Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

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«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

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«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

28 aprile 2011

Dalla Sinistra comunista alla «comunizzazione»

di Gilles Dauvé (2009)


[Il testo che segue è stato pubblicato nel volume Gilles Dauvé [Jean Barrot], Le Roman de nos origines. Alle origini della critica radicale, A cura di Fabrizio Bernardi, Dino Erba, Antonio Pagliarone, Quaderni di Pagine Marxiste, Milano, 2010]

Un buon modo di approcciare i testi raccolti in questo volume è quello di vederli, anziché come una mera riflessione intorno a delle idee, come il prodotto di un’esperienza.
In due studi un tempo celebri, Kautsky e Lenin[1] – il secondo, riprendendo lo schema del primo – stabilivano quelle che per essi, erano le tre fonti del marxismo: l’economia politica inglese, la filosofia tedesca e il socialismo francese. L’idea centrale, comune a Kautsky e Lenin, era che il marxismo fosse nato non già dal seno della classe operaia, bensì dal genio di alcuni intellettuali di origine borghese: affinché un movimento socialista fosse possibile (si parlava poco di comunismo, prima del 1917), era necessario che la coscienza di classe venisse introdotta tra le masse lavoratrici dall’esterno, attraverso la mediazione di un partito. È soltanto sulla natura di quest’ultimo che Kautsky e Lenin divergevano.
Questa tesi è stata confutata abbastanza a fondo, e le sue implicazioni pratiche sono state sufficientemente studiate, affinché non vi si debba ritornare[2]. Ci limiteremo a sottolineare ciò che in essa vi è di fondamentalmente erroneo: inventare «il marxismo» significa ridurre una teoria a un corpo dottrinale; che questo sia poi destinato a essere volgarizzato dalla propaganda, non è che la conseguenza della separazione originariamente operata, tra le idee e la realtà sociale ad esse corrispondente.
Per coloro che, come noi, negli anni Sessanta e Settanta si sono dovuti confrontare con una situazione che li spingeva a ritornare sul passato, la difficoltà principale consisteva non tanto nel reperire informazioni e documenti riguardanti un’epoca lontana, quanto nel cogliere il movimento storico senza il quale, appunto, le teorie non sono altro che idee. Era in primo luogo necessario riappropriarci di quel passato, cioè sapere quali lotte e quali contraddizioni avevano animato gli strati proletari più radicali, negli anni intorno al 1917 e nel periodo immediatamente successivo. Poiché, a quel tempo, non si trattava affatto di teorici isolati: nel 1920, lungi dall’essere realtà gruppuscolari, la Sinistra comunista tedesca e quella «italiana» incarnavano una forza storica. Ad esempio, quali che siano stati gli errori commessi dalla KAPD (errori tradotti, sul piano teorico, da Gorter), non si può capire nulla di Pannekoek, se si recidono i legami che lo uniscono a Gorter e al suo partito. È questa, tra l’altro, una delle ragioni per cui il consiliarismo è del tutto incapace di comprendere se stesso.

