Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

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«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

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«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

9 dicembre 2008

Reich, modo d'uso



[Il testo che segue, accompagnato da una breve presentazione del traduttore, é apparso sul n.8 della rivista Vis-à-Vis, Massari, 2000]


Presentazione

di Sergio Ghirardi

Il testo qui presentato ha il merito di stabilire un esplicito collegamento tra la filosofia di Reich e la sensibilità situazionista che, oltre ogni fastidioso prosituazionismo, vecchio o nuovo, è più che mai nel cuore della coscienza sociale contemporanea.
Alcune affermazioni e atteggiamenti sono chiaramente datati, prigionieri di una retorica rivoluzionaria senza interesse, ma la nozione di carattere ha un’importanza di primo piano per la definizione della forma contemporanea di un modo di produzione assunto progressivamente a seconda natura umana, nello spettacolo sociale. Il concetto di feticismo scientifico è particolarmente interessante. Oltre parecchie felici intuizioni, il testo invita a qualche critica ed a dei distinguo più approfonditi di quelli a cui sto per accennare, ma è tutta la questione del carattere - particolarmente nella sua forma sociale - che aspetta ormai da troppo tempo un approfondimento.
Nelle brevi note di J.P.Voyer, qui riproposte, si afferma comunque, per la prima volta esplicitamente, lo sviluppo caratteriale del dominio capitalistico sull’uomo. Questa estensione, fin nelle strutture individuali della specie, dei criteri dell’economia, dà al concetto di alienazione una struttura biologica che, in effetti, travalica la contrapposizione di classe che storicamente ha accompagnato tutta la civiltà dell’economia, fino ai nostri giorni. Laddove Marx affermava di dover abbandonare lo studio della natura per concentrarsi sulla storia, oggi ci troviamo di fronte all’esigenza opposta, ma non contraddittoria, di ritrovare la natura al centro di un processo storico che la sta negando, in nome di quel profitto che ha già da tempo negato l’uomo.
La riconciliazione tra uomo e natura diventa il presupposto di ogni ipotesi di rivoluzione, perché lo sfruttamento del tempo di lavoro e il conflitto sociale che ne deriva travalicano ormai quella contrapposizione di classe in cui storicamente, finora, la questione sociale si è espressa.
La forma moderna del dominio del capitale sull’uomo, con il suo corteo putrescente di inquinamento generalizzato, dagli oceani ai cervelli, dai cuori ai cibi che dovrebbero nutrirne i desideri, sposta nel cuore della natura e della natura umana la presa di coscienza necessaria e possibile delle reali condizioni dell’esistente. E’ quanto ha reso la politica specializzata un’attività intrinsecamente spettacolare e la critica sociale della vita quotidiana l’espressione radicale di un’esigenza urgente di totalità.
