di Jean Barrot
[Supplemento a Le Mouvement communiste, n. 3, Parigi,
1972]
Il comunismo non
è un programma da mettere in pratica o da far mettere in pratica ad altri,
bensì un movimento sociale. Coloro
che sviluppano o difendono il comunismo teorico, rispetto al resto
dell’umanità, hanno soltanto il vantaggio di una comprensione più chiara e di
una capacità di espressione più rigorosa. Ma anch’essi, proprio come gli altri,
che non si occupano specificamente di teoria, esprimono un bisogno pratico di comunismo. Essi non hanno alcun privilegio, non sono i portatori del sapere che
innescherà il processo rivoluzionario; ma, d’altro canto, esponendo le loro
concezioni, non hanno alcun timore di diventare dei “capi”. La rivoluzione
comunista, come ogni altra rivoluzione, è il prodotto di bisogni e di condizioni di esistenza reali. Si tratta
perciò di mettere in luce un movimento storico.
Il comunismo non
è un ideale da realizzare: esso esiste fin d’ora, non come società già
istituita, ma come lo sforzo e il compito di preparare tale società. È il
movimento reale che cerca di abolire le condizioni di esistenza determinate dal
lavoro salariato e che effettivamente le abolirà attraverso la rivoluzione. La
discussione sul comunismo non è accademica, non è un dibattito su quel che si
farà domani. Essa è parte integrante di
un insieme di compiti immediati e futuri,
di cui non costituisce che un aspetto, uno sforzo di comprensione teorica.
D’altra parte questi compiti possono essere esplicati in modo più semplice ed
efficace, se si risponde alla domanda: “dove stiamo andando?”.
La definizione del comunismo, non è in primo luogo
una confutazione degli altri “rivoluzionari” (PCF, l’estrema sinistra, ogni
sorta di socialisti etc.), perché su questo terreno non li si può davvero
prendere sul serio. Per esempio, i Partito Comunisti non hanno un programma
proprio, ma esprimo soltanto una variante,
tra le tante, del programma del capitale
- variante che conserva tutti i tratti essenziali del mondo attuale, a
cominciare dal lavoro salariato. È
molto più significativo mostrarne la funzione
piuttosto che cercare di demolire punto per punto il suo programma. Non si
tratta quindi di opporre delle idee giuste a delle idee sbagliate. Polemizzare
con il PC sulla sua «concezione del socialismo», è ancora trattarlo come un
membro, seppur degenerato, della famiglia rivoluzionaria. Nei paesi in cui i PC
sono forti (Francia, Italia) l’estrema sinistra (i gauchistes) attaccano il Partito Comunista, senza però mai mostrare
chiaramente la sua funzione, il suo ruolo essenzialmente controrivoluzionario, quello di uno tra i più fedeli difensori del
capitale. Il problema non è il fatto che il programma del Partito Comunista non
sia comunista: il problema è che esso è capitalista.
Le tesi presentate in questo testo non sono nate
semplicemente da un desiderio di chiarificazione. Esse non sarebbero esistite
in questa forma - e un certo numero di persone non si sarebbe riunito per
elaborarle ed esporle - se le contraddizioni e le lotte che dilaniano il mondo
del capitale, non mostrassero la nuova
società che prende forma nelle viscere della vecchia, costringendoci a
prenderne coscienza.
1. Il lavoro salariato come rapporto sociale
1. Il lavoro salariato come rapporto sociale
Se si considera la società moderna, ci si renderà conto che la grande maggioranza degli individui, per vivere, è costretta a vendere la propria forza-lavoro. L’insieme delle qualità fisiche e intellettuali proprie dell’essere umano e della personalità di ciascuno, che devono essere mobilitate per produrre delle cose utili, può essere impiegato solo a condizione che l’individuo si venda in cambio di un salario. La forza-lavoro è una merce come ogni altro bene.
L’esistenza dello scambio e del lavoro salariato sembra
qualcosa di normale e di inevitabile. Tuttavia l’introduzione del lavoro
salariato fu estremamente violenta e venne accompagnata da aspre lotte sociali.
La separazione tra il lavoratore e i
mezzi di produzione, divenuta oggi semplicemente un fatto e accettata come
tale, fu in realtà il prodotto di una lunga evoluzione, che non poté compiersi,
a suo tempo, se non attraverso l’uso
della forza. In Inghilterra, nei Paesi Bassi, in Francia, a partire dal
‘500, attraverso la violenza economica e politica, i piccoli artigiani e i
contadini furono espropriati, il pauperismo e il vagabondaggio furono repressi,
i poveri furono coartati al lavoro salariato. Nel XX secolo, a partire dagli
anni trenta, la Russia
dovette promulgare un codice del lavoro, che prevedeva addirittura la pena di
morte, per organizzare il passaggio di milioni di contadini dalle campagne al
lavoro industriale salariato nel giro di qualche decennio. Di conseguenza i
fatti apparentemente più normali, cioè che ciascuno non disponga che della
propria forza-lavoro, che per vivere debba venderla ad un’impresa, che tutto
sia ridotto a merce, che i rapporti sociali ruotino attorno allo scambio, tutto
ciò in realtà non è che il risultato di un processo violento e prolungato.
Mediante il sistema scolastico e la sua vita
ideologica e politica, la società contemporanea maschera la violenza passata e presente su cui questa situazione è fondata. Essa dissimula insieme
la propria origine e il meccanismo del proprio funzionamento. Tutto appare come
il risultato di un libero contratto tra l’individuo portatore e venditore della
propria forza-lavoro e l’impresa. L’esistenza della merce è presentata come un
fenomeno ovvio e naturale. Tuttavia essa si manifesta regolarmente attraverso
catastrofi grandi e piccole: si
distruggono beni per sostenere i prezzi, molte capacità esistenti rimangono
inutilizzate, mentre spesso i bisogni più elementari non vengono soddisfatti.
Ma i due pilastri della società capitalistica, lo scambio e il lavoro
salariato, non sono solo fonte di disastri periodici e permanenti, ma determinano
anche le condizioni sulla cui base
un’altra società diventa possibile. Soprattutto essi spingono una larga
parte del mondo attuale a sollevarsi contro di essi e a realizzare questa
possibilità: il comunismo.
Per comprendere bene questo, è necessario inquadrare
storicamente la società esistente, per vedere da dove viene e dove va. I legami
tra i membri di una società e i nessi tra i suoi elementi costitutivi
(individui, strumenti di produzione, istituzioni, idee) sono transitori,
essendo insieme l’effetto di un’evoluzione passata e la causa di una
trasformazione futura. I rapporti che uniscono tra di loro tutti gli elementi
della società sono dinamici: il loro presente diviene chiaro solo alla luce del
loro passato e del loro avvenire.
Per definizione ogni
attività umana è sociale. La vita degli esseri umani non esiste che come
vita di gruppo, attraverso l’associazione degli individui nelle forme più
diverse. La riproduzione delle condizioni di esistenza è sin dall’inizio il
risultato di un’attività collettiva: sia la riproduzione degli esseri umani
stessi, che la riproduzione dei loro mezzi di esistenza(2). Ciò che
caratterizza in effetti la società umana, è il fatto che essa produce e riproduce le condizioni materiali
della sua esistenza. L’animale può talvolta servirsi di uno strumento, ma
solo l’uomo fabbrica i propri
strumenti. Tra l’individuo o il gruppo, e la soddisfazione dei bisogni,
interviene la mediazione della produzione e del lavoro, che modifica
continuamente i modi di agire e di trasformare l’ambiente. Altre forme di vita
– le api, per esempio – producono le loro stesse condizioni materiali ma,
almeno per quanto può valutare l’osservazione umana, la loro evoluzione pare
ormai conclusa. Il lavoro, al
contrario, è una forma di appropriazione
e assimilazione del proprio ambiente da parte dell’uomo, che si modifica
continuamente. Il rapporto tra gli uomini e la “natura” è nello stesso
tempo un rapporto tra uomini e dipende dai rapporti di produzione. Così come da
questi ultimi dipendono le idee che gli uomini producono e il modo in cui si
rappresentano il mondo.
Con la
trasformazione dell’attività si trasforma di pari passo il contesto sociale in cui
essa è posta, l’insieme dei rapporti tra
gli uomini. I rapporti di produzione in cui entrano gli uomini sono
indipendenti dalla loro volontà: ogni generazione si confronta con le
condizioni tecniche e sociali ereditate dalle generazioni precedenti. Ma essa
può anche trasformarle, nei limiti consentiti dal livello di sviluppo raggiunto
dalle forze produttive materiali. Ciò che chiamiamo «la Storia » non realizza
niente: sono gli uomini che fanno la
storia. Ma soltanto nell’ambito
delle possibilità della loro epoca. Questo non vuol dire che ogni
cambiamento importante nelle forze produttive sia accompagnato immediatamente e
automaticamente da un cambiamento corrispondente nei rapporti di produzione. Se
questo fosse vero, non ci sarebbero rivoluzioni.
