"Ricordiamoci in
che modo gli altri popoli ci hanno trattato e come ci trattano ancora
dappertutto, come stranieri, come inferiori. Guardiamoci dal considerare e dal
trattare quale cosa inferiore ciò che ci è estraneo e non abbastanza noto!
Guardiamoci dal fare noi quello che ci è stato fatto".
Martin Buber, 1929
Nel
momento in cui scriviamo queste righe, tutto il mondo guarda ai fatti che
insanguinano il Medio Oriente trattenendo il respiro. Non sappiamo se, nel
momento in cui leggerete queste righe, la tensione provocata dall'occupazione
militare dei territori palestinesi da parte delle truppe israeliane sarà ancora
così alta, o se la pressione delle cancellerie internazionali sarà riuscita a
raffreddare i bollenti spiriti militaristi del governo Sharon.
Ciò
che sappiamo, ciò che ci preme dire, non può esaurirsi nei facili atteggiamenti
umanitari della condanna e dell'indignazione. Di fronte a quanto è accaduto, a
quanto sta accadendo e a quanto si sta preparando in quei luoghi apparentemente
lontani, proviamo solo ripugnanza per chi vive nell'angoscia che la sacralità
della basilica di Betlemme possa venire profanata, nella preoccupazione che la
divina mangiatoia possa essere lordata dal sangue arabo; o per chi taccia di
antisemitismo tutti coloro che protestano contro l'operato dello Stato
israeliano, come se quest'ultimo fosse sinonimo di popolo ebreo; o per chi
pretende la nostra commozione per la mancanza di luce e viveri a un palestinese
aspirante capo di Stato rinchiuso nel suo bunker, circondato dai suoi
nemici-rivali; o per chi cerca di mettere sullo stesso piano la violenza
indiscriminata della disperazione e la violenza indiscriminata delle
istituzioni, al fine di giustificare la seconda come forma di difesa dalla
prima; o per chi, semplicemente, non vede l'ora che tutto questo finisca per
poter continuare a rifornire di carburante la propria automobile senza spendere
troppo.
Ammettiamolo.
Nell'apprendere le notizie che arrivano dai territori palestinesi, la parola
che ci esce continuamente dalla bocca non è quella che ci viene per prima in
mente. Tutt'al più la nostra lingua dice sterminio - distruzione o
soppressione spietata e talvolta metodica di un gran numero di persone - mentre
il nostro cervello pensa genocidio - metodica distruzione di un gruppo etnico,
razziale o religioso, compiuta attraverso lo sterminio degli individui e
l'annullamento dei valori culturali. Il genocidio è molto più dello sterminio.
Ma questo è un termine che in qualche modo ci rifiutiamo di usare, perché un
suo utilizzo in un contesto simile minerebbe alle fondamenta molte delle
certezze su cui abbiamo costruito il nostro mondo, la sua quiete e la sua
prosperità.
Come
possiamo chiamare genocidio quello che sta intraprendendo il governo Sharon, dopo
esserci detti e ripetuti tante volte che il genocidio è una atrocità del
passato, frutto del peggiore oscurantismo, che non può trovare legittimità in
una democrazia occidentale moderna (come è, in fin dei conti, quella di
Israele)? E poi, essendo stati vittime del genocidio compiuto dai nazisti,
avendo subìto infami persecuzioni, come possono oggi gli ebrei che si
riconoscono in Israele indossare i panni dei carnefici e fare ad altri ciò che
in passato sono stati costretti a subire?
Tutto ciò si scontra con le nostre sicurezze, con il nostro bisogno di ordine, con la nostra stringente logica da ragionieri che determina la nostra quieta esistenza da ragionieri. La tranquillità del nostro sonno e dei nostri affari lo esige, la propaganda statale lo conferma: non c'è nessun genocidio in corso nei territori palestinesi, c'è sola una caccia senza quartiere nei confronti di crudeli terroristi che, per tragiche quanto fatali circostanze, si sta ripercuotendo duramente anche nei confronti della popolazione civile. Ma, se le cose stanno così, che dire del numero tatuato sui prigionieri palestinesi, agghiacciante riproposizione di una delle più nauseanti pratiche naziste? Che dire della distruzione di case e interi villaggi, anche questa praticata un tempo contro gli ebrei (nello specifico, dai soldati inglesi)? Che dire di tutti quei morti - bambini, donne, vecchi - che non possono rientrare di certo nello stereotipo mediatico del terrorista fanatico inneggiante alla guerra santa? Come si vede, non ci sono molte alternative di fronte al massacro in atto: o il silenzio del consenso, al tempo stesso risultato e garanzia della pace sociale, o l'interrogativo del dissenso. Ma questo interrogativo, se portato fino in fondo, fino alle sue estreme conseguenze, che cosa ci riserverà? Saremo in grado di ascoltare le risposte?