Si fa luce concretamente l’ipotesi che il conflitto sociale sia ormai ancor più profondo di quella lotta tra le classi, in cui storicamente si è espresso, ed a cui ancora Voyer si riferisce, reiterando che «la lotta di classe esiste».
Ciò che sicuramente esiste, nonostante si cerchi con tutti i mezzi di renderlo invisibile, è il proletariato. Ma si pone la questione del suo progetto, della sua abolizione e del nemico da combattere. Sappiamo da tempo che, se dietro il citoyen si nascondeva il borghese, nessun dio, nessuna avanguardia rivoluzionaria e nessun partito - se non il partito preso della vita - potrà salvarci da ciò che si nasconde anche dietro il compagno.
I situazionisti, nel loro tempo, hanno cominciato a praticare la critica radicale che si ispira a questa coscienza, e Reich, prima di loro e al di là di alcuni suoi errori, ha contribuito a mettere in luce gli elementi costitutivi di un passaggio cruciale dei rapporti sociali, ad un livello interiorizzato di alienazione. I suoi errori sono del resto solo in parte quelli che gli imputa il testo che segue. Il termine genitalità, per esempio, non è affatto automaticamente sostitutivo di individualità, nella lettura della concezione di Reich. Esso indica nella funzione genitale il compimento - certo ancora meccanicistico, perché la natura, prima dell’intervento della coscienza e del libero arbitrio, veicola effettivamente un meccanicismo primitivo di cui l’umano è un possibile superamento - della funzione animale sulla quale l’umano applica l’alchimia del suo desiderare. Cioè, del superamento cosciente della pulsionalità meccanicistica. Solo una coscienza accerchiata dalla morale sessuale coercitiva e dalla volontà di potenza può confondere pulsione e desiderio, togliendo all’umano la sua caratteristica essenziale: quella di essere il soggetto della coscienza e del libero arbitrio che essa introduce nella natura.
Da condividere con Voyer c’è, piuttosto, la critica della concezione del lavoro in Reich. Mancando curiosamente di una sensibilità fourierista che sembrerebbe consona all’insieme della sua sensibilità, egli fa in effetti un’evidente confusione tra attività creativa e lavoro. E’ effettivamente una confusione di stampo marxista-leninista.
Resta comunque, in conclusione, l’essenziale: la messa in luce del nodo caratteriale, oltre le questioni specialistiche della terapia individuale, come il centro del funzionamento dei rapporti sociali nella società dello spettacolo .
Se il superamento del meccanicismo è effettivamente un’esigenza rivoluzionaria, tuttavia è spesso proprio il misticismo rivoluzionario, che pretende di combatterlo in nome di un materialismo idealizzato, che ne garantisce la continuità e la riproduzione.

