Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

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«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

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«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

5 dicembre 2010

Il sindacalismo di base in Italia

«Battaglia Comunista» (2008)


I limiti strutturali della forma sindacale e la sua decisiva funzionalità alla sopravvivenza del capitalismo sono resi ancora più lampanti dal fenomeno del sindacalismo di base, dimostrazione evidente di come una verniciata di radicalità nel linguaggio non muti di una virgola l’essenza dello strumento sindacale.
Così come al cospetto dell’ultra liberista Partito Democratico si può contrabbandare addirittura Rifondazione Comunista per un partito che difende gli interessi dei lavoratori, allo stesso modo le attuali politiche concertative e di svendita della forza lavoro dei sindacali confederali lasciano incustodito uno spazio nel quale si assestano le varie sigle sindacali sedicenti radicali e di base.
Si tratta della solita operazione che consiste nel recuperare “a sinistra” quello che si perde a causa del costante avanzamento degli attacchi alle condizioni di vita del proletariato.
La strategia è quella consueta del più rancido riformismo che pretende di far passare per battaglie dei lavoratori quelle che sono le quotidiane lotte del sistema capitalistico con tutte le contraddizioni della sua fase di putrescenza:

"La grande truffa riformista si ripete sostanzialmente sempre nelle medesime forme: scambiare i fenomeni propri della dinamica capitalista come prodotti della lotta di classe; impostare tattica e strategia sugli obiettivi derivati da quella impostazione e che sono riconducibili alle condizioni di vendita e di impiego della forza lavoro, alle condizioni di riproduzione della forza lavoro, e alle condizioni di riproduzione del capitale.­­" (1)

Sono le esigenze del capitalismo stesso nella sua fase monopolistica a rendere il sindacato un tassello indispensabile dello Stato borghese, con buona pace di ogni volontaristica velleità dei sindacalisti più “agguerriti”. Come da noi sempre sottolineato, secondo la metodologia marxista le ragioni della politica controrivoluzionaria espressa da queste organizzazioni vanno ricercate “nella base oggettiva della loro determinazione” (2), non tanto in qualche imprecisato tradimento da parte dei vertici da richiamare a una più conseguente militanza comunista!
Se da un lato le difficoltà sempre maggiori di valorizzazione del capitale comportano la fuga verso la speculazione finanziaria o la delocalizzazione delle imprese in paesi in cui il costo del lavoro è minore, dall’altro si traducono in un attacco sempre più radicale verso i lavoratori, nel tentativo di spremere quelle ultime gocce di plusvalore che ancora si può estorcere. Il sindacato è lo strumento indispensabile nelle mani della borghesia per poter far passare tali politiche senza eccessivi contraccolpi sociali. E il sindacalismo di base è parte integrante di questo meccanismo.
È un fatto incontestabile infatti che qualunque sindacato, pro-concertazione o anticontertativo, sia lo strumento con il quale la forza lavoro è venduta non tanto al miglior prezzo di mercato quanto al miglior prezzo possibile per il capitalismo in un dato momento storico.
Fin dalla loro comparsa sulla scena italiana (1979: RdB nel Pubblico Impiego, 1987: Comitati di Base nella scuola) i sindacati di base sono stati caratterizzati dalla presenza di insuperabili e fisiologici limiti nel loro orizzonte economico-politico. Orizzonte visuale che, al di là delle sfaccettature di superficie, si caratterizza in ultima analisi per quattro tratti fondamentali:

nazionalismo, come nella peggiore tradizione del nazionalcomunismo togliattiano;
corporativismo, senza alcuna prospettiva di far assumere alle rivendicazioni economiche un carattere di classe;
costruttivo riformismo, con profusione di sforzi per salvare il capitalismo nella sua versione “buona”;
esclusivo difensivismo, con cieca accettazione delle necessarie compatibilità dell’attuale fase economica.

