"È il lato cattivo a produrre il movimento che fa la storia, determinando la lotta."
(Karl Marx, Miseria della filosofia)
“Il lato cattivo” è un'aggregazione, del tutto informale e provvisoria, di un esiguo numero di individui, incontratisi a Bologna nel corso del 2010 sulla base delle rispettive esperienze di lotta più o meno militante, maturate nei milieu dell'Autonomia e dell'anarchismo radicale. Ciò che ci ha spinti a incontrarci e interagire, è stato il bisogno di una riflessione teorica, prodotto delle esperienze pratiche passate, sul comunismo come movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.
In netta rottura con l'ideologia “post-modernista” dominante, noi crediamo che l'epoca della lotta di classe non sia conclusa, e che, al contrario, la società nella quale viviamo, cioè il capitalismo, sia ancora fondata sullo sfruttamento del lavoro, sull'estrazione di plusvalore, sull'esistenza delle classi. Pensiamo che oggi l'unica prospettiva reale di trasformazione per la specie umana sia quella della distruzione del capitalismo; che la lotta di classe sia l'unica dinamica possibile di tale distruzione; e che quest'ultima, poiché il capitalismo è un sistema mondiale, sarà anch'essa mondiale o non sarà affatto.
Lungi dal credere che il proletariato e la borghesia siano scomparsi, riteniamo, al contrario, che siano tuttora le due classi fondamentali che strutturano la società nel suo complesso. Il proletariato non ha cessato di essere il soggetto storico della rivoluzione, poiché nella misura in cui rende possibile, attraverso il lavoro, il processo di valorizzazione del capitale, per lo stesso motivo lo può anche distruggere. Gli operai non sono scomparsi; a partire da un più alto livello di sviluppo capitalistico, è piuttosto la controsocietà operaia – quell'insieme di costumi, luoghi, miti e riti che caratterizzavano la vita (e la riproduzione materiale) della forza-lavoro del passato – ad estinguersi. Per questo, ancor meno di ieri, la rivoluzione potrebbe essere oggi l'estensione di un contropotere già esistente, l'affermazione di ciò che i proletari sono all'interno della società del capitale; viceversa, essa sarà la negazione di tutto ciò che che li riproduce come tali: un processo di autonegazione del proletariato e di dissoluzione di tutte le classi.
Dunque, non concepiamo il comunismo come un'emancipazione del lavoro, da realizzarsi attraverso una dittatura di classe (partito o consigli) e una fase di transizione più o meno lunga; né come mera riappropriazione e socializzazione di ciò che già esiste, dal telefonino alla fabbrica di arbre-magique. I rapporti sociali capitalistici sono inscritti nella materia, incorporati negli strumenti tecnologici di cui facciamo uso nel lavoro e nel tempo libero, incistati nella forma delle abitazioni e nell'urbanistica, così come nei saperi e nelle relazioni interpersonali. Tali i rapporti sociali, tali gli individui. Altri rapporti sociali produrranno individui differenti, con bisogni e desideri che non saranno evidentemente gli stessi di oggi. Perciò, pensiamo che l'insurrezione e la distruzione necessariamente violenta dello Stato e di tutti gli apparati repressivi (polizia, galere etc.) non possano lasciarsi alle spalle il vecchio mondo, se rimanderanno alle calende greche la creazione di rapporti sociali differenti, cioè se non porranno allo stesso tempo in essere delle misure per cambiare realmente la vita. D'altra parte, rapporti sociali differenti non possono essere creati in ogni tempo e luogo, tramite un semplice atto di volontà, magari con la fuga in micro-mondi alternativi, mentre ovunque regnano la disfatta e la controrivoluzione; il problema si pone soltanto quando la lotta di classe deborda in un sommovimento più generalizzato. Solo la sinergia dei due aspetti, che chiamiamo comunizzazione, può spingere al salto verso l'ignoto sociale.
Per questo, riteniamo che il proletariato occupato sia non tanto la sorgente unica della trasformazione, quanto il suo centro d'attrazione. Il movimento comunista si inscrive in una dimensione che è allo stesso tempo classista e umana. Esso fa leva sul ruolo centrale degli operai proletari senza essere un operaismo, e anela a una comunità umana senza essere un umanismo. Non solo laddove si presenta una ripresa della lotta di classe, i proletari salariati non sempre sono i primi a muoversi, ma non sono nemmeno gli unici. Sono però coloro che possono, più degli altri, interdire la riproduzione del capitale. La forza di un movimento di classe si può stimare verosimilmente dalla sua capacità di rivolgersi al luogo di lavoro senza perciò rinchiudervisi; ovvero di cogliere, articolare e superare praticamente la contraddizione tra la dimensione classista e quella umana.
Non elaboriamo ricette per le osterie dell'avvenire. Il comunismo non è un modo di produzione “superiore” al capitalismo: in effetti, non è nemmeno un modo di produzione. Il mondo, quale sarà oltre il capitalismo, non è oggi chiaramente descrivibile; in ogni caso, non attraverso le categorie che utilizziamo per criticare il capitalismo. Oggi, possiamo solo dire che sarà distruzione dell'economia, radicale non-contabilità di ciò che si produce e di ciò di cui si fruisce, soppressione di ogni mediazione sociale tra gli individui (famiglia, patria, chiesa, comunità etnica o politica etc.).
Il partito comunista è per noi quel filo storico anonimo, irriducibile a ogni formalizzazione, colore, simbolo, bandiera o “personaggio”, che lega, dal passato al futuro, tutti i comunisti del mondo. Siamo nondimeno convinti che negli ultimi due secoli di lotte di classe, raggruppamenti e singoli che non si definivano tali, abbiano difeso la prospettiva comunista assai meglio di tanti altri somari; e che gli individui si giudicano da ciò che sono, cioè da ciò che fanno, e non da ciò che credono di essere.
Non ci prefiggiamo come scopo quello di “organizzare” i proletari. Pensiamo, piuttosto, che qualsiasi organizzazione permanente che si definisca rivoluzionaria, sia essa preesistente o posteriore alle lotte, vada necessariamente incontro al proprio fallimento. La rivoluzione non è più quella. L'autorganizzazione è il suo primo momento. Ma questa ha cessato di essere il principio di qualsivoglia rifondazione societaria, non è più la prefigurazione della comunità futura; l'autonegazione del proletariato non può che esserne il superamento.
Nemmeno è nostra intenzione “educare” chicchessia: la coscienza, per noi, non si identifica con un corpus definito e “inoculabile” dato una volta per tutte, ma è un prodotto delle lotte e dei comportamenti di classe, che nasce, cambia, si sviluppa e tramonta con esse. La nostra stessa produzione teorica, conflittuale e complementare con altre formulazioni, tutte egualmente imbarcate nella medesima fase di lotta e nei suoi limiti, non è che un momento assai parziale e marginale di questa coscienza in gestazione, la quale si trova ancora disarmata di fronte a numerose questioni. Gli uomini (e noi con essi) entrano in rapporto fra loro in condizioni che non scelgono; vogliono prima di sapere perché vogliono e agiscono prima di sapere perché agiscono. La teoria comunista sa che la coscienza è quel qualcosa di cui il mondo deve appropriarsi. Dicendo questo, essa pone il problema; ma non lo può risolvere d'anticipo, poiché sa anche che la soluzione risiede nell'auto-attività e nell'auto-riflessione dei proletari, giammai nella delega a pretesi specialisti della rivoluzione, “teorici” o “pratici” che siano. Non per questo riteniamo giustificabili quelle posizioni anti-teoriche, le quali contraddistinguono, a nostro avviso, un atteggiamento auto-disfattista.
Pensiamo che il comunismo sia non una necessità storica, bensì una possibilità, presente oggi non meno di ieri; e che rimarrà tale finché il lavoro, il capitale e le classi esisteranno. Fare la teoria del comunismo, non significa dimostrare “scientificamente” la necessità oggettiva di una rivoluzione inscritta nelle leggi dell'economia capitalistica; e ancor meno dimostrare la sua necessità soggettiva (più o meno etica o morale) a fini di propaganda, facendo l'inventario di tutte le sciagure causate dall'attuale ordinamento sociale. Significa, invece, interrogarsi e mostrare a quali condizioni la rivoluzione si può affermare. Nondimeno essa stessa è praxis, elemento attivo nella lotta di classe.
La questione della crisi è sociale. Perciò ci interessano, più dell'analisi economica in quanto tale, i cambiamenti nei rapporti di classe, l'assetto delle forze in campo.
Non aderiamo ad alcuna “tradizione” particolare del movimento rivoluzionario; perseguiamo, invece, un'acquisizione critica di tutte le esperienze teorico-pratiche delle lotte anticapitaliste del passato e del presente, in vista di una sintesi possibile, necessariamente sempre da fare e da rifare. Diffidiamo tanto delle adesioni acritiche a dottrine preconfezionate, quanto del “libero pensiero” e dell'“autogestione mentale”. La teoria comunista trapassa questi opposti, per mostrare la loro sostanziale solidarietà, e non abdica di fronte alla necessità di coerenza e di rigore.
Non ci preme minimamente fare proseliti. Ciò che invece ci interessa, è entrare in contatto con individui o gruppi che condividano già la gran parte degli orientamenti qui espressi, al fine di individuare e percorrere sentieri che sono ancora tutti da tracciare.
Per il resto, partecipiamo e diamo il nostro contributo alle lotte di oggi, laddove ve ne sono, tali quali sono, senza le fregole dell'attivismo e dell'avanguardia.
Bologna, gennaio 2011
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