La società nuova generata dalla vecchia non può apparire e trionfare se non
attraverso una rivoluzione che
distrugga l’intero edificio politico e ideologico, che permetteva fino ad
allora la sopravvivenza di rapporti di produzione ormai superati.
Tutti i rapporti di produzione sono storici, quindi
transitori. Il lavoro salariato è solo un
tipo di rapporto tra gli individui, tra l’individuo e la società, tra
l’individuo e la produzione dei suoi mezzi di esistenza. Non è che uno dei
diversi rapporti di produzione che hanno caratterizzato l’evoluzione storica.
Malgrado le miserie e le sofferenze che ha portato con sé, esso ha svolto un
ruolo utile, ponendo le basi necessarie del proprio superamento. Dopo essere
stato inizialmente una forma di sviluppo, ormai da tempo il salariato non è più
che un grave ostacolo, e persino una minaccia, alla stessa esistenza dell’umanità(3).
Quel che importa mostrare, al di là degli oggetti
materiali, delle fabbriche, delle macchine, degli operai che vanno ogni giorno
a lavorarci, dei prodotti che fabbricano, è la relazione sociale che si
dissimula dietro a tutto questo meccanismo, e la sua evoluzione possibile e
necessaria.
2. La comunità e la sua distruzione
2. La comunità e la sua distruzione
Storicamente, l’umanità si è dapprima riunita in gruppi relativamente autonomi e dispersi, in clan (il clan raggruppava uomini e donne che avevano lo stesso sangue) e in tribù. All’interno di queste comunità primitive, nessuno produce più di quanto consumi. Il livello delle forze produttive resta molto basso, e la costituzione di riserve, di stock, è quasi impossibile. Per produzione, bisogna qui intendere essenzialmente le attività di caccia, di pesca, di raccolta. I beni non sono prodotti per essere consumati dopo uno scambio, dopo una messa sul mercato. La produzione è sociale immediatamente, non attraverso la mediazione dello scambio. La comunità ripartisce – secondo delle regole semplici, naturalmente – ciò che essa produce, e ciascuno riceve direttamente ciò che essa gli dà, senza bisogno di andare a procurarselo. Non esiste produzione individuale nel senso di una separazione tra gli individui, che un termine intermedio, lo scambio, riunirebbe soltanto dopo la produzione, attraverso il confronto dei vari beni prodotti ciascuno separatamente. Le attività vengono decise – cioè, imposte al gruppo dalle necessità – ed effettuate in comune, e i loro risultati vengono ripartiti allo stesso modo.
Non esiste alcun intermediario tra la produzione e
il consumo, né tra gli individui, né tra gli individui e la società. La produzione non è
un’attività separata, è integrata alla vita sociale di cui è difficile
distinguere le varie componenti: pratiche e legami della produzione si
mescolano a quelli di parentela, di rappresentazione del mondo («arte») ecc.
Non esistono, a parlare propriamente, né politica né economia. La
produzione dei mezzi di sussistenza è un atto sociale: non esistono mestieri.
L’organizzazione degli uomini è il prodotto dell’attività comune e non c’è
bisogno di alcuna istituzione particolare incaricata di riunirli: non esistono
una vita privata e una vita «pubblica» distinte tra di loro. L’individuo in
quanto tale non esiste. Questa società è totalitaria in quanto in essa tutti
gli aspetti della vita sono regolati automaticamente. Non esistono gruppi
rivali in seno alla comunità. Perché compaia una divisione tra gruppi sociali
contrapposti che si affrontano, è necessario che il livello delle forze
produttive si elevi fino al punto in cui l’uomo può produrre più di quel che è
necessario alla sua propria sussistenza. Solo allora sono possibili la
specializzazione, i mestieri, la divisione tecnica e sociale del lavoro, le
classi e la lotta di classe.
Nella comunità primitiva, come in ogni società, il
lavoro è un’attività di trasformazione. Una certa forza-lavoro, utilizzando un
mezzo dato, produce un oggetto. Questa modificazione ha un risultato: un bene
che serve a un certo uso, che soddisfa un particolare bisogno. È l’aspetto concreto del lavoro, che crea un
oggetto utile, che ha un’utilità, un valore d’uso, con la sua funzione
specifica (dato che l’utilità è una nozione sociale, che quindi ha un senso
soltanto nella società in cui l’oggetto viene prodotto). Questo aspetto è
l’unico conosciuto dalla comunità primitiva, per la quale non esiste che una
sola attività sociale, quella che consiste nel creare e trasformare la vita. Il
rapporto è immediato tra l’individuo e i valori d’uso, e tra gli individui
stessi. In una certa misura, non c’è addirittura differenza tra la famiglia e
la società: la famiglia riunisce tutti quelli che sono nel gruppo (famiglia
estesa alla consanguineità), almeno ad un certo stadio dell’evoluzione.
Il progresso tecnico genera un plusprodotto,
che segna il primo processo produttivo: si comincia a produrre più di quel che
è necessario alla sopravvivenza. Questo plusprodotto pone un problema pratico
alla comunità dal momento in cui raggiunge un certo volume, perché il suo
sviluppo non è possibile che se: l) le attività si specializzano all’interno
della comunità, e 2) le diverse comunità fanno circolare tra di loro i
rispettivi plusprodotti.
Questa circolazione non può effettuarsi che
attraverso lo scambio, cioè attraverso la presa in considerazione, non
nella coscienza, ma nei fatti, di quel che c’è di comune tra i vari beni da far
passare da un punto all’altro. Ora i prodotti dell’attività umana hanno tra di
loro l’elemento comune di essere tutti il risultato di una certa quantità di
energia, individuale e sociale allo stesso tempo, contrassegnata da un fenomeno
ben visibile, osservabile: l’usura della forza e del mezzo di lavoro. In questo
consiste il carattere astratto del lavoro, il quale non soltanto
produce un oggetto utile, ma è anche consumo di energia, di energia sociale.
In effetti il lavoro è sociale per la sua stessa natura. Permettendo
progressivamente all’uomo di accordarsi con la natura, gli permette anche di
sviluppare il suo rapporto con gli altri uomini. L’«attore» della storia è
dunque sempre la società, prodotto dell’interazione delle azioni degli uomini.
È la società a trasformare il suo ambiente: questa attività non è possibile che
a condizione di consacrarvi una data quantità di tempo di lavoro, indipendentemente dal carattere concreto e
utile e dalla qualità del risultato ottenuto. Il valore di un bene, a prescindere dall’uso che se ne può fare, è
la quantità di lavoro astratto che esso contiene, cioè la quantità di energia
sociale necessaria a riprodurlo. Questa quantità trova essa stessa la propria
misura nel tempo e il valore di un bene è il tempo necessario socialmente, in
media nella società considerata, a un dato momento della sua storia, per
produrlo.
L’allargamento dell’attività e dei bisogni della
comunità la conduce a non produrre più soltanto dei beni, ma anche delle merci,
che hanno un valore d’uso, ma possiedono inoltre un valore di scambio.
Il commercio, comparso in un primo momento tra le comunità, s’introduce in seguito
all’interno delle stesse comunità, specializzando le attività, creando i
mestieri, producendo una divisione sociale del lavoro. Ma proprio per
questo il lavoro cambia natura. La relazione di scambio crea il lavoro come
lavoro doppio, che è insieme produzione
di valore d’uso e produzione di valore di scambio. Il lavoro cessa di essere
integrato a tutta l’attività sociale per diventare un dominio specifico,
separato dal resto dell’esistenza dell’individuo. In un primo momento c’è
una separazione tra ciò che l’individuo fa per il gruppo e per se stesso, e ciò
che fa per scambiarlo con i beni di un’altra comunità. Questa seconda parte
della sua attività è sacrificio, costrizione. In seguito la società si
diversifica, e c’è una separazione tra lavoratore e non-lavoratore. A
questo stadio la comunità non esiste più.
Il rapporto di scambio è indispensabile alla
comunità, per permetterle di svilupparsi e di soddisfare i suoi bisogni
crescenti. Ma, al tempo stesso, esso la distrugge in quanto comunità. Esso fa
sì che non si consideri più l’altro – e se stesso – che come portatore di un
bene. L’uso di quel che io produco allo scopo di scambiarlo non mi interessa
più; conta solo l’uso del bene che otterrò come contropartita. Ma per colui che
me lo vende, questo secondo uso non conta, perché egli non s’interessa che al
valore d’uso di ciò che ho prodotto io. Ciò che è valore d’uso per l’uno non
è che valore di scambio per l’altro, e viceversa. La comunità è scomparsa
il giorno in cui i suoi membri non si sono più interessati gli uni agli altri
che in funzione dell’interesse che avevano ad entrare in rapporto tra di loro.