Il Censier

Questo «ritornare sul passato» deve molto a quella che fu allora la nostra esperienza. Senza voler ripetere inutilmente quanto già scritto ne Le Roman de nos origines, possono essere utili alcune precisazioni riguardo al gruppo informale che è stato definito – in verità più da altri, che dai suoi stessi membri – «La Vieille Taupe» (dal nome della libreria fondata e animata, a Parigi, da Pierre Guillaume, tra il 1965 e il 1972, anno della sua chiusura). Dalla metà di maggio fino al luglio 1968, questo collettivo fu non già l’ispiratore, e tanto meno il gruppo dirigente, ma probabilmente il nucleo più coerente di un’esperienza originale, quella che si consumò tra le mura del fabbricato universitario parigino del Censier[3].
Se la maggior parte dei membri di questo gruppo erano stati espulsi da Pouvoir Ouvrier (formazione nata da una scissione di Socialisme ou Barbarie, nel momento in cui quest’ultimo aveva abbandonato le originarie posizioni marxiste), o se ne erano comunque allontanati, altri facevano parte di una galassia, che non aveva altra organizzazione se non una condivisione di amicizie – talvolta punteggiata da rotture – e di rifiuti comuni. Così, ad esempio, uno degli individui più attivi all’interno del Comitato RATP[4], all’epoca in cui la prima era stata influenzata dal secondo, era stato indeciso se aderire all’IS o a Socialisme ou Barbarie, per poi scegliere di non unirsi né al gruppo di Debord né a quello di Castoriadis-Cardan. Altro esempio è quello di Fredy Perlman, del Comitato Citroën, che sul piano teorico univa alla critica della sinistra americana e del socialismo iugoslavo, una rilettura di Marx come nemico della merce e dello Stato[5]. Anche alcuni membri del GLAT – il Groupe de Liaison pour l’Action des Travailleurs, fondato nel 1959 sulla linea della Sinistra comunista tedesca, ma autonomo tanto rispetto a Socialisme ou Barbarie quanto a Pouvoir Ouvrier e ICO – furono attivi durante le ultime settimane di occupazione del Censier. Un buon modo di definire coloro che presero parte a quell’esperienza, potrebbe essere il seguente: se alcuni si sarebbero forse proclamati «rivoluzionari», nessuno si considerava un «rivoluzionario di professione».
Benché queste filiazioni aiutino a comprendere la confluenza che si realizzò, la maggior parte di coloro che si riunivano al Censier non aveva fatto parte di alcun gruppo, foss’anche informale, prima del maggio 1968. Il loro denominatore comune, che è anche la ragione per cui si trovarono in «naturale» sintonia con una minoranza operaia radicale, era la critica della burocrazia politica e sindacale; non in quanto la si ritenesse una cattiva direzione, suscettibile di essere riformata o rimpiazzata da una direzione migliore, ma in quanto la sua stessa funzione la poneva in contraddizione con gli interessi dei proletari e con il senso stesso dell’emancipazione umana.
La critica della burocrazia faceva il paio con quella dei Paesi dell’Est, che venivano considerati niente più che una forma di capitalismo di Stato. Ciò che, a diciotto anni dalla scomparsa dell’URSS, potrà sembrare triviale, o banalmente sprovvisto di conseguenze pratiche, non lo era affatto in un’epoca, in cui la distribuzione di un volantino – anche soltanto moderatamente critico nei confronti della CGT – ai cancelli di una fabbrica, poteva costare qualche testa spaccata; e allorché la quasi totalità dei gauchistes celebrava l’esistenza del socialismo in Russia, in Cina o a Cuba, propugnava la creazione di un partito, e aspirava a prendere, a tempo debito, la testa dei sindacati.
Alla metà del maggio 1968, una minoranza operaia, poco numerosa ma risoluta, che spesso era all’origine degli scioperi, ma che si vedeva incapace di evitare le manomissioni sindacali della condotta del movimento, cercava uno spazio ove potersi riconoscere e coordinare. Date le condizioni dell’epoca, questo spazio non poteva che essere esterno ai luoghi di lavoro. Il Censier assicurò, così, un collegamento tra i «delegati» – non eletti, ma rappresentativi – di un’autonomia operaia in cerca di se stessa. L’incontro tra questi ultimi e la galassia cui abbiamo accennato, prova che nulla accade «spontaneamente» e che, al tempo stesso, a poco vale «organizzare» preliminarmente un’avanguardia.
Il Censier, certamente, non fu l’unico luogo dove i salariati refrattari all’ordine padronale e sindacale si incontravano. Molti operai, soprattutto giovani, insoddisfatti della gestione burocratica dello sciopero, nel pomeriggio lasciavano la fabbrica, per venire a trovare «gli studenti». Fu, ad esempio, il caso dei lavoratori della Hispano-Suiza, una fabbrica di motori d’aereo, situata nei pressi di Parigi. Qui, a partire dagli anni Cinquanta, un comitato che riuniva un certo numero di operai e tecnici (alcuni dei quali provenienti dal PCF), si era radicalizzato, evolvendo da un semplice rifiuto del riformismo del Partito Comunista e della CGT, verso una critica del loro ruolo di forze di conservazione dell’ordine sociale. Lo stesso dicasi della SAVIEM di Caen[6].
Si è spesso sostenuto che, nel Sessantotto, «gli studenti andarono (invano) incontro agli operai». Si potrebbe parimenti affermare che una minoranza di salariati cercò (invano), all’esterno dell’impresa, la soluzione ad un problema che a malapena poteva porre, e a maggior ragione risolvere, all’interno di essa. Mai, in effetti, le istituzioni politiche e sindacali, durante il Sessantotto, persero il controllo del mondo del lavoro. Alcune lotte, come quelle che ebbero luogo a Nantes[7], testimoniano di uno «scavalcamento» degli apparati burocratici da parte del movimento; nondimeno, esse rimasero sempre all’interno di un quadro sindacale, che non fu mai rimesso in discussione in quanto tale.
Il caso e i limiti dell’epoca fecero dunque di un edificio universitario ai margini del Quartiere Latino, uno dei pochi spazi dove ristrette minoranze operaie, provenienti da diverse imprese (alcune anche di grandi dimensioni), poterono incontrarsi, discutere e – nella misura del possibile – agire insieme, per un tempo sufficientemente lungo, affinché ne nascessero una convergenza e un abbozzo di coordinamento.
Inizialmente, questi operai esprimevano soltanto la volontà di spingere lo sciopero al massimo delle sue potenzialità: ciò che rimproveravano – giustamente – al PCF e alla CGT, era il fatto di non fare il possibile, per favorire l’estensione e il successo della lotta. Fu questo il minimo comune denominatore, e il punto di partenza, della critica degli «apparati». Vi si aggiunse, praticamente fin da subito, il rigetto dell’ipotesi di un governo di sinistra, ovvero di un «potere popolare» il cui avvento non avrebbe modificato la sostanza delle cose. Questo rifiuto era alimentato da una critica, spesso (ma non sempre) esplicita, dei regimi cosiddetti socialisti. Quanto ai gruppi trotskisti e maoisti, venivano decisamente avversati, in quanto erano percepiti come semplici apparati concorrenti delle burocrazie ufficiali. D’altra parte, i militanti gauchistes non fecero il minimo sforzo per radicarsi in un luogo dove si sentivano dei perfetti estranei: gli operai che si recavano al Censier, non erano in cerca di anime pie che si dessero per missione quella di organizzarli o di aiutarli a organizzarsi. Essi non volevano né servitori, né nuovi padroni. Desideravano, in primo luogo, agire con gli altri (operai e non) su un piede di parità.
Fatta eccezione per le fabbriche, da un punto di vista sociologico il Censier fu senza dubbio una delle realtà più «operaie» del Maggio ’68; ma anche una di quelle dove l’operaismo (che emanasse o meno dai lavoratori manuali) trovò terreno meno fertile. Chi non aveva le mani callose non si poneva al livello del proletario supposto medio: si confrontava con chi era alla sua portata.
Infine, i soli che pur essendo presenti al Censier, preferirono mantenersi in disparte, furono i membri di ICO: conformemente al loro desiderio di non imporre le posizioni di un gruppo minoritario alla classe operaia, per tutta la durata dell’occupazione giocarono un ruolo di secondo piano, nei comitati come nelle assemblee generali, preferendo riunirsi in una stanza a parte e confermando quella che un anno prima l’IS, nel numero 11 della sua rivista, aveva definito «una scelta di non esistenza».
Nelle settimane che seguirono, mentre la CGT e il PCF passavano dal ruolo di moderatori a quello di sabotatori dello sciopero, le posizioni d’insieme degli operai presenti al Censier, subirono, simmetricamente, un’evoluzione: anziché rimproverare alle burocrazie di sabotare ciò che si supponeva dovessero promuovere, si constatò che esse, in modo sempre più palese, si limitavano ad agire conformemente alla loro funzione. Di conseguenza, la menzogna più spudorata (ad esempio, l’accusa rivolta ai nostri compagni del Comitato RATP e ai salariati più combattivi all’interno dell’azienda, di avere chiamato essi stessi la polizia) non venne più percepita come qualcosa di scandaloso e aberrante.
Questa radicalizzazione si accompagnò all’avvio di una discussione, su quello che sarebbe potuto essere un mondo radicalmente diverso. Tuttavia, si commetterebbe un errore se si idealizzasse questo processo di decantazione, e si vedesse nell’esperienza del Censier una reazione coerente, completamente in controtendenza rispetto alle dinamiche che attraversavano la società.
Nella primavera del 1968, il rifiuto degli apparati e dello Stato, per quanto manifestasse uno slancio profondo, si esprimeva e si organizzava, più che altro, come un’esigenza di prendere la parola, di essere ascoltati, di vedere presa in considerazione la propria opinione, che fosse espressa individualmente o collettivamente. Tutti se ne infischiavano della «partecipazione» gollista[8] e desideravano una partecipazione reale. Il Sessantotto fu il regno dell’Assemblea Generale.
Il caso della Rhône-Poulenc[9] di Vitry-sur-Seine è esemplare: qui, la pressione della base aveva costretto padroni e sindacati a creare, all’interno della fabbrica, una struttura di discussione. Successivamente, quest’ultima arrivò a progettare la totale riorganizzazione dell’azienda, secondo un modello che oggi definiremmo di «democrazia partecipativa». L’istituzione di questa struttura fece deperire dall’interno il Comitato d’azione Rhône-Poulenc: avanzare delle rivendicazioni, anche estreme (almeno all’inizio), all’interno di un simile quadro, portò ben presto a spostare l’asse della discussione sul modo migliore, o comunque meno dannoso, di garantire la produzione. Nei mesi e negli anni che seguirono, lo stesso meccanismo indusse alcuni degli «estremisti» del Sessantotto a preferire la CFDT [10] alla CGT[11].
All’inizio, e per quasi tutta la durata dell’occupazione del Censier, la maggior parte dei partecipanti – operai e non – si sarebbe potuta collocare su una linea, i cui estremi erano rappresentati dal comunismo dei consigli e dall’anarchismo. A grandi linee, il loro fine, il loro «programma», era la gestione operaia, o l’autogestione; e il mezzo con cui realizzarlo era niente meno che la gestione diretta della lotta, dallo sciopero fino all’insurrezione, da parte della classe operaia e dei proletari nel loro complesso; non soltanto fuori dai partiti e dai sindacati, ma persino contro di essi.
Tipica, in questo senso, era l’analisi della rivoluzione russa che avevo scritto l’anno precedente (e che La Vieille Taupe aveva pubblicato all’inizio del 1968)[12], dove cercavo di dimostrare che durante il quadriennio 1917-1921, cioè prima che il partito bolscevico si arrogasse questo ruolo sostituendosi agli operai, la classe operaia russa aveva dato vita al tentativo di gestire direttamente la produzione e la società. Ciò che a quel tempo, in effetti, accomunava la maggior parte di noi, può essere riassunto in due parole: democrazia operaia (quella autentica) e autogestione (per quanto generalizzata). La riflessione critica su queste due nozioni, tra loro strettamente intrecciate, sarebbe venuta solamente più tardi.

