Alcune tesi interpretative sul Drago
di Riccardo D'Este
Uno
Ogni discorso intorno alla droga che non parta dai suoi presupposti fondamentali è,
se va bene, fuorviante e mistificatorio e, sennò, direttamente
collusivo con la società presente che la produce e riproduce. I presupposti
essenziali sono i seguenti:
* la droga è una merce al più alto livello di concentrazione
economica e spettacolare;
* la droga, nel suo consumo e nella sua diffusione, nasce da bisogni
individuali e collettivi frustrati, irrealizzati e costretti in una one
way, in una strada a senso unico;
* la droga ed i suoi fruitori vengono usati per il controllo sociale allargato;
* la droga può provocare gravi malattie (come il carcere, la comunità terapeutica,
l'aids eccetera) non tanto per la sua qualità intrinseca come sostanza,
ma per la voluta interdizione sociale di cui il proibizionismo è l'aspetto
più evidente;
* per questi stessi motivi, la droga produce criminalità, devianza,
demenza ed ideologia, fenomeni che da sé sola non potrebbe produrre
o produrrebbe in misura assai limitata;
* la droga, infine, assume il suo completo senso neomoderno, fronte alla
glaciazione sociale ed alla scomparsa di qualsiasi ipotesi credibile di progresso
(produttivo, intellettuale, etico eccetera), solo se riveste i panni
del Drago, figura mitica ricorrente ma che trova la sua massima angoscia
descrittiva nei troppo popolati deserti contemporanei.
Due
Prima di affrontare partitamente i sei presupposti fondamentali enunciati
sopra, sono necessarie alcune chiarificazioni metodologiche, di merito ed
attinenti alla politica (ovviamente massmediatizzata).
Per quanto concerne il metodo, assumiamo come droga la definizione
corrente, il concetto di sostanza stupefacente, facendolo solo per
comodità analitica e non certo per adesione ideologica. Senza volerci
dilungare su quanto abbiamo già scritto in altre occasioni, ci
pare immediatamente palese che l'uso di altre sostanze, a partire
dall'automobile (che così finalmente smette di sembrare forma
per tornare a ciò che non ha mai smesso di essere: sostanza), all'uso
di condizioni sociali precostituite, dalla famiglia alla discoteca, possa
rientrare a giusto titolo nell'uso di droghe, talora pesanti, spesso pesantissime.
Se, del tutto provvisoriamente ed in attesa di
un adeguato manuale per districarci tra le droghe nella società contemporanea,
intesa anch'essa come drogata e drogogena nonché neomoderna,
accettiamo l'equivalenza droga=sostanza "stupefacente" (quando
evidentemente la stupefazione non è più materia dei nostri
desertici giorni) soltanto perché, per l'appunto, è un
oggetto del contendere; su questo, in particolare, si esercitano e sviluppano
interessi, ideologie, repressioni di Stato e riproduzioni di capitale.
Accettiamo, quindi, di scendere al livello della falsificazione per
colpire duramente il falso, al livello del nemico per sostanziare vieppiù la
nostra inimicizia radicale verso l'esistente.
Riguardo al merito, va subito affermato che la "sostanza stupefacente" (droga)
determina assai poco la figura sociale del "drogato". Vi sono due
sovraimpressioni ideologiche che è tempo di svelare e vedremo
di farlo con esempi. Se il bevitore di Campari o di Glen Grant non viene
immediatamente definito come alcolista, solo per il fatto di assumere quelle
sostanze (si parla di alcolista o alcolizzato solo ad alti livelli di dipendenza),
se i fumatori non vengono usualmente chiamati tabagisti, se non nel linguaggio
sedicente scientifico ed in casi di elevata intossicazione, se al termine "automobilista" o "lavoratore" o "padre" non
viene quasi mai data una connotazione negativa, ed anzi spesso ne ha una
positiva, mentre sono evidenti l'assuefazione ed i danni che questi ruoli
reiterati producono, il frequentatore di sostanze cosiddette stupefacenti è per
ciò stesso un "drogato". E ciò anche nel caso di
consumatori rapsodici o nel caso di consumatori di sostanze a bassissimo
o nullo rischio di assuefazione, ma comunque indicate come "stupefacenti".
Il linguaggio svela l'ideologia di cui si nutre, così come l'ideologia
denuncia palesemente i suoi linguaggi. Queste merci, dunque, hanno una
sovraimpressione: sono droghe e pertanto drogano. E la valenza sedicente
morale vi è sempre sottesa.
La seconda sovraimpressione è ancora più sottile: nei
sostrati del concetto di drogato vengono inserite immediatamente delle connotazioni
repulsive che consentono la repressione o, del pari, il tentativo di
recupero. «Rapina nel posto x: erano probabilmente drogati».
La rapina, moralmente riprovata da una società normalmente rapinatrice,
in questi casi viene in qualche modo "spiegata" dalla presunta
natura dei responsabili. Lo stesso direttore generale degli Istituti
penitenziari, Niccolò Amato, in una recentissima intervista al
giornale torinese "La Stampa" sostiene che i comportamenti delittuosi
dei drogati sono essenzialmente di due tipi: quelli messi in opera per
procurarsi la sostanza e quelli compiuti sotto l'effetto delle sostanze
medesime. Se il primo aspetto (assolutamente vero) dovrebbe, da sé solo,
mettere in crisi tutte le ipotesi proibizioniste, il secondo (sostanzialmente
falso o comunque irrilevante) tende invece a ribadirle. Se un individuo,
sotto l'effetto di sostanze definite stupefacenti, tende a commettere
dei delitti, il compito della società è quello di difendersi
e quindi di proibire queste sostanze criminogene. L'ironia è sin
troppo facile. Prendiamo l'automobile come esempio. Molti possono commettere
reati per potersi permettere un'automobile, specie se di lusso eccetera (vero)
e molti li possono commettere sotto l'effetto dell'automobile medesima (vero),
se per questi si intendono le varie stragi automobilistiche. Ma nessuno
pensa di mettere sotto accusa, neppure sul terreno linguistico, l' automobilista, cioè l'automobilista
in sé e per sé.
