsamente in modo innocuo e, nella peggiore, quella di un impostore che approfittava della buona fede degli ingenui 

«Tutti», scrivevano i situazionisti nel 1967, «rimettono in scena la repulsione dadaista nei confronti della vita contemporanea, ma la loro rivolta risulta essere soltanto passiva, teatrale ed estetizzante, priva della furia passionale, dell’orrore e della disperazione che potrebbero condurre ad una prassi realmente distruttiva. Neo-Dada, quali che siano le sue similitudini formali con Dada, è animato da uno spirito diametralmente opposto a quello del primo gruppo dadaista. “Le uniche cose veramente disgustose” disse Picabia “sono l’Arte e l’Antiarte. Ovunque l’arte alzi la testa la vita scompare”. Neo-Dada, ben lontano dall’essere l’urlo terrificante di fronte alla quasi totale scomparsa della vita, è, al contrario, un tentativo di conferire un valore puramente estetico alla sua assenza e alla schizofrenica incoerenza dei suoi surrogati. Ci invita a contemplare i relitti del naufragio, la rovina e la confusione imperanti e a prendere le armi per partecipare allegramente alla confusione, al saccheggio ed alla totale distruzione del mondo. La loro cultura dell’assurdo rivela soltanto l’assurdità della loro cultura» (Internazionale Situazionista, La rivoluzione moderna dell’arte e l’arte moderna della rivoluzione, Nautilus, Torino, pp.22-23).

E’ chiaro dunque che chiunque, dopo i situazionisti, abbia voluto innalzare il vessillo dell’arte che si pretende contestatrice si è sempre imbattuto nella loro scomoda eredità. Isou passò buona parte dei suoi restanti anni a vomitare veleno contro quel giovane impertinente, e, nel dicembre 1994, “neolettristi” come i Luther Blissett salutavano con sollievo la morte di colui che aveva smascherato il senso del loro neonato progetto con quarant’anni di anticipo. 

Come Luther Blissett, convinto di aver seppellito i situazionisti sotto un mare di merda ed autopraclamatosi re dell’underground, si sia trovato alle spalle l’ombra di un Killer assoldato dallo spettro di Asger Jorn per vendicare i situazionisti stessi (ovvero come il revisionismo sia un Lusso che i disonesti non possono permettersi).

La “cultura” di oggi, con il suo sapere disciplinare e parcellare, è stata palesemente incapace di recuperare il senso totale di un’esperienza che rifiutava di lasciarsi catalogare come artistica o politica, ed è proprio questa incapacità a dimostrare l’esattezza dell’analisi compiuta allora dai situazionisti della “decomposizione” della cultura stessa. La loro radicalità è a tutt’oggi tanto indigesta al sistema da giustificare ampiamente quel buco nero storiografico che ha inghiottito la storia dell’IS e del quale i novelli aspiranti al ruolo di dadaisti dell’era postmoderna e cibernetica hanno approfittato per tentare di ricostruire la storia a loro uso e consumo. E’ quanto hanno tentato di fare Stewart Home e i suoi figliocci italioti con la controstoria blissettiana composta dal già più volte citato Assalto alla Cultura di Home, da Guy Debord è morto davvero e da una più recente Breve storia dell’Internazionale Situazionista scritta da un Luther Blissett italiano, a nome della Nottingham Psychogeographical Unit e con lo pseudonimo di Onesto Lusso.