Maturazione

I comitati d’azione che si riunivano al Censier, seppure tra i più risoluti nello scontro con l’avversario padronale, sindacale e statale, si rivelarono, tanto quanto gli altri, semplicemente adeguati a quella che era la loro funzione: contribuire a portare lo sciopero fino alle estreme conseguenze… cui «storicamente» poteva esser condotto. Il loro successivo declino, sebbene in alcuni casi consumatosi nell’arco di anni, e non senza qualche bel ritorno di fiamma, era inscritto nell’esaurirsi di questa funzione. Alcuni di noi avevano sperato nel moltiplicarsi degli organismi di base, nati dalla presa di coscienza del ruolo delle burocrazie e dalla necessità di darsi delle forme di organizzazione autonoma, certamente minoritarie, ma capaci di perdurare nel tempo e di darsi un minimo di coordinamento.
Fu un’illusione. Nei luoghi di lavoro, nessuna organizzazione permanente di salariati può «tenere» sulla sola base di un rifiuto condiviso, per quanto esso sia giustificato: ci si può organizzare durevolmente, soltanto a partire da obiettivi accessibili (o quantomeno giudicati tali).
Quando, nell’estate del 1968, il Censier tornò, insieme agli altri locali universitari, sotto il controllo dello Stato, i suoi ex occupanti presero a riunirsi in una piccola sala della Mutualité[13]. Talvolta i partecipanti a queste riunioni erano numerosi, ma più spesso ci si ritrovava in pochi. La differenza essenziale, rispetto al Censier, era tuttavia un’altra: quello che rimaneva uno spazio comune a una minoranza di salariati radicali, più che delle azioni faceva ora convergere delle idee.
Il raggruppamento costituitosi al Censier, non aveva avuto altro nome se non quello del luogo in cui si riuniva (denominazione che, d’altronde, venne utilizzata più dopo, che durante l’occupazione). Quello che gli succedette, autodefinendosi Inter-Entreprise, marcava un ripiegamento su una visione «operaista». In modo perfettamente coerente con questa inevitabile involuzione, in occasione di una delle prime riunioni alla Mutualité, Henri Simon, uno dei principali animatori di ICO, distribuì un documento, che sintetizzava le informazioni, raccolte nel corso della riunione precedente, sulle aziende che vi erano rappresentate. Questa era, del resto, la prospettiva di ICO: fare circolare delle informazioni, quasi fosse una casella postale.
Fu allora, che un certo numero di compagni, in particolare il gruppo che, in mancanza di meglio, definiremo «La Vieille Taupe», iniziò a comprendere come una tale prospettiva ragionasse ancora in termini di organizzazione (sebbene, a differenza della concezione leninista, si trattasse di un organizzazione auto-prodotta, cioè sorta dalla base). Essa tornava ad affermare che se gli operai non lottano fino in fondo – fino alla rivoluzione –, è soltanto perché ignorano che altri operai cercano di farlo o, comunque, desiderano farlo. Ci sembrava che lo sciopero generale di maggio-giugno dimostrasse tutt’altro. In un gran numero di imprese, prendendo l’iniziativa dello sciopero, i proletari avevano dimostrato di poter agire autonomamente, malgrado il monopolio sindacale e ufficiale dell’informazione (all’epoca non si usava ancora il termine «mediatico»). Se, in seguito, i salariati della Renault erano rimasti ingabbiati all’interno del quadro della trattativa, ciò non era dovuto al fatto di non sapere cosa facessero nel frattempo i salariati della Peugeot: sia gli uni che gli altri non erano andati oltre, perché complessivamente quel quadro conveniva loro. Un movimento sociale si dà innanzitutto – o esclusivamente – le informazioni di cui ha bisogno.
Dopo il maggio-giugno 1968, non c’era spazio per un’organizzazione operaia autonoma permanente, che conducesse delle lotte rivendicative sulla base di una linea di «lotta di classe». Quanto ai conflitti quotidiani, i gauchistes[14] erano infinitamente più preparati di Inter-Entreprise. La loro pratica, che consisteva nel «capitalizzare» le lotte al fine di sviluppare un’organizzazione – nella fattispecie la loro –, permetteva di aderire alle spinte provenienti dalla base, di perpetuare l’organizzazione e di reclutare militanti. Non è un caso che alcuni trotskisti siano poi diventati dirigenti sindacali, a quell’epoca nella CFDT, in seguito nella CGT e, oggi, nella SUD[15]. Ai compagni che giudicheranno la nostra analisi «fatalista», chiederemo dove e quando, dopo il 1968, un’organizzazione che si possa definire rivoluzionaria, abbia creato e conservato un gruppo di fabbrica, al di là di un periodo di profondi sommovimenti sociali (ad esempio, in Francia, dopo il quadriennio 1968-1972, in Italia, dopo gli anni Settanta etc.). Tuttavia, pensiamo che provarci non sia stato un errore.
L’esperienza di Inter-Entreprise non si esaurì nel giro di poche settimane, ma è pur vero che tutta una dinamica era andata perduta. Senza dubbio il Censier ebbe i suoi prolungamenti nell’Italia del 1969 – e anche altrove (ad esempio, nell’«assemblearismo» spagnolo dell’inizio degli anni Ottanta). Dall’America Latina alla Cina, gli anni Sessanta e Settanta furono percorsi da scioperi di massa e insurrezioni, che possedevano talvolta una carica critica altrettanto, se non più esplosiva di quella del Maggio francese. A ogni modo, il gruppo della «Vieille Taupe» non aveva la presunzione di considerare la storia mondiale, a partire da una piccola porzione d’Europa: la crisi sociale del 1968, in Francia, non ci appariva tanto come un esempio da seguire, quanto come il sintomo di una realtà universale.
Soprattutto, ciò che avevamo vissuto al Censier infirmava – se ancora ce ne fosse stato bisogno – la credenza nella necessità di una partito d’avanguardia. Allo stesso modo, spazzava via ogni timore di imporre dall’esterno, attraverso la propria attività, un’organizzazione alla spontaneità operaia.
All’inizio del 1969, François Martin scrisse quello che, discusso e rielaborato, sarebbe diventato, tre anni più tardi, il primo numero di «Le Mouvement Communiste»[16]. La sua riflessione si rifaceva, in parte, alla sua esperienza di operaio in una fabbrica di scarpe autogestita nell’Algeria del dopo-indipendenza.
Innanzitutto, l’autore del testo si proponeva di comprendere in che modo una rivoluzione comunista presupponga – ma non coincida con – un’accumulazione di lotte rivendicative autorganizzate, che si estendono quantitativamente, si trasformano qualitativamente e, rapidamente, arrivano a darsi degli obiettivi politici: prima le forze repressive dello Stato, poi i partiti e il parlamentarismo; per giungere infine ad attaccare i rapporti sociali. Benché questa espressione sia stata introdotta solo più tardi, François Martin descriveva la rivoluzione in termini di comunizzazione. L’autorganizzazione ne rappresentava la condizione necessaria, ma non per questo sufficiente.
