di Raffaele Sbardella (1986)
[Tratto da AA.VV (a cura di Marco Melotti), Macchine e utopia, Dedalo, Bari, 1986. Si veda anche, dello stesso autore, Astrazione e capitalismo. Note su Marx; e, di Roberto Finelli, Classi, fantasmi e postmodernità. Istruzioni per l'uso]
Nel macchinario informatico il lavoro oggettivato, il lavoro morto, si contrappone materialmente al lavoro vivo come il potere che lo domina capillarmente, in modo invisibile e quasi senza residui; si contrappone ad un lavoro vivo scisso oramai del tutto da ogni abilità manuale e da ogni concretezza, ad un lavoro vivo residuale che, in quanto esclusivamente mentale, vive, di fronte all’immane potenza del lavoro morto e alle infinite abilità del macchinario, tutta la sua insignificanza e subordinazione, l’estrema astrattezza della sua funzione, il suo essere, in quanto attività lavorativa, costantemente dominato e controllato dall’occhio immateriale del sistema. [...]
Mentre nel lavoro artigiano il rapporto dell’uomo con l’oggetto del suo lavoro è mediato semplicemente dall’utensile, o meglio, se si considera quest'ultimo come un prolungamento specializzato della sua mano, è un rapporto diretto in cui le finalità coscienti sono possedute integralmente da chi lavora, ed è praticamente assente ogni forma di cooperazione; nelle prime forme di produzione capitalistica, quella manifatturiera, il rapporto con l’oggetto del lavoro incomincia ad essere mediato dalle prime macchine utensili, e il lavoro ad essere suddiviso in tante fasi parziali: compaiono le prime forme della cooperazione operaia sotto il tetto di uno stesso stabilimento. Già in questa fase il lavoro perde la sua caratteristica intenzionale, il fine si separa e si aliena. La cooperazione tra gli operai è diretta e ognuno e legato all’altro da una relazione interna e immediata. Con la grande industria il rapporto muta radicalmente: in questo caso è l'operaio che media il rapporto della macchina con l’oggetto del lavoro, è tutto interno a questo rapporto, appendice vivente (e non cosciente come molti credono) di un sistema automatico di macchine rigidamente connesso e mosso da una forza motrice centrale: qui il lavoro mostra un grado maggiore di astrattezza, è totalmente inintenzionale (è soltanto dell'operaio in quanto essere umano vivente che ha bisogno questo sistema di macchine), e la cooperazione degli operai tra loro è mediata dalla macchina, dai suoi ritmi e dai suoi bisogni. Soltanto con la nuova «organizzazione del lavoro», caratteristica del processo produttivo informatizzato, l'operaio è espulso dal rapporto: macchina e oggetto del lavoro non sono più mediati, il rapporto è diretto ed esclusivo, e sono ora le macchine a cooperare tra loro; il lavoro operaio ricompare soltanto all’interno di questo rapporto specifico tra macchine. La cooperazione delle macchine tra loro è ora mediata dal lavoro intenzionale degli operai. Infatti – come già abbiamo visto – solo le capacità intenzionali del nuovo lavoro operaio possono vagliare e togliere gli infiniti imprevisti, mettere in relazione le macchine tra loro, gli insiemi di macchine, i settori, le fabbriche disseminate sul territorio: in tutti gli infiniti punti di mediazione (poiché si riprodurranno all'infinito), quando le parti del sistema incontrano la morta cosa della loro origine e non riescono più a comunicare tra loro, il sistema nel suo complesso ha bisogno di ciò che non è programmabile e che non può essere incorporato nelle sue memorie periferiche o centrali; deve necessariamente usare la forza-intenzione operaia, cioè disporre di una attività lavorativa che sola sa intervenire con scelte e decisioni appropriate trasformando finalisticamente la materia prima dell'informazione e rendendo cosi possibile la cooperazione tra macchine.
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