Correndo, non a caso, su un binario parallelo a quello dell’accademia, Stewart Home e i suoi amici di LB danno credito alla vulgata che vuole l’IS aver vissuto due vite e due progetti diversi; prima uno artistico (positivo), poi uno politico (negativo). Sono incapaci di comprendere che il progetto dell’IS, come detto, è stato “iperpolitico” fin dall’inizio e che la temporanea collusione con alcuni ambienti artistici è stata il frutto di una scelta strategica mutata con il mutare delle condizioni dell’epoca. Fino al 1960 Debord e compagni avevano creduto di poter dare l’assalto all’alienazione capitalista su più versanti contemporaneamente; in quest’ottica le esposizioni nelle gallerie d’arte della pittura industriale di Gallizio, delle pitture modificate di Jorn e dei progetti di future città situazioniste di Constant tentavano di inflazionare l’arte stessa in vista di un suo superamento definitivo. Lo sviluppo di queste situazioni mostrò ai situazionisti che le loro istanze radicali erano inconciliabili con gli ambienti dell’arte d’avanguardia e quando Gallizio tentò di trasformare l’IS in uno strumento pubblicitario che esaltasse il suo genio creativo, Constant in un’avanguardia di architetti che, ripromettendosi di progettare l’utopia ludica del domani, aveva già accettato di costruire nientemeno che una chiesa,e i tedeschi di SPUR e della sezione svedese guidata da Jorgen Nash in una nuova avanguardia stile-Bauhaus, il principale alleato di Debord nel ricordare loro che l’IS era nata per altri scopi fu Asger Jorn. Proprio nel momento in cui la sua fama di grande artista informale cresceva in modo esponenziale, favorendo il recupero dell’IS come semplice avanguardia, Jorn finse di dimettersi dal gruppo nel 1961 e da allora continuò a esporre i suoi quadri con il proprio nome dissociato da quello dall’IS, salvo: a) finanziare con i soldi guadagnati l’intensa attività “pratica” del gruppo; b) continuare a collaborare a quella “teorica” con lo pseudonimo di George Keller, misterioso personaggio danese che compare nell’IS contemporaneamente alla fuoriuscita ufficiale dello stesso Jorn ed il cui nome in danese significa “cantina”, (ovvero, curiosamente, un antenato di quel concetto di underground così caro a Home e soci).

Secondo il revisionismo di Home e di Blissett, proprio Jorn – considerato una sorta di sciamano dedito a non meglio precisati interessi alchemico-occultisti – avrebbe rappresentato l’anima artistica dell’IS e si sarebbe dimesso dal gruppo per una presa di distanza dalle posizioni dottrinarie di Debord… Profeti della crisi dell’identità come arma di sconquasso del potere e della storia, Home e i vari Luther Blissett sono dunque caduti come polli nella più semplice trappola anti-identificativa che Jorn – “il più eretico di un movimento che non ammetteva ortodossia”, secondo le parole di Debord stesso – aveva teso agli impostori che avrebbero potuto includerlo, e con lui l’IS, nello spettacolo della fine dell’arte. Incapaci di comprendere le dinamiche interne a una teoria troppo più grande di loro, Home e blissettiani si sono fatti gabbare come tutti i mestieranti della cultura accademica che per anni hanno continuato a diffondere la vulgata dell’opposizione tra una linea politica di Debord e una artistica di Jorn. Quando poi qualcuno deve avere informato Home di questo piccolo “dettaglio” riguardante le “identità multiple” di Jorn, egli ha partorito uno dei gioielli del suo geniale revisionismo, nel quale Jorn-Keller-cantina diventa Jorn-Killer-assassino; in un passo in cui commenta il fatto per lui incomprensibile che molti situazionisti espulsi dalla “protervia stalinista” di Debord rimanessero in contatto e in amicizia con Debord stesso e con il gruppo, Home scrive infatti che «Asger Jorn, soprannominato George Killer, dopo le dimissioni, arrivò al punto di finanziare le pubblicazioni sulle quali era stato denunciato!» (S.Home, Neoismo…, p.42) 

Come Stewart Home e Luther Blissett, convinti di partecipare ad una cospirazione massonica contro l’ordine esistente, si trovarono nel bel mezzo di un party new age.

Strenui difensori di quell’arte che li mantiene, Home e soci hanno cercato di dimostrare come la vera IS non sia stata quella che dal 1960 in poi ha saputo dare un fondamento teorico e pratico all’ultima rivoluzione di questo secolo, bensì quella che Nash e altri artisti transfughi hanno fondato e ribattezzato appunto un Bauhaus situazionista nel 1962. L’unico esempio che Home riesce a citare per dimostrare la sua tesi è significativo: nel ’68, mentre i situazionisti davano fuoco alle polveri dell’insurrezione reale nelle strade di Parigi (e non solo), il Bauhaus nashista non trovava niente di più “rivoluzionario” da fare che occupare il padiglione svedese della Biennale di Venezia per trasformarlo in un «ambiente situazionista»!

Questa diversa interpretazione dell’aspetto “architettonico” della teoria situazionista (costruire “ambienti situazionisti” nelle strade o in un museo?) dimostra al meglio quanto Home & co. abbiano capito dell’esperienza situazionista e quanto quello che essi hanno scritto sull’argomento possa essere attendibile.

Abbiamo visto come, all’atto della propria nascita, il Luther Blissett bolognese avesse preso forma tramite l’Associazione Psicogeografica Bolognese, a sua volta “filiazione” della London Psychogeographical Association fondata da Richard Essex e Fabian Tompsett a Londra nel 1992. Essex, lo abbiamo detto, era amico di Home e Home condivise subito con entusiasmo la nascita del gruppo. Sentiamo come egli ne ricorda le prime attività:  

«Nel 1992 il gruppo è divenuto realtà, e io sono venuto a saperlo quando mi è stato dato un volantino il cui testo era: “Gita della London Psychogeographical Association alla caverna di Roisias Cross, 21-23 agosto. Questo viaggio è stato organizzato in coincidenza con la congiunzione tra Giove e Venere del 22 agosto. Durerà tre giorni, comprenderà le quasi 100 miglia di bicicletta e due notti di campeggio. Ci vediamo dietro il parcheggio di Teseo, Three Mills Lane, London E3 alle 11 am di venerdì 21 agosto, con le biciclette e l’attrezzatura da campeggio. Speriamo che ce la facciate – ci vediamo là!”. Un’altra uscita è stata organizzata dalla LPA per studiare i dintorni della St.Catherinas Hill a Winchester, in occasione della congiunzione tra Venere, Urano, Nettuno, e la luna. Un opuscolo intitolato The Great Conjunction: the Symbols of a College, the Death of a King and the Maze of the Hill è uscito il primo giorno di questa escursione, che durò 36 ore. Il testo rivelava che la LPA stava conducendo indagini rigorose sulle ley-lines, sull’occulto e l’organizzazione rituale del potere, sullo psicodramma alchemico, sul controllo della mente e sulle simbologie architettoniche» (S.Home, Assalto alla Cultura, p.146).

Cosa aveva a che fare tutto ciò con l’eredità situazionista, cui evidentemente queste associazioni di Londra e Bologna si richiamavano nel parlare di psicogeografia, invenzione dei situazionisti stessi? Occultismo, alchimia, ley-lines...? Lontane da qualsiasi suggestione artistica o tantomeno occultista, la psicogeografia e la deriva erano nate come pratiche spontanee e senza nome del vivere quotidiano di giovani che si erano autodichiarati nemici irriducibili dei modelli di vita offerti loro dalla società. Girare per la città rinunciando agli usi che il sistema di allora come di oggi ci impone (spostarci da un luogo ad un altro solo per lavorare e per consumare) rispondeva all’insopprimibile esigenza di vivere in modo appassionante una realtà urbana nella cui rapida modernizzazione, nella Parigi dei primi anni Cinquanta come ovunque altrove, era facile leggere la crescente miseria dell’intera civiltà occidentale. Ai lettristi prima e ai situazionisti poi non interessavano i segreti del Cosmo bensì quelli della vita quotidiana; la loro era una «geografia umana», in cui gli spazi e la forma della città erano lo specchio in cui si rifletteva l’essenza della civiltà che l’aveva prodotta. Con le loro mappe psicogeografiche e con le derive Debord e gli altri lettristi volevano documentare quelle zone urbane che, conservando un valore di vita autentica (soprattutto i vecchi quartieri popolari), dovevano costituire materia di rivendicazione per una rivoluzione appassionante della vita quotidiana e quelle che, concretizzando invece l’alienazione del neocapitalismo dei consumi (soprattutto le nuove periferie nello stile di Sarcelles), dovevano diventare oggetto di una feroce contestazione dell’ordine esistente. Quando la strategia dell’IS mutò nella direzione dettata dal mutare della situazione culturale e sociale degli anni Sessanta, la psicogeografia e la deriva vennero riconvertite, insieme a tutta la complessa teoria dell’urbanismo unitario, in una pratica di contestazione diretta dell’urbanistica – disciplina poliziesca al servizio del potere – prefigurata dalle guerriglie urbane di Watts e Detroit e realizzata direttamente nel maggio parigino.

Ignorando tutto ciò l’APB ha fedelmente seguito la traccia occultista dei compagni londinesi della LPA e di Home. Mentre lo stesso Home si autoproclama “Avanbardo”, Guglielmi si guadagna la sua stima scoprendo al lettore italiano che il nonno di James Reid – l’art director dei Sex Pistols – era stato il Capo dell’Ordine dei Druidi. Nel 1995, all’apice del loro orgasmo occultista, la Neoist Alliance di Home, la LPA di Essex e l’APB di Guglielmi annunciano l’imminente confluenza dei rispettivi gruppi nella fondazione di una Nuova Internazionale Lettrista. Il progetto rimane, fortunatamente per loro, sulla carta. Ai Blissett bolognesi è ben chiaro che la creazione del proprio mito passa molto più facilmente attraverso gli spazi virtuali delle reti telematiche che non attraverso quelli reali delle città. Dopo un anno di “eroiche” derive notturne che hanno attraversato Bologna a caccia di ley-lines e omphaloi, l’APB si dissolve, smettendo di pubblicare la sua rivista. Più ostici risultano gli inglesi, che continuano imperterriti le loro attività nonostante che una brutta sorpresa sia dietro l’angolo.

All’atto della sua nascita la LPA aveva dichiarato di essere resuscitata dopo «trentacinque anni di non-esistenza»; il riferimento era al Comitato Psicogeografico di Londra che Ralph Rumney aveva fondato nel 1957, essendone l’unico membro, per aggiungere lustro e pompa alla fondazione dell’IS. L’anno successivo Rumney si era dedicato alla perlustrazione sistematica di Venezia, impegnandosi a fornire all’IS una mappa psicogeografica della città da pubblicare sul primo numero della rivista. Il tempo passava ma, nonostante i solleciti di Debord, Rumney non rispondeva. Ad un ultimatum scritto e firmato non solo da Guy Debord ma anche da Killer-Keller-Jorn (cfr.G.Debord, Correspondance 1957-1960, Fayard, Paris, 1999, pp.71-72), in cui, dopo sei mesi di attesa, si avvertiva Rumney che una risposta non arrivata entro l’ultimo giorno disponibile alla messa in stampa della rivista, avrebbe significato la fine dei suo rapporto con l’IS, non seguì risposta tempestiva, bensì una successiva lettera di scuse in cui Rumney adduceva problemi personali come causa del suo ritardo. Nonostante che egli stesso abbia accettato di buon grado la decisione di Debord e Jorn, Rumney è diventato uno dei simboli del revisionismo antisituazionista di Home e soci. La sua esclusione, citata sia in Assalto alla cultura che in Guy Debord è morto davvero, doveva diventare l’esempio-simbolo dell’egocentrismo stalinista di Debord e lui stesso il mentore del recupero occultista della psicogeografia. Ma, quando ad un convegno tenutosi a Manchester nel gennaio 1996 (The Hacienda Must Be Built: On The Legacy of the Situationist International), la LPA si presenta come erede di Rumney con un programma che si autodefinisce «occulto-marxista», lo stesso Rumney – che pure fu un protagonista molto marginale della storia situazionista, nonché uno dei suoi meno generosi commentatori e dei meno significativi eredi – risponde con un pamphlet scritto per l’occasione ed intitolato Alcune considerazioni riguardanti la miseria dei post-situazionisti, nel loro tentativo di recuperare il passato in cui liquida la loro teoria-prassi con la geniale formula di “geografia new age”(cfr.S.Sadler, The Situationist City, p.165).

Luther Blissett si era fatto sbeffeggiare ancora, e questa volta il Killer era stato Rumney.

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