Non che l’altruismo sia stato il motore della comunità primitiva o debba
divenire quello del comunismo. Semplicemente, in un caso il movimento degli
interessi ravvicina gli individui e li fa agire in comune; nell’altro li
individualizza e li obbliga a lottare gli uni contro gli altri. Con
l’apparizione dello scambio nella comunità, il lavoro non è più la
realizzazione di certi bisogni attraverso la collettività, ma il mezzo di
ottenere dagli altri la soddisfazione di certi bisogni.
Pur promuovendo lo scambio da un lato, la comunità ha
d’altronde tentato di frenarlo dall’altro. Essa ha cercato di distruggere il
plusprodotto o di fissare delle rigide regole di circolazione dei beni. Ma alla
fine, lo scambio ha prevalso, al termine di un’evoluzione lunga e complessa,
almeno in una gran parte del mondo. Laddove lo scambio non ha potuto stabilirsi
veramente da padrone, la società si è sclerotizzata, prima di essere infine
distrutta dall’invasione della società mercantile (così è avvenuto all’impero
degli Incas, sotto i colpi degli Spagnoli alla ricerca di valore sotto forma di
metallo prezioso: vedere più avanti a proposito della moneta).
Fin quando i beni non sono prodotti separatamente
dunque fin quando non c’è divisione del lavoro, non si possono confrontare i
rispettivi valori di due beni, dal momento che sono prodotti e ripartiti in
comune. Non esiste ancora quel momento dello scambio, momento intermedio tra
produzione e consumo, nel quale i tempi di lavoro dei due prodotti si
confrontano l’uno con l’altro. Perché il carattere astratto del lavoro si
manifesti bisogna che i rapporti sociali lo esigano. Ciò non può avvenire
che quando, con il progresso tecnico, diviene necessario allo sviluppo
delle forze produttive che gli uomini si specializzino nei vari mestieri e
scambino tra di loro i rispettivi prodotti, e che delle comunicazioni si
stabiliscano anche tra i gruppi, divenuti allora degli Stati. Queste due
esigenze impongono che il valore, il tempo di lavoro medio, divenga l’unità di
misura del lavoro. Alla base di questo meccanismo si trovavano dei rapporti
pratici tra uomini i cui bisogni reali si sviluppavano.
Il valore non compare per un fatto di comodità.
Quando i rapporti sociali della comunità primitiva lasciano il posto a delle
relazioni più estese, più diversificate, il valore nasce come mediazione
indispensabile delle attività umane. È normale che il tempo di lavoro sociale
medio serva come misura, poiché il lavoro vivo è allora l’elemento essenziale
della produzione di ricchezze: esso rappresenta quel che c’è di comune tra
tutti i lavori, che hanno in comune la qualità di consistere nell’impiego di
forza-lavoro umana, indipendentemente dal modo particolare in cui questa
forza-lavoro è stata impiegata. Corrispondendo al carattere astratto del
lavoro, il valore ne rappresenta l’astrazione, il carattere generale, sociale,
indipendentemente da tutte le differenze di natura tra gli oggetti che può produrre.
3. La merce
3. La merce
Il progresso economico e sociale permette all’organizzazione umana e alle sue capacità di combinazione degli elementi del processo di lavoro – e in primo luogo del lavoro vivo – di acquisire una nuova efficacia. Compare così la differenziazione (e l’opposizione) tra lavoratore e non-lavoratore, tra coloro che organizzano il lavoro e coloro che lo eseguono. Le prime città e i grandi lavori di irrigazione nascono da questa moltiplicazione degli sforzi e dell’efficacia produttiva. Il commercio, come attività particolare, fa la sua comparsa: ormai ci sono degli uomini che vivono, non della produzione, ma della mediazione tra le varie attività delle unità di produzione separate. Molti beni non sono più che delle merci. Per essere utilizzati, per mettere in atto il loro valore d’uso, la loro capacità di soddisfare un bisogno, debbono essere comprati, per soddisfare il loro valore di scambio. In caso contrario, benché esistano come oggetti materiali, concreti, dal punto di vista della società non esistono. Non si ha il diritto di servirsene. Questo fatto dimostra chiaramente che la merce, non è semplicemente una cosa, ma in primo luogo un rapporto sociale che obbedisce ad una logica propria, quella dello scambio, e non quella della soddisfazione dei bisogni. Il valore d’uso non è più che il supporto del valore. La produzione diventa un campo distinto da quello del consumo, come anche il lavoro in contrapposizione al non-lavoro.
La proprietà s’introduce come inquadramento
giuridico della separazione tra le attività, tra gli uomini, tra le unità
di produzione. Lo schiavo è una merce per il suo proprietario, che compra
l’uomo per farlo lavorare.
L’esistenza di un mediatore sul piano
dell’organizzazione della produzione (scambio) si accompagna a quella di un
mediatore sul piano dell’organizzazione degli uomini: lo Stato è
indispensabile come forza capace di riunire gli elementi della società, in
funzione degli interessi della classe dominante. È necessaria una
unificazione perché la coerenza della comunità primitiva è stata distrutta. La
società è dunque obbligata, per mantenere la sua coesione, a creare
un’istituzione che si nutre della società stessa.
Ma anche lo scambio si manifesta in modo concreto,
visibile, con la nascita della moneta. L’astrazione del valore si
materializza nella moneta, diventa anch’essa una merce, che indica la tendenza
del valore a diventare indipendente, a distaccarsi da ciò da cui è nato e
che rappresenta: i valori d’uso, i beni reali. Rispetto al semplice scambio -
una certa quantità x del bene a contro una certa quantità y del bene b - la
moneta permette una universalizzazione, per cui si può ottenere qualsiasi cosa,
se si dispone del tempo di lavoro astratto cristallizzato in moneta. La
moneta non è che del tempo di lavoro astratto dal lavoro e fissato in una forma
durevole, misurabile, trasportabile. Essa manifesta in modo visibile, anzi
palpabile, quel che c’è di comune tra le varie merci, non più soltanto tra due
o più merci, ma tra tutte le merci possibili. Essa autorizza il suo
possessore a ordinare il lavoro altrui, o a farlo fare, o a farlo cercare in
capo al mondo. Attraverso la moneta si sfugge ai limiti dello spazio e del
tempo. Se le comunità primitive erano isolate le une dalle altre, al punto che
spesso non potevano neppure farsi la guerra, lo scambio, comparso in un primo
momento al margine delle comunità, le distrugge. Nelle regioni più avanzate
della Terra, gli uomini si organizzano in Stati insieme mercantili e guerrieri,
e il commercio e la violenza procedono alla socializzazione del mondo.
Una tendenza all’economia universale si manifesta, dall’antichità alla fine del
Medioevo, intorno ai grandi centri, ma non può realizzarsi. La distruzione
degli imperi e il ripiegarsi su di sé contraddistinguono i successivi
fallimenti di questi tentativi. Solo il capitalismo crea, a partire dal
Cinquecento, ma soprattutto nell’Ottocento e nel Novecento, l’infrastruttura
necessaria a un’economia universale durevole.
4. Il capitale
In effetti il capitale è un rapporto di produzione che crea tra la forza-lavoro e il lavoro passato (accumulato dalle generazioni precedenti) una relazione completamente nuova e prodigiosamente efficace. Ma anche qui, come per la nascita dello scambio, il capitale non fa la sua comparsa in seguito a una qualche decisione o pianificazione, ma come prolungamento di rapporti sociali reali che, dopo il Medioevo, causano in alcuni Paesi dell’Europa occidentale uno sviluppo qualitativamente nuovo.
4. Il capitale
In effetti il capitale è un rapporto di produzione che crea tra la forza-lavoro e il lavoro passato (accumulato dalle generazioni precedenti) una relazione completamente nuova e prodigiosamente efficace. Ma anche qui, come per la nascita dello scambio, il capitale non fa la sua comparsa in seguito a una qualche decisione o pianificazione, ma come prolungamento di rapporti sociali reali che, dopo il Medioevo, causano in alcuni Paesi dell’Europa occidentale uno sviluppo qualitativamente nuovo.