1. “Riportare l’Italia al ruolo che le compete”

Anche nel sindacalismo di base, come in molte realtà politiche sedicenti radicali, la più lampante e profonda caratteristica che ne svela il carattere antimarxista è la mancanza di una prospettiva coerentemente internazionalista. Nulla di stupefacente, sia chiaro, considerando che il ceto politico seduto ai vertici delle varie single sindacali di base è in larga parte ereditato dal rottame para-stalinista gravitante nell’orbita del Partito Comunista Italiano prima e di Democrazia Proletaria poi.
Ecco apparire quindi nei documenti e nei volantini di questi sindacati una serie di accorati appelli ad una politica che restituisca all’Italia il ruolo di primo piano che le spetta sullo scacchiere internazionale:

"È necessario un cambiamento urgente e radicale degli indirizzi di politica economica e dei suoi riferimenti sociali […]. La RdB Pubblico Impiego ritiene che l’inversione di tendenza debba avvenire attraverso […] il ripristino di una politica economica ed industriale che riscopra il ruolo dell’intervento pubblico. È la scelta che in anni ormai lontani ha consentito all’Italia di svilupparsi e di diventare uno dei paesi più ricchi del mondo." (3)

I toni e il linguaggio sono indistinguibili da quelli di un sindacato dell’epoca del Ventennio fascista. Uno dei paesi più ricchi del mondo? In quale contesto internazionale? In quale fase economica? A spese di chi? Non è un caso che, come scritto da Pannekock nel 1936 (4), la parte più cosciente della classe operaia denunciasse e combattesse lo sfruttamento coloniale mentre il sindacalismo lo considerasse fonte di prosperità.
Se si omette un riferimento di classe trans-nazionale, quello che rimane di queste rivendicazioni è una tensione vagamene sociale, rigorosamente nazionale e di pacificazione tra le classi perfettamente compatibile, anzi indispensabile all’equilibrio capitalistico.
Analogo discorso si attaglia perfettamente alle varie campagne per i salari europei:

"L’aumento di 250 euro che chiediamo serve per recuperare il reddito che i lavoratori hanno perso. Ad esempio serve a riavvicinare i salari dei metalmeccanici italiani a quelli tedeschi che prendono ben 1000 euro in più." (5)

"Innanzitutto il salario europeo, ossia l’equiparazione dei salari di tutti i lavoratori italiani alle medie più alte esistenti nella comunità. Non è pensabile che si creino le gabbie salariali che in Italia esistevano negli anni Cinquanta." (6)

Mi raccomando quindi, si alzino i salari dei lavoratori italiani e non ad esempio degli stranieri che lavorano in Italia o di tutti i proletari. Molto evocativa poi la scelta del paragone con i lavoratori tedeschi che riporta la mente allo sciovinismo antifascista e patriottardo di togliattiana memoria.

2. “Investimenti nel personale della Pubblica Amministrazione”

Altro carattere che soffoca sul nascere ogni slancio rivoluzionario negli ambiti strettamente sindacali è l’incapacità di superare i limiti di una visione corporativa della lotta economica.
Il tentativo di legare le battaglie rivendicative con il filo rosso degli interessi di classe è sistematicamente frustrato in nome delle concrete e quotidiane lotte locali nel proprio settore, secondo la logica del consueto fare oggi quello che è necessario (ma lo è per le esigenze del capitale!) rimandando l’assalto al cielo ad un domani imprecisato e sempre più lontano.
È evidente l’inversione tra mezzi e fini: le battaglie economico-sindacali dovrebbero essere condotte in una prospettiva più ampia di formazione di una coscienza di classe e saldatura degli interessi comuni dei lavoratori; ma come manca una visione trasversale a livello internazionale, manca anche una vera prospettiva trans categoriale.
Ne è piena conferma il naufragio del tentativo di costituire con la Confederazione Unitaria di Base (CUB) una confederazione tra sigle sindacali di base (RdB per il Pubblico Impiego, FLMU per i metalmeccanici, FLTU per i trasporti, FLAICA per il terziario, SALLCA per bancari e assicurativi… ).
A 16 anni dalla sua costituzione, i tentavi di coordinare l’attività delle organizzazioni partecipanti si sono infranti contro le barriere delle burocrazie, dei privilegi, degli interessi di bottega delle sigle aderenti, che hanno impedito di strutturare la confederazione come un’entità unitaria.
Dopo qualche anno di sopportazione reciproca, nel gennaio 2008 la RdB ha finalmente rotto gli indugi con una presa di posizione in cui critica l’inadeguatezza della Confederazione ad affrontare i propri compiti e sospende i propri membri dalla partecipazione alle riunioni del Coordinamento Nazionale. Comunque vada a finire questa ennesima diatriba interna, è evidente che le varie sigle da tempo si muovano autonomamente, se non in aperta contrapposizione reciproca, come nel caso di RdB Trasporti e FLTU.
In ogni caso il contenuto del materiale prodotto da queste organizzazioni lasciava poco spazio ai dubbi. L’apologia del “Pubblico” da parte di RdB raggiunge vette che sarebbero imbarazzanti anche per i vari Capitalismi di Stato presi a modello dalla sua dirigenza politica.
Si va dalla proposta di un “rilancio della Pubblica Amministrazione come fattore di sviluppo” (7) alla grottesca frammentazione all’interno dello stesso pubblico impiego:

"A chi afferma che il decentramento delle funzioni catastali ai Comuni sia la risposta al cattivo funzionamento dell’Agenzia del Territorio, va detto che l’Agenzia del Territorio in questi ultimi anni ha dimostrato di sapere fare bene il suo lavoro raggiungendo i sempre più ”sfidanti” livelli produttivi e migliorando la qualità dei servizi forniti a cittadini e professionisti." (8)

Ovviamente, secondo questo punto di vista, anche il recupero dell’evasione fiscale, panacea di tutti i mali dell’economia secondo l’economicismo riformista, andrebbe destinato a “sostenere una politica di incentivazione dei lavoratori della Pubblica Amministrazione”. (9)
In questo modo si finiscono per svalutare anche le giuste battaglie a difesa di quel simulacro di garanzie sociali che il capitalismo, allo scopo di contenere e addomesticare la conflittualità operaia, si permise di elargire nella sua fase espansiva; ancora una volta esse diventano il fine della lotta e non il mezzo per conquiste superiori.

3. Il Reddito di cittadinanza, la Tobin Tax e il capitalismo dal volto umano

L’approccio social-riformista dei sindacati di base giunge ad una condanna morale del capitalismo passando per la dissociazione tra modo di produzione e modo di distribuzione: tra ricchezza come dominio su cose (ricchezza di produzione, lato buono) e ricchezza come dominio su uomini (ricchezza di distribuzione, lato cattivo).
La forma capitalistica viene ritenuta intoccabile, in nome di un sano e responsabile realismo politico. Ciò contro cui si può lottare, ovviamente entro i paletti fissati dalle istituzioni a difesa dell’ordine economico, è quindi solo la distribuzione ineguale, moralmente ingiusta dei frutti di tale modo di produzione. Conseguentemente, la risposta allo sfruttamento capitalistico dovrebbe essere trovata nell’opportuna regolazione della distribuzione mediante la pianificazione e l’imposizione di leggi, l’assunzione di decisioni politiche e la più rigorosa conformità degli individui a precetti morali corretti e appropriati.
Così si spiegano le campagne per il “reddito di cittadinanza” portate avanti da tutto l’arcipelago dei sindacatini di base, in particolare da COBAS e RdB, organizzazioni distinte non tanto per i contenuti politici-economici delle rivendicazioni, ma per il carattere più movimentista della prima a cui si oppone quello più stalinisticamente burocratizzato della seconda.
Con la battaglia per il reddito di cittadinanza si consacra il carattere universalistico e interclassista delle rivendicazioni e l’abdicazione ad ogni velleità di superamento rivoluzionario del Capitalismo. Anzi, si corre a supplicare i capitalisti stessi perché rinuncino ad una parte del proprio profitto, già soffocato dalla difficoltà di valorizzazione del capitale, perché i lavoratori possano vivere meglio. Non potendosi parlare di ingenuità, l’opportunismo e la pericolosità di queste organizzazioni si pongono nello stesso solco degli storici partiti socialdemocratici che hanno legato mani e piedi il proletariato in attesa della mattanza autoritaria di qualche anno seguente, come negli anni ‘20 e ‘30 del secolo scorso.
Altro esempio paradigmatico di questo modo di intendere l’attività politica è la campagna per la Tobin Tax, la proposta di tassare i capitali speculativi con un’aliquota tra lo 0,25% e lo 0,1%.
Tra i sostenitori di questo strumento, troviamo la rivista “Cestes Proteo”, organo teorico-scientifico della RdB:

"La Tobin Tax si prefigge come obiettivo quello di ridurre le speculazioni perché queste sono la causa dell’incertezza e della volatilità sui cambi e, come abbiamo già detto, possono causare profonde crisi nei mercati emergenti. Alcuni sostenitori della Tobin vogliono, con questa proposta, combattere la speculazione in quanto considerano gli investimenti finanziari negativi per lo sviluppo. In altre parole, gli investitori che giornalmente spostano i loro capitali da un investimento all’altro alla ricerca di rapidi guadagni non producono nulla, se questi capitali fossero investiti per la produzione di beni e servizi si favorirebbe lo sviluppo e quindi l’occupazione, e solo in questo modo si potrebbe combattere la povertà. Quindi gli effetti della Tobin sono: proteggere i Paesi in via di sviluppo dagli attacchi speculatori e favorire lo sviluppo di questi Paesi." (10)

Siamo di fronte ad una perfetta sintesi di idealismo, opportunismo e assoluta continuità con gli schemi non solo economici, ma perfino mentali del capitalismo, secondo i quali il capitalista si dà alla speculazione, piuttosto che investire nella produzione, per una brama individuale di profitto e non per le superiori esigenze di destinazione dei capitali imposte dal ciclo economico.
Tutto questo concorda perfettamente con l’intrinseco carattere del sindacalismo in generale, le cui rivendicazioni devono necessariamente rimanere all’interno del capitalismo rispetto al quale esso di pone come una forza oggettivamente conservatrice.
Infatti se nelle fasi di espansione economica i sindacati possono vedere più facilmente accettate le proprie rivendicazioni e aumentare la propria credibilità verso i lavoratori, nelle fasi di declino essi devono lavorare per il rilancio dell’economia capitalistica:

"Per il sindacalismo di base per rilanciare l’economia italiana è necessario prendere una direzione completamente diversa, perché sono le politiche liberiste che hanno reso precaria l’esistenza di milioni di persone […] L’economia italiana è quella che sta soffrendo la crisi più di ogni altro Paese e la vita dei ceti popolari è diventata insostenibile […] Riteniamo che Il Pacchetto Treu e la Legge 30 debbano essere sostituiti da 4 o 5 rapporti di lavoro." (11)

È evidente che solo un capitalismo in piena salute possa esaudire le richieste socialriformistiche dei sindacatini.

4. La firma tecnica sui contratti

Tutto quanto scritto in questo documento dimostra il carattere esclusivamente difensivo delle battaglie condotte dai sindacati di base, condannati per la loro stessa essenza e per la congiuntura economica in cui si trovano a condurre un backgammoniano “combattimento in ritirata”. Il fatto di ritrovarsi in una determinata fase economica senza comprenderne le dinamiche e le prospettive porta queste organizzazioni ad un’accettazione passiva delle compatibilità del sistema. Non prefigurando in ogni caso una via di uscita che non sia all’interno della cornice capitalistica, le differenze tra sindacati confederali e di base si riducono a superficiali divergenze quantitative riguardo alle rivendicazioni, senza mai sfociare nel qualitativo.
Un’ulteriore conferma di tutto ciò sta negli strumenti usati nel perseguimento dei tanto decantati obiettivi immediati, quotidiani. Una nostra critica profonda ai sindacati di base è sempre consista nella loro inevitabile accettazione delle “regole del gioco” in materia tanto di leggi antisciopero, quanto di diritti sindacali (permessi retribuiti e non, tutela dai trasferimenti, indizione delle assemblee retribuite, ecc… ). La legge prevede ad esempio che nel pubblico impiego possano usufruire dei diritti sindacali solo le sigle che abbiano conquistato la maggiore rappresentatività; essa si può conseguire in due modi:

• apponendo la firma sul contratto;
• potendo contare su una media almeno del 5% tra numero di iscritti nel comparto e votanti alle elezioni per la RSU.

Partendo da questo scenario, è divenuta ormai prassi consolidata la cosiddetta “firma tecnica” sui contratti:

"Nonostante la valutazione fortemente negativa sui contenuti degli accordi espressa dalla nostra Organizzazione e confermata dalla consultazione dei lavoratori dei due comparti interessati, la RdB Cub Pubblico Impiego firma questa mattina all’Aran i contratti dei Ministeri e quello degli Enti Pubblici non Economici (Parastato) con l’intenzione di difendere fino in fondo gli esigui spazi di agibilità sindacale ormai rimasti nel nostro Paese.

"Nonostante una valutazione assolutamente negativa dei contenuti contrattuali […] firmiamo per salvaguardare gli spazi di dissenso ed opposizione in un quadro di relazioni sindacali che sta scivolando sempre di più verso il fascismo.

"Questa mattina la RdB firma i contratti ma appare evidente che il problema non è certo la firma o la non firma. Il problema vero, e che riguarda tutti, ancor di più in un momento di forte attacco ai diritti dei lavoratori, è quello della Democrazia, quella con la D maiuscola." (12)

Ecco ancora agitare lo spettro del Fascismo e la chimera della Democrazia per nascondere l’ennesima svendita alle compatibilità del sistema.

La deriva confederale/concertativa di queste organizzazioni è un fatto difficilmente contestabile: se si prescinde da una prospettiva rivoluzionaria in nome della difesa degli interessi immediati non si può che riconoscere la maggiore affidabilità degli strumenti istituzionali di contrattazione rispetto alle avventuristiche utopie dei veri comunisti.

L’intervento nel sindacato

Ovviamente, non ci stancheremo mai di dirlo, tutto quanto scritto in queste pagine non comporta una sottovalutazione dell’importanza delle lotte economiche o delle rivendicazioni immediate, tradeunionistiche. Esse sono una fondamentale palestra di lotta del proletariato se condotte con la prospettiva di farle trascrescere in lotta politica.

Ogni possibile fraintendimento sulla posizione dei rivoluzionari verso il sindacato è facilmente risolvibile distinguendo tra il sindacato come ambito di intervento e come strumento di lotta. È infatti responsabilità dei comunisti intervenire nel sindacato, senza però diventarne membri partecipe, senza condividerne le responsabilità; portando al sindacato le istanze dei lavoratori, raccogliendo e organizzando i membri che vanno contro il sindacato stesso. Il che non esclude che, tatticamente e temporaneamente, in singoli ben determinati casi, i compagni possano iscriversi a questo o quel sindacato.

Denunciare il ruolo di tutti i radicalriformismi è compito irrinunciabile dei comunisti: la comprensione delle dinamiche sindacali è parte integrante della maturazione della coscienza rivoluzionaria.

In particolare è necessario scardinare il meccanismo con il quale l’inevitabile malcontento che matura in seno alla classe lavoratrice viene recuperato alle medesime logiche capitalistico-borghesi da quegli argini a sinistra del Capitalismo rappresentati dai sindacati di base.

Note:
(1) Articolo “Uomo, ambiente e capitale” di Mauro Stefanini Jr su Prometeo del 1/6/94.
(2) Articolo “Neutralità del sindacato” su Battaglia Comunista del 1/10/98.
(3) Volantino RdB/CUB per le elezioni RSU 2004.
(4) “Il sindacalismo”, Pannekock, 1936.
(5) Comunicato Stampa della CUB dopo le sciopero di 8 ore proclamato da CUB, Sincobas, SULT, CIB-Unicobas, USI e CNL per il 21 Ottobre 2005.
(6) Intervista di Pietro Bernocchi, leader dei COBAS a Liberazione del 10/2/02.
(7) Volantino RdB/CUB per le elezioni RSU 2004.
(8) “Evasione fiscale in Italia: il peso del fisco, la leggerezza dello Stato Sociale” a cura di RdB Pubblico Impiego — settore Agenzie Fiscali.
(9) Idem come sopra.
(10) “Lo sviluppo alternativo eco-socio compatibile” di Valeria Cipriani in “Cestes Proteo”, n. 2003-1, pp. 117.
(11) Volantino della CUB per lo sciopero di 8 ore proclamato da CUB, Sincobas, SULT, CIB-Unicobas, USI e CNL per il 21 Ottobre 2005.
(12) Comunicati di RdB in occasione del 24 gennaio, giornata di mobilitazione nazionale per democrazia sindacale, salario e contro lo smantellamento della P.A.



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