La droga, quindi, esiste non solo come merce materiale ma anche come merce
immateriale: fonte di rappresentazione collettiva e di collettiva rimozione
di ciò che vi sta alla base.
Va da sé che il drogato, inteso come fruitore occasionale o stabile
di certe merci, le sostanze stupefacenti, esiste e possiede delle sue
caratteristiche particolari. Ma non esiste il drogato come entità a
sé stante, se non nelle menti ammalate degli specialisti; dopo
la scomposizione delle classi socio logicamente intese, solo gli imbecilli
possono approdare all 'ideologia di queste nuove "classi" del
tutto surrettizie. E poco importa che uno sia pro, l'altro contro e l'altro
ancora agnostico. Il drogato è una figura tipologica e topologica
volutamente astratta dalle condizioni materiali che vi sono sottese e dalla
vasta ricchezza dei comportamenti soggettivi. Né le altre definizioni,
come tossicomane, tossicodipendente eccetera, valgono molto di più,
se non nelle classificazioni sociologiche, criminologiche o mediche.
Evidentemente, al fine dell' analisi, si può tipicizzare, e dunque
fissare, un dato comportamento, ma questa tipicizzazione è ancora
una volta riduttiva rispetto alla realtà, usa un procedimento
che si vuole scientifico ma che in realtà è solo metodologia
di metodologia ed avanti così. La vita, anche disperata e "deviata",
sfugge alle statistiche, quanto i cultori delle statistiche sfuggono alla
vita.
Per quanto attiene alla politica, è evidentissimo che su un
simile problema, reale sulla pelle dei soggetti, si giocano importanti ruoli
e sostanziosi poteri. Lo dimostra lo stesso modificarsi delle leggi, dato
che le leggi sono un' espressione della politica,
dei suoi giochi e dei poteri che sono in ballo.
Limitiamoci all'Italia. Nel 1954 gli USA, per mantenere meglio il controllo
statalmafioso di una merce la cui domanda era in ascesa, imposero una legge
fortemente repressiva: per valorizzare la merce bisognava ricorrere
alla proibizione. Fu la spinta per la creazione di valore aggiunto, sebbene
in Europa il problema allora non si ponesse se non a livelli individuali
e limitatissimi. Nel 1975, quando la merce circolava già con una certa
abbondanza ma senza essersi ancora del tutto affermata sul mercato, sotto
spinte sedicenti liberali (in realtà volte al consolidamento ed all'allargamento
del mercato) l'Italia adottò una legge che si pretendeva permissiva,
anche se la condanna dell 'uso di droghe doveva rimanere, e non solo in campo
etico, ma "mitigata" dal concetto di "modica quantità".
Dopo lunghi colloqui americani con Rudolph Giuliani, e sotto la spinta del
mercato internazionale, Bettino Craxi nel 1988 si impuntò per far
passare una legge fortemente sanzionatoria anche nei confronti dei consumatori,
lasciando un ampio margine discrezionale e valorizzando le comunità terapeutiche
(merce sociale ed ideologica). La ottenne nel 1990 ed è la legge
che va sotto il nome di Vassalli-Russo Jervolino.
In questi ultimissimi tempi, sembra esservi un 'ulteriore "sterzata",
assai pubblicizzata massmediaticamente, che dovrebbe correggere gli
aspetti più ideologici e repressivi della legge oggi in vigore. Il
mercato va stabilizzato ed è in questa chiave che va letta la proposta
Amato-Pannella.
Da questo indecoroso balletto scaturiscono anche indicazioni politiche.
La "droga" viene usata come cavallo di battaglia per sostenere
questa o quella alleanza, per creare un'immagine del ceto politico. Se nel
1988 Craxi e chi lo sosteneva voleva mostrarsi come partito d'ordine, oggi,
dopo il progressivo sfarinamento dei partiti, i suoi successori, fronte
al nuovo partito d'ordine leghista, lamalfiano, neofascista eccetera,
cercano di rivestire spettacolisticamente i panni dei difensori delle libertà.
I repressori ed i recuperatori hanno in comune la difesa di questa società,
la sua perpetuazione. E questa società deve essere terapeutica rispetto
ad ogni sommovimento, individuale o collettivo che sia. Non per caso
l'arco delle scelte possibili di comunità è vastissimo e va,
per l'appunto, dai muscolosi repressori ai pallidi recuperatori: quello
che importa è che la terapia e la cosiddetta risocializzazzione
vengano imposte. Le leggi sono solo il suggello di tale percorso di autonomizzazione
di una società che deve amministrarsi, essendo giunta al capolinea
nella produzione di idee, di innovazioni materiali, di progettualità.
Con la progressiva caduta dell'economia, la politica assume un ruolo centrale
nell'amministrazione, determinando a sua volta una nuova economia, quella
fondata sull'imposizione autoritativa di valore e di mercato. Il senso delle
leggi va interpretato in questi termini.
Tre
Il primo dei presupposti essenziali esposti all'inizio è che
la droga, come merce, rappresenta uno dei più alti livelli di concentrazione
economica e spettacolare che si conoscano nella società neomoderna.
L'ossessivo processo di valorizzazione è sotto gli occhi di tutti
e possiamo fare anche i conti della cuoca. Nel cosiddetto Stato degli
Shan, tra Birmania, Laos e Thailandia, retto dal famoso Khun Sa (al
proposito si veda Intorno al Drago, Nautilus, 1990), un grammo di
eroina può costare,
se la quantità acquistata è considerevole, non più del
corrispettivo di 5.000 lire italiane, con ciò comprendendo anche la
tangente che si deve versare per entrare in quel territorio. In Italia,
a livello medio, viene a costare al consumatore circa 150.000 lire, dopo
vari passaggi e vari tagli. Vogliamo porre, per ipotesi, che il
costo dei passaggi vada a pari con il guadagno dovuto ai tagli? (E ciò non è comunque
vero perché si sa, a dispetto di giornalisti e sedicenti esperti,
che un chilo di eroina in Italia, e pura sopra il 75%, lo si compra con 50
milioni circa, sicché il grammo viene a costare 50.000 lire. E' altresì risaputo
che la purezza, al dettaglio, difficilmente supera il 10%, di modo che i
conti sono presto fatti. Da un grammo, che costava 50, ne vengono ricavati
circa 7.7 per 150.000 che fa un milione e cinquanta, il che significa che
in ogni grammo c'è un valore addizionale di un milione.) Ma ritorniamo
pure all'ipotesi iniziale, spropositata per difetto. Quale merce si autovalorizza
di 30 volte, pagati lautamente tutti i costi possibili? Nessuna, ideologia
e spettacolo a parte, ma sarebbe un discorso diverso. (Per la cocaina
la valutazione è analoga, se non maggiore. L 'hashish, il "parente
povero" delle droghe, ha un'autovalorizzazione, tutte le spese pagate, solo di
dieci volte!) Allora, in modo manifesto, la droga è una merce eccellente,
cioè ad altissimo tasso di autovalorizzazione. Naturalmente a
causa del proibizionismo che determina e sostiene il mercato. Tutto
ciò dal punto di vista economico, cioè della cuoca.
Ma va considerato tutto l'indotto e qui si entra in un terreno che fluttua
tra l'economico e lo spettacolare e che fa assumere una vigenza di valore
assai superiore alla merce. Sarebbe futile qui calcolare quanti mercanti,
quanti ricettatori, quanti poliziotti, quanti carabinieri, quante
guardie di finanza, quanti secondini, quanti magistrati, quanti avvocati,
quanti giornalisti eccetera ricavano la loro paga per il lesso dall'esistenza
della droga e del drogato. E medici e psicologi e psichiatri. Nonché,
ovviamente, i professionisti del supposto recupero della materia prima, il drogato.
Si giunge così, quasi scivolando, all'alto tasso di concentrazione
spettacolare della merce droga. La droga non potrebbe avere il suo valore
economico senza possedere uno specifico valore spettacolare, dato da un miscuglio
di esibizione e di presunto rischio, da un 'immagine della trasgressività e
dalla realtà repressiva e recuperatoria. Chi vende droga ha bisogno
di chi vende recupero (comunità) e viceversa. Lo Stato, vigile, regola
il traffico. Chi assume sostanze stupefacenti deve credere nella
droga, poi odiarla, poi sperare di "recuperarsi socialmente" e
via così, almeno in buona parte dei casi. Senza l'ideologia, le sostanze
cosiddette stupefacenti sarebbero delle merci povere; con lo spettacolo
diventano merci eccellenti, inferiori solo al danaro. (Si pensi
soltanto al cosiddetto costo del danaro, del tutto fittizio e sovradeterminato.)
Eccoci: questa merce che si valorizza in progress e che per
ciò ha bisogno di trafficanti e poliziotti, ma anche di giuristi
e di mafiosi, di giornalisti e di politici, di Stato, è divenuta
la merce per eccellenza della società neo moderna, quella in cui il
valore d'uso è quasi irrintracciabile nella frenesia insensata del
valore di scambio.
Eccoci: la fine storica del progresso ha determinato il suo mostro
spettacolare: la riproduzione drogata e drogogena, supportata dalla
drogorepressione.
Quattro
La gamma dei bisogni umani a cui le droghe dovrebbero rispondere è vastissima.
Le sostanze euforizzanti o calmanti o che alterano comunque gli stati di
coscienza, cioè le cosiddette droghe, sono essenzialmente piacevoli,
seppur in misura diversa ed a seconda della sensibilità di ciascuno,
come tutti sappiamo. Infatti, neppure la caricatura di un Muccioli,
già di per sé caricaturale rispetto all'intelligenza, potrebbe
sostenere che la gente assume sostanze stupefacenti solo per
farsi del male o per culto del Male. Le pulsioni tanatiche sicuramente esistono
ed hanno il loro peso specifico nel processo di assunzione di droghe,
ma sono assai più complesse, stratificate, profonde e soprattutto
coinvolgono molte condotte umane anche al di fuori della droga.
Bisogna affermare in tutta serenità intellettuale che le droghe danno,
o possono dare, degli effettivi piaceri, oltre alla simulazione dei medesimi.
E' pur vero che la coazione a ripetere, insieme all' ossessiva ricerca del
danaro necessario per procurarsi la sostanza
e della rete di rapporti indispensabili per stare nel "giro" (e
tutto ciò è essenzialmente collegato alla tossicodipendenza), è stressante
e può diventare odiosa al punto da cancellare i piaceri iniziali o momentanei.
Ma anche qui bisogna essere precisi, senza veli ideologici o moralistici.
Spesso proprio questa iterazione fa parte dei "piaceri" della tossicodipendenza
e peraltro già quasi quarant'anni fa William S. Burroughs, scrittore
per certi altri versi insopportabile e neoavanguardista, affermava che
la migliore sostanza è quella che dà più rapidamente
assuefazione, proprio perché spesso il tossicodipendente cerca la
dipendenza, la coazione a ripetere, vale a dire qualcosa che gli invada l'esistenza
e ad essa dia un senso, ancorché stravolto. (Nella fattispecie, Burroughs
esaltava, non senza evidenti venature di ironia, la straordinaria capacità di
gregarizzazione dei tedeschi, inventori, dopo l'eroina Bayer, di un'eroina
sintetica conosciuta come Eukodol e commercializzata in Italia come Eucodale,
la cui capacità assuefattiva è decisamente superiore a
quella dell' eroina "naturale".)
La questione è più semplice di quel che può apparire
a prima vista. A chi va tutti i giorni, iterativamente, a scuola o al
lavoro ed intrattiene, nella vita corrente e famigliare, rapporti che si
riproducono indefinitamente può anche sembrare strano o malato
che qualcuno cerchi l' iterazione nella e della droga, ciò che va
sotto i nomi di "schiavitù", di "tunnel" eccetera.
In realtà è proprio questo che molti drogati cercano: una normalità nell'
(apparente) anormalità, una costanza nella (apparente) diversità.