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Reich, modo d'uso

di Jean Pierre Voyer (dell'Istituto di Preistoria Contemporanea)(1)

«La cosa contiene nella sua seconda parte, in forma straordinariamente densa, ma relativamente popolare, non poche novità che anticipano il mio libro, mentre essa deve al contempo necessariamente sorvolare su molte altre. Credi che sia bene anticipare in questo modo soggetti di tal fatta?»
Marx ad Engels, 24 giugno 1865.


1.   La nozione di carattere secondo Reich.

«Per trovare l’amore a Parigi, bisogna scendere fino alle classi la cui mancanza di educazione e di vanità unita alla lotta con i veri bisogni hanno lasciato maggiori energie. Lasciar trasparire un forte desiderio insoddisfatto vuol dire mostrarsi inferiore, cosa impossibile in Francia, se non per la gente di più bassa condizione ... Ne derivano le lodi esagerate nei confronti delle ragazze da parte di quei giovani che temono il proprio cuore.»
Stendhal, Dell’amore


Sotto la spinta della lotta pratica e teorica contro le resistenze nell’analisi, Reich giunse con una totale consequenzialità a concepire il carattere (carattere nevrotico) come la forza stessa di queste resistenze(2). Contrariamente al sintomo che dobbiamo considerare come un prodotto ed una concentrazione del carattere e che viene risentito come un corpo estraneo che provoca una sensazione di malattia, il tratto di carattere è una componente organica della personalità. L’assenza di coscienza della malattia è un segno fondamentale della nevrosi caratteriale. E questo spiega perché questa degradazione dell’individualità poteva apparire soltanto all’interno di un tentativo di comunicazione - la stessa tecnica analitica – che, per quanto unilaterale, doveva rivelare ben presto il carattere per ciò che esso è: una difesa contro la comunicazione, una perdita della facoltà di incontro. Tale è il prezzo pagato alla funzione primaria del carattere: la difesa contro l’angoscia(3). Non c’è bisogno di soffermarsi sull’origine dell’angoscia, sulle sue cause ed il loro fissarsi. Diciamo semplicemente che la forma particolare del carattere è una piega che si prende prima del decimo anno di età, cosa che non sorprenderà nessuno.
La discrezione di questa disposizione spiega il fatto che essa resti ignorata in quanto flagello sociale, così come viene ignorata la sua durevole efficacia. Questa disposizione produce degli individui degradati, spossessati al massimo grado di intelligenza, di sociabilità e di sessualità, e conseguentemente davvero indipendenti gli uni dagli altri, condizione ideale per il funzionamento ottimale del sistema automatico della circolazione delle merci. L’energia che l’individuo può impiegare a riconoscere e ad essere riconosciuto è legata nel carattere, cioè impiegata a neutralizzare sé stessa.
In tutte le società in cui regnano le condizioni moderne di produzione, l’impossibilità di vivere prende individualmente la forma della morte, della follia o del carattere. Dalla parte dell’intrepido dottor Reich e contro i suoi recuperatori e detrattori orripilati, noi postuliamo la natura patologica di ogni tratto caratteriale, cioè di ogni cronicità nel comportamento umano. Ciò che ci interessa non è la struttura individuale del nostro carattere, né la spiegazione della sua formazione, ma l’impossibilità della sua applicazione alla costruzione di situazioni.
Il carattere non è dunque una semplice escrescenza maligna che si potrebbe trattare separatamente, ma nello stesso tempo un rimedio individuale in una società globalmente ammalata, rimedio che permette di sopportare il male aggravandolo. La gente è in gran misura complice dello spettacolo dominante. Il carattere è la forma di questa complicità .
Noi sosteniamo che la gente non può dissolvere il proprio carattere, se non contestando la società intera (contrariamente a Reich, quando considera l’analisi caratteriale da un punto di vista specializzato), mentre, visto che la funzione del carattere è quella di adattarsi allo stato di cose vigenti, la sua dissoluzione è un preliminare alla critica globale della società. Bisogna interrompere questo circolo vizioso.
La contestazione globale inizia con la critica in atti del lavoro salariato(4) secondo un principio fondamentale fuori discussione: «non lavorate mai». Le qualità di avventura assolutamente necessarie per una tale impresa sono esclusive del carattere. Il carattere è la rovina di queste qualità. Il problema della contestazione della società intera è dunque anche il problema della dissoluzione del carattere.

2. La sua applicazione all’effetto di spettacolo.

«I concetti più importanti e più veri dell’epoca sono misurati con precisione dall’organizzazione su di loro della più grande confusione e dei peggiori controsensi [...]. I concetti vitali conoscono contemporaneamente gli impieghi più veri e più menzogneri [...] perché la lotta della realtà critica e dello spettacolo apologetico conduce ad una lotta sulle parole [...]. Non è la purga autoritaria che rivela la verità di un concetto ma la coerenza del suo uso nella teoria e nella vita pratica.»
I.S. n. 10.

Pubblico:  relativo a tutto un popolo.
Pubblicità: Notorietà pubblica, carattere di ciò che è fatto in presenza del pubblico, stato di ciò che appartiene al pubblico.
Dal Larousse del XX secolo