Il commercio aveva accumulato delle somme di denaro,
sotto diverse forme, perfezionando già un sistema bancario e di credito. La
possibilità di impiegarle esisteva, da un lato grazie alle prime macchine
(tessili), dall’altro grazie alle migliaia di poveri costretti dalla perdita di
ogni strumento di lavoro (agricolo o artigianale) ad accettare il nuovo
rapporto di produzione: il salariato. Era necessario che
preliminarmente l’industria ammassasse, accumulasse, immagazzinasse del lavoro
sotto forma di macchine, poi di manifatture. Questo lavoro passato doveva essere messo in movimento dal lavoro vivo di coloro
che non avevano potuto realizzare questa accumulazione di materie prime e di
strumenti di lavoro. È su questa base che si stabilisce il capitale. Dalla
dissoluzione della comunità primitiva alla fine del Medioevo (per l’Europa
occidentale, perché altrove l’evoluzione è differente), c’è scambio di beni
prodotti, a seconda delle epoche, da schiavi, da artigiani, da contadini liberi
e, in scarsissima misura, da salariati. Verso il Quattrocento sono veramente
oggetto di commercio il plusprodotto della piccola produzione contadina e
alcuni prodotti fabbricati (armi, vestiti). Ma la produzione non è fatta in
funzione dello scambio, né è da esso regolato. Il commercio da solo, la
produzione mercantile semplice (in opposizione alla produzione mercantile
capitalistica) non poteva fornire la stabilità, la durata che presuppone la
socializzazione, l’unificazione del mondo. Al contrario, l’economia mercantile capitalistica è in grado di farlo,
perché la produzione di cui s’impadronisce il capitale gliene dà i mezzi. Il
capitale realizza effettivamente una vera sintesi dello scambio e della
produzione.
Lo schiavo non vendeva la sua forza-lavoro: il
proprietario acquistava la persona stessa dello schiavo e lo metteva al lavoro.
Con il capitale sono i mezzi di produzione che comprano il lavoro vivo che
li mette in movimento. Il ruolo del capitalista non è trascurabile, ma
secondario: egli è innanzitutto il funzionario del capitale, il
comandante del lavoro sociale. Proprio per questo ciò che è in primo piano, è
lo sviluppo del lavoro passato attraverso il lavoro vivo. Investire,
accumulare, queste sono le parole d’ordine del capitale (così lo sviluppo
prioritario dell’industria pesante nei Paesi cosiddetti socialisti non fa che
segnalarvi la costruzione del capitalismo). Ma non si tratta di accumulare dei
valori d’uso. Il capitale non moltiplica le fabbriche, le ferrovie ecc. che per
accumulare del valore. Il capitale è in primo luogo una somma di valore, di lavoro astratto
cristallizzato sotto forma di denaro, di fondi finanziari, di titoli, di azioni
ecc. e che cerca di accrescersi. Bisogna che una somma x di valore dia alla
fine del ciclo una somma x più un profitto. Per valorizzarsi, il valore compra
la forza-lavoro. È la grande novità del capitale fare della forza-lavoro
una merce.
Questa merce è assolutamente particolare, perché il
suo consumo fornisce del lavoro, dunque del valore nuovo, al contrario dei mezzi di produzione che non fanno che trasferire il loro proprio valore
nel prodotto. C’è dunque una produzione di valore supplementare. Il segreto
dell’origine della ricchezza borghese risiede in questo plusvalore,
differenza tra il valore creato dal salariato nel corso del suo lavoro, e
quello necessario alla riproduzione della sua forza-lavoro. Il salario copre le
spese di questa riproduzione; ma il salariato lavora una parte della sua
giornata di lavoro gratuitamente, perché questa parte non gli viene pagata. Il
capitale intasca la differenza. È subito evidente che l’essenziale non sta
nell’appropriazione di questo plusvalore da parte del capitalista. Il
comunismo non ha nulla a che vedere con l’idea che i lavoratori devono
recuperare per sé stessi, del tutto o in parte, il plusvalore. In primo
luogo per una ragione molto semplice, quasi ovvia: è necessario riservare una
parte delle risorse alle spese di ammortamento, alle produzioni che si
creeranno ecc. Ma soprattutto, l’importante non è la frazione di plusvalore
intascata da un pugno di capitalisti. Se questi ultimi fossero eliminati, ma si
conservasse l’insieme del meccanismo, distribuendo una parte del plusvalore ai
lavoratori per investire il resto in attrezzature collettive (é quel che il
Partito Comunista dice che farebbe se
fosse al potere), la logica del sistema del valore giungerebbe sempre al
risultato di sviluppare le produzioni in funzione di un massimo di
valorizzazione. Finché la società ha per base un meccanismo che mescola due
processi, un processo di lavoro reale e un processo di valorizzazione, il
valore domina la società. La novità del capitale è di aver conquistato la
produzione, cosa che ha avuto per effetto la socializzazione del mondo a
partire dall’Ottocento, attraverso installazioni industriali, mezzi di
trasporto, immagazzinamento e comunicazione rapida dell’informazione ecc. Ma
nel ciclo del capitale la soddisfazione dei bisogni non è che un
sottoprodotto, e non il motore del meccanismo. La valorizzazione è il fine:
nel migliore dei casi la soddisfazione dei bisogni è un mezzo, perché bisogna
pur vendere quel che si è prodotto.
L’impresa
è il luogo e il centro di questa produzione capitalistica; ogni impresa,
industriale o agricola, serve da punto di unificazione a una somma di valore
che cerca di accrescersi. Si tratta per l’impresa di fare dei profitti. Anche
qui, la liquidazione comunista della legge del profitto non consiste nello
sbarazzarsi di qualche «grosso» capitalista. Quel che importa, non sono i
profitti personali che può fare un certo capitalista, ma la costrizione,
l’orientamento imposto alla produzione e alla società da questo sistema. Tutta
la demagogia sui ricchi e i poveri […] non ha altro risultato che quello di
allontanare l’attenzione dal nodo centrale del problema. Il comunismo non
consiste nell’impadronirsi del denaro dei ricchi, né, da parte dei
rivoluzionari, nel distribuirlo ai poveri. Il tema della redistribuzione si
situa ancora sul terreno del capitale.
5. La concorrenza
5. La concorrenza
Le imprese sono in concorrenza tra di loro: ciascuna di esse affronta le altre sul mercato, cioè disputa il mercato alle altre. Storicamente, abbiamo visto come avviene la separazione tra i vari aspetti dell’attività umana. Il rapporto di scambio contribuisce alla divisione in mestieri, che a sua volta facilita lo sviluppo del sistema mercantile. Però, come accade sovente anche ai giorni nostri, persino nei Paesi sviluppati, per esempio nelle campagne, non esiste ancora a questo punto una vera concorrenza, perché le attività sono ripartite stabilmente tra il fornaio, il calzolaio ecc. Nel capitalismo, non si tratta più soltanto di una divisione della società in corporazioni fondate sui vari mestieri, ma di una lotta permanente tra le diverse componenti dell’industria (e anche del settore improduttivo: su questo argomento, si veda oltre). Ogni somma di valore non esiste che contro le altre. Ciò che l’ideologia definisce come «l’egoismo naturale dell’uomo» e la «lotta inevitabile di tutti contro tutti», in effetti non è che il complemento indispensabile di un mondo in cui è necessario battersi, in particolare per vendere quel che si è prodotto. La violenza economica, e la violenza armata che ne è il prolungamento, fanno parte del sistema capitalistico.
Un tempo la concorrenza ebbe un effetto positivo
nella misura in cui ruppe i limiti dei regolamenti, delle costrizioni
corporative e spinse il capitale a invadere il mondo. Ora essa è divenuta una
fonte di spreco e di parassitismo, poiché conduce insieme a sviluppare le
produzioni inutili o d’interesse secondario, perché permettono una
valorizzazione più rapida, e a frenare le produzioni più importanti, se
l’offerta e la domanda rischiano di entrare in contraddizione.
La concorrenza e la suddivisione della macchina
produttiva in centri autonomi costituiscono altrettanti poli tra loro rivali, i
quali cercano di accrescere le rispettive somme di valore. Nessuna
«organizzazione» o «pianificazione» può metter fine a questa situazione, né
alcun «controllo». Quel che si manifesta nella concorrenza, non è la libertà
degli individui, nemmeno quella dei capitalisti, ma la libertà del
capitale. Quest’ultimo non può vivere che auto-fagocitandosi, distruggendo
le sue componenti materiali (lavoro vivo e lavoro passato) per sopravvivere
come somma di valore che si valorizza.