Il testo sottolineava lo scarto profondo tra il momento di rottura costituito dall’esplodere di ogni sciopero «duro» (aggiungeremo: di ogni contestazione radicale, qualunque obiettivo essa si ponga), la spinta di fondo che lo determina, la breccia che in tal modo si offre, e la chiusura che ne rappresenta la conclusione, vittoriosa o meno.
L’autorganizzazione nata dalla rottura iniziale, talvolta soltanto di breve durata, non solo non è un fine in sé (cosa su cui chiunque può convenire), ma dipende da altro che da se stessa. Il proletariato è ciò che fa, e ciò che è dipende da ciò che fa. In tal senso, la rivoluzione ha un problema di organizzazione, non è un problema di organizzazione.
Di conseguenza, rifiutare che la distinzione maggioranza/minoranza assurga a principio esplicativo o criterio decisivo, non significa disprezzare ciò che fa o pensa la maggior parte dei partecipanti a un movimento sociale, o di coloro che se ne tengono a distanza. Nel maggio 1968, quando poche decine di giovani operai bloccavano le porte della fabbrica per spingere gli altri lavoratori a scioperare, non «forzavano» affatto la situazione, ma prendevano l’iniziativa di un movimento, che presto veniva riconosciuto dagli altri operai come proprio. Di converso, far votare quotidianamente un’assemblea operaia per la prosecuzione o l’interruzione di uno sciopero, è una tattica sperimentata per sabotarlo. Nella maggior parte dei casi, di fronte a una pratica minoritaria, non esiste alcun mezzo formale, per stabilire se la minoranza agente attui una costrizione sulla maggioranza o si limiti ad anticiparla. Il medesimo gesto (ad esempio, saldare i cancelli di una fabbrica) può assumere valenze opposte, a seconda del contesto. La nostra critica della democrazia non consisteva (e non consiste) nel dire: «non importa se pochi decidono, eventualmente anche contro la maggioranza, quel che conta è soltanto l’obiettivo finale: la distruzione dello Stato e della merce». Tale obiettivo, infatti, può essere realizzato soltanto se vi concorre quella che, nel Manifesto dei comunisti, viene definita «l’immensa maggioranza». L’estinzione del lavoro e dell’economia non si stabilisce per decreto, né si organizza dall’alto.
È altrettanto chiaro che la comunizzazione non può realizzarsi se non intrecciandosi con la distruzione dello Stato, che – occorre ribadirlo – presuppone l’azione violenta e l’uso delle armi. Questa visione è radicalmente differente da quella di un Bordiga, per il quale la dittatura del partito bolscevico sul proletariato russo era giustificata dall’obiettivo della rivoluzione mondiale – la quale, per questa sola ragione, riconosceva la propria sconfitta, in Russia come altrove.
François Martin fu tra i primi a sostenere che, durante il Maggio, praticamente tutti si erano comportati da partigiani della democrazia – inclusa l’IS, che propugnava la democrazia dei consigli. Non intendiamo confondere la democrazia diretta generalizzata, che travalica i muri della fabbrica per estendersi alla totalità della vita, con il parlamentarismo borghese; ma, in quanto principio formale, la democrazia è impotente a determinare il contenuto, che ci interessa. Viceversa, è sulla base dell’attuazione di questo contenuto che sarà possibile realizzare ciò che la democrazia pretende di portare a compimento: la circolazione delle idee, la promozione del confronto, la valorizzazione della diversità di opinioni, il controllo dei rappresentanti etc.[17]
Le stesse questioni che François Martin affrontava a partire dalla dinamica concreta della lotta di classe, il testo Contribution à la critique de l’idéologie ultra-gauche, redatto nel 1969[18], cercava di metterle a fuoco utilizzando l’apporto delle sinistre comuniste tedesca e «italiana», e confrontando questa eredità teorica con quella che era stata la nostra pratica nel maggio-giugno 1968. Questa retrospettiva includeva, per noi, anche l’IS: estendendo la gestione operaia a tutti i domini della vita, i situazionisti avevano infatti apportato gli elementi capaci di far saltare il quadro gestionario. L’autogestione generalizzata presuppone qualcosa di più di una mera «gestione».
Alcune copie di questo testo furono distribuite alla riunione nazionale di ICO che si tenne a Taverny nella primavera del 1969 e, l’estate successiva, a un incontro internazionale a Bruxelles[19]. In entrambe le occasioni, il testo non fu sottoposto a discussione.
A quarant’anni di distanza, alcuni compagni vedono, nella nostra critica di allora, un’apertura su una teoria post-operaia, o post-proletaria, della rivoluzione. Questa interpretazione è contraria all’intento del testo, che volle essere un tentativo non di rifondare, bensì di sviluppare la teoria del proletariato. Oggi, come allora, una prospettiva post-proletaria presupporrebbe l’esistenza di un post-capitalismo; eventualità che, evidentemente, non si dà. Quello che invece sostenevamo, è che la rivoluzione comunista non consiste nell’affermazione della classe operaia, in quanto polo positivo della società, nei confronti di un polo negativo borghese, di cui essa rappresenterebbe l’opposto; non consiste nell’appropriazione da parte dei lavoratori salariati, democraticamente organizzati, delle forze produttive, che per questa sola ragione cesserebbero di essere «capitale» (ecco un punto cruciale, del quale abbiamo dovuto rinunciare a discutere con gli eredi della Sinistra comunista tedesca). Conseguentemente, essa non è un parossismo della lotta di classe: è bensì la soppressione di tutte le classi (è questa la ragione, per cui gli eredi della Sinistra comunista «italiana» ci considerano sempre dei «mezzi-anarchici»).
In ogni caso, se cercare di costruire un partito, allo scopo di dirigere gli operai, non serve a nulla, incoraggiare questi ultimi ad agire per se stessi, è senz’altro più simpatico (e noi ci applicammo a questo compito), ma del tutto insufficiente, e per giunta inoperante. Ancor prima di pensare di distribuire un volantino ai cancelli di una fabbrica, o di farsi portavoce degli scioperi, occorreva domandarsi di cosa questa classe operaia fosse realmente portatrice, quale fosse il suo «programma»: impossessarsi del mondo per amministrarlo, credendo in tal modo di poterlo cambiare? Oppure mettere in atto una trasformazione più profonda? Questo obbligava a rimettere in discussione le virtù attribuite all’autonomia, e a sviluppare, conseguentemente, una critica della democrazia… differente da quella bordighista.
Quest’ultima, infatti, nel momento in cui prendeva partito per la dittatura contro la democrazia, si collocava sul terreno di una rivoluzione concepita principalmente in termini politici. A rischio di scandalizzare qualcuno, diremo che non esiste alcuna differenza di principio tra il tentativo di costruire un partito, a partire da una rete di cellule di fabbrica, e il tentativo di promuovere una «vera» assemblea generale delle maestranze di un’azienda. Poiché l’unico criterio che davvero conta, è l’atteggiamento dei salariati in relazione all’impresa, al loro lavoro e al lavoro salariato in generale.