La pubblicità della miseria non si distingue dall’idea della sua soppressione(5). E’ così che lo spirito viene agli uomini. La miseria è sempre la miseria della pubblicità. Bisogna ricercare dunque le ragioni della persistenza della miseria in ciò che causa la miseria della pubblicità.
Il feticismo è la miseria della pubblicità. E’ la forma stessa della separazione sociale. Dovunque c’è opposizione degli individui e della loro totalità, questa opposizione prende la forma del feticismo della totalità. L’opposizione del tutto e degli individui si fa per mezzo di parti del tutto, che sembrano isolate o legate da relazioni sconnesse dal tutto e tra di loro(6). La coscienza ingannata è il momento fondamentale del feticismo. Con essa le cose diventano ciò che appaiono. L’assenza della coscienza prende la forma della coscienza.
Il feticismo della merce è concentrato nel suo valore. Marx avrà avuto bisogno di qualche migliaio di pagine del Capitale per chiarire fino in fondo la realtà di questo feticcio. E’ il giogo del valore che china le fronti umane, siano esse borghesi, burocratiche o proletarie. Il valore è il rapporto fra due quantità. Che cosa c’è di più irreale del fatto che qui e ora x chilogrammi di carote valgano y litri di vino, oppure z minuti di garzone di barbiere? Il valore è qui ed ora l’autonomia esorbitante della merce. E’ rischioso rubare, saccheggiare o incendiare. Lo è ancora di più non lavorare mai! Il valore si esercita implacabilmente(7), mentre lo sguardo ingannato non incontra che le cose e il loro prezzo!
Nel XIX secolo, con l’opposizione compiuta della vita dell’individuo e di quella del genere al quale esso appartiene (in vita quotidiana, da un lato, e in circolazione automatica delle merci, dall’altro), tutte le speranze - quelle di Hegel e quelle di Marx - sono permesse. A questo stadio le cose sono chiare: la vita quotidiana non è nulla, la circolazione è tutto. Il niente della vita quotidiana è un momento visibile del tutto della circolazione. Il feticismo non inganna più nessun altro che la classe dominante e i suoi sicofanti. Molte volte il proletariato si è lanciato all’assalto della totalità e la pubblicità della miseria sfiorò il trionfo sulla miseria della pubblicità.
Oggi le cose sono molto cambiate. La modernizzazione delle lotte degli oppressi, e soprattutto la loro incompiutezza, hanno portato alla modernizzazione rapida del feticismo, da parte della classe dominante e del suo Stato, a partire dal 1930. L’entrata in scena del feticismo scientifico è stata davvero notevole: new deal, bolscevismo e nazional-socialismo simultaneamente. Questa modernizzazione consiste essenzialmente nel privare la vita quotidiana di quanto le era rimasto: la sua negatività, cioè la pubblicità della sua miseria, la pubblicità della sua nullità. Il segreto della miseria della vita quotidiana è il vero segreto di Stato. E’ la chiave di volta che completa l’edificio della separazione che è anche l’edificio dello Stato.
Lo spettacolo, o sviluppo scientifico del feticismo, non è che la proprietà privata dei mezzi di pubblicità, il monopolio di Stato di ciò che appare. Con esso soltanto la circolazione resta pubblica. Lo spettacolo non è che la circolazione delle merci che assorbe tutti i mezzi di pubblicità disponibili, condannando così la miseria all’invisibilità. Lo spettacolo è la forma segreta della miseria pubblica, in cui il valore si esercita implacabilmente mentre lo sguardo ingannato incontra soltanto le cose e il loro uso.
Nella pubblicità imperialista della circolazione delle merci, il valore non appare mai. E’ lo spettacolo dell’invisibilità del valore. Questa invisibilità “naturale” costituisce la tendenza fondamentalmente spettacolista della circolazione che la borghesia potrà sfruttare nello sviluppo scientifico del feticismo. La circolazione può apparire come una kermesse dell’uso, basta che il valore non sia altrimenti pubblico. Ovviamente, principalmente uso del denaro. Si comprende facilmente, allora, il fascino subìto dallo spettatore, confrontato quotidianamente con il valore. E’ l’effetto di spettacolo. Esso previene ogni idea: tutto sembra realizzato. Vieta ogni riconoscenza: il miserabile si conosce come il solo miserabile. L’uso del denaro appare spontaneamente come lo strumento dell’abolizione del valore. Colmo dell’inversione. E’ così che lo spirito non viene agli uomini (e neppure alle ragazze, ciò che è ancor più esecrabile).
Situato nei primi ranghi, Wilhelm Reich non poté evitare di essere colpito dal ruolo giocato dal carattere, in quanto struttura anti-individuale nella magnifica messa in scena nazista(8). Egli abbandona il quesito burlesco «Perché gli operai si rivoltano?», rivolto agli psicanalisti, psichiatri, sociologi e altri servitori dello spettacolo, per porre invece la questione fondamentale: «Perché non si rivoltano?»(9). Reich attribuisce la sottomissione all’annientamento dell’individuo da parte del carattere. Tesi difficilmente contestabile. Necessaria ma insufficiente. Pretendere che questa società non abbia una tendenza intrinsecamente spettacolista equivarrebbe a dire che lo spettacolo è la grande opera della sola classe dominante. Sarebbe attribuirle molto talento. Noi sappiamo che la classe dominante è la prima vittima delle sue proprie illusioni. Essa segue il movimento. Abbiamo dimostrato più sopra la ragione di questa tendenza. Il carattere, a parte ciò, è incontestabilmente reale e si palesa clinicamente. Si tratta ora di sapere di che cosa esattamente è il fattore clinico, una volta constatata la sua insufficienza in quanto nozione separata. Come nozione separata è soltanto un feticcio in più.
La nostra tesi è la seguente: il quantitativo regna. Tutti i rapporti umani sono retti dal rapporto di quantità fra di loro, ma appaiono, comunque, come dei puri rapporti umani; altrimenti, lo sguardo ingannato non incontra che le cose e il loro prezzo. Abbiamo visto rapidamente l’effetto spontaneamente spettacolista di questo dato “naturale” che è l’invisibilità del valore. Ciò non toglie che il valore non smetta di essere vissuto da ognuno come l’ineluttabile necessità della propria vita quotidiana. Abbiamo visto che questo vissuto segreto completava la tendenza spettacolista della circolazione delle merci. Che cosa scopre clinicamente Reich chiamandolo carattere? Noi sosteniamo che con questo mezzo viene colto il valore in quanto necessità disumana, altrimenti invisibile. E’ anzi, finora, il solo mezzo di approccio concreto del valore, in quanto miseria segreta dell’individualità. Reich braccò sotto questa forma l’incoscienza, la sua miseria e le sue miserabili istanze repressive, che traggono la loro forza ed il loro apparato magico soltanto dall’impero del valore sulla vita quotidiana. E’ soltanto perché la socializzazione universale dei rapporti umani ha preso la forma unica del valore, che è la loro negazione, che i rapporti umani autentici, sanciti dal piacere, sono conservati in questa socializzazione come rapporti naturali tra uomo e uomo, e a questo titolo considerati illeciti e clandestini, poiché tutta la socialità, tutta l’umanità è occupata (nel senso di Lyautey) dal valore, sola socializzazione lecita. Ciò che tende a sfuggire alla legge del valore prende dunque la forma del “naturale”, cioè per definizione, di ciò che sfugge alla padronanza dell’umanità.
Nel suo terzo manoscritto filosofico, Marx misura l’umanità dell’uomo, la sua socializzazione, con il grado di socializzazione del rapporto «immediato, naturale, necessario» dell’uomo con l’uomo: il rapporto tra l’uomo e la donna. Il valore come socializzazione universale, come forma unica e rovesciata dell’umanità, è anche l’impossibilità della socializzazione di questo rapporto, che resta quindi «il più naturale», cioè il più contrastato dalla socialità regnante. Questo naturale si confonde, in seno alla socializzazione universale da parte del valore, con il suo grado di deterioramento(10), allo stesso titolo che il grado di naturale degli indiani Nambikwara, in seno alla nostra civilizzazione, si confonde con il loro grado di sterminio.
Questo livello di deterioramento - psicosi, nevrosi, carattere - come indice della non-socializzazione, della non-umanità dell’uomo è l’oggetto reale della psicanalisi. Quel vecchio farabutto di Freud arrivò fino ad identificare questo grado di “naturale”, con lo stato selvaggio, e questa socializzazione rovesciata dal   valore, con la civilizzazione. La psicanalisi fu e sarà la paleontologia di questa preistoria.
Noi appoggiamo la nostra tesi, ancora puramente teorica, sulla seguente osservazione clinica: se per una causa fortuita il carattere dell’individuo si trova dissolto, la forma fenomenica spettacolare della totalità viene dissolta nella sua pretesa di farsi passare per l’assenza del valore. Abbiamo dunque constatato, per il momento negativamente, una identità tra il carattere e l’effetto di spettacolo. Che il soggetto precipiti nella follia, pratichi la teoria o partecipi a un’insurrezione(11), abbiamo constatato che i due poli della vita quotidiana - contatto con una realtà ristretta e separata, da una parte, e contatto spettacolare con la totalità, dall’altra - sono aboliti simultaneamente, per far posto all’unità della vita individuale, ciò che Reich chiama infelicemente genitalità (noi preferiamo individualità).
I lavori di Reich sono i primi, dopo Marx, a mettere concretamente in luce l’alienazione. La teoria dello spettacolo è la prima teoria che, dopo Marx, si preoccupa di essere una teoria dell’alienazione. La sintesi di questi due metodi conduce a conseguenze immediate, che svilupperemo nella nostra prossima opera.
Innanzitutto, noi sosteniamo che la pratica della teoria non si distingue dalla genitalità concepita da Reich. La teoria diventa la conoscenza permanente della miseria segreta, del segreto della miseria. Essa è dunque, anche di per sé stessa, la cessazione dell’effetto di spettacolo. Essendo lo spettacolo la forma segreta della miseria pubblica, il suo effetto risiede nel suo segreto. La teoria si confonde, dunque, con la possibilità vissuta (pleonasmo in opposizione alla probabilità, la quale è vissuta come il dubbio o l’indifferenza). La teoria è la vita quando tutto è possibile. Cessa di esistere nel momento in cui sbaglia e si trova rigettata nella noia, nell’effetto di spettacolo. La teoria, quando esiste, è dunque sicura di non sbagliarsi. E’ un soggetto esente da errore. Niente l’inganna. La totalità è il suo unico oggetto. La teoria conosce la miseria come segretamente pubblica. Essa conosce la pubblicità segreta della miseria. Tutte le speranze le sono permesse. La lotta di classe esiste.
Lo spettacolo è l’assenza dello spirito, il carattere è l’assenza della teoria. Il proletariato sarà visibile o non sarà. Il proletariato risiede nella sua propria visibilità. L’organizzazione del proletariato è l’organizzazione della sua visibilità. La pratica globale del proletariato sarà la sua pubblicità permanente o niente. Hitler, i leninisti ed i maoisti l’hanno capito così bene che hanno organizzato con la forza la visibilità del proletariato. Il capitalismo, più ambizioso, vuole realizzare la visibilità del proletariato abolito.
La visibilità della miseria non è, da sola, il proletariato. Necessaria ma non sufficiente essa può non essere che la teoria. Il proletariato reclama che la visibilità della miseria sia pubblica. La critica deve essere nello stesso tempo teoria della pubblicità (della visibilità) e pubblicità (visibilità) della teoria. Il suo oggetto deve assicurarle la sua pubblicità. Quando essa è pubblica non si sbaglia. Essa non è la teoria della pubblicità, se non assicura la sua pubblicità. E’ veramente il colmo del ridicolo, per un teorico della pubblicità, non poter assicurare la pubblicità della sua teoria.
Il proletariato è l’unità infine realizzata della teoria della pubblicità e della pubblicità della teoria.
Noi crediamo che questi cenni siano superiori a tutto ciò che ha potuto dire un Lukacs sulla coscienza di classe. Indiscutibilmente, hanno il vantaggio di essere brevi. I pubblicitari sanno che in pubblicità la brevità è primordiale: «Se ne avete tre vi spetta di diritto!»(12). Non si può essere più brevi nel disprezzo. Ciò che essi non possono immaginare è che essa sarà ancora più breve, al momento di una Strasburgo delle fabbriche. La visibilità sarà folgorante, colpo di pistola e sorgere del sole, o non sarà(13).
Per l’istante, le nostre formule hanno dalla loro parte, forse, soltanto la brevità. Bisognerà introdurvi i concetti di “ Bridel” o “ Camembert”, affinché esse conoscano tutta la loro chiarezza. Un giorno verrà, ed è vicino, in cui tutti i camemberts della terra non potranno più soffocare l’incontro della teoria della pubblicità e della pubblicità della teoria.