Tutto ciò si scontra con le nostre sicurezze, con il nostro bisogno di ordine, con la nostra stringente logica da ragionieri che determina la nostra quieta esistenza da ragionieri. La tranquillità del nostro sonno e dei nostri affari lo esige, la propaganda statale lo conferma: non c'è nessun genocidio in corso nei territori palestinesi, c'è sola una caccia senza quartiere nei confronti di crudeli terroristi che, per tragiche quanto fatali circostanze, si sta ripercuotendo duramente anche nei confronti della popolazione civile. Ma, se le cose stanno così, che dire del numero tatuato sui prigionieri palestinesi, agghiacciante riproposizione di una delle più nauseanti pratiche naziste? Che dire della distruzione di case e interi villaggi, anche questa praticata un tempo contro gli ebrei (nello specifico, dai soldati inglesi)? Che dire di tutti quei morti - bambini, donne, vecchi - che non possono rientrare di certo nello stereotipo mediatico del terrorista fanatico inneggiante alla guerra santa? Come si vede, non ci sono molte alternative di fronte al massacro in atto: o il silenzio del consenso, al tempo stesso risultato e garanzia della pace sociale, o l'interrogativo del dissenso. Ma questo interrogativo, se portato fino in fondo, fino alle sue estreme conseguenze, che cosa ci riserverà? Saremo in grado di ascoltare le risposte?
Se
pure il genocidio nazista nei confronti degli ebrei è stato il primo ad essere
condannato giuridicamente, tuttavia non è stato il primo ad essere perpetrato.
La storia dell'espansione colonialista occidentale nel XIX secolo - che ha
portato alla creazione di grandi imperi da parte dei maggiori e più potenti
Stati europei - è innanzitutto una catena di sistematici massacri di
popolazioni indigene (il maggiore dei quali è stato il genocidio delle popolazioni
amerinde avvenuto dopo il 1492).
In
poche parole, il genocidio è una arma da sempre impiegata dagli Stati. E
sarebbe un grosso errore pensare che il ricorso allo sterminio di massa da
parte dello Stato potesse avvenire solo in tempi passati, quando l'ambizione di
conquistare nuovi mercati economici spingeva le teste coronate europee a
lanciare i propri sudditi in avventurose imprese al di fuori dei propri
confini. In realtà, sebbene durante l'espansionismo coloniale la pratica del
genocidio risultasse più facilmente visibile, essa si verificava - come avviene
tuttora - anche all'interno dei confini che uno Stato si era dato, nel corso
della sua costituzione così come del suo consolidamento.
La
storia degli Stati Uniti è in tal senso esemplare. Anche i gloriosi e
democratici Stati Uniti sono nati da un genocidio, quello dei nativi americani,
compiuto da un esercito mandato a proteggere coloni di origine europea in nome
di una "libertà" ottenuta distruggendo villaggi e trucidando intere
popolazioni di indiani (scatenandone naturalmente la resistenza che, a volte,
assunse toni feroci anche contro la popolazione civile). Tutti sappiamo come è
andata a finire: il governo statunitense si è impadronito di tutto il
territorio un tempo posseduto dagli indiani, mentre ai pochi sopravvissuti è
stato concesso di vivere in anguste ed insalubri riserve, storditi da svariati
generi di consumo degli occidentali, ridotti a fenomeno folcloristico e ad
attrazione turistica.
Gli
stessi Stati europei, prima di conoscere la relativa omogeneità odierna, hanno
dovuto fare i conti con la resistenza di numerose minoranze etniche. Se la
questione basca o quella irlandese sono ancora di una certa attualità, è solo
perché la lotta di questi popoli è riuscita a prolungarsi fino ai giorni
nostri.
Ma
cos'è che rende lo Stato intrinsecamente genocida? È la sua pretesa di
costringere in una sorta di fittizia unità ciò che di fatto è separato. La
soppressione delle differenze rientra nel naturale funzionamento della macchina
statale, la quale procede sistematicamente all'uniformazione dei rapporti
sociali: lo Stato non riconosce individui diversi fra loro, ed in quanto tali unici,
ma solo cittadini uguali davanti alla sua autorità, perciò identici. Uno
Stato si può dire costituito, e proclamarsi detentore assoluto ed esclusivo del
potere, solo laddove e quando la popolazione sulla quale esercita il proprio
dominio parla la sua lingua, rispetta le sue leggi, segue le sue usanze, usa la
sua moneta, pratica il suo credo religioso. Quando questa riduzione, questa
omologazione, non può essere imposta con metodi formalmente
"pacifici", lo Stato esercita la violenza. Attraverso il genocidio lo
Stato non fa che portare a termine l'eliminazione dell'Altro, momento
indispensabile per imporre la propria autorità e realizzare così l'unità che
gli è necessaria.
Se
già nell'antichità lo Stato era genocida, le cose non sono di certo cambiate
con l'avvento del capitalismo, il quale, fondato sulla ricerca continua del
profitto, tende a spostare sempre in avanti i propri confini. La tanto
denunciata globalizzazione, cioè il capitalismo transnazionale che sta
trasformando l'intero pianeta in un unico immenso ipermercato, ne è un perfetto
esempio. Al giorno d'oggi, anziché sterminare fisicamente le popolazioni indigene, si
preferisce convertirle culturalmente, dopo averle sottomesse economicamente e
politicamente: laddove è possibile, al genocidio si preferisce l'etnocidio. La
società capitalista non è solo il più formidabile meccanismo di produzione mai
creato dall'uomo, è anche la più terrificante macchina di distruzione e
livellamento. Cultura, società, individuo, spazio, natura...: tutto viene
sfruttato, tutto deve essere sfruttato. Ecco spiegato perché lo Stato non dà
tregua a organizzazioni sociali che abbandonano il mondo alla sua tranquilla
improduttività originaria. Il fatto che immani risorse giacciano non sfruttate
è intollerabile per la cultura occidentale, che nel corso della storia ha
imposto alle altre culture il consueto dilemma: o incamminarsi sulla strada
della produttività oppure sparire.
La
civiltà del capitale destruttura e distrugge tutte le forme sociali
non-capitaliste, imponendo ovunque il modello del cittadino atomizzato -
fondamento della democrazia - incapace di possedere una esistenza sociale al di
fuori della mediazione astratta ed omologante del denaro, del lavoro e dello
Stato. Se oggi i soldati israeliani si comportano con i palestinesi più o meno
nello stesso modo in cui sessant'anni fa i soldati tedeschi si comportavano con
gli ebrei non è perché, come vorrebbe una becera propaganda antisemita, ebrei e
nazisti si assomigliano tra loro, ma perché in tutte le epoche i soldati si
assomigliano. È compito dell'esercito distruggere tutto ciò che potrebbe
causare la rovina dello Stato. Hitler riteneva che gli ebrei rappresentassero
una minaccia per la Germania ,
e per questo li voleva sterminare. Sharon pensa che i palestinesi costituiscano
una minaccia per Israele, e per questo li vuole sterminare. Ieri il problema
non era il popolo tedesco, ma il suo Stato. Oggi il problema non è il popolo
ebreo, bensì lo Stato di Israele. Domani, se le cose dovessero ipoteticamente
rovesciarsi, il problema non sarà il popolo palestinese, ma il suo Stato (che,
se ne avrà la possibilità, cercherà probabilmente di sterminare gli ebrei). In
altre parole, non si riuscirà mai a trovare una soluzione al conflitto
ebraico-palestinese finché si rimarrà all'interno delle logiche istituzionali,
delle mediazioni politiche, dei trattati fra Stati.
Dopo
gli attentati dello scorso 11 settembre - giacché nell'immaginario del mondo
occidentale il "kamikaze arabo" incute lo stesso terrore che alla
fine dell'ottocento suscitava lo "scotennatore pellerossa" - il
governo di Israele ha deciso di approfittare della situazione che si è venuta a
creare per fare un ulteriore passo in avanti verso la soluzione finale della
questione palestinese. Se gli Stati Uniti, in nome della lotta al terrorismo
arabo, bombardano l'Afghanistan, perché mai Israele , in nome della lotta al terrorismo arabo,
non potrebbe radere al suolo i territori palestinesi?
Si
capisce meglio come i governi occidentali non possano che pendere a favore
dello Stato israeliano. Come impedirgli di fare ciò che loro stessi hanno fatto
(contro i nativi americani, contro gli amerindi, contro gli abitanti delle
Indie, contro i neri africani, contro gli algerini, per non parlare delle belle
abissine con le loro faccette nere)? Come proibirgli di fare ciò che loro
stessi stanno facendo? Come possono i governi occidentali condannare lo Stato
ebraico dopo tutto quello che i loro predecessori hanno fatto agli ebrei?
Nessun
impedimento, nessuna condanna, quindi, solo inviti alla moderazione e blande
critiche. Alla peggio, l'applicazione di qualche sanzione: "se sterminate
un popolo, si potrebbe magari sospendere temporaneamente l'importazione dei
vostri pompelmi". Ma poiché il tentativo di genocidio dei palestinesi è in
corso e nessuno può ignorarlo, ai vari governi occidentali non resta che una
strada da percorrere. Salvare la
Palestina trasformandola in Stato, offrire ai palestinesi lo
stesso risarcimento offerto agli ebrei dopo la seconda guerra mondiale. Che un
governo stermini fino all'ultimo esponente una popolazione non sottomessa è
cosa giustificabile ed ampiamente giustificata dalla ragione di Stato: la
storia, come abbiamo visto, abbonda di esempi analoghi. Ma nel mondo
contemporaneo non è consentito il cannibalismo fra Stati (il che spiega la
fretta dimostrata da Sharon di "sgomberare" definitivamente i
territori occupati... dai palestinesi). Se vogliono sopravvivere, insistono i
democratici occidentali, i palestinesi devono diventare simili a loro. Bisogna
aiutarli in modo che anch'essi abbiano il proprio parlamento, la polizia, la
magistratura, le fabbriche, i centri commerciali, i McDonald's, il campionato
di calcio, la televisione con tante belle soap-opera e, perché no?, magari il
proprio Festival della canzone.
"Due
popoli, due Stati" è l'aberrante slogan che sta circolando in questi
giorni, come panacea del conflitto in corso. In questa maniera i palestinesi si
trovano fra l'incudine ed il martello: o spariscono dalla faccia della terra
soccombendo sotto il bastone dell'esercito israeliano, o si convertono alla
civiltà capitalista mangiando la carota delle diplomazie statunitense ed
europee. In entrambi i casi, il risultato non cambia: i palestinesi non
possono scegliere da soli come vivere.
È qui che entra in scena Arafat, il leader dell'Organizzazione per la Liberazione della
Palestina, che da accorto politico sta lavorando da decenni alla costituzione
di uno Stato palestinese. Malgrado l'odio che nutrono nei suoi confronti i
dirigenti israeliani (ed anche alcuni arabi) e l'ostracismo di quelli
statunitensi, Arafat continua ad avere un ruolo centrale nel percorso verso la
normalizzazione. Non a caso tutti i governi del mondo hanno invitato Sharon a
non toccarlo. Hanno ragione. Così come un padrone illuminato preferirà sempre
discutere con dei sindacalisti piuttosto che vedersela con un'orda di
scioperanti arrabbiati, allo stesso modo i dirigenti occidentali più
intelligenti preferiscono trattare con un borghese illuminato come Arafat
piuttosto che con una banda di scalmanati ribelli alla ragione moderna.
Nonostante tutto, egli rimane il leader della sola organizzazione capace di
inquadrare la popolazione palestinese in rivolta.
L'Olp
trae la propria forza dalla sua natura ambigua. Con le sue armi, la potenza
finanziaria della diaspora palestinese, i suoi appoggi internazionali ed i suoi
uffici alle Nazioni Unite, l'Olp è un embrione e una caricatura dello Stato,
con tutto ciò che questo comporta di sordidi appetiti, di lotte tra funzionari
e, nelle zone che amministra, di oppressione diretta e di repressione feroce
dei dissidenti. Ma essa è anche l'organizzazione politica al cui interno - non
essendosi ancora costituita in Stato-Nazione - i rapporti umani conservano il
segno di un'antica solidarietà. Un suo dirigente, che nel futuro Stato
palestinese non sarà null'altro che un politicante avido di potere, riesce a
mantenere ancora oggi un rapporto diretto con i combattenti che si riconoscono
in lui. Ciò che è vero per l'Olp lo è ancor di più per l'organizzazione che si
è data sul posto la popolazione: i quadri dei comitati popolari sono il più
delle volte costituiti da militanti usciti dai diversi partiti o simpatizzanti
dell'Olp, ma l'insieme dei compiti (sorveglianza dei movimenti dell'esercito,
approvvigionamento, prime cure mediche...) viene svolto da tutti, giovani e
vecchi, uomini e donne, e la mistica della morte in battaglia serve da cemento.