I diversi capitali concorrenti hanno ciascuno un
tasso di profitto particolare. Ma i capitali si spostano da un settore
all’altro alla ricerca di un tasso di profitto che sia il più elevato
possibile. Quando un settore è saturo di capitale, la sua redditività si riduce
e i capitali si trasferiscono in un altro settore (questa dinamica è
modificata, ma non annullata, dalla costituzione di monopoli). Questo
spostamento incessante dei capitali conduce alla stabilizzazione del tasso di
profitto intorno ad un tasso medio per un periodo e una società date. Ogni
capitale ha tendenza ad essere remunerato, non secondo il tasso di profitto che
realizza nella propria impresa, ma secondo il tasso di profitto sociale
medio in un dato momento, in proporzione alla somma di valore investita
nella sua impresa. Non è dunque che ogni capitale sfrutti i suoi operai, ma l’insieme
dei capitali sfrutta l’insieme della classe operaia. Nel movimento dei
capitali, il capitale agisce e si rivela come una potenza sociale, dominando
l’insieme della società, e acquista così una certa coerenza malgrado la
concorrenza che l’oppone a se stesso. Esso si unifica e diviene forza
sociale, totalità relativamente omogenea nei suoi conflitti con il proletariato
o con gli altri insiemi capitalistici (nazionali). Da questo momento il
capitale organizza secondo i suoi interessi le relazioni e i bisogni
dell’intera società. Questo meccanismo funziona all’interno di ogni paese:
il capitale costituisce il suo Stato e la sua nazione contro gli altri capitali
nazionali, ma anche contro il proletariato (si veda oltre). La concorrenza
tra gli Stati capitalistici giunge a manifestarsi con le guerre,
mezzo estremo per ciascun capitale nazionale di risolvere i propri problemi.
Non cambia nulla finché esistono delle unità di
produzione che mirano ad aumentare le rispettive quantità di valore. Che cosa
succede se lo Stato «democratico», «operaio» «proletario» ecc. prende tutte le
imprese sotto il suo controllo, ma le conserva come imprese? O le imprese di
Stato rispettano la legge del profitto e in questo caso non è cambiato
nulla, oppure non la rispettano, senza per questo distruggerla, e in questo
caso tutto va male. All’interno dell’impresa, l’organizzazione è razionale,
metodica: il capitale impone il suo dispotismo ai lavoratori. All’esterno, sul
mercato, dove ogni impresa incontra le altre, non vi può essere ordine che
attraverso la soppressione permanente e periodica
del disordine, al prezzo di scosse e di crisi. Solo il comunismo può sopprimere
questa anarchia organizzata, sopprimendo l’impresa come totalità separata dalle
altre.
6. I diversi aspetti della contraddizione capitalistica: la crisi
6. I diversi aspetti della contraddizione capitalistica: la crisi
Da un lato il capitale ha socializzato il mondo; ogni produzione tende ad essere il frutto degli sforzi dell’umanità intera. D’altro lato, il mondo resta diviso in imprese concorrenti, che cercano di produrre quel che è redditizio, e di produrre per vendere il più possibile. Ogni impresa cerca di valorizzare il suo capitale alle migliori condizioni possibili. Ogni impresa tende a produrre più di quel che il mercato possa assorbire, e spera di vendere malgrado tutto, e che solo i concorrenti soffriranno di sovrapproduzione.
Ne risulta uno sviluppo delle attività destinate ad
aiutare la vendita. I lavoratori improduttivi, manuali o intellettuali,
che fanno circolare il valore, aumentano in proporzione di quelli, manuali o
intellettuali, che producono il
valore. La circolazione di cui intendiamo parlare non è lo spostamento
fisico dei beni. Il settore dei trasporti produce effettivamente del valore,
perché il semplice fatto di far passare un bene da un luogo ad un altro vi
aggiunge del valore, corrisponde ad un cambiamento reale del suo valore d’uso:
quando un bene è ormai disponibile in un luogo completamente diverso da quello
della sua fabbricazione, questo aumenta evidentemente la sua efficacia, il suo
effetto utile. La circolazione del valore può non corrispondere ad alcun
spostamento reale dell’oggetto cui si riferisce, come ad esempio se esso cambia
di proprietario pur rimanendo in un magazzino: però, attraverso questa
operazione, sarà stato comprato o venduto. Le difficoltà di vendita, di
realizzazione del valore del prodotto sul mercato, obbligano a creare un
meccanismo molto complesso, bancario, di credito, assicurativo e anche
pubblicitario. Il capitale sviluppa con questo un immenso parassitismo, che
inghiotte una parte enorme (e crescente) delle risorse globali in spese di
gestione e di amministrazione del valore. La contabilità, necessaria in
ogni organismo sociale sviluppato, è così divenuta un insieme di meccanismi
rovinoso e burocratico, che soffoca la società e i bisogni reali invece di
facilitare la loro soddisfazione. Nello stesso tempo il capitale si
concentra, si centralizza, tende al monopolio. Questa doppia tendenza,
all’accrescimento delle spese improduttive e alla formazione di monopoli, ha
insieme il risultato di rendere meno acuto il problema della sovrapproduzione e
quello di aggravarlo. Il capitale non può uscire da questa situazione se non
per mezzo delle crisi periodiche, che regolano momentaneamente la
questione riadattando l’offerta alla domanda (alla domanda solvibile, unicamente, perché il capitalismo non conosce che un
modo di far circolare i beni: la compravendita; poco gli importa che la domanda
reale, i bisogni, non sia
soddisfatta: il capitale crea in realtà una sottoproduzione in rapporto ai
bisogni reali che esso non soddisfa).
La crisi capitalistica è qualcosa di più che una
crisi della merce. È una crisi che lega in maniera indissolubile la produzione
e il valore, ma in modo tale che la produzione resta al servizio del valore. La
si può paragonare alle crisi precapitalistiche, a certe crisi durante l’ancien régime in Francia, per esempio.
Allora si aveva una caduta della produzione agricola, provocata da cattivi
raccolti. I contadini compravano meno prodotti industriali (vestiti) e
l’industria – ancora debole – andava in difficoltà. La crisi aveva in questo
caso per base un fenomeno naturale, climatico. Ma le speculazioni dei mercanti
sul prezzo del grano li inducono a farne incetta, per far salire i prezzi, cosa
che causa qua e là situazioni di carestia. La sola esistenza della merce e del
denaro permette la crisi: c’è una separazione, materializzata nel tempo, tra
l’acquisto e la vendita. Per il commerciante, e per il denaro di cui cerca di
aumentare il volume, l’acquisto e la vendita del grano sono due operazioni distinte, e il tempo che
le separa è da determinarsi in funzione del profitto da realizzare. In questo
intervallo tra produzione e consumo, degli uomini muoiono di fame.
Ma il meccanismo mercantile e il valore non vengono
che ad amplificare una crisi nata da condizioni naturali. Finché si riscontrano
simili fenomeni, il contesto sociale è precapitalistico, o è quello di un
capitalismo ancora debole (come in paesi quali la Cina e la Russia , in cui i cattivi
raccolti influiscono ancora gravemente sull’economia).
Al contrario la crisi capitalistica è il prodotto
dell’unione forzata del valore e della
produzione. Nel capitalismo il valore si è impadronito della produzione. Si
produce come se le possibilità di assorbimento del mercato fossero illimitate.
Si cerca d’altronde di estenderle, attraverso il credito, l’organizzazione del
mercato, l’azione dello Stato, tutti mezzi che non trasformano il capitale, ma
al contrario ne perfezionano le leggi. La saturazione del mercato porta come
conseguenza il rallentamento della produzione, o addirittura delle distruzioni
pure e semplici (prodotti agricoli distrutti o danneggiati), e la
disoccupazione, situazione questa conosciuta nel suo complesso già a partire dall’Ottocento
e che non è per nulla scomparsa nella nostra epoca. Anzi, essa si è aggravata,
nonostante alcuni miglioramenti particolari nei Paesi avanzati, se si tiene
conto dello sviluppo delle forze produttive. Lo scarto tra quel che potrebbero dare le forze produttive in un altro
quadro sociale, e quel che ne fa il capitale, non è mai stato più grande.
Il capitale non è mai stato così distruttore e dissipatore come oggi.
Non soltanto, nelle crisi, il legame tra valore
d’uso e valore di scambio, tra l’utilità, il bisogno reale di un bene e la sua
possibilità di essere scambiato, esplode e mostra che il mondo funziona perché le quantità di valore delle imprese possa accrescersi,
e non per soddisfare i bisogni o arricchire i capitalisti; inoltre, se
nelle crisi dell’ancien régime c’era
una difficoltà insormontabile (il raccolto disastroso) che i rapporti
mercantili si limitavano ad aggravare, le crisi capitalistiche mostrano ora di
non avere nessuna base razionale ineluttabile. La loro causa non è naturale ma sociale. Tutti gli elementi
dell’attività industriale sono presenti: materie prime, macchine, lavoratori,
ma restano inutilizzati o utilizzati parzialmente. È così evidente che essi non
sono in primo luogo delle cose, degli oggetti materiali, ma un rapporto
sociale. In questa società essi esistono solo in quanto il valore li unifica.