Verso una sintesi…

una sintesi, e non la sintesi, poiché soltanto una mentalità religiosa può indurre a credere nella possibilità di un momento eccezionale in cui la storia rivelerebbe la totalità del suo senso (a una mente a sua volta eccezionalmente dotata, si intende).
Riassumendo, la Sinistra comunista tedesca (intesa in senso lato, e quindi includendo sia la Sinistra olandese, sia in generale gli eredi di questa corrente, anche quelli «ingrati» come Socialisme ou Barbarie) insiste su una concezione della rivoluzione intesa come auto-attività, cioè come auto-produzione della propria emancipazione da parte degli sfruttati. Da qui, il rifiuto di tutte le mediazioni: parlamento, sindacato e partito.
La Sinistra comunista «italiana» (che travalica i confini dell’Italia, e si sviluppa anche altrove, principalmente in Belgio) ci ricorda che il comunismo non è scindibile dalla distruzione del sistema mercantile, del lavoro salariato, dell’impresa come tale, e di ogni economia in quanto sfera separata dell’attività umana.
L’Internazionale Situazionista, infine, dimostra che, ciò che per Bordiga e i bordighisti era un programma da attuare all’indomani della distruzione del potere politico borghese, non ha alcuna possibilità di realizzazione, se non si concretizza in un deperimento immediato dello scambio mercantile, del lavoro salariato e dell’economia, attraverso un rovesciamento di tutti gli aspetti della vita quotidiana. Questo rovesciamento, certamente, non potrà compiersi nell’arco di una settimana o di un anno, ma avrà efficacia e successo, soltanto nella misura in cui inizierà a realizzarsi fin dagli esordi della rivoluzione.
Schematicamente, la Sinistra tedesca ci mostra la forma della rivoluzione, quella «italiana» il suo contenuto, l’IS il processo che, solo, può realizzare quel contenuto.
Dire che la Sinistra tedesca si fonda sull’esperienza proletaria, quella «italiana» sul futuro e l’Internazionale Situazionista sul presente, dovrebbe bastare a far capire in che cosa queste tre correnti si differenziano. Il rischio è quello di smarrirsi in un gioco di specchi, ma la convergenza di questi elementi può aiutare a far meglio comprendere il concetto di rivoluzione intesa come comunizzazione. Non si tratta né di prendere il potere, né di ignorarlo, bensì di distruggerlo, trasformando contemporaneamente l’insieme dei rapporti sociali. Ciascuno dei momenti di questo doppio processo, sostiene e rinforza l’altro.

Comunizzazione

Un monde sans argent, pubblicato nel 1975-76, dal gruppo da cui uscirà il nucleo che animerà «King Kong International» e, in seguito, «La Guerre Sociale»[20], fu il primo testo a mettere esplicitamente al centro della prospettiva rivoluzionaria il concetto di comunizzazione.
Parlare di comunizzazione, significa affermare che una futura rivoluzione non potrà avere alcun senso di emancipazione, né alcuna possibilità di successo, se non avviando, fin da subito, una trasformazione comunista della realtà a tutti i livelli – dalla produzione del cibo al modo di mangiarlo, passando per il modo di spostarsi, di abitare, di apprendere, di viaggiare, di leggere, di oziare, di amare, di non amare, di discutere e di decidere del nostro avvenire etc.
«Comunizzare» non significa rendere gratuito e disponibile per tutti ciò che già esiste, dal telefono cellulare alla centrale nucleare, dalla casa della cultura fino alla panetteria all’angolo. Se così fosse, noi conserveremmo questi mezzi e questi luoghi di produzione e di consumo, semplicemente epurandoli del loro carattere mercantile: la nostra vita sarebbe la stessa, soltanto senza il denaro, il padrone e lo sbirro.
Comunizzazione significa, al contrario, trasformazione: a cominciare, come si diceva negli anni Settanta – ben prima che l’ecologia e la «decrescita» diventassero di moda –, dalla chiusura di metà delle fabbriche[21].
Un tale processo non sostituisce, ma accompagna e rafforza, la distruzione necessariamente violenta dello Stato, e di tutte le istituzioni politiche preposte alla difesa della merce e del lavoro salariato. Questa trasformazione, su scala planetaria, si estenderà indubbiamente sull’arco di una, o più. generazioni. Ciò non implica, tuttavia, che si debbano creare preliminarmente le basi di una società futura, destinata a instaurarsi soltanto dopo una più o meno lunga fase di «transizione». La comunizzazione non prevede prima la presa (o, se si vuole, la distruzione) del potere politico, e poi il rovesciamento dei rapporti sociali; essa è l’esatto contrario di quel che esprime la formula enunciata, nel 1921, da Victor Serge, all’epoca ancora bolscevico, per cui «ogni rivoluzione è sacrificio del presente all’avvenire»[22]. Per dirla in termini positivi, come scrisse Ursula K. Le Guin ne Les Dépossédés[23], non si tratta soltanto di fare la rivoluzione, ma di essere la rivoluzione.

Ma non tutto è risolto…

Qualunque valore si voglia attribuire al concetto di comunizzazione, esso permette tutt’al più di porre il problema, non già di risolverlo – cosa, del resto, che né questa né altre nozioni potrebbero fare. Non è sufficiente fondere le «tre fonti» cui abbiamo accennato, pur se arricchite da una rilettura di Marx, per trovare una soluzione … che non verrà, se non dall’attività pratica di milioni di proletari. Decine di gruppi e di individui hanno ricombinato i suddetti apporti in mescolanze e dosaggi diversi, senza, per questo, ricavarne una prospettiva incentrata sulla comunizzazione. Inoltre, coloro che oggi parlano di comunizzazione, lo fanno in modi diversi, talvolta addirittura opposti. Per «Théorie Communiste», ad esempio, il concetto di comunizzazione designa meno il processo concreto della trasformazione comunista dei rapporti sociali, di quanto non definisca un’epoca radicalmente nuova, in cui la rivoluzione diventa finalmente possibile/necessaria.
Da quasi due secoli, fin dalle prime lotte e insurrezioni suscitate dalla rivoluzione industriale, un dibattito ricorrente attraversa e divide le file dei sovversivi: quale rapporto intercorre tra il movimento operaio e la rivoluzione? Tra l’azione per strappare aumenti salariali e l’abolizione del lavoro salariato? Tra la difesa del lavoro contro il capitale e l’attacco ai suoi fondamenti? Se ne discuteva, prima del 1914, sia nel campo marxista che in quello anarchico[24], all’interno della Sinistra comunista, dopo le sconfitte del biennio 1919-1921 (come testimonia la scissione della KAPD)[25]; etc. Sono state elaborate le risposte più diverse, ma nessuna di esse è stata confermata; nemmeno quella di Marx, secondo cui la resistenza del lavoro al capitale sarebbe la condizione necessaria, ma non sufficiente, della distruzione del capitalismo. L’unica validazione a contare è quella della storia: la rivoluzione. Bisogna essere davvero ingenui, per pensare di detenere «la soluzione» che sarebbe sfuggita ai nostri predecessori...

Comunizzazione e «alternativismo»

Tra gli anni in cui è stata elaborata la nozione di comunizzazione e l’epoca attuale, si è verificato un considerevole slittamento ideologico.
Nel 1975, o nel 1983, anno di pubblicazione del primo numero de «La Banquise»[26], dato il peso che lo stalinismo e il gauchismo ancora conservavano, si trattava in primo luogo di combattere una concezione che riduceva la rivoluzione alla presa del potere politico, e rimandava i cambiamenti effettivi a un lontano avvenire. Oggi allorché la rivoluzione, politica o meno, non interessa quasi più nessuno, assistiamo all’affermarsi dell’idea che sia possibile un cambiamento progressivo sul terreno della vita quotidiana: una conquista del potere sociale che, estendendosi a macchia d’olio e occupando sempre maggiori spazi a livello locale, giungerebbe, infine, a vincere la partita su scala globale. Malgrado, evidentemente, non si riferisca al comunismo, che viene considerato, nella migliore delle ipotesi, un qualcosa di obsoleto, questa concezione riprende e cambia di segno l’idea di comunizzazione; essa pretende, in altri termini, di esprimere una critica della rivoluzione politica e di lottare per un cambiamento sociale immediato.
Ora, il fatto che la rivoluzione possa essere messa in atto in forma immediata, seguendo una via diversa, non implica che iniziare a vivere altrimenti, qui e ora, valga a innescare un processo rivoluzionario. La comunizzazione ha senso soltanto all’interno di una situazione sociale già scossa da interruzioni del lavoro di massa, da folle di manifestanti che invadono le strade, da uno sciopero generale, da rivolte e tentativi insurrezionali, dalla perdita di controllo, da parte dello Stato, su una fetta della popolazione e del territorio; in breve, in presenza di un movimento forte abbastanza, affinché le trasformazioni non si riducano a meri aggiustamenti. Senza di che, il rischio è quello di teorizzare la comunizzazione, riducendola a un processo collaterale. Comunizzare significa, certamente, sperimentare nuovi rapporti e forme di vita a tutti i livelli; ma implica anche, necessariamente, qualche cosa di diverso dal portare alla massima estensione i margini di autonomia che la presente società concede…
e spesso incoraggia. Ormai, ogni città europea e americana – ma questo è sempre più vero anche per l’Asia – possiede il suo gruppo ambientalista radicale, la sua comunità anarchica, il suo squat, la sua rete «bio» etc. Vivere al di fuori del lavoro salariato è una necessità per milioni di europei che il capitale non può impiegare nella sua produzione. L’edonismo contemporaneo rovescia la formula di Victor Serge: esso ci invita a non sacrificare il presente al futuro, a costruire intensamente delle situazioni, a vivere qui e ora, seppure in modo altro, rapporti sociali che, nella sostanza, restano invariati.
Negli anni Sessanta e Settanta, a essere di moda era la costruzione del partito, nell’attesa del Grande Giorno. Oggi, a prevalere, sono gli innumerevoli tentativi di creare forme sociali alternative, che offrano la possibilità di essere vissute sin da subito. Nemmeno i radicali sfuggono a questa illusione: Appel e L’insurrection qui vient[27] dipingono un capitalismo che, dopo avere desertificato la vita intera, avrebbe esaurito ogni sua risorsa; all’interno di questo contesto, iniziare fin d’ora a vivere in modo diverso, sarebbe quindi di per sé una pratica sovversiva.
A essere obliterata è, né più né meno, quella rottura del continuum storico che prende il nome di rivoluzione. Malgrado la loro opposizione all’«altermondialismo», queste tesi ne condividono, nella sostanza, il rifiuto della globalità e della distruzione del potere politico centrale. Esse lasciano intendere che sia possibile conquistare il potere sulla propria vita a livello locale, rimpiazzando una futura rivoluzione sociale, con milioni di rivoluzioni personali e micro-collettive.
Ecco ciò che domina la scena. Questo non significa che sarà sempre così, né necessariamente che sarà così ancora a lungo. Ma conviene sapere in che epoca viviamo.


Bibliografia essenziale:

Testi disponibili sul sito web «Troploin»[28]:
Prolétaire et travail: une histoire d’amour?, 2002-2009.
Solidarités sans perspective & réformisme sans réforme, 2003.
Sulla Sinistra comunista tedesca:
La Révolution ouvrière, et au delà, 2003.
Sulla democrazia:
Contribution à la critique de l’autonomie politique, 2008[29].

Altri testi:
Gilles Dauvè, Karl Nesic, Au-delà de la démocratie, l’Harmattan, Paris/Torino, 2009.
Xavier Vigna, L’Insubordination ouvrière dans les années 68. Essai d’histoire politique des usines, Ed. Presses Universitaires de Rennes, Rennes, 2007.


Note:

[1] Karl Kautsky, Les trois sources du marxisme, Spartacus, Paris, 1969; Vladimir I. Lenin, Tre fonti e tre parti integranti del marxismo (1913), in Vladimir I. Lenin, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1965, pp. 475-480.
[2] Jean Barrot [Gilles Dauvé], Il Rinnegato Kautsky e il suo discepolo Lenin, op. cit.
[3] Cfr. Le Roman de nos origines, Capitolo VI, in particolare le Note 142 e 147.
[4] La RATP è l’azienda di trasporti della regione parigina. All’inizio del gennaio 1968, si costituì un Comité de Coordination, al quale presero parte circa 150 lavoratori della RATP e della Sécurité Sociale, oltre a un certo numero di studenti. Il Comitato nacque in seguito al rifiuto di una parte dei lavoratori delle due aziende, di partecipare a una giornata di lotta indetta dalla CGT e dalla CFDT, in quanto l’iniziativa era ritenuta insufficiente a combattere la politica del governo. Nel corso della prima riunione del Comitato, venne stilato un documento comune, nel quale si esprimeva la totale mancanza di fiducia nei confronti dei sindacati ufficiali, e si invitavano tutti i lavoratori e gli studenti a costituire comitati di lotta nei luoghi di lavoro, e a coordinarsi tra loro.
I lavoratori della RATP entrarono in agitazione, insieme agli operai delle fabbriche parigine, il 18 maggio 1968. Il 23 maggio, tre di essi si recarono al Censier, con l’intento di costituire un Comitato d’azione insieme agli occupanti. Venne stilato, in quell’occasione, un volantino, che sarà poi distribuito in tutti depositi dell’azienda. Nel giro di qualche giorno, il Comitato arriverà a contare una trentina di membri che – contrapponendosi al sindacato, il quale nel frattempo aveva intavolato una trattativa con l’azienda –, nelle giornate seguenti, riusciranno a coinvolgere nella lotta molti dei loro compagni. La mobilitazione sfocerà nel blocco dei depositi e nella costituzione di un nuovo Comitato di lotta. Cfr. Mai Juin 68: une occasion manquée par l’autonomie ouvrière. Le comité d’action RATP, «Mouvement Communiste», 2006.
[5] Cfr. la biografia di Perlman: Lorraine Perlman, Having Little/Being Much, Black &  Red, 1989; e il resoconto di Fredy Perlman e Roger Gregoire, Worker-Student Action Committees. France, May 68, Black &  Red, 1991 (1969) [G.D.]
[6] Cfr. Ouvriers face aux appareils, Maspéro, 1970; e, per quanto riguarda la SAVIEM, lo studio del sociologo Jean-Pierre Terrail, Destins ouvriers, PUF, 1980 [G.D.]. Cfr., inoltre, Le Roman de nos origines, Capitolo III, Nota 78.
[7] Cfr. Le Roman de nos origines, Capitolo VI, Nota 139.
[8] Nel suo discorso del 30 maggio 1968 (cfr. Capitolo VI, Nota 137), De Gaulle invitò la popolazione a «isolare i gruppi estremisti» e a «organizzare un’azione civica», poiché – disse – «la Francia è effettivamente minacciata da una dittatura».
[9] Gruppo chimico-farmaceutico francese. Il 28 maggio 1968, il Comitato Centrale di Lotta della Rhône-Poulenc di Vitry distribuì all’interno della fabbrica un volantino, nel quale si poteva leggere: «Noi operai della Rhône-Poulenc di Vitry, in lotta dal 20 Maggio 1968, facendo parte del movimento popolare ed essendo con esso solidali, contestiamo l’organizzazione dell’attuale società, e abbiamo perciò dato vita a un nuovo tipo di struttura. Ci siamo preoccupati di informare l’opinione pubblica, in nome dell’unità e della comprensione del movimento operaio. La struttura che abbiamo costituito, riunisce l’insieme dei lavoratori in lotta e ci sembra, per questo, che rappresenti la migliore garanzia dell’unità necessaria a promuovere e realizzare le nostre rivendicazioni […].
Ogni Comitato di Base è formato dall’insieme dei lavoratori di uno stesso settore ed è espressione della volontà dei lavoratori stessi. Il Comitato Centrale di Lotta, costituito dai rappresentanti eletti dai vari comitati di base, ne raccoglie e coordina le decisioni, sottomette loro le sue deliberazioni, e le trasmette al Comitato Esecutivo. Il Comitato Esecutivo è formato dai rappresentanti sindacali eletti dai lavoratori, ed è autorizzato a parlare a loro nome. Esso è l’interprete della volontà e delle aspirazioni dei lavoratori presso la Direzione Generale. Questa struttura prova che abbiamo preso coscienza delle nostre responsabilità. Noi vogliamo costruire, non distruggere; cosa che verrà certo disprezzata da quei lavoratori che limitano le loro aspirazioni a delle rivendicazioni materiali. Poiché ci hanno negato la parola, oggi ce la siamo ripresa. Abbiamo cominciato a parlare, e si tratta di un fatto irreversibile».
[10] Confédération Française Démocratique du Travail, sindacato d’ispirazione cristiana, simile all’italiana CISL, fiancheggia il Partito socialista.
[11] Confédération Generale du Travail, sindacato storicamente vicino al PCF.
[12] Cfr. Jean Barrot, Communisme et question russe, La Tête de Feuilles, Paris, 1972.
[13] Stazione della metropolitana di Parigi.
[14] In particolare, la Gauche Proletarienne, la cui componente operaia esprimeva spesso posizioni decisamente antisindacali; ma anche altri raggruppamenti, ad esempio la trotskista Lutte Ouvrière [G.D.]
[15] La SUD (Solidaire Unitaire et Démocratique - Union Syndicale Solidaires) è una confederazione sindacale di formazione relativamente recente, il cui primo nucleo si è costituito all’inizio degli anni Ottanta, e in cui sono confluite diverse realtà del sindacalismo «autonomo». È paragonabile alla nostra CUB.
[16] [François Martin], En quoi la perspective communiste réapparaît, ora in Aa.Vv., Rupture dans la théorie de la révolution. Textes 1965-1975, op. cit. [G.D.]. Vedi Nota 159.
[17] Cfr. Gilles Dauvé, Karl Nesic, Au-delà de la démocratie, L’Harmattan, Paris/Torino, 2009.
[18] Ora in Aa.Vv., Rupture dans la théorie de la révolution. Textes 1965-1975, op. cit. [G.D.]. Traduzione italiana: Jean Barrot, Contributo alla critica dellideologia ultrasinistra, op. cit.
[19] Cfr. Capitolo I, Scheda: La Sinistra comunista tedesco-olandese e il comunismo dei consigli.
[20] Formato da Dominique Blanc e altri ex membri dell’Organisation des Jeunes Travailleurs Révolutionnaires (OJTR). Cfr. Capitolo VII, Scheda: L’ultragauche in Francia.
[21] Una netta posizione «de-sviluppista» fu assunta, nel 1952 (Riunione di Forlì, 28 dicembre 1952), dalla Sinistra comunista «italiana» («il programma comunista»). Il programma rivoluzionario immediato rompeva infatti con la tradizione dominante nel movimento operaio, che vedeva nello «sviluppo delle forze produttive» un fattore incondizionatamente positivo. Tale prospettiva era posta, dalla Sinistra «italiana», come realizzazione di un programma, mentre Un monde sans argent la definiva in quanto prassi immanente. Il testo citato è stato ripubblicato a più riprese, ed è ora reperibile in: www.sinistra.net/.
[22] Victor Serge, Memorie di un rivoluzionario (1901-1941), E/O, Roma, 2001.
[23] Ursula K. Le Guin, Quelli di Anarres (i reietti dell’altro pianeta), TEA, Milano, 2002.
[24] Cfr. Maurizio Antonioli (a cura di), Dibattito sul sindacalismo. Atti del Congresso Internazionale anarchico di Amsterdam (1907), CP, Firenze, 1978.
[25] Cfr. capitolo I, Scheda: La Sinistra comunista tedesco-olandese e il comunismo dei consigli.
[26] Cfr. l’Introduzione di Dino Erba.
[27] Appel (anonimo e s.d., ma 2004); traduzione italiana reperibile in http://untori.noblogs.org/. Comité Invisible, L’insurrection qui vient, La Fabrique éditions, Paris, 2007. Entrambi i testi riprendono i temi e le analisi di «Tiqqun». Cfr. Teoria del Bloom, Bollati Boringhieri, Torino, 2004 e Elementi per una teoria della Jeune Fille, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
[29] Una parziale traduzione italiana del testo è disponibile anche sul sito «Les Mauvais Jours Finiront», http://mondosenzagalere.blogspot.com/.

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