Malgrado
sia vista con diffidenza dagli stessi ribelli palestinesi, e sempre più dopo
l'arresto di numerosi estremisti come segnale di buona volontà lanciato verso
l'opinione pubblica occidentale, l'Olp rimane tuttavia il punto di riferimento
identitario centrale per la popolazione palestinese.
Per
noi, nemici di ogni Stato e di ogni patria, è facile cadere nella tentazione di
opporre radicalmente il sollevamento delle masse palestinesi alle trattative ed
anche alle azioni armate condotte dai vari gruppi legati all'Olp, cioè
distinguere il popolo palestinese dai racket che pretendono di rappresentarlo.
In realtà è innegabile che la rivendicazione nazionalista occupa il cuore dei
ribelli palestinesi, così come è difficile nascondersi che le azioni militari
più eclatanti hanno contribuito a creare, in tutta la popolazione ed in
particolare fra i più giovani, quella mistica del martirio che ha contribuito
ad eccitare gli animi e a generalizzare quel coraggio che si è potuto vedere
all'opera nella prima intifada (quella delle pietre), e che ora nutre la
seconda. Ciò non toglie che l'esistenza di una simile mistica è, al tempo
stesso, uno dei segni più evidenti dei limiti di questa rivolta di stampo
nazionalista dall'anima sociale.
Si
può comprendere come lunghi decenni di tirannia e la mancanza di ogni
prospettiva di vita possano trasformarsi in amore per la morte in battaglia. Ma
comprendere non significa condividere. L'atto di farsi esplodere in mezzo ad un
supermercato, non porta solo al suicidio di qualche singolo combattente, porta
al suicidio dell'intera lotta dei palestinesi per la libertà. Oltre ad essere
eticamente ripugnante, è tatticamente deleterio.
Non
siamo fra quelli che affermano che il suo errore è di scatenare la repressione dell'esercito
israeliano, che non ha certo bisogno di simili pretesti per manifestare la
propria violenza, né di fare fallire le trattative di pace, poiché non ci può
essere pace laddove regna l'oppressione; è piuttosto quello di annullare e
mistificare le ragioni della lotta palestinese, che sono universali malgrado le
bandiere e i testi sacri in cui vengono avvolte, dietro alla rabbia della
disperazione. La disperazione è cieca, capace di forza inaudita ma priva di
sbocco. Il terrorismo palestinese - a differenza di quello israeliano,
espressione di potere - è sinonimo di impotenza, nell'immediato perché non è in
grado di distruggere lo Stato israeliano, in prospettiva perché finirà con
l'allontanare la solidarietà dei ribelli sparsi per il mondo, compresi quelli
presenti in Israele. Quando fanno strage fra i passeggeri di un autobus o fra i
frequentatori di un mercato, quei palestinesi non colpiscono affatto lo Stato
di Israele, bensì la popolazione. Dando corpo ad una violenza indiscriminata,
non fanno che confermare le accuse di antisemitismo che viene loro attribuito,
rinchiudendosi sempre più in un vicolo cieco nazionalista.
Ottenebrati
da un comprensibile odio, centinaia di palestinesi sono pronti a morire senza
domandarsi né come, né perché, né contro chi, né per che cosa. La cecità sui
metodi rende ciechi anche sulle finalità della lotta, per cui si diventa o
soldati dell'esercito palestinese (Olp), o devoti al Partito di Dio
(Hezbollah), oppure strumenti di uno sceicco e del suo ardore (Hamas). Ciò non
è dovuto affatto ad una presunta "natura" degli arabi, considerazione
che vorrebbe celare il suo razzismo - gli arabi, si sa, sono reazionari! -
dietro al riconoscimento delle differenze culturali.
Tra
il potenziale di rivolta contro l'insieme di un mondo che ha prodotto le
insopportabili condizioni di esistenza dei palestinesi, e gli sforzi di
strappare, a partire da questa rivolta, una nicchia all'interno di questo mondo
(lo Stato palestinese), esiste naturalmente una linea di frattura.
Ma questa linea è sottile ed in continua modificazione. Si snoda all'interno
delle organizzazioni di base, dei gruppi sociali, dei momenti di lotta ed
attraversa gli stessi individui, i loro pensieri, i loro sentimenti e le loro
attività. Ma per adesso, inutile nasconderlo, questa frattura non ha molte
possibilità di verificarsi, vista la mancanza di movimenti sociali
non-nazionalisti a cui collegarsi. A pesare è soprattutto l'assenza di ogni
prospettiva di lotta comune con gli sfruttati israeliani. Sarebbe un errore
infatti pensare ad Israele come ad una società omogenea e monolitica. In
realtà, la sua struttura è fortemente differenziata.
Dietro
alla bella retorica sull'unità del popolo ebraico, si nasconde ad esempio la
divisione fra ebrei sefarditi ed ebrei askenaziti (per non parlare degli
israeliani arabi, all'ultimo gradino della piramide sociale). I primi sono
quelli originari dai paesi del Mediterraneo, e costituiscono le fasce più
povere della popolazione, i secondi sono quelli originari dall'Europa
occidentale e dagli Stati Uniti, e costituiscono l'elite politica ed economica.
A quale di queste due classi appartengono i coloni ebrei che attualmente vivono
sui confini dei territori occupati e che sono i più esposti alle rappresaglie
palestinesi? Sono ebrei sefarditi, naturalmente. Come nei secoli passati il
colonialismo serviva egregiamente agli Stati europei anche come metodo
per stornare le tensioni sociali presenti al loro interno, creando una valvola
di sfogo esterna, così oggi lo Stato di Israele trova la sua unità nazionale
nella lotta contro i palestinesi.
Finché
gli sfruttati ebrei e quelli palestinesi non riconosceranno la loro reciproca
condizione, cioè non si riconosceranno tra di loro, la lotta di entrambi
risulterà monca, priva della possibilità di incidere in senso rivoluzionario
nel conflitto in corso. Quanto a noi, nell'affermare la nostra solidarietà con
gli oppressi palestinesi, non abbiamo alcuna intenzione di romanticizzare la
loro condizione bensì di mostrare ciò che c'è di universale nella loro
resistenza e opporre al pacifismo che vuole una dolce transizione verso il
silenzio eterno dei mercati, la guerra sociale contro tutti coloro che
sostengono il genocidio dei palestinesi (lo Stato di Israele in primo luogo, i
cui interessi non sono poi così lontani da noi) o il loro civile
addomesticamento istituzionale (tutti gli altri Stati, compreso l'Olp).
Come
si vede non si tratta affatto di sostenere lo Stato palestinese. Non vogliamo
scoprirci un giorno solidali con antiche vittime divenute carnefici, con un
capitalismo nazionale che opprime per proprio conto i proletari, con dirigenti
che furono compiacenti nei confronti dell'intifada poi trasformatisi in
burocrati sfruttatori e torturatori. Non vogliamo sostenere uno Stato
palestinese che, seguendo l'esempio di quello israeliano, tragga dal costante
ricordo delle sventure del passato la giustificazione delle sue atrocità
future. La questione quindi non è quella di costringere lo Stato di Israele a
rispettare i diritti dei palestinesi, né di sostenere la costituzione di un
nuovo Stato, quello palestinese; bensì di cominciare a praticare la
diserzione, il rifiuto, il sabotaggio, l'attacco, la distruzione di ogni
autorità costituita, di ogni potere, di ogni Stato.
Che
la Chiesa di
Betlemme venga pure rasa al suolo, se questo servirà a liberare i palestinesi;
che Arafat crepi di fame e di sete, se questo segnerà la fine dell'autorità
palestinese; che la disperazione si scateni con rabbia, se saprà indirizzarsi
sull'esercito israeliano; che le nostre automobili rimangano ferme in mezzo
alla strada, se questo sconvolgerà la nostra rassegnata complicità con il
genocidio in corso. Che la questione ebraico-palestinese che accende gli animi
in Medio Oriente diventi la questione sociale capace di divampare in tutto il
pianeta, se questa è la sola possibilità di farla finita con la schiavitù
imposta ovunque dal denaro e dal potere.
Amici di Al-Halladj
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