novembre 1971

Note:

(1)          Al momento della pubblicazione di questo testo (1971) l’Istituto di Preistoria Contemporanea stava preparando una Enciclopedia delle Apparenze: Fenomenologia dell’Assenza dello Spirito.
(2)          Questa fondamentale ricerca di W. Reich aveva preso inizio già nel 1924 con il Der triebhalfe Charakter in cui la questione caratteriale veniva soltanto accennata, senza alcun tentativo di definizione. Nel 1928, invece, in Ueber Charakteranalyse (in Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse, vol. 14, pp. 180-196, 1928) si mettono le basi dell’ Analisi caratteriale, Sugar, Milano, 1973, che è la traduzione italiana della prima edizione tedesca del 1933.
(3)          La situazione critica in cui si valuta pienamente il prezzo di questa difesa è l’amore. E’ sempre merito di Reich aver mostrato che la difesa caratteriale contro l’angoscia si pagava, in questa situazione, con l’incapacità alla tenerezza, da lui chiamata inopportunamente impotenza orgastica. A questo livello, il carattere si riunisce al sintomo.
(4)          Mentre Reich arrivava in modo ambiguo a considerare il carattere come ostacolo al lavoro, noi sosteniamo che il carattere è un ostacolo alla critica del lavoro.
(5)          Il lettore avrà riconosciuto la coscienza di classe. Non la confonda dunque con lo spettacolo della miseria che è la versione pubblicitaria della pubblicità della miseria.
(6)          L’opposizione del tutto agli individui non si fa che per mezzo di parti del tutto, purtroppo! Quando l’opposizione degli individui alla totalità diventa “totale” le cose diventano totalmente chiare.
(7)          Il lavoratore ha sul ricco lo stesso vantaggio che lo schiavo ha sul padrone. Lo schiavo conosce la paura, il lavoratore - merce vivente - conosce il valore.
(8)          Che cos’è la coscienza di classe?, 1934. In questa piccola opera, Reich tocca il vertice dell’ingenuità leninista. Malgrado le sue negazioni, egli fa l’apologia della conoscenza storica specializzata. Vi si trova persino un curioso abbozzo del concetto maoista dell’educazione come spettacolo della miseria. Psicologia di massa del fascismo e Materialismo dialettico e Psicanalisi sono in permanenza impregnati di una concezione meccanicistica degli istinti.
(9)          [N.d.t.:  Materialismo dialettico e Psicanalisi, trad italiana in Vis-à-Vis, n. 7, Massari, 1999, pp. 334-358.]
(10)      Secondo il  principio: «Ciò  che  non  è  superato  imputridisce,  ciò  che  imputridisce  incita  al  superamento» (R.Vaneigem).
(11)      Il 1968 ci ha  fornito fortuitamente un materiale abbondante e svariato.
(12)      Insolente spot per i camemberts Bridel.  
(13) [N.d.t.: Sostenuto da un estremismo minaccioso, spiacevole retorica dell’epoca e dei suoi terrori, il testo si riferisce in questo punto ad un’azione dei situazionisti, i quali, nel 1966 a Strasburgo - nel contesto di un intervento articolato, caratterizzato da diverse pratiche radicali -, avevano fatto tra l’altro pubblicare, a spese della sezione strasburghese dell’Unione Nazionale degli Studenti di Francia (UNEF), il loro pamphlet, Della miseria in ambiente studentesco, traduzione italiana disponibile: Nautilus, Torino, 1995; ora anche in Vis-à-Vis, n. 6, Massari, 1998]

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