Il consumo di droghe che procurano assuefazione può riempire le giornate,
può riempire intere vite, sinché morte non li divida. Nell'evidente
impresentabilità ed insopportabilità della sopravvivenza coatta
(scuola, lavoro, famiglia, soldi, consumi eccetera) la droga può sembrare
un' avventura, un essere o trovarsi al di là di quei recinti. A cui,
ovviamente, va aggiunto il piacere diretto che la sostanza può procurare.
In una certa fase della sua evoluzione tossicomane, non vi è persona
più attiva del consumatore di droghe ad alto tasso di assuefazione
fisica o psichica (in particolare gli oppiacei o i derivati della coca):
cerca e trova continuamente soldi, cerca e trova continuamente chi gli
fornisce l'ambita sostanza, cerca e trova con ogni mezzo.
In una società che colonizza le esistenze di ciascuno può avvenire
il paradosso: la schiavitù volontaria. L'horror vacui della
sopravvivenza spinge a rifugiarsi in ogni apparente eccesso o, viceversa,
in una normalità caricaturale.
La droga ha questo grande potere attrattivo: oltre ad offrire un qualche
piacere, impone un ciclo di attività onnivore ed onnipresenti.
In assenza di vita reale, il massimo grado di simulazione è ciò che
compensa, o sembra compensare, la mutilazione e l'assenza. In una
società in cui il consumo è tutto, naturalmente non può che
trionfare il consumo più parossistico, specie se è eterodiretto
e consente un alto tasso di profitto nell' amministrazione e per essa.
Cinque
Non cadremo certo anche noi nell'iperbole dell'ultrasinistra minoritaria
per cui la diffusione di droghe "pesanti" sarebbe stata voluta
dai "padroni" per contrastare la sovversione sociale, inquinando
le menti e le braccia migliori della nostra generazione. Ben labile sarebbe
stata questa intenzionalità sovversiva se fosse bastata una manciata
di polveri per ridurla in polvere. Il movimento è stato esattamente
opposto: quando il "sogno di una cosa" non è stato all'altezza
delle esigenze contemporanee, e spesso è diventato un incubo, quando
il progetto rivoluzionario, o presunto tale, si è rivelato inconsistente
e si è sgretolato nel suo possibile senso, riducendosi a microstorie
politiche, di capetti senza abbastanza gregari e di gregari alla disperata
ricerca di uscire dal gregariato, ma senza alcun progetto, allora la droga è stata
un approdo anche per molti di quell'ultrasinistra che immotivatamente si
autodefiniva rivoluzionaria. Vada sé che dopo un Brandirali o dopo
un Sofri il cantuccio delle droghe possa sembrare caldo. Vada sé che
tra un dirigente militante ed un normale spacciatore nessuno avrebbe dei
ragionevoli dubbi. Vada sé che fra l'impotente schema
operaista o la velleità anarchista o l'improbabile sicumera
lottarmatista e la prepotente voglia di vivere degli individui si è facilmente
insinuata la droga. Va da sé. Ma, come sempre, l'ultrasinistra parla
solo di se stessa e per se stessa, come se a pochi metri dalla sua miopia
ci fosse un altro continente, che forse c'è.
In realtà, la droga è un fenomeno intrinsecamente e profondamente
sociale. Ha toccato gli ex ribelli quanto, se non più, i potenziali
integrati. Possiede una valenza politica soltanto in seconda lettura. Perché possiede
una sua particolarissima economia, frutto della società della riproduzione,
dello spettacolo e dello spreco, e perché incatena i soggetti,
quanto il lavoro se non di più, a quella iteratività che consente
la continuazione della gestione politica. Il suo specifico uso politico sta
nella falsa e coartata contrapposizione: drogaggio e recupero sociale.
Quando parliamo di controllo sociale allargato esprimiamo letteralmente
quella che è la verità di fatto. Non è che la società matrigna
si inventi forme di controllo sociale per impedire la crescita dei suoi
antagonisti, anche se questo è un obiettivo intrinseco e dunque
sempre presente. La società in quanto tale è votata al controllo,
per il suo mantenimento, ed usa tutti gli strumenti opportuni per consolidarlo,
estenderlo, allargarlo. La droga rappresenta controllo sociale non
tanto perché disinnesca
potenzialità sovversive, quanto perché i suoi fruitori
vengono spinti alla coazione a ripetere ed all' auto gratificazione, alla
rappresentazione di sé come "diversi". Il controllo
si esercita attraverso l'anestesia; è, quindi, una misura intrinseca
alla forma del dominio.
Chi potrebbe onestamente sostenere che la coca in sé è un
male? Eppure è servita per secoli per far sopportare meglio la fatica
ai contadini peruviani o colombiani eccetera, ed ancor oggi si risolve spesso
in un input per attività per lo più irragionevoli. Chi potrebbe
dire che l'alcol è in sé spiacevole? Eppure gli operai
delle prime industrie inglesi, e non solo, con l'alcol potevano tollerare
una condizione altrimenti inaccettabile, ed ancor oggi è veicolo di
un'euforia altrimenti del tutto immotivata (si pensi agli hooligans,
per esempio). Il controllo è preventivo ed anestetico, come dimostrano
le grandi istituzioni: famiglia, scuola, (luogo di) lavoro, (fascino del)
danaro eccetera, per tacere dell'ignominia dell'alienazione religiosa che,
mutando i suoi panni nei vari continenti e riammodernando costantemente
le sue forme, è uno degli esempi massimi della schiavitù in
qualche modo volontaria e compartecipata.
La droga sta dentro il controllo sociale perché il controllo sociale è di
per sé drogato. La sostanza stupefacente c'entra ben poco in
questo meccanismo. Quello che invece c'entra è l'obbligo a movimenti
quotidiani ossessivi, ad atteggiamenti più riproduttivi che produttivi.
Il controllo sociale attraverso il controllo dei fruitori di sostanze stupefacenti è esattamente
di questo tipo: indotti determinati bisogni, il controllo diventa automatico, nel
senso che le condotte dei singoli o dei gruppi divengono facilmente prevedibili.
La previsione è la base del controllo. La proliferazione delle
comunità terapeutiche, favorite da leggi proibizioniste, da investimenti
economici, da interventi politici, nasce proprio dal bisogno di controllare
e gestire interamente il ciclo. Come il cittadino diventa sempre più drogato,
il drogato deve divenire sempre più cittadino. I concetti stessi
di recupero e di risocializzazione sono, nella loro ripugnanza, assai indicativi:
si recupera qualcuno ai valori glaciati di questa società, si risocializza
quacuno rendendolo
membro attivo (cioè totalmente passivo!) nella società della
merce e dello spettacolo.
Sei
La qualità intrinseca delle sostanze definite droghe spesso è assai
irrilevante rispetto al peso che viene loro sovraggiunto dal contesto sociale
e nell'uso che in certa misura viene favorito o consentito od obbligato.
E ciò vale soprattutto per le malattie indotte dalla droga. Le
droghe in quanto tali possono provocare varie alterazioni, a volte piacevoli
ed umanamente positive ed a volte spiacevoli. Ed anche talune malattie in
quanto sostanze (per esempio depressioni polmonari o epatopatie) e per il
tipo di assunzione (ad esempio, le flebiti sono frequenti in chi ricorre
all'uso dell'ago, così come riniti ed affezioni rinolaringee sono
frequenti in chi ricorre all'inalazione). Ma le malattie più gravi
sono quasi sempre determinate dall'interdizione sociale, dalle leggi
e dalle morali, dalla condizione di minorità in cui il soggetto
definito drogato viene a ritrovarsi. Per comodità e sveltezza di analisi,
tralasciamo qui le malattie che in qualche misura possono essere considerate "minori" ed
affrontiamo le tre più gravi: il carcere, la comunità terapeutica e
l'aids.
Ad
alcuni potrà sembrare bizzarro che si consideri il carcere
come una malattia, ma, schiettamente, non sappiamo trovare dei termini migliori
per definirlo. E' una malattia dell'intera società, è un
forte riproduttore e diffusore collettivo di malattie, è direttamente
patogeno rispetto ai soggetti che sono costretti ad attraversarlo. E'
il segno di un morbo sociale e, a sua volta, è induttore di malattie
specifiche, mentali e fisiche. E' pur vero, come si dice, che siamo
tutti in qualche
misura prigionieri dei nostri ruoli e dei comportamenti imposti, ma è altresì vero
che il carcere è uno dei punti massimi di concentrazione dell' espropriazione,
dell'innaturalità a cui tutti siamo sottoposti. Chi parla di un carcere "dal
volto umano", di un carcere "a misura d'uomo", di uno strumento
di risocializzazione, mente sapendo di mentire. L'unica cura riguardo a questa
grave malattia è evidentemente l'abolizione del carcere medesimo,
provvedimento non solo socialmente possibile e legittimo, ma umanamente
necessario.
Esaminiamo il rapporto droga-carcere, e viceversa. Non ci rifacciamo
a dati statistici precisi, perché per lo più confusi e
spesso introvabili, eccettuate le più fredde descrizioni (tot detenuti
per reati di droga, tot detenuti che si sono dichiarati tossicodipendenti
eccetera), e soprattutto perché sono essenzialmente inaffidabili (la
statistica è, per sua natura, una "scienza" appiattente,
che dunque descrive solo ciò che già intende descrivere).
Nondimeno tutti sappiamo che i frequentatori delle carceri - ed è significativo
il delirante aumento in questo periodo della popolazione detenuta,
nonostante il considerevole incremento delle "misure alternative" -
in buona misura, in maniera diretta o indiretta, hanno a che vedere
con le droghe. I dati ufficiali parlano di più di un terzo della popolazione
carceraria, quantificandolo in 15.000-18.000, rispetto ad un totale
che si aggira sulle 45.000 unità e che è in costante aumento.
Secondo calcoli comparativi e fondandoci su esperienze ed informazioni
dirette, sosteniamo che i detenuti che in qualche modo hanno a che fare con
le droghe sono più della metà della popolazione prigioniera
complessiva.
I perché di questa situazione sono di un' evidenza così palmare
che ci si vergogna quasi ad affrontarli e discuterli. Le leggi proibizioniste
hanno sicuramente un 'incidenza diretta (i reati specificatamente relativi
alle droghe), ma assai di più indiretta, e cioè influenzando
il mercato ed i suoi prezzi. Nei due sensi: quello del commerciante
e quello del consumatore. Se una consistente fetta di società di affari,
e non solo di origine malavitosa e mafiosa, si è riciclata
nel traffico di stupefacenti è palesemente per l'altissimo tasso di
profitto che questo tipo di attività commerciale consente,
come si è già descritto. A parte piccole attività microimprenditoriali
che possiamo definire quasi artigianali, si tratta per lo più di
oligopoli diffusi territorialmente. Ma gli alti profitti determinano
una serie di altre attività indotte che conducono al carcere.
Non si parla soltanto, per esempio, del riciclaggio del danaro "sporco" (noi
tuttavia non conosciamo danaro "pulito"), ma del potere che
deriva da queste grosse potenzialità di investimento e che, da un
lato, consente un ampio arruolamento di manovalanza a basso costo -
non solo per il traffico in sé, ma anche per il reperimento di armi,
per azioni violente eccetera - e, dall' altro, un costante intervento
nelle e sulle strutture pubbliche per la realizzazione del plusvalore già accumulato.
Questo dal lato del commerciante.
Dal lato del consumatore, i prezzi elevati delle sostanze spingono assai
spesso ad attività delinquenziali (e di ciò tratteremo
nel prossimo paragrafo) per far fronte a delle spese che altrimenti sarebbero
ingestibili. Va da sé che i due aspetti spesso si intersecano:
molti venditori diventano progressivamente consumatori, molti consumatori
diventano progressivamente venditori o comunque collegati direttamente
al ciclo della valorizzazione delle droghe.
Il carcere, dunque, è una delle malattie più fortemente
determinate dalla merce droga e dal suo valore imposto.
La comunità terapeutica è la seconda malattia che vogliamo
prendere in esame. Sappiamo che molti potranno stupirsi o addirittura scandalizzarsi,
in quanto, vedendo la realtà con lenti che fanno apparire i fatti
in modo rovesciato, credono, o fingono di credere, che la comunità terapeutica
sia - ed il nome stesso indurrebbe a crederlo - la cura, o
almeno una delle cure, rispetto alla vera malattia, cioè la
droga. Questo è falso in senso stretto ed in senso ampio.
Non ci riferiamo soltanto a quelle comunità lager che usano metodi
altamente coercitivi e che vanno piuttosto accomunate al carcere, ma
all'essenza di tutte le comunità terapeutiche.
Lo scopo dichiaratamente salvifico della comunità si fonda su
un assioma: la droga, ancorché fenomeno di diffusione sociale, è fondamentalmente
un problema individuale e spinge i soggetti nell' emarginazione. Il
còmpito della comunità è quello di rimodellare la
personalità dell 'individuo e di renderla compatibile con l'ambiente
circostante, alias la società. Dunque, lo si voglia lucidamente
o meno, la comunità si erige come pilastro nella perpetuazione
della società esistente. Non a caso i termini più usati sono
quelli di "recupero", di "risocializzazione" e di "reinserimento" (alcuni,
più raffinati o solo più cinici,
parlano di "rifunzionalizzazione", neanche che il "drogato" non
fosse già di per sé funzionale, sia alla società che
alle loro tasche). La società esistente viene assunta come parametro
e sostanzialmente immutabile, se non attraverso gradualissime modificazioni.
Ma se questo, da un punto di vista teorico radicale, è già nauseabondo,
nonché sconfessato dai fatti di ogni giorno, ben più gravi
ne sono i risultati pratici sui singoli individui, o su gruppi di essi, ed è per
questo che a buon diritto parliamo di malattia.
Malattia, in quanto la rimodellazione della "personalità" del
soggetto considerato malato perché "drogato", richiede
una sua più o meno volontaria alienazione: il drogato si aliena
negli operatori, più in generale nell'ideologia proposta dalla
comunità, più in generale ancora nelle ideologie dominanti
della società di cui la comunità è espressione. Il "drogato" che
ritorna "sano" in realtà diventa comunitàdipendente,
tossico dell'ideologia che gli viene propinata. Nei fatti, spesso ritorna
alle sue pratiche precedenti, ma con molti maggiori disturbi psichici
e fisici, dato che, ai disagi dovuti all'assunzione di droghe in un
mondo che le interdice, si somma il senso di colpa e, fisicamente, una
scasa, ridotta capacità di "galleggiare" nell'ambiente
abituale. I casi di overdose sono notevoli, come fra i dimessi
dal carcere. Chi, invece, si normativizza di solito ha un bisogno costante
di riferirsi all'entità di appoggio, la comunità con le
sue ideologie. Una sorta di bambino adulto ed adulterato. Nessun segno di
superamento, quindi, ma una particolare forma di regressione e di dipendenza.
Una malattia ideologica, insomma. Neppure la psicoanalisi è giunta
a tanto, a causare così gravi danni. Ma evidentemente il business
delle comunità è di tutt'altre proporzioni. Né la solita
giustificazione («intervenire sul disagio, togliere sofferenza»)
può essere credibile. Non per caso esistono pochissime
strutture pubbliche, non per caso in quasi nessuna comunità viene
accettato un soggetto in stato di crisi di astinenza acuta, che è il
momento più alto del "bisogno", non per caso i programmi
terapeutici hanno essenzialmente una valenza ideologica.
Possiamo dire che il presunto rimedio, la comunità, è spesso
peggiore del male. Non per nulla viene proposta come opzione rispetto al
carcere. E se intendiamo come stato morboso l'aggressione incontrollabile
di agenti esterni che tendono a ledere l'organismo vivente, allora affermiamo
tranquillamente che la comunità è un agente patogeno.
La terza "malattia" che vogliamo considerare è l'aids.
Non ci dilungheremo troppo, rimandando al libro La Mal' aria. Aids
e società capitalista neomoderna di recente pubblicazione
a cura del gruppo T4/T8. Evidentemente il retrovirus Hiv non colpisce soltanto soggetti
tossicodipendenti, ma è altresì vero che attualmente,
almeno in Italia, fra i contagiati è molto alta la percentuale di
tossicodipendenti. Anche in questo caso le cause o concause sono palesi.
Se è vero che l'Hiv si propaga essenzialmente per via sanguigna e
per via spermatica, se è vero che il "passaggio" delle siringhe è una
delle maggiori cause di contagio, se è vero che il "passaggio" delle
siringhe è dovuto alla clandestinità della pratica, di modo
che spesso non si possono osservare le necessarie precauzioni igieniche
(per non parlare del carcere, dove praticamente è impossibile
ottenere siringhe sterili), è altresì vero che i soggetti
maggiormente "a rischio" sono i soggetti più deboli,
a causa del tipo di vita che conducono, dello stress eccetera. E' evidentissimo
che l'alto prezzo della merce droga, la sua circolazione spettacolarmente
clandestina (in realtà si trova ad ogni angolo di strada, ma sempre
avvolta in
un' aura di illegalità e di pericolo) determinano comportamenti che
riducono sensibilmente le difese dell'individuo, aumentano lo stress, spesso
impediscono condizioni alimentari, igieniche, abitazionali all' altezza
della società capitalista neomoderna, costringendo i consumatori
nell' angolo buio ed infetto della società, che è già buia
ed infetta per suo conto.
Ma, a differenza di quel che si può credere, l'aids, al pari delle
leggi proibizioniste e repressive, aggiunge valore alla merce droga
invece di togliervene. Questa è una merce che si valorizza attraverso
l'immagine diffusa del rischio, che non viene quasi mai assunta in quanto
tale, cioè senza forti connotazioni ideologiche, e che dunque
si alimenta con il "rischio". E' una trappola ben congegnata. E
se non vengono compiuti efficaci interventi è proprio per la
valorizzazione della merce. In una società ridotta all' autoriproduzione
costante è necessario che queste "malattie" esistano: un
esercito di professionisti mantiene la riproduzione ideologica e materiale
della società stessa. Nei casi citati si pensi soltanto al numero
di persone che vengono coinvolte nell' amministrazione di leggi e carceri,
di comunità, di "aiuti" psicologici e medici eccetera,
nonché di tutte quelle che vi fanno sopra diffusione ideologica, cioè informazione.
E' senz'altro una delle più potenti industrie della riproduzione iterativa,
allargata ed amministrante fra quelle che esistono, ed impiega molte
più persone delle maggiori industrie produttive che conosciamo.
Nella società neomoderna queste malattie sono indispensabili
e la droga è uno dei suoi principali vettori. Nella putrescenza dell'esistente
societario, la droga, trasformata di senso e di uso, è la merce
eccellente della putredine, il valore neomoderno quasi allo stato puro.
Sette
Dopo quanto sin qui esposto, sarebbe inutile dilungarci sui motivi
che determinano, attraverso le droghe, la criminalità (micro
e macro) e la devianza. Potremmo ribadire l'importanza del prezzo di
mercato, l'essenzialità delle leggi proibizioniste, la ripulsa sociale
e morale a cui il "drogato" viene sottoposto. Non ci pare il caso.
Ci pare il caso, invece, di sottolineare tre punti.
* La delinquenza è una forma fondamentale di riproduzione economica
e per questo viene non solo tollerata ma spesso favorita nella società neomoderna.
Sia a livello alto, sia a livello minimo. La gestione mafiosa dell' economia
su vasta scala non è affatto differente da quella "legale":
gli uni hanno imparato dagli altri e viceversa. Richiede una forte coesione
del "gruppo", una gerarchia determinante, un controllo territoriale
e sociale notevole, una gestione politica. Soprattutto richiede che il processo
di valorizzazione delle merci venga dato essenzialmente dal potere autoritario e
dalla circolazione ossessiva. Il potere autoritario serve come
fissazione del mercato, come imposizione di questa o quella merce, come
autonomizzazione del valore di scambio che, a quel punto, dipende soltanto
dal potere autoritario stesso. In questo senso e riguardo alle droghe, le
leggi proibizioniste e la gestione mafiosa del mercato funzionano in
modo complementare. L'essenziale è che il valore di scambio sia
sempre più sganciato dal valore d'uso e tenda ad una sua autonomia
che, a livello parossistico, non può venir controllata che da
forme delinquenziali, cioè che sappiano ricorrere opportunamente all'intimidazione
ed alla violenza. Lo Stato, gestore monopolista della violenza, in una sua
fase di ristrutturazione, e dunque di crisi, non può che
delegare, almeno in parte, ad altri il suo aspetto delinquenziale. Ma c'è un
secondo livello, che potremmo definire di microdelinquenza. La microdelinquenza
altro non è se non una forma di perversa autogestione della circolazione
di certe merci. Il tossicodipendente, che, per esempio, ruba automobili
per comperarsi la roba, inconsapevolmente serve più padroni. E' nel
momento della circolazione ossessiva delle merci che queste aggiungono valore.
L'automobile rubata andrà ritrovata o sostituita, interverranno
le assicurazioni, ci saranno i ricettatori e rivenditori, i quattrini del
furto andranno agli spacciatori (in scala) e via così. Nel processo,
l'automobile si è autovalorizzata, mentre la roba conserva intatto
il suo valore, già autovalorizzatosi in precedenza. Il "lavoro" del
tossico diventa così effettivamente lavoro, realmente riproduttivo
e sociale. La droga, quindi, esalta al massimo la circolazione delle
merci, in base al nuovo modello societario: la merce deve valorizzarsi
soprattutto al di là del suo momento produttivo.
* La droga, si è detto, funziona benissimo come produttrice di delinquenza,
ma la delinquenza a sua volta è perfettamente funzionale al sistema
di gestione amministrativa ed ideologica della società. Per la coesione
di una società che non ha più ragioni di esistere, la ricerca
e l'individuazione del "nemico" è basilare. Il nemico è quella cosa che
ricompatta individui o gruppi sociali che altrimenti potrebbero entrare in
collisione. La delinquenza, specie se massmediatizzata e spettacolarizzata, è il "nemico" che
consente il ricorso ad emergenze continue, che sono, tutte, delle boccate
di ossigeno per un sistema asfittico. La droga, che è già un "nemico",
genera l'attuale nemico per eccellenza, la Mafia (perché ovviamente è dalla
droga che nella fase attuale le mafie ricavano i loro più alti profitti),
e contemporaneamente
la microdelinquenza che crea nella gente "dabbene" quello che viene
definito un clima di "allarme sociale". La droga sta alla delinquenza
come lo Stato sta alla mafia: si alimentano mutuamente e tutti servono molti
padroni.
* Sulla creazione di devianza e sulla funzione delle comunità di
recupero o delle istituzioni più dichiaratamente repressive,
non ci ripeteremo. Che la droga serva anche a questo, ed assai, ci pare sin
troppo evidente. Ci preme invece un aspetto spesso troppo sottovalutato:
la produzione di comportamento, di ideologia. Ancorché deviante, il "drogato" esprime
e manifesta un modello. Si tratta di un modello che sta a cavallo tra la
normalità e la trasgressione. Indica l'adesione al consumo al suo
stato più puro ed alto. Il suo consumo forzato rimanda a tutti i consumi,
per lo più forzati. La sua normalità consiste nella ripetizione
maniacale del consumo, la sua trasgressione nell'aver scelto come merce principale
una merce illegale. Si creano così delle microcomunità autogratificantisi
che in certo senso sono esemplari, indicano dei modelli. Il drogato è,
sì, oggetto di pubblica riprovazione, ma spesso anche, in ambienti
socialmente e territorialmente ben definibili, di privata ammirazione,
specie nella fase "ascendente" del suo iter (quando ruba moto
o si mette a spacciare, ha tanti quattrini, li sperpera volentieri eccetera).
La devianza così, prima di finire in pasto alle pratiche repressive
e recuperatorie, è motore ideologico, è punto di riferimento
sociale - positivo e negativo al tempo spesso. La diffusione iterativa
ed allargata di ideologie è uno dei presupposti, oltre che una delle
conseguenze, della società dello spettacolo, della società neomoderna,
quella in cui lo spettacolo da sé solo non basta più ma può avere forza soltanto attraverso
il suo incessante "riammodernamento".
Il drogato, anche in questo caso, è la materia prima.
Sostenere che la liberalizzazione delle droghe (non la loro statalizzazione,
ciò che va sotto il nome di legalizzazione,
che affiderebbe maggiore autorità allo Stato senza toglierne al mercato) è l'unica
soluzione possibile è una banalità di base, che naturalmente
bisogna diffondere in ogni situazione possibile. Ma è altresì certo
che questa ipotesi non può nascere dall'illusione di porre rimedio
alla delinquenza ed alla devianza, ma dalla convinzione che è necessario
cominciare a porre rimedio al capitale ed allo Stato.
La delinquenza, dopo essere stata opportunamente utilizzata e spettacolarizzata,
deve trasformarsi in devianza istituzionalizzabile. La devianza in progressiva
demenza, onde concludere il ciclo. Con buona pace della materia
prima. Ed è in questo percorso, e solo in esso, che la materia
prima, cioè il cosiddetto drogato, deve ricostituirsi come soggetto,
rifiutandosi di essere materia prima, negandosi al senso della
colpa, impedendosi di funzionare realmente come materia prima. Sabotando
gli architetti ed i muratori che, usandola come mattone, edificano quell'orrore
che la droga da sé sola non potrebbe mai costruire.
Otto
Ma, affinché l'intero meccanismo funzioni, la droga deve venir trasformata
nel Drago, in un' entità terribile e venefica che ci fa sperare tutti
nell'intervento di San Giorgio. Il processo di spettacolarizzazione
raggiunge qui il suo punto più elevato, la sua vetta. La droga viene
scorporata non solo dalle sue caratteristiche intrinseche, di sostanza,
ma anche dalla sua effettiva valenza sociale, dall'impulso sociale alla
creazione di drogati. Così astratta, la droga, uno dei motori della
società mercantile neomoderna, assume un aspetto quasi mitico e maligno.
Serve a nascondere la glaciazione a cui tutti siamo sottoposti, a dimostrare
che la ricerca dei piaceri si trasforma nella loro mostruosa negazione. L'immagine
del Drago, che spesso abbiamo usato, non è stata scelta per caso né è soltanto
frutto di un anagramma (droga-drago). Il drago è un "mostro" incerto,
di cui si disconosce la natura e la provenienza, che in certe culture viene
adottato come simbolo di forza, di potenza, ed in altre di malignità,
espressione del male. Noi della droga conosciamo perfettamente la natura
e la provenienza, ma nel processo di rimozione eteroguidato tendiamo a dimenticarle,
a trasformarla in una mostruosità. L'inibizione morale e sociale non
sarebbe possibile se la droga non venisse trasformata nel Drago. E,
senza inibizione, la merce droga non sarebbe quel motore di cui si è detto
sin qui. Né i falsi sciamani potrebbero presentarsi come dei San Giorgio.
Riproduciamo qui, non per gusto della ripetitività ma per amore dell'essenzialità,
il manifesto
"Liberarsi", accluso a suo tempo nel volume Intorno
al Drago.
«Il Drago è stato evocato, risvegliato dal sonno del mito,
lo si è fatto aggirare tra i gas delle metropoli affinché fiammeggianti
potessero stagliarsi le immagini dei nuovi San Giorgio rilucenti d'armi
e di parole.
Il Drago di oggi si chiama Droga. Ma ovviamente, trattandosi di
professionisti della menzogna, nessuno dice la verità: né i
pretesi San Giorgio, né i molti untorelli, né gli specialisti
d'ogni specialismo, né i terapeuti interessati, né i preti
voraci d'anime, né i liberals illuminati dalla vanità,
né, certo, i poliziotti, i giudici, gli avvocati, i giornalisti.
Né i mafiosi e gli spacciatori. Nessuno dice: in verità siamo
tutti amici del Drago, l'abbiamo costruito, imposto, prodotto e riprodotto,
sceneggiato, è la merce per eccellenza, quella che tutte le
contiene e le spiega, spiegandone i perversi meccanismi.
Nessuno dice: abbiamo gonfiato ed arricchito le mafie perché Stato
e Mafia devono vivere in simbiosi mutualistica, devono presupporsi ed alimentarsi
a vicenda, rappresentarsi come Società, la Seconda Natura,
per la maggior gloria del Dio-Capitale, della sua Merce, del suo Spettacolo.
Liberarsi dalla subordinazione alla droga, compresa quella ideologica
e produttivistica, significa liberarsi dalla società mercantil-spettacolare.
Liberarsi dalle Mafie è liberarsi dallo Stato.
I Draghi ed i San Giorgio stanno dalla stessa parte. Già solo
questa ragione, e mille di più ne esistono, basterebbe per scegliere
di stare dalla parte opposta: quella della liberazione.»
Nove
Il ramo dell'ago di Narco che più ci sta infettando è quello
intriso dal sangue delle ideologie e delle false spiegazioni. Quello
che, miserevole ago, si spaccia come rutilante spada. Quello che non può fare
a meno di Narco, costruito a sua immagine e somiglianza.
L'altro ramo dell'ago di Narco fa assai meno paura perché si disvela
da sé, non nasconde le sue miserie.
Chiunque parli di liberazione dalla dipendenza dalle droghe senza parlare
della necessità della liberazione dalla società presente,
parla con lingua biforcuta ed è nostro nemico, un sostenitore dell'
esistente.
Chiunque parli, invece, della riscoperta della stupefazione, come moto irrinunciabile
dell'animo lanciato nei difficili percorsi dell'avventura e della fondazione
della comunità umana e lo colleghi con la critica radicale di tutti gli
aspetti della società capitalista neomoderna e del suo Stato, parla
con lingua diritta, ed è nostro amico, sostenitore della più ampia
delle "cure" che si possano ipotizzare.
«La ferocità del quale spettacolo fece quelli populi in uno tempo
rimanere satisfatti e stupidi.»
N. Machiavelli, Il Principe».
[Testo tratto da Nel vento, sito sul quale sono reperibili molti degli scritti di Riccardo D'Este]
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