Nel quadro di una società di classe quale è la nostra, la
giustizia è evidentemente una giustizia di classe. Ma se ci si
limita a ripetere questa banalità, si finisce col falsarla, al punto
di farne una mezza verità, una verità miope... insomma, un errore.
È un limite comune quello di non vedere nelle classi sociali altro
che le classi stesse, piuttosto che il movimento che le ha prodotte
e le riproduce; e di non distinguere nel capitalismo altro che il
capitalismo stesso, e non ciò che esso ha ereditato dall'intero arco
della storia umana. Anziché limitarci a denunciare il carattere «di
classe» della giustizia, o di qualsivoglia altra cosa, possiamo
invece osservare come il capitalismo riprenda (nell'interesse della
classe dominante) alcune soluzioni che le società di classe
anteriori avevano applicato alla vita sociale, aiutando così le
classi dominanti dell'epoca a imporsi.
Non si può pretendere che le classi siano apparse unicamente o
principalmente perché un dato gruppo umano vi avrebbe avuto
interesse. È in questo senso verosimile che gli altri umani abbiano
permesso a questo gruppo di agire alla stregua del primo proprietario
immaginato da Rousseau, che decretò: «questo è mio»?
Allo stesso modo, non ci si può accontentare dell'argomento del
necessario «sviluppo delle forze produttive», che avrebbe costretto
l'umanità, onde accrescere la produzione e la produttività, ad
accettare l'esistenza delle classi e dello Stato. Non tutte le
società hanno conosciuto questo resistibile
primato dello sviluppo economico; alcune hanno anzi frenato, al
proprio interno, il progresso concomitante della produzione della
ricchezza e della polarizzazione del potere. In breve, come ogni
realtà sociale essenziale, la giustizia ci riconduce all'idea che
alcuni millenni or sono l'umanità si sia ritrovata sulla via dello
sfruttamento e dell'alienazione. Senza questa premessa, il
capitalismo non sarebbe potuto nascere, né costituire a sua volta il
prolungamento di quel percorso. La
critica del capitalismo è dunque anche la critica delle forme di
alienazione passate che esso ingloba.
La «giustizia» è un'invenzione sociale plurimillenaria che la
crisi dei primi gruppi umani ha reso necessaria. Essa è meno un
modo di risolvere i conflitti, che di rendere tollerabili conflitti
che non si è riusciti a impedire. E che in virtù del suo intervento
si aggravano e si moltiplicano – fino all'assurdità attuale
della prigione criminogena, rimedio che, per ammissione degli stessi
umanisti borghesi più illuminati, si rivela peggiore del male. Come
la morale al livello dei rapporti inter-individuali, la giustizia
applica a un conflitto o a una violenza, una regola prestabilita,
esteriore rispetto al fatto, per solennizzare il «trauma» e dargli
un nome, al fine di esorcizzarlo. Secondo questa logica, occorre
che esista un colpevole, e non soltanto un responsabile,
poiché la colpa penetra il colpevole e si identifica infine con il
suo essere profondo. Il movimento giunge a compimento nella misura
in cui in cui la giustizia moderna pretende di giudicare non l'atto,
ma l'intero essere dell'individuo alla luce dell'atto – a forza di
analisi delle motivazioni, perizie psichiatriche e valutazioni della
personalità Le società arcaiche hanno dato vita alla giustizia
allorché i loro membri (i gruppi in esse associati, mai dei semplici
individui) hanno rinunciato effettivamente al controllo diretto sulla
propria vita, e quindi sulla violenza interna al gruppo. Questa
evoluzione, beninteso, è parallela alla nascita della divisione del
lavoro, e in seguito della religione, della politica e dell'economia.
È a partire dall'emergere della
giustizia in quanto colpevolizzazione-esorcismo-marginalizzazione,
che si è innescato il meccanismo che avrebbe portato in seguito
all'imprigionamento, considerato come mezzo sicuro per isolare chi è
stato escluso. Ma la
prigione non fa che materializzare
una separazione già all'opera da tempo.
[…]
Tutte le società di classe hanno
fatto il più largo uso della giustizia, e persino le dittature più
conclamate (nazismo, stalinismo etc.), a prescindere dal ruolo
ricoperto dal capriccio dei capi, non hanno mai funzionato sulla base
del puro arbitrio, né rinunciato al procedimento giudiziario.
Accanto a una polizia dai poteri esorbitanti, la giustizia ha
continuato a giocare il proprio ruolo: quello di evocare
l'esistenza di una norma.
Più un regime è fragile (si pensi a una dittatura militare come
quella di Videla, in Argentina), più si spinge lontano
nell'improvvisazione e nella violazione sistematica della legge
(«sparizioni» etc.). Il
puro arbitrio finisce con lo scalzare l'ordine sociale
(l'economia si sottrae a ogni intervento, il dittatore vede la
propria base sociale restringersi etc.). E quando il capo non comanda
più se non un esercito di carnefici, i suoi giorni sono contati.
Viceversa, lo «Stato di
diritto», che traccia con precisione i confini della zona di
non-diritto dove si esercita l'arbitrio poliziesco, è la forma
compiuta dell'ordine sociale.
Non è soltanto al fine di assicurare l'ordine necessario alla
salvaguardia della proprietà privata che si punisce il ladro.
D'altronde, vengono puniti assassinii che coinvolgono unicamente
individui proletari, e che in nessun modo colpiscono la borghesia. Si
può persino riconoscere una società in crisi e uno Stato
scarsamente unificato, dal fatto che la polizia e la giustizia
rinuncino a intervenire in taluni quartieri sottoproletari
incontrollabili, e lascino che i loro abitanti si droghino, estorcano
denaro o si uccidano l'un l'altro, come avviene in certi ghetti neri
americani.
Una società capitalistica «sana» interviene anche quando si tratta
di impedire ai suoi elementi marginali di massacrarsi. Certo, occorre
vi siano in gioco gli interessi della società di classe (e quelli
«egoistici» della classe dominante), ma c'è di più. Il mondo
capitalistico contemporaneo ha bisogno di esorcizzare l'omicidio:
anche se in forma diversa rispetto alla società greca del IV secolo
a.C., esso prova questo bisogno, che occorre spiegare.
La società di classe implica anche una separazione tra individui
isolati, un'alienazione di ciascun individuo rispetto agli altri,
un'incapacità di risolvere le lacerazioni e gli urti, ivi inclusi
quelli che hanno soltanto un rapporto molto indiretto con la base di
classe della società. Il gruppo ristretto all'interno del quale
si svolge la vita quotidiana (rapporti amicali, familiari,
lavorativi, di vicinato) è inadatto ad affrontare i conflitti e a
favorirne la soluzione, a sopportare la violenza e il dramma, a
convivere con le pesanti contraddizioni che caratterizzano le
relazioni umane. E questo è tanto più vero quanto più
l'alienazione sociale è «spinta» (dunque in misura maggiore per i
cittadini francesi contemporanei che per quelli dell'antica Atene).
La ragione è che la tendenza «naturale» è quella a ricorrere a
meccanismi che si pongono al di sopra di questi ambienti di vita,
al fine risolvere ed eliminare le contraddizioni. Dalla capacità
dei rivoluzionari a non cedere a questa tendenza, dipende la serietà
della loro critica della giustizia, e del mondo capitalistico in
generale.
Va da sé, quindi, che siamo contro la prigione tanto per i
«colpevoli» quanto per gli «innocenti», in quanto questa
distinzione, storica e non naturale, riassume in sé il fenomeno
della giustizia, di cui una società umana non avrà più bisogno.
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