Questo fenomeno non è «industriale», non deriva dalle esigenze tecniche della
produzione; è un fenomeno sociale che deriva da rapporti di produzione, da
rapporti sociali determinati, e che uno sconvolgimento di questi rapporti
sopprimerebbe. Il capitale non è dunque
un sistema di produzione che bisognerebbe strappare ad una minoranza di
«sfruttatori» o che i lavoratori dovrebbero gestire da se stessi. È un rapporto
sociale attraverso il quale l’intero apparato produttivo e, nella misura in
cui la produzione ha conquistato la società, l’edificio sociale nel suo complesso, sono sottomessi alla logica
mercantile. Il comunismo non si limita a distruggere questo rapporto
mercantile, ma proprio distruggendolo riorganizza e trasforma l’intera società.
La rete delle
imprese – luoghi e strumenti del valore – diventa una forza al di sopra della
società. I bisogni (di ogni natura: alloggio, nutrimento, «bisogni culturali»)
non esistono che in funzione di questo sistema e sono addirittura da esso
modellati. Non sono i bisogni che
determinano la produzione ma la produzione – per la valorizzazione – che
determina i bisogni. Si costruiscono ben più volentieri degli uffici o
delle residenze secondarie piuttosto che delle abitazioni là dove sono più
richieste. E le residenze secondarie restano vuote dieci mesi su dodici, come
migliaia di appartamenti, perché solo i proprietari o gli inquilini, che hanno comprato l’abitazione o pagato il suo affitto, possono
occuparla. L’agricoltura, su scala mondiale, è in gran parte trascurata dal
capitale, che non la sviluppa se non laddove può valorizzarsi, mentre la fame
continua ad essere un problema irrisolto per centinaia di migliaia di uomini.
L’automobile è un settore sviluppato in modo sproporzionato rispetto ai bisogni
nei Paesi avanzati, ma la sua redditività assicura il suo mantenimento malgrado
tutte le incoerenze. I Paesi poco sviluppati non costruiscono fabbriche che
quando queste consentono un tasso di profitto sufficiente. La tendenza alla
sovrapproduzione esige una economia permanente di armamenti in quasi tutti i
Paesi avanzati; queste forze distruttive servono, quando è necessario, a fare
realmente la guerra, i cui effetti sono ancora un mezzo per lottare contro la
tendenza alle crisi.
Lo stesso
lavoro salariato è diventato un’assurdità ormai da parecchi anni. Esso costringe una parte
dei lavoratori ad un lavoro di fabbrica che li abbrutisce; un’altra parte,
molto cospicua, lavora nel settore improduttivo, che serve insieme a facilitare
le vendite, ad assorbire i lavoratori liberati dall’automazione e dalla
meccanizzazione, e a fornire una massa di consumatori, mezzo supplementare di
lotta contro la crisi. Il capitale si annette tutto quel che è scienza e
tecnica: nel settore produttivo, esso orienta la ricerca verso lo studio di
quel che procurerà il massimo profitto; nel settore improduttivo, sviluppa la
gestione e le tecniche di utilizzazione del mercato. Così l’umanità tende a
suddividersi in tre gruppi:
– i produttivi, spesso fisicamente liquidati dal
loro lavoro;
– gli improduttivi che non servono a nulla o peggio;
– e la massa dei non salariabili dei Paesi poveri,
che il capitale non riesce ad integrare in nessun modo, e tra cui centinaia di
migliaia di individui sono uccisi periodicamente in guerre prodotte
direttamente o indirettamente dall’organizzazione capitalistica dell’economia
mondiale.
Lo sviluppo di certi Paesi poveri è reale (Brasile),
ma esso viene ottenuto soltanto al prezzo della distruzione totale o parziale delle antiche forme di vita, e si
manifesta ad esempio con l’affollamento e la miseria delle città. Solo una
minoranza della popolazione ha la «fortuna» di poter lavorare in fabbrica, il
resto è sottoccupato o disoccupato.
7. Proletariato e rivoluzione
Il capitale crea nello stesso tempo una rete di imprese che vive del profitto e per il profitto, prolungata e protetta dagli Stati, e un insieme di individui che esso costringe a sollevarsi contro di lui. Questa massa non è omogenea, ma troverà la sua unità nella rivoluzione comunista, senza che i suoi componenti svolgano tutti lo stesso ruolo. Ogni rivoluzione è il prodotto di bisogni reali, nati da condizioni materiali di esistenza divenute insopportabili. Così avviene per il proletariato, che il capitale stesso fa comparire sul proscenio della storia. Una gran parte della popolazione mondiale è costretta a vendere la propria forza-lavoro per vivere, perché non ha nessun mezzo di produzione a sua disposizione. Alcuni la vendono e sono produttivi, altri la vendono e sono improduttivi, altri infine non la possono vendere (il capitale non compra il lavoro vivo altro che quando può in tal modo valorizzarsi in una proporzione ragionevole), e sono esclusi dalla produzione, sia nei Paesi sviluppati sia in quelli poveri.
7. Proletariato e rivoluzione
Il capitale crea nello stesso tempo una rete di imprese che vive del profitto e per il profitto, prolungata e protetta dagli Stati, e un insieme di individui che esso costringe a sollevarsi contro di lui. Questa massa non è omogenea, ma troverà la sua unità nella rivoluzione comunista, senza che i suoi componenti svolgano tutti lo stesso ruolo. Ogni rivoluzione è il prodotto di bisogni reali, nati da condizioni materiali di esistenza divenute insopportabili. Così avviene per il proletariato, che il capitale stesso fa comparire sul proscenio della storia. Una gran parte della popolazione mondiale è costretta a vendere la propria forza-lavoro per vivere, perché non ha nessun mezzo di produzione a sua disposizione. Alcuni la vendono e sono produttivi, altri la vendono e sono improduttivi, altri infine non la possono vendere (il capitale non compra il lavoro vivo altro che quando può in tal modo valorizzarsi in una proporzione ragionevole), e sono esclusi dalla produzione, sia nei Paesi sviluppati sia in quelli poveri.
Se s’identificano
proletario e operaio-lavoratore, allora non si vede quel che c’è di sovversivo
nella condizione del proletario. Il proletariato è la negazione di questa
società. Esso comprende non i poveri, ma coloro che non dispongono di nessuna
riserva e che non hanno da perdere che le proprie catene; coloro che non hanno
niente, e che non si possono liberare altro che distruggendo l’intero ordine
sociale attuale. Il proletariato è la dissoluzione della società attuale,
perché la società gli rifiuta, per così dire, tutti i suoi aspetti positivi.
Dunque esso è anche la sua propria distruzione. Tutte le
concezioni (borghese classica, fascista, stalinista, estremista e «gauchiste») che glorificano, in qualunque grado, il proletariato in quanto tale, reclamando
per esso il ruolo di difensore dei valori e di rigeneratore della società, sono
controrivoluzionarie. Al contrario, ogni volta che interviene, il proletariato
dimostra che è il lato negativo della
società attuale, e che non ha alcun valore da introdurvi, né alcun ruolo da
giocarvi, se non un ruolo distruttore.
Il proletariato è un rapporto storico. Esso è in permanenza la distruzione del
vecchio mondo allo stato potenziale, e passa allo stato attuale soltanto in un
momento di tensione sociale, costretto dal capitale a divenire l’agente del
comunismo. Il proletariato diviene sovversione della società costituita
solo al momento in cui si unifica, in cui si
costituisce in classe e si organizza, non per farsi classe dominante come a suo
tempo la borghesia, ma per distruggere la società di classe: non vi è più
allora che un solo agente sociale, l’umanità. Ma, al di fuori di questo
momento conflittuale, e di quelli che lo precedono, il proletariato è ridotto
al rango di un elemento del capitale, di un ingranaggio del suo meccanismo (ed
è di questo suo stato che il capitale
fa l’elogio).
Benché abbia ridotto in alcuni Paesi il numero degli
operai che lavorano in fabbrica, lo sviluppo del capitale non ha annullato
completamente il proletariato. È vero che un certo numero di lavoratori
produttivi ha potuto essere integrato dal capitale e dal riformismo (PCF, CGT
in Francia, per esempio). Inoltre se una parte dei lavoratori improduttivi è
vicina agli operai come condizioni di lavoro, di salario e di vita, una parte
se ne distacca, integrata dal capitale, almeno provvisoriamente. È chiaro
infine che una frazione dei non salariabili dei Paesi poveri non potrà
intervenire efficacemente in un processo rivoluzionario, per ragioni di
isolamento, arretratezza ecc., almeno durante una certa fase della lotta.
Tuttavia, quel che è sicuro è che:
l) la rivoluzione sarà opera di elementi senza
riserve usciti da questi tre sottogruppi del proletariato;
2) i lavoratori produttivi rivoluzionari giocheranno
un ruolo decisivo (ma non esclusivo) nella misura in cui il loro posto nella
produzione li pone meglio in grado – almeno all’inizio – di rivoluzionarla.
Così il proletariato delle fabbriche non perde in
nulla il suo ruolo centrale, benché altri elementi vengano a spalleggiarlo nel
corso della rivoluzione.
La rivoluzione comunista è un meccanismo che il
proletariato mette in moto senza sapere di farlo. Tuttavia la coscienza di quel che esso fa gli è preziosa per abbreviare questa
fase e agire più efficacemente. Il proletariato è condotto a servirsi
dell’arma che gli dà la sua funzione sociale – nel caso dei lavoratori
produttivi. Per esempio, anche in un conflitto rivendicativo, il proletariato è
indotto a occupare la fabbrica perché questo è per lui lo strumento normale di
pressione, proprio nella misura in cui lui non dispone di riserve. Per vincere,
la logica della sua azione lo obbliga ad entrare in contatto con le altre
fabbriche, e, in una fase ulteriore, a rimettere lui stesso in moto la
produzione, in rapporto con le altre fabbriche. Naturalmente il proletariato
non può passare per le angustie della legge del valore, poiché non ha alcun
controllo sul capitale come somma di valore: non ha alcun mezzo di servirsi del
capitale finanziario, e non può
utilizzare nessun altro mezzo che il processo di lavoro che è la sua funzione.
Il proletariato fa così esplodere la natura doppia del capitale, che è insieme
meccanismo di lavoro e meccanismo di valorizzazione. Parallelamente i bisogni
reali a livello dei consumi correnti, dell’alloggio, dei trasporti ecc.
provocano anche in questo settore la sparizione del rapporto sociale
mercantile: alla fine sopravvivono
soltanto l’utilizzazione e la circolazione dei valori d’uso.
8. La formazione della comunità umana
8. La formazione della comunità umana
La comunità primitiva era troppo povera per trarre vantaggio dalle potenzialità del lavoro. In essa il lavoro è immediato, ciascuno agisce per il proprio immediato sostentamento. Il lavoro non si cristallizza, non si accumula in strumenti di produzione, non si trasforma in lavoro accumulato, passato. Quando questo diviene possibile, allora lo scambio è necessario: non si può far altro che misurare la produzione in lavoro astratto, in tempo di lavoro medio, allo scopo di farla circolare. Il lavoro vivo resta l’elemento essenziale dell’attività e il tempo di lavoro la misura necessaria. La moneta lo materializza.
Da questo deriva lo sfruttamento di alcune classi da
parte di altre e l’aggravamento delle catastrofi naturali. Da questo viene
anche la nascita, il declino, la caduta di Stati e di imperi che non possono
svilupparsi se non lottando contro altri. Talvolta vengono interrotte le
relazioni di scambio tra le varie parti del mondo civilizzato, in seguito alla
morte di uno o più imperi: può anche succedere che una di queste pause nello
sviluppo duri dei secoli, durante i quali pare che l’economia ritorni indietro,
verso un’economia di sussistenza.
In questi casi l’umanità non dispone di un apparato
produttivo, sicché lo sfruttamento del lavoro vivo resta inutile, o addirittura
rovinoso. Il ruolo del capitalismo è proprio di accumulare questo lavoro
passato. L’esistenza di tutto questo complesso industriale, di tutto questo
capitale fisso, prova che il carattere
sociale dell’attività umana ha finito per materializzarsi in uno strumento che
permette di creare, non un paradiso sulla terra, ma uno sviluppo che utilizzi
per il meglio le risorse per soddisfare i bisogni, e che produca le risorse in
funzione dei bisogni. Se questa infrastruttura è l’elemento essenziale della
produzione, allora il ruolo regolatore del valore, che corrispondeva alla fase
in cui il lavoro vivo era il principale fattore produttivo, perde tutto il suo
senso, non è più necessario alla produzione. Il suo mantenimento è divenuto
precario e catastrofico. Il valore, concretizzato dalla moneta sotto tutte le
sue forme, dalle più semplici alle più complesse, è il risultato del carattere
generale del lavoro, dell’energia al tempo stesso individuale e sociale che
esso libera e consuma. Il valore resta quindi un mediatore necessario fino a
che questa energia non ha creato un sistema produttivo globale su scala
mondiale. In seguito esso diventa un intralcio.
Il comunismo è
la scomparsa di una serie di mediazioni necessarie fino ad allora (malgrado le
miserie che producono) per accumulare una quantità di lavoro morto sufficiente
per poter infine fare a meno di esse. In primo luogo, il valore: è inutile avere un elemento esterno alle attività
sociali per collegarle tra di loro e stimolarle. L’infrastruttura accumulata ha
soltanto bisogno di essere trasformata e sviluppata. Il comunismo mette a
confronto tra di loro i valori d’uso per decidere di sviluppare una certa
produzione piuttosto che un’altra. esso non riduce le componenti della vita
sociale ad un denominatore comune (il tempo di lavoro medio che contengono). Il comunismo organizza la sua vita
materiale partendo soltanto dal confronto dei bisogni – cosa che non esclude
conflitti in caso di fallimento.
Il comunismo è anche la fine di ogni elemento
necessario all’unificazione della società: è la fine della politica. Non è né democratico né dittatoriale.
Naturalmente, il comunismo è «democratico» se s’intende con questo termine il
fatto che tutti s’incaricano delle
attività sociali: e questo, non per volontà della gestione o in virtù del principio
democratico, ma perché l’organizzazione dell’attività è di norma una questione
che riguarda i suoi membri. Ma, al contrario di quel che affermano i
democratici, questo non è possibile altro che con il comunismo, cioè con la
messa in comune di tutti gli elementi della vita, con la soppressione di ogni
attività separata, di ogni produzione isolata. Questo risultato si può ottenere
solo attraverso la distruzione del valore. Perché lo scambio tra le varie
imprese esclude che la collettività possa prendere in mano la propria vita (e
in primo luogo la vita materiale); in effetti lo scopo dello scambio e delle
imprese è radicalmente opposto a quello degli uomini – che è di soddisfare i
loro bisogni. L’impresa cerca innanzitutto di valorizzare il proprio capitale e
sopporta una sola direzione, quella che le permette di raggiungere meglio
questo fine (ecco perché i capitalisti non sono altro che i funzionari del
capitale). È l’impresa che dirige i suoi
dirigenti. La soppressione del limite rappresentato dall’impresa, la
distruzione del rapporto mercantile che obbliga ciascuno a considerare gli
altri soltanto come mezzi per guadagnare la propria
vita, sono le sole condizioni dell’auto-organizzazione degli uomini. Una
volta realizzate queste condizioni, i problemi di gestione divengono secondari,
e sarebbe assurdo volere che tutti, a turno, esercitino le attività di
gestione. Il problema non si pone neppure più. La contabilità e l’amministrazione
diventano attività come le altre, senza privilegi in un senso o nell’altro:
tutti possono esercitarle, o non esercitarle.
Nel comunismo, avere
una forza esterna agli individui per riunirli è inutile. Ecco una cosa che
i socialisti utopisti, ad esempio, non hanno mai capito. Le loro società
immaginarie, per quanto grandi siano i loro meriti e la loro forza visionaria,
hanno quasi sempre bisogno di piani molto rigidi e di direttive quasi
totalitarie. Essi cercano di creare un legame, che in realtà risulta
naturalmente dall’associazione degli uomini in gruppo. Pretendono di evitare lo
sfruttamento, l’anarchia, e organizzano in
anticipo la vita sociale. Altri vorrebbero, per non cadere in questo
dirigismo, lasciare che la società si faccia da sé. Il problema è altrove: solo rapporti sociali ben determinati,
che poggino su un livello di sviluppo ben preciso della produzione materiale,
rendono possibile e necessaria l’armonia tra gli individui (cosa che non
esclude i conflitti). Gli individui possono allora soddisfare i loro
bisogni, ma soltanto attraverso la loro partecipazione automatica al
funzionamento del gruppo senza essere per altro ridotti a semplici ingranaggi.
Il comunismo non ha bisogno di riunire quel che prima era separato, e che ormai
non lo è più.
Questo vale anche sul piano mondiale, e persino su
quello universale. Gli stati e le
nazioni, strumenti necessari dello sviluppo, sono ormai entità puramente
reazionarie, e le divisioni che essi perpetuano sono un freno allo sviluppo: la
sola dimensione possibile, oramai, è quella dell’umanità intera.
L’opposizione
tra manuale e intellettuale, tra natura e cultura, era un tempo
indispensabile. La separazione tra il lavoratore e l’organizzatore del lavoro
ne moltiplicava l’efficacia. Lo sviluppo raggiunto al giorno d’oggi non ne ha
più bisogno, e questa separazione è ormai soltanto un ostacolo che manifesta la
sua assurdità in tutti gli aspetti della vita scolastica, universitaria,
professionale, «culturale» ecc. Il comunismo distrugge la separazione tra una
parte dei lavoratori, abbrutita dal lavoro manuale, e un’altra parte, inutile
negli uffici.
Lo stesso capita per l’opposizione tra l’uomo e il
suo ambiente naturale. Un tempo l’uomo non ha potuto socializzare il mondo che
lottando contro la dominazione della «natura». Oggi è lui ad accerchiare e
minacciare la natura. Il comunismo è riconciliazione
dell’uomo e della natura.
Il comunismo è la fine dell’economia come settore particolare, luogo privilegiato da
cui dipende tutto il resto, ma che tutto il resto fugge e disprezza. L’uomo
produce e riproduce le sue condizioni di esistenza: a partire dalla
dissoluzione della comunità primitiva, e nella forma più pura nel capitalismo, il lavoro, attività attraverso cui l’uomo
si appropria dell’ambiente che lo circonda, è diventato una costrizione che si
oppone al tempo del riposo, al piacere, alla «vera» vita. Questa fase era
storicamente necessaria per creare il lavoro passato che permette di sopprimere
questo asservimento. Con il capitale la produzione, che è produzione per la
valorizzazione, è divenuta padrona del mondo. È la completa dittatura dei
rapporti di produzione sulla società. Producendo, si sacrifica il tempo della
propria vita per godere in seguito
della vita, godimento quasi sempre senza rapporti con la natura del lavoro,
divenuto un semplice mezzo per guadagnarsi la vita. Il comunismo dissolve i rapporti di produzione, li fonde nei rapporti
sociali. Il comunismo non conosce
più nessuna attività separata, un lavoro che si oppone al gioco. L’obbligo
di fare lo stesso lavoro tutta la vita, di essere lavoratore manuale o
intellettuale, scompare. Con il ruolo del lavoro accumulato che include e
incorpora tutta la scienza e la tecnica, la ricerca e il lavoro, la riflessione
e l’azione, l’insegnamento e l’attività diventano una cosa sola. Alcuni compiti
possono essere a carico di tutti, e la generalizzazione dell’automazione
trasforma completamente l’attività produttiva. Il comunismo d’altronde non
predica il gioco o il non-lavoro contro il lavoro. Queste nozioni limitate e
parziali sono ancora delle realtà capitalistiche Il lavoro in quanto
produzione-riproduzione delle condizioni di vita non soltanto materiali ma
anche culturali, affettive ecc. è quel che caratterizza l’umanità.
L’uomo crea collettivamente i mezzi della sua
esistenza, e li trasforma; egli non li riceve come dati dalle macchine, perché
in questo caso l’umanità sarebbe ridotta allo stadio del bambino, che si
accontenta di ricevere dei giocattoli di cui ignora l’origine (…). Allo stesso
modo il comunismo non rende il lavoro
perpetuamente lieto e gradevole. Anche l’attività eminentemente arricchente
del poeta attraversa momenti faticosi o addirittura dolorosi. Il comunismo a questo riguardo non fa che
sopprimere la separazione tra lo sforzo e il godimento, la creazione e la
ricreazione, il lavoro e il gioco.
9. La rivoluzione comunista (comunizzazione)
Il comunismo è l’appropriarsi, da parte dell’umanità, delle proprie ricchezze, tenendo ben fermo che questa appropriazione è anche e inevitabilmente una trasformazione da cima a fondo. Questo implica necessariamente la distruzione delle imprese in quanto unità separate e quindi la distruzione della legge del valore: non per socializzare il profitto ma per far circolare i prodotti tra i vari centri industriali senza passare attraverso la mediazione del valore. Questo non significa affatto che la rivoluzione comunista riprenderà tale e quale il sistema produttivo del capitalismo. Non si tratta di sbarazzarsi dell’aspetto «cattivo» del capitale (la valorizzazione) per conservarne l’aspetto buono (la produzione). Perché, come abbiamo visto, il valore e la logica del profitto impongono un certo tipo di produzione, sviluppando all’eccesso certi settori e trascurandone altri. Qualunque elogio dell’economia attuale, del proletariato attuale (cioè del proletariato in quanto ingranaggio del capitale), delle scienze e delle tecniche attuali, non è altro che un elogio del capitale. Ogni esaltazione della produttività e della crescita economica, quali esistono in questo momento, non è che un inno in gloria del capitale.
9. La rivoluzione comunista (comunizzazione)
Il comunismo è l’appropriarsi, da parte dell’umanità, delle proprie ricchezze, tenendo ben fermo che questa appropriazione è anche e inevitabilmente una trasformazione da cima a fondo. Questo implica necessariamente la distruzione delle imprese in quanto unità separate e quindi la distruzione della legge del valore: non per socializzare il profitto ma per far circolare i prodotti tra i vari centri industriali senza passare attraverso la mediazione del valore. Questo non significa affatto che la rivoluzione comunista riprenderà tale e quale il sistema produttivo del capitalismo. Non si tratta di sbarazzarsi dell’aspetto «cattivo» del capitale (la valorizzazione) per conservarne l’aspetto buono (la produzione). Perché, come abbiamo visto, il valore e la logica del profitto impongono un certo tipo di produzione, sviluppando all’eccesso certi settori e trascurandone altri. Qualunque elogio dell’economia attuale, del proletariato attuale (cioè del proletariato in quanto ingranaggio del capitale), delle scienze e delle tecniche attuali, non è altro che un elogio del capitale. Ogni esaltazione della produttività e della crescita economica, quali esistono in questo momento, non è che un inno in gloria del capitale.
Detto
questo, per rivoluzionare la produzione, per liquidare l’impresa, la
rivoluzione comunista è condotta naturalmente a servirsene. Essa è la sua leva
essenziale, almeno durante una certa fase. Non si tratta di guadagnare terreno
nelle fabbriche per restarvi chiusi e gestirle, ma per uscirne a collegarle tra
di loro senza lo scambio, cosa che le distrugge in quanto imprese. Un tale
movimento è accompagnato quasi automaticamente da un primo sforzo per ridurre,
e poi sopprimere, l’opposizione
città/campagna, e la separazione tra l’industria e le altre attività. Oggi
l’industria soffoca nel proprio ambito, soffocando al tempo stesso gli altri
settori.
Il
capitale vive per accumulare valore: questo valore, lo fissa sotto forma di
lavoro accumulato, morto. L’accumulazione, la produzione, diventano fini a se
stesse. Tutto è loro subordinato: il capitale nutre i suoi investimenti di
lavoro vivo. Parallelamente sviluppa il lavoro improduttivo, come abbiamo
visto. La rivoluzione comunista è la rivolta contro questa assurdità: è inoltre
una dis-accumulazione, non per tornare indietro, ma per cambiare completamente
la direzione della macchina, per rimetterla in piedi. Non si tratta più di
mettere l’uomo al servizio dell’investimento, ma di fare il contrario. Su
questo punto il comunismo è ugualmente la negazione del produttivismo
esasperato – di cui i Paesi cosiddetti socialisti e il Partito Comunista sono
tra i maggiori propagandisti – e dell’illusione riformistica e umanistica di un
cambiamento all’interno del quadro attuale.
Il comunismo
non è il prolungamento del capitalismo in una forma più razionale, più
«efficace», più moderna, meno ingiusta, meno anarchica. Non prende tali e quali le
basi materiali del vecchio mondo: ne è il loro rovesciamento. Solo la
considerevole preponderanza del lavoro accumulato nel processo produttivo
permette:
l) di non sfruttare più il lavoro vivo;
2) di non subordinare più la soddisfazione dei
bisogni alla produzione di beni strumentali.
Solo il comunismo può sfruttare questa condizione
creata dal capitale.
Il comunismo
non è un insieme di misure da applicare dopo la presa del potere. È un
movimento che esiste fin d’ora, non come modo di produzione (non vi possono essere
isole comuniste nella società capitalistica), ma come tendenza generata da bisogni reali. In un certo senso, il
comunismo non sa neppure che cosa sia il valore. Non è che un bel giorno ci sarà
una grande riunione di persone le quali decreteranno la soppressione del valore
e del profitto. Il comunismo non cerca di distruggere il valore: modifica un rapporto di produzione, e
questa azione liquida il sistema mercantile. Altro è il ruolo di coloro che
hanno compreso teoricamente le grandi linee del movimento storico: il loro
intervento accelera le cose.
Il meccanismo
della rivoluzione comunista è prodotto dalle lotte. Esso sarà il normale
sviluppo nel momento in cui la società costringerà tutti quegli elementi cui
rifiuta ogni prospettiva a instaurare dei nuovi rapporti sociali. Se
attualmente pare che un gran numero di lotte sociali sia privo di sbocchi è
proprio perché il solo prolungamento di queste lotte sarebbe il comunismo,
checché ne pensino quelli che vi partecipano. Sul piano semplicemente rivendicativo,
arriva spesso – sempre di più – il momento in cui per andare oltre non ci
sarebbe altra soluzione se non lo scontro violento con le forze dello stato,
generalