Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

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«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

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«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

28 novembre 2008

"Impero" e i suoi tranelli - Seconda parte

Toni Negri e la sconcertante parabola dell'operaismo italiano*
di Claudio Albertani



Le disavventure dell’operaio sociale


È nel contesto della crisi dell’operaismo successiva al 68 che bisogna analizzare il pensiero di colui che ne raccolse la staffetta: Antonio Negri. Egli stesso ha narrato più volte il proprio percorso: proviene da una famiglia di umile condizione, si è laureato all’Università di Padova discutendo una tesi sullo storicismo tedesco e, dopo essersi specializzato in Germania e in Francia, ha condotto una brillante carriera accademica che lo ha portato a pubblicare una ventina di libri, oltre a un’infinità di articoli in tutto il mondo. Dalla fine degli anni cinquanta, accanto all’insegnamento, ha intrapreso l’impegno politico, dapprima in ambiente cattolico, in seguito nel Partito Socialista, in fine in ambito operaista(1).
Nella prima fase, fino alla pubblicazione di Classe Operaia, il contributo di Negri non fu decisivo, ma con la fondazione di Potere Operaio, divenne determinante. Il gruppo nacque nell’estate 1969 nell’ambito di una crisi del movimento studentesco sorta perché, nella prospettiva marxista-leninista, le rivolte studentesche avevano senso solo se subordinate all’“egemonia operaia”, cioè alla linea dell’organizzazione. Era quindi urgente creare una direzione politica che fosse in grado di controllarle.
Da parte sua Negri favorì il progetto di dar vita a un partito centralizzato e verticale, molto distante dalle sue attuali idee sulla “moltitudine”. «L’analisi su cui ci basiamo è quella dei classici, di Marx, di Lenin, di Mao; non vi è spazio nella nostra organizzazione per l’irrequietezza e le velleità»; scrisse in un testo che non dà sicuramente spazio a una concezione libertaria dell’autonomi(2).
A differenza di Lotta Continua, gruppo di stampo attivista, Potere Operaio privilegiava un’elaborazione teorica che si fondava su una rielaborazione delle posizioni dei Quaderni Rossi e di Classe Operaia. La novità era che la soggettività non risiedeva più nella classe, ma, come nella migliore tradizione leninista, nell’avanguardia comunista; cioè in Potere Operaio. Il proposito era quello di centralizzare e radicalizzare gli antagonismi spontanei per trasformarli in azione insurrezionale contro lo Stato.
Ancora una volta il progetto fallì. La serie di lotte operaie cominciata all’inizio degli anni sessanta entrò in una fase discendente. Uno degli ultimi colpi di coda fu l’occupazione della FIAT Mirafiori (a Torino) che, nel marzo 1973, chiuse in Italia l’epoca dei grandi scontri fra operai e capitale. Come eredità rimase lo Statuto dei Lavoratori, un pacchetto di norme sindacali favorevoli alla classe lavoratrice sottomesso negli anni successivi a costanti ritocchi e, a poco a poco, ridotto a un guscio vuoto.
Nel resto del decennio, i conflitti sociali non diminuirono, ma il loro centro di gravità non era più nelle fabbriche. Mentre le principali formazioni extraparlamentari entravano in crisi (Potere Operaio si sciolse nel 1973, Lotta Continua nel 1976), nasceva una miriade di piccoli gruppi attorno al motto: “prendiamo la città”. Alcuni di tali gruppi si dettero il nome di “indiani metropolitani”, altri quello di “proletariato giovanile”. Occupavano edifici, aprivano centri sociali, fondavano riviste, avviavano progetti di comunicazione alternativa, creavano associazioni femministe ed ecologiste.
Questi gruppi, la cui base stava tanto nelle fabbriche come nei quartieri, cominciavano a lasciarsi alle spalle le vecchie concezioni del partito chiuso e del dirigismo leninista, per cercare soluzioni alternative nell’organizzazione di spazi di convivenza e di scambio sociale autonomi dalla legalità dominante. Per sottolineare la loro indipendenza politica, usavano sigle in cui compariva la parola  “autonomia” – per esempio: “Proletari autonomi” o “Assemblea autonoma” – così, ben presto, furono conosciuti come l’“area dell’autonomia operaia”(3)
Da parte sua, Negri interpretò la nuova fase con un trionfalismo militante che era l’opposto ideologico del pessimismo di Tronti (e della sua “autonomia del politico”). Non c’era riflusso: il rifiuto del lavoro taylorista aveva ormai abbattuto i muri che separavano la fabbrica dal territorio. La produzione capitalista mobilitava adesso l’intero processo sociale riaffermando in tal modo l’importanza del lavoro produttivo.
In questa situazione, l’operaio massa “usciva” dalla fabbrica per spostarsi sul territorio, la fabbrica diffusa, diventando operaio sociale, il nuovo soggetto del quale il nostro autore cominciò a proclamare la “centralità”. Tecnici, studenti, maestri, operai, emigranti e squatter, finivano così nello stesso sacco, senza analisi delle loro differenze, specificità e contraddizioni.
Nella prospettiva di rovesciare le categorie di Marx, Negri introdusse la categoria di autovalorizzazione (la stessa che, senza spiegazione alcuna, riappare un quarto di secolo più tardi in Impero)(4). Di cosa si tratta? Mentre la valorizzazione capitalistica si basa sul valore di scambio, l’autovalorizzazione – caposaldo dell’edificio teorico di Negri – si fonderebbe sul valore d’uso, e i nuovi bisogni proletari. Generalizzando sul territorio – la fabbrica diffusa – le pratiche di autovalorizzazione, l’operaio sociale doveva adesso lottare per il “salario garantito”.
Il nucleo del conflitto (e dell’analisi) si spostava così in direzione dello Stato. Negri riteneva che lo Stato keynesiano – che chiamava Stato-piano – avesse inscritto le conquiste della rivoluzione d’ottobre nel cuore dello sviluppo capitalistico, trasformando il “potere operaio” in una “variabile indipendente”.
A partire da quel momento, la lotta principale si giocava sul terreno dell’autovalorizzazione e, non essendovi più riproduzione di capitale fuori dallo Stato, la “società civile” cessava di esistere e rimanevano soltanto, uno di fronte all’altro, i due grandi contendenti: proletari e Stato(5).
Nonostante l’apparente coerenza, questo ragionamento si basava su un’interpretazione errata del concetto marxiano di valore. Secondo Negri, il valore d’uso esprime il radicalismo operaio, la sua potenzialità soggettiva, in quanto antagonista del valore di scambio. È, in un certo senso, il lato “buono” della relazione. Tuttavia, dal punto di vista della critica dell’economia politica, tale impostazione risulta priva di senso.
Come spiega Marx nel primo capitolo del tomo I del Capitale, il valore d’uso non è affatto una categoria “morale”, bensì la base materiale della ricchezza capitalista, la conditio sine qua non dell’accumulazione. Se in qualche momento del processo di circolazione, i valori d’uso non si convertono in valori di scambio, cessano d’essere valori e quindi limitano e condizionano il processo di valorizzazione.
Una della fonti di Negri era Agnes Heller, la nota esponente della scuola di Budapest, che aveva messo al centro della propria riflessione su Marx il concetto di bisogni radicali. Tuttavia la Heller faceva attenzione a non scivolare nell’apologia dei bisogni immediati. Scrisse, infatti:


La riduzione del concetto di bisogno al bisogno economico è una espressione dell’estraniazione (capitalistica) dei bisogni, in una società in cui il fine della produzione non è la soddisfazione dei bisogni, ma la valorizzazione del capitale, in cui il sistema dei bisogni è fondato dalla divisione del lavoro e il bisogno compare soltanto sul mercato, nella forma di domanda solvibile(6).


Negri cadde in tale apologia, discostandosi dal marxismo critico e dimenticando che non è possibile combattere un mondo alienato in maniera alienata. L’autonomia, inoltre, non si dispiega nella situazione immediata di classe. Nella società del capitale, l’autonomia è progetto, tendenza o, per meglio dire, tensione che si configura come realtà pratica solo in fugaci momenti di rottura come il ’68 in Francia e il ’77 in Italia.
Torniamo a Negri. Contrariamente a ciò che pensa il nostro autore, il comunismo non è «l’elemento dinamico e costitutivo [...] dello sviluppo capitalistico(7), ma una società completamente differente senza potere dello Stato, né feticismo mercantile.
E il partito? «[...] nella mia coscienza e nella mia pratica rivoluzionaria non so cancellare il problema del partito» scriveva, aggiungendo: «[...] noi possiamo, dobbiamo cominciare la discussione sulla costituzione della dittatura comunista»(8)
Secondo colui che si considerava il Lenin italiano, il partito esisteva in embrione ed era l’Autonomia Organizzata (con lettere maiuscole, per distinguersi dalle varie “autonomie” con la minuscola), il complesso di organizzazioni semiclandestine e di servizi d’ordine militarizzati che, spinti dalla repressione statale, praticavano la lotta armata nell’intento di “diffondere” e “ricomporre” l’antagonismo di massa(9).
Quello che successe fu un disastro totale. Il sogno di prendere il potere si infranse rapidamente contro le secche della realtà. A partire dal 1977 - ultima grande stagione creativa del “laboratorio Italia”- il Partito Comunista si alleò con la Democrazia Cristiana che era al governo. La repressione entrò in una nuova fase, distruggendo tutto ciò che si muoveva oltre la sinistra parlamentare, e annullando la differenza fra terrorismo e protesta sociale.
È in questo contesto che l’Autonomia Organizzata - o, meglio, alcune delle sue organizzazioni che, oltretutto si trovavano spesso in opposizione reciproca(10)- e le neostaliniste Brigate Rosse perseguirono il sogno assurdo di un attacco al “cuore dello Stato” (come se lo Stato avesse un cuore!). Il sogno si trasformò presto in un incubo che alla lunga finì per travolgere anche il ricco e complesso tessuto dell’autonomia con “a” minuscola dove vigeva una concezione molto più articolata dello scontro sociale(11).
Ancora nel 1978, in occasione dell’assassinio di Aldo Moro ad opera delle Brigate Rosse – uno degli errori più nefasti e gravidi di conseguenze negative mai commessi da un gruppo rivoluzionario – Negri, pur manifestando il suo dissenso, scriveva che il fatto positivo dell’azione era aver imposto al movimento la “questione del partito”(12).
Il tragico epilogo avvenne il 7 aprile 1979 quando Negri e decine di militanti furono incarcerati sotto la falsa accusa di essere gli ideologi delle Brigate Rosse. Avrebbero trascorso fra i due e i sette anni dietro le sbarre, designati dalla meschinità del potere quali vittime sacrificali sull’altare della pace sociale(13).
Nel 1980, con l’ultimo tentativo di occupare la fabbrica Mirafiori, si chiuse simbolicamente un lungo periodo di conflitti sociali durante il quale – caso unico nella storia europea – lotte operaie, movimenti studenteschi e nuove visioni di vita avevano marciato fianco a fianco in un formidabile intento di liberazione collettiva(14).


Le gesta della moltitudine


Nei decenni successivi Negri continuò a leggere i movimenti sociali non per quello che sono, ma come verifica delle proprie tesi, scrivendo libri spesso oscuri, e cambiando idea molte volte sullo stesso tema – ad esempio sulla lotta armata o sul leninismo(15) senza mai azzardare la minima autocritica.
Da Foucault, Deleuze e Guattari, il nostro autore aveva ereditato una marcata avversione alla dialettica(16) Già nello studio sui Grundrisse - frutto di un seminario svoltosi a Parigi - scriveva che «l’orizzonte del metodo marxiano non è mai investito del concetto di totalità»; piuttosto «esso è caratterizzato dalla discontinuità materialistica dei processi reali»(17) in modo tale che il materialismo si assoggetta alla dialettica.
Negri considera la società capitalistica un campo di forze in lotta costante. Tuttavia, a differenza dei post-strutturalisti francesi, lui pensa che il motore dei processi sociali sia la separazione o, meglio, l’antagonismo sociale.
All’indagine spetta il compito di identificare l’antagonismo determinante, studiarne le tendenze e portarlo all’esplosione. Subito dopo, l’analisi si sposta verso un nuovo campo, lo ridefinisce e così di seguito(18) Il capitale non è più inteso come contraddizione in atto (Marx), ma come la progressiva affermazione di un soggetto conosciuto in anticipo.
In Spinoza. L’anomalia Selvaggia, scritto in carcere, Negri chiarì il suo progetto: proseguire la costituzione materiale del soggettivismo radicale in Occidente, creando una frattura tra la filosofia del potere e quella della sovversione. Con Spinoza si inaugurava una tradizione “anomala”, che proseguiva con Machiavelli e Marx, opponendosi all’asse dialettico incarnato nella triade Hobbes-Rousseau-Hegel(19). Negri ravvisava in Spinoza una critica anticipata della dialettica hegeliana, nonché la nascita del materialismo rivoluzionario.
All’orrore stalinista del Diamat, Negri opponeva un nuovo orizzonte ontologico che si reggeva sulla categoria spinoziana di potenza. Tale interpretazione presenta una indubbia originalità, ma ignora le critiche mosse cinque decenni prima al marxismo sovietico dai comunisti di sinistra (ad esempio Karl Korsch, o, più recentemente, Maximilen Rubel) secondo cui il materialismo marxiano non è una filosofia né un’economia, ma la teoria rivoluzionaria del proletariato in lotta.
Secondo questi autori, il movimento dialettico non ha mai espresso una legge della storia universale, né tanto meno una scienza, ma «la logica specifica di un oggetto specifico», il capitalismo, un sistema sociale opaco fondato sul «feticismo»(20).
È nel libro su Spinoza che appare per la prima volta il concetto di moltitudine, ossia, il nuovo soggetto globale che, poco a poco, prenderà il posto dell’operaio sociale fino a diventare, quasi due decenni più tardi, l’eroe indiscusso di Impero(21).
Come nasce la celebrata moltitudine?(22) Agli albori della modernità Hobbes e i cosiddetti filosofi della sovranità chiamarono così i gruppi umani prima di costituirsi in popolo, ovvero, prima di accedere alla civiltà(23). La “moltitudine” era dunque qualcosa di puramente negativo, che rimandava a un insieme di uomini, indistinto e selvaggio, non ancora organizzato nello Stato. Come sempre, Negri rovescia il concetto, facendolo assurgere a fondamento imprescindibile di una “democrazia radicale”(24).
La moltitudine contemporanea sarebbe, così, la forma dell’esistenza sociale e politica dei “molti”, “l’insieme aperto”, che si pone quale alternativa alla triade popolo-volontà generale-Stato. Mentre il popolo tende all’identità e all’omogeneità – spiega Negri – la moltitudine supererebbe i confini della nazione che, di fronte alla crisi dello Stato, risulterebbe il soggetto plurale di un nuovo potere costituente aperto, inclusivo e post-moderno(25).
In quanto alle alterne fortune di questa nuova categoria, mi pare utile citare l’opinione di Juan Goytisolo:


Si è scritto molto ultimamente riguardo al concetto di moltitudine, opposto a quello di massa o di popolo. Con tutti i miei rispetti per tali intuizioni sociologiche, devo confessare che la parola moltitudine mi sembra indicata soprattutto per riferirsi alle code che si formano alle prime di certi colossal o all’inizio dei ribassi dei grandi magazzini(26).


Al di là dell’ironia, sorgono alcune domande. Come giustifica il nostro autore questo salto repentino dal XVII secolo ai nostri giorni? E inoltre: come si è prodotto il passaggio dall’operaio sociale alla moltitudine? Negri non ama la storia e non risponde, però cerca di dare spessore teorico alla nuova creatura, avvalendosi di Marx da un lato e della ricca letteratura che accompagna la rivoluzione informatica dall’altro. Con la crisi del fordismo, spiega Negri, la classe operaia industriale ha perso la propria posizione centrale nella società. Oggi una parte consistente della forza-lavoro è impegnata nel lavoro immateriale, ossia nell’insieme delle attività destinate alla manipolazione dei simboli, allo sviluppo delle competenze tecnico-scientifiche, all’elaborazione dei messaggi e ai flussi di comunicazione(27). Poco a poco – continua Negri – il sapere sociale accumulato diviene preponderante rispetto al tempo socialmente necessario.
Non ho molto da obiettare a tali affermazioni basate sul famoso “Capitolo sulle macchine”, presente nei Grundrisse. Lì Marx precisa che, con lo sviluppo della grande industria, la creazione di beni «[...] non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende invece dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione»(28). E aggiunge:


Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte di ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura e, quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso. Il plus-lavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo(29).


Questi brani molto citati di Marx sono oscuri e, al tempo stesso, visionari. Oscuri perché non è molto chiaro il significato dell’affermazione: «crolla la produzione basata sul valore di scambio». Vuol forse dire che il capitalismo finisce, superato dal proprio sviluppo? O che risolve l’antagonismo operai-capitale? Non credo, però il problema resta aperto. Ma sono anche visionari in quanto ci forniscono strumenti interessanti per leggere il presente e, in particolare, la rivoluzione informatica. In questa fase - prosegue Marx - i prodotti industriali diventano


[...] organi del cervello umano creati dalla mano umana; capacità scientifica oggettivata. Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata e, quindi le condizioni del processo vitale stesso sono passate sotto il controllo del general intellect e [sono state] rimodellate in conformità ad esso(30).


Ciò che io capisco è che le contraddizioni della produzione industriale si estendono adesso all’ambito del lavoro che la letteratura sociologica chiama “immateriale”. Negri ha ragione quando afferma che, in tali condizioni, il problema del soggetto rivoluzionario si pone in modo nuovo. A mio avviso, venendo meno la centralità della fabbrica, si moltiplicano i luoghi potenziali dell’antagonismo e, contemporaneamente, scompare qualsiasi nozione di “bisogno”. Perché allora introdurre una categoria come quella di moltitudine che, per definizione, appiattisce le differenze?
C’è di più. Negri, interpretando le affermazioni di Marx in modo unilaterale, sembra sostenere che il capitalismo si è già estinto come modo di produzione e che sopravvive come pura forma di dominio o “dispositivo di controllo”(31).
Non soddisfatto, strizza l’occhio a tutte le utopie tecnologiche, dalla “fine del lavoro” ai miti della società post-industriale e alle antropologie del ciberspazio. «Nelle espressioni della sua potenza creativa, il lavoro immateriale sembra quindi esprimere virtualmente un comunismo spontaneo ed elementare»(32). In base alla sua interpretazione, il comunismo non nasce più dall’antagonismo né dal rifiuto collettivo della cooperazione capitalistica, ma, al contrario, dalla sua massima diffusione grazie alla scienza o alla tecnica.
In tal modo, Negri finisce per avvallare i luoghi comuni del neoliberismo: il nuovo federalismo, l’Unione Europea e persino “l’imprenditorialità comune” del Veneto, «[...] tutti coloro che hanno messo al servizio del comune, fatica ed intellettualità, forza-lavoro e forza- invenzione »(33).
Il cerchio si chiude: l’operaismo di Negri sfocia in un’apologia delle forze produttive molto simile a quella che Panzieri aveva combattuto all’epoca del primo operaismo quasi quarant’anni prima. Proprio come in Tronti, svanisce ogni principio di una concreta autonomia fondata sull’azione indipendente dei soggetti sociali in lotta. In tale modo i due avversari di un tempo tornano a stringersi la mano(34).
Può suscitare ilarità il fatto che, alla fine di Impero, Negri e Hardt celebrino san Francesco come la figura simbolo del nuovo militante(35). Secondo il Vocabolario della Lingua Italiana Zingarelli, si definisce militante «qualcuno che esercita la milizia». Nei movimenti sociali attuali, si preferisce la parola attivista, che è meno violenta e che rimanda all’azione diretta.
Le azioni festive dei giovani (e neanche tanto giovani), che dai giorni di Seattle tolgono il sonno ai potenti della terra, hanno poco a che vedere con la “militanza”(36). Al contrario le guida una volontà ludica di “invertire la prospettiva”, di porre fine alla politica tradizionale e di dar vita a nuove forme comunitarie.
Non è per niente casuale che i principali seguaci di Negri, i cosiddetti Disobbedienti (precedentemente Tute Bianche ed Associazione Ya Basta) siano causa di grande confusione nel movimento anti-globalizzazione. Essi mi ricordano la parte peggiore della vecchia sinistra, sommata al peggio dell’attuale politica postmoderna di tipo mediatico. Radicali all’estero (in Messico si fecero espellere con gran clamore nel 1988), si piegano a qualsiasi compromesso in Italia; pacifisti convinti, stilano deliranti dichiarazioni di guerra senza assumere le conseguenze di ciò che predicano (e calunniando gli altri); zapatisti dichiarati, inseguono incarichi elettivi...
Ma questo è un altro discorso. Riguardo al tema di cui ci stiamo occupando - l’efficacia del concetto di moltitudine - dobbiamo precisare che l’insieme dei cambiamenti subiti dal capitalismo negli ultimi decenni ha dissolto qualsiasi centro di gravità delle lotte antisistema. Lo stesso marxismo è solo una delle tante teorie di cui si possono avvalere i nuovi movimenti per armarsi dal punto di vista concettuale. Altre possono essere: l’anarchismo, le cosmovisioni tradizionali, la teologia della liberazione... inoltre, ormai, la storia non si fa unicamente in Occidente.
Oggi i movimenti sociali sono plurali per definizione. Cosa hanno in comune gli indigeni del Chiapas con gli operai della FIAT, gli agricoltori ecologisti francesi con i ribelli argentini, i contadini di Karnakata con i cyberpunk delle metropoli postmoderne? Molto, senza dubbio, come spiega, per esempio, il comandante Mister del Ejército Zapatista de Liberación Nacional (EZLN):


I governi pensano che noi indigeni non sappiamo nulla del mondo. Invece lo conosciamo bene. Siamo informati dei piani di morte che essi ordiscono contro l’umanità e delle lotte dei popoli per la liberazione. Conosciamo perfino il Giappone. Sappiano tutto ciò perché conosciamo uomini e donne di molti paesi che sono giunti nei nostri villaggi e che ci hanno parlato delle loro lotte, dei loro mondi e di ciò che fanno. Abbiamo viaggiato grazie alle loro parole e abbiamo visto ed conosciuto più terre di qualsiasi intellettuale(37).


Bisogna assolutamente rifare questo mondo, che non ci appartiene. Ogni individuo, ogni movimento, ogni comunità in lotta cerca l’incontro facendo in modo di mantenere una prospettiva autonoma e un’identità propria. Questo mi sembra un passo importante. Non è un caso, per esempio, che nei movimenti indigeni americani si parli sempre meno di interculturalità e sempre più di multiculturalità; mentre il primo concetto impone una sintesi, il secondo conserva tensioni e particolarità.
Negri critica - credo a ragione - il concetto di popolo. Abbiamo certamente bisogno di concetti nuovi per valutare le differenze. Tuttavia, perché abbattere queste stesse differenze annullandole in un’astrazione filosofica vecchia di tre secoli?
Esattamente come il suo predecessore, l’operaio sociale, la moltitudine è una forzatura. Alla fine del tragitto, Negri torna al peccato originale dell’operaismo italiano: la ricerca sempre rinnovata di una qualche “centralità”, il feticcio del lavoro produttivo, il capovolgimento della realtà, e l’incapacità di uscire dall’orizzonte della fabbrica. Il risultato è un soggetto senza storia e una forma senza contenuto, ultimo adattamento dell’antica credenza secondo la quale è sempre la classe operaia a incalzare il capitalismo.


Epilogo. Fine dello Stato-nazione?


Nonostante la proclamata antipatia per il pensiero dialettico, l’impalcatura teorica di Negri è sempre rimasta di stampo hegeliano(38). Sia in Impero, che nelle opere precedenti è sottintesa una teleologia necessaria, un movimento circolare e un lieto fine, sempre implicito nell’inizio.
Nel testo scritto in collaborazione con Hardt, leggiamo che le rivoluzioni del XX secolo non sono state affatto sconfitte, «[...] ma che hanno rinnovato e trasformato i termini della lotta di classe, secondo le condizioni di una nuova soggettività politica»(39). In altre parole, hanno preparato l’avvento della realtà ultima del nostro tempo, appunto l’impero, e del suo rivale imprescindibile, la moltitudine.
Così come lo Spirito del mondo si manifesta nella storia saltando da una parte all’altra del pianeta, l’epifania dell’impero si incarna in tappe e in figure emergenti che, in ogni momento, le conferiscono caratteri distintivi.
Se l’epopea inizia nel laboratorio di Spinoza, la Costituzione statunitense sarebbe uno dei suoi momenti fondamentali. Perché mai? Perché, secondo gli autori, essa si fonda «[...] sull’esodo, sui valori affermativi e non dialettici, sul pluralismo e la libertà»(40). Riaffiora qui l’antico amore operaista per gli Stati Uniti, farcito adesso di alcune (infelici) considerazioni di Hannah Arendt sulla rivoluzione americana(41).
Francamente qui è difficile contenere lo sdegno. Noam Chomsky - uno dei migliori analisti degli Stati Uniti, che Negri ha accusato a più riprese di essere un “moralista”- dice in proposito parole chiare e prive di ambiguità: «la Costituzione di questo paese non è altro che una creatura concepita per tenere a bada la marmaglia, onde evitare che, neanche per errore, il popolaccio possa avere la cattiva idea di diventare padrone del proprio destino»(42). In realtà la Costituzione americana offre un chiaro esempio dell’elevato grado di coscienza antipopolare e antidemocratica dei suoi creatori. Ingenuità? Opportunismo? Tecnica di mercato? O forse l’anarchico Chomsky dà una lezione di marxismo al bolscevico Antonio Negri?
Un’altra delle fantasie neoliberali sostenute dagli autori di Impero, è che lo Stato-nazione starebbe per estinguersi.
È curioso che Negri, grande ammiratore di Lenin e inoltre vecchio stratega della conquista del potere statale, se ne esca ora con un simile sproposito(43).
Fra le poche proposte pratiche di Impero, vi sono le due campagne per il salario sociale (rifrittura del vecchio “salario garantito” di Potere Operaio) e la cittadinanza globale, vale a dire, salario e documenti garantiti a tutti, indipendentemente dalla nazionalità, dalla classe e dalla condizione sociale. Senza discutere il senso e l’opportunità di tali rivendicazioni, segnalo un paradosso: se lo Stato-nazione non esiste più, a chi si rivolgono Negri e Hardt? All’Onu?
In realtà, il processo evolutivo dello Stato-nazione è assai contraddittorio. Da un lato, l’ondata di privatizzazioni ne ha intaccato la capacità distributiva (e la credibilità), distruggendo gli spazi pubblici; dall’altro, incrementando la conflittualità, ne ha aumentato in progressione geometrica le funzioni repressive.
Cosicché, quello che abbiamo oggi, non è lo Stato alleggerito di cui parlano i neoliberali avvallati da Negri, ma una sorta di keynesismo di guerra (warfare economics) che divora risorse pubbliche togliendo entrate ai poveri per darle ai ricchi, in una scala sociale prima sconosciuta(44).
Per questo motivo è sempre vivo lo spettro di una guerra imminente o contro gli Stati “canaglia” (Irak, Corea, Libia, ecc.), oppure contro nemici interni, e perfino contro un solo individuo, come nel caso di Bin Laden. E sembra che ne avremo per molto: almeno trent’anni secondo dichiarazioni della Casa Bianca.
La conclusione è che, sia in economia che in politica, la funzione dello Stato-nazione continua a essere imprescindibile per il capitalismo: questo non potrebbe sopravvivere neppure una settimana se quello cessasse di fornire non solo garanzie politiche e militari, ma anche consistenti risorse economiche.
Il caso degli Stati Uniti è significativo: basti pensare agli astronomici sussidi agricoli o alle misure di appoggio al settore del trasporto aereo dopo l’11 settembre. La pratica dei sussidi agricoli, diciamolo pure, è stata condannata come illegale persino dall’ Operation and Maintenance Center (OMC), senza che i dirigenti statunitensi siano neppure arrossiti! È superfluo dire che l’appetito di sovvenzioni di questa classe non dà segni di calo.
E che dire dell’imperialismo? Come sempre, la riflessione di Negri parte da inquietudini legittime. Sono d’accordo sulla necessità di rivedere le vecchie teorie.
Il punto di partenza dovrebbe essere riconoscere che tutti gli Stati sono potenzialmente imperialisti – e che lo sono sempre stati – sebbene i rapporti di forza fra loro cambino di continuo(45).
Subito dopo è necessario ammettere che, oggi, nessuno Stato si trova nella condizione di competere con gli U.S.A. da nessun punto di vista: militare, economico, politico o culturale. Questo fa sì che venga meno una delle principali caratteristiche dell’imperialismo classico, così come lo analizzava, per esempio, Rosa Luxemburg (o lo stesso Lenin), ossia, l’esistenza di un certo livello di competizione per la conquista di mercati, territori o materie prime(46). Dopo la caduta del blocco sovietico, nessuno Stato, o regione politica, è riuscita a contrastare il potere degli U.S.A.
Come possiamo definire questa nuova realtà? Impero? Imperialismo? Il nome non ha molta importanza, sempre che sia chiaro che un solo paese, gli U.S.A., sta imponendo un sistema planetario di Stati vassalli, organizzato in sovranità limitate, che ironicamente assomiglia molto a quello che, per decenni, l’Unione Sovietica impose ai suoi satelliti(47).
Tale sistema presuppone Stati deboli all’esterno – ovvero malleabili e sensibili alle necessità degli USA.-, ma forti all’interno, ossia, repressivi e capaci di imporre quelle stesse necessità ai propri subordinati. Negri ha in parte ragione quando critica i difensori della sovranità, ma soltanto nel senso in cui la sovranità non è, né può essere, un valore in se stesso. Come precisa Chomsky, la sovranità può essere un valore unicamente nella misura in cui accresce la libertà e i diritti degli esseri umani(48).
Il nuovo ordine fa proprio questo: porre fine ovunque ai diritti acquisiti in decenni di lotte sociali. L’intento, ovviamente, continua a generare attriti e disagi, in particolare – anche se non soltanto – fra le “classi pericolose” di un mondo sempre più afflitto dalla povertà, dall’insicurezza e dai problemi ambientali.
Gli zapatisti del Chiapas, i piqueteros argentini, gli indigeni di Ecuador e Bolivia, così come i movimenti sociali in Brasile e Venezuela, mostrano gravi sintomi di crisi nel retro-cortile stesso dell’impero. In Europa il vento di Genova 2001 non ha ancora smesso di soffiare e si moltiplicano le manifestazioni contro la guerra.
Le rotture, quando ci sono, nascono come uno ya basta generalizzato, e non grazie ai partiti politici i quali, salvo rare eccezioni, accettano l’ordine costituito anche se sono di sinistra.
Siamo dunque molto lontani dall’impero decentralizzato e deterritorializzato, che descrivono i nostri autori. Gli eventi dell’11 settembre e la successiva politica dell’amministrazione Bush dimostrano una volta ancora, il fallimento del loro modello teorico: la reazione americana è quella di uno stato imperialista che cerca, in tutti i modi, di adattare il pianeta ai propri interessi.
Bisogna aggiungere che questi rigurgiti “sovranisti” degli Stati Uniti hanno messo a disagio il nostro autore. Questi, dapprima ha interpretato la caduta delle torri gemelle come un affare interno all’impero, qualcosa che “gli appartiene”, in seguito si è corretto sostenendo che saremmo di fronte a una reazione imperialista contro l’impero (!)(49).
Hardt ha confermato la seconda versione in un recente articolo in cui esorta «le élites globali [ad agire] nel proprio interesse come rete imperiale decentrata, arrestando così il processo di trasformazione degli Stati Uniti in un “potere imperialista secondo il vecchio modello europeo”»(50). Strano appello di questi profeti della moltitudine.
La realtà è ben diversa. «Oggi – sostiene lo storico post comunista Eric Hobsbawm – così come durante tutto il XX secolo, assistiamo ad una totale assenza di un’autorità globale effettiva, capace di controllare e risolvere contese armate. La globalizzazione si è fatta strada in quasi tutti gli ambiti – economico, tecnologico, culturale e anche linguistico -, eccetto che in uno: quello politico-militare. Gli Stati territoriali continuano a essere le uniche vere autorità»(51).
Proclamare, in maniera trionfalista, la fine dello Stato non aiuta certo ad eliminarlo. È una cattiva teoria, perché non è utile all’azione. Può sembrare una banalità, ma è necessario riaffermarla quando veniamo a sapere che i compagni della rivista «Rebeldía» si sentono parte di «una sinistra, non disposta ormai a perdere tempo nella disputa di un potere nazionale che non esiste più»(52).
Andiamo! Una cosa è dire, come fa John Holloway - e prima di lui gli zapatisti, e molto prima i libertari di tutte le tendenze -, che non si può cambiare il mondo “prendendo” il potere statale, e un’altra, ben diversa, è dichiarare che il potere nazionale non esiste più(53). Chi invia i carri armati in Chiapas? Chi arma i paramilitari? Chi sta dietro al Plan Puebla Panamá?(54) Il famoso apparato decentralizzato e deterritorializzato? No! Un potere nazionale con nome e cognome: lo Stato messicano (sostenuto chiaramente dal capitalismo globale).
Gli Stati-nazione; sono i nostri nemici e anche nostri interlocutori. Non possiamo far finta che non esistano. E non possiamo abbassare la guardia: dobbiamo fare pressione su di loro, provocarli, incalzarli. Talora dovremo scendere a compromessi e lo faremo con autonomia. Gli zapatisti hanno dimostrato che ciò è possibile. E sebbene i risultati non siano soddisfacenti, essi, a differenza di altri, hanno conservato la dignità.
Il nostro cammino, il cammino dei movimenti per l’umanità e contro il neoliberalismo, non è facile. Oltre che di radicalità teorica e pratica, abbiamo bisogno di duttilità, pazienza e di una buona dose di pragmatismo.
Occorre ripeterlo una volta di più? Il capitalismo e lo Stato-nazione, i due mostri creati dall’Occidente, sono arrivati insieme e stanno per scomparire insieme. E, se non sapremo seppellirli in un mare di risate, rimarranno con noi ancora per molto, come il dinosauro del racconto di Tito Monterroso.


Ottobre 2002 – giugno 2003.


* La prima parte di questo lavoro è apparsa sul n.4 di Collegamenti Wobbly del luglio-dicembre 2003.


Note:
(1)  Cfr. A.Negri, Du retour. Abécedaire biopolitique, Calmann-Levy, Paris 2002. Consultare anche l’intervista del 13 luglio 2000 nel CD-rom allegato a AA. VV., Futuro anteriore. Dai ‘Quaderni Rossi’ ai movimenti globali: ricchezze e limiti dell’operaismo italiano, Derive-Approdi, Roma 2002.
(2) A.Negri, Crisi dello stato-piano. Comunismo e organizzazione rivoluzionaria, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 57.  
(3) Uno dei raggruppamenti più conosciuti di quest’area era il “Collettivo di via dei Volsci”, a Roma, che presto avrebbe fondato Radio Onda Rossa, un’emittente del movimento che esiste ancora. Un altro era “A/traverso”, gruppo guidato a Bologna da Franco Berardi, ex-militante di Potere Operaio. “A/traverso” fondò l’emittente Radio Alice, che avrebbe avuto un ruolo di spicco nella rivolta del marzo 1977.
(4) Negri ha sviluppato il tema dell’autovalorizzazione in Il dominio e il sabotaggio. Sul metodo marxista della trasformazione sociale, Feltrinelli, Milano 1978. Si veda anche M.Hardt – A.Negri, Empire, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 2000, tr. it., Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, a cura di A. Pandolfi, Rizzoli, Milano 20022, p. 377 (309) [fra parentesi le pagine dell’edizione inglese].
(5) Cfr. A.Negri, Proletari e Stato. Per una discussione su autonomia operaia e compromesso storico, Feltrinelli, Milano 1976, p. 30. La questione dello scioglimento della società civile nello Stato riappare in M.Hardt – A.Negri, Impero, cit., pp. 40; 306-307; 313. (6)A.Heller, La teoria dei bisogni di Marx, a cura di P.A.Rovatti, Feltrinelli, Milano 1977, p. 26.
(7) A.Negri, Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui ‘Grundrisse’, Feltrinelli, Milano 1979, p. 194. 
(8) A.Negri, Il dominio e il sabotaggio, cit., pp. 61; 70.
(9) Negli anni settanta, in Italia, vi erano decine, e forse centinaia, di gruppi che praticavano la lotta armata. Oltre alle Brigate Rosse, si possono menzionare i Nuclei Armati Proletari (NAP), Prima Linea, Mai più senza fucile, Azione Rivoluzionaria e Proletari Armati per il Comunismo.
(10) È importante ricordare che non è mai esistito in Italia un gruppo chiamato “Autonomia Operaia”. Negri dirigeva una delle molte organizzazioni che appartenevano all’area dell’autonomia operaia.
(11) Il bilancio della lotta armata è tragico: fra il 1969 e il 1989, ben 4087 militanti furono processati per atti collegati al tentativo di sovvertire l’ordine costituzionale. Di essi, 224 sono ancora in carcere e 130 beneficiano di un regime di semilibertà. Altri 190 sono profughi e un centinaio si trova rifugiato in Francia con uno status non ufficiale. La violenza politica interna causò 380 morti (128 attribuibili alla sinistra, un centinaio alla destra e gli altri alle forze di repressione) e circa 2000 feriti. Secondo dati ufficiali, l’area sovversiva contava più o meno 100.000 persone. Si veda AA. VV., Progetto Memoria. La mappa perduta, Edizioni Sensibili alle foglie, Roma 1994 e C.Bermani, Il nemico interno. Guerra civile e lotta di classe in Italia (1943-1976), Odradek, Roma 1997. (12)Cfr. «Rosso», maggio 1978. La rivista si pubblicava a Milano ed era l’organo dei Gruppi Gramsci.
(13)Dopo due anni di prigione, Negri uscì grazie all’elezione come deputato nelle liste del Partito Radicale. Nel 1983, se ne andò in esilio in Francia. 
(14) Negli anni ottanta e novanta l’ipotesi di un operaismo libertario fu mantenuta in vita nella riflessione di alcuni periodici come «Primo Maggio», «Collegamenti-Wobbly» e «Vis-à-Vis».
(15) Si veda, per esempio, A.Negri, Trentatré lezioni su Lenin, Manifesto Libri, Roma 2004 (l’originale è del 1972-73). Nell’introduzione, scritta nel settembre 2003, l’autore accenna alla sua “relativa ingenuità” di allora, presentandosi adesso come un critico della tradizione leninista.
(16) Cfr. M.Hardt – A.Negri, Impero, cit., pp. 131; 139.
(17) A.Negri, Marx oltre Marx, cit., p. 55.
(18) Cfr. ibidem, pp. 24-25.
(19) Cfr. A.Negri, Spinoza, Derive-Approdi, Roma 1998, p. 394. Questa edizione comprende: L’anomalia Selvaggia (1980), Spinoza sovversivo (1985) e Democrazia e eternità in Spinoza (1994), i principali testi spinoziani di Negri.
(20)K.Korsch, Karl Marx, a cura di G.Bedeschi, tr. it. di A. Illuminati, Laterza, Bari 1969, p. 101.
(21) Cfr. A.Negri, Spinoza, cit., p. 35.
(22) Ho cercato, invano, una spiegazione soddisfacente del concetto di “moltitudine” nell’opera di Negri. Sembra che il compito di chiarirlo sia spettato a un suo allievo. Si veda P.Virno, Grammatica della moltitudine. Per un’analisi delle forme di vita contemporanee, Derive-Approdi, Roma 2002. 
(23) Cfr. N.Bobbio - M.Bovero, Sociedad y Estado en la filosofía moderna. El modelo iusnaturalista y el modelo hegeliano-marxiano, FCE, México 1994, p. 94.
(24) Cfr. M.Hardt - A.Negri, Il lavoro di Dioniso. Per la critica dello stato post-moderno, Manifesto Libri, Roma 1995, p. 27.
(25) Cfr. M.Hardt – A.Negri, Impero, cit., p. 107.
(26) L.Goytisolo, «El País», 7 giugno 2003.
(27) Si veda M.Lazzarato - A.Negri, Lavoro immateriale e soggettività, Derive-Approdi, Roma 1992, n.0 e cfr. M.Hardt - A.Negri, Impero, cit., pp. 271-275 (290-294).
(28)K.Marx, Lineamenti fondamentali della critica della economia politica (Grundrisse) 1857-58, a cura di E. Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1983, p. 400 (592) [fra parentesi indico le pagine dell’edizione tedesca].
(29) Ibidem, p. 401 (593).
(30) Ibidem, p. 403 (504).
(31)Cfr. M.Turchetto, Dall’operaio massa all’imprenditorialità comune. La sconcertante parabola dell’operaismo italiano, nel sito citato: http://www.intermarx.com/.
(32) M.Hardt – A.Negri, Impero, cit., p. 275 (294).
(33) A.Negri, Lettera dal Carcere di Rebibbia, Roma 10/9/97, messo in rete da Tactical Media Crew [lista ecn.org].
(34) In Il lavoro di Dioniso, cit., pp. 29-30, Negri confessa di aver accettato la teoria di Mario Tronti sull’autonomia del politico. Invece in Impero ci fa sapere che «l’autonomia della politica è arrivata alla fine» [cfr. M.Hardt – A.Negri, Impero, cit., p. 288 (307)].
(35)  Cfr. M.Hardt – A.Negri, Impero, cit., pp. 381-382 (413).
(36) Le prime critiche alla figura del militante risalgono al 1966 e si devono alla Internationale situationniste. Si veda De la misère en milieu étudiant, tradotto in circa venti lingue. 
(37) Si veda Discursos zapatistas, manifestazione svoltasi a San Cristóbal, Chiapas, il primo gennaio 2003, http://chiapas.indymedia.org.
(38) La constatazione è di Maria Turchetto in L’impero colpisce ancora, in http://www.intermarx.com.
(39) M.Hardt – A.Negri, Impero, cit., p. 365. 
(40) Si veda H.Arendt, On revolution, Vicking Press, 1996, soprattutto il capitolo III. Negri aveva già fatto l’apologia della costituzione americana in Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, SugarCo, Milano 1992 (riedizione: Manifesto libri, Roma 2002). 
(41) Citato in A.A.Boron, Imperio. Imperialismo. Una lectura crítica de Michael Hardt y Antonio Negri, Clacso, Buenos Aires, maggio 2002, p. 110 [tr. mia, N.d.T.]. Il lettore interessato ad approfondire il tema può consultare i primi capitoli di H.Zinn, A people’s history of of the United States. 1492 – Present, Harper Collins Publishers, New York 1999.
(42) Nel tentativo di contentare Dio e il diavolo, Negri formula la domanda: «come porre il leninismo dentro questa nuova condizione della forza lavoro? [...] Quale produzione di soggettività [sarà necessaria] per la presa del potere, oggi, da parte del proletariato immateriale?». E risponde: «[...] Lenin andava [...] riproposto “oltre Lenin” [...], [verso] “la democrazia assoluta” [...] della moltitudine».
(43) Cfr. A.Negri, Che farne del Che fare? Ovvero il corpo del General Intellect, in Posse. Politica. Filosofia. Moltitudini, Manifesto Libri Edizioni, Roma, maggio 2002, pp. 123-133; qui citato dal sito:
http://www.rekombinant.org/fuga/modules.php.  
(44) Si veda al proposito il pacchetto di Bush (gennaio 2003) in aiuto degli speculatori finanziari, che prevede una riduzione di 300 miliardi di dollari a titolo di imposte sui dividendi azionari. 
(45)Uno degli errori di Lenin fu credere che l’imperialismo fosse semplicemente una “tappa” del capitalismo, quando in realtà era inscritto nella sua logica sin dall’inizio.  
(46)Cfr.S.Cappello, L’imperialismo da Disraeli a Bush, in «Collegamenti-Wobbly» No. 2, nuova serie, Pisa, Italia.  
(47) Cfr. T.Pulsinelli, Sobre el señor y los vasallos. Estados Unidos en el atardecer del neoliberalismo, in http://www.lafogata.org/02inter/8international/sobre.htm.  
(48) Si veda N.Chomsky, Socioeconomic Sovereignity, conferenza tenuta ad Albuquerque il 26 febbraio 2000 (contenuta in Rogue States, Pluto Press, London 2000). Al volo, segnalo che questo intenso lavoro di una ventina di cartelle dice sull’impero più di Negri e Hardt nel loro voluminoso libro.  
(49) Cfr. A.Negri, Du retour, cit., pp. 185; 209; intervista a «Il Manifesto», 14 settembre 2002. 
(50) M.Hardt, Folly of our masters of the universe. Global elites must realize that US imperialism isn’t in their interest, in «The Guardian», 18 dicembre 2002.  
(51) E.Hobsbawm, La guerra y la paz en el siglo XX, in «La Jornada», México, 24 marzo 2002. 
(52)«Rebeldía», editoriale del No. 1, México, D. F., novembre 2002.  
(53) Cfr. J.Holloway, Cambiar el mundo sin tomar el poder, Universidad Autónoma de Puebla, Puebla, 2002. In evidente mala fede, molti commentatori hanno voluto mettere Holloway e Negri nello stesso sacco.  
(54) Questi esempi riguardano il Messico perché la versione originale del testo è stata pubblicata in quel paese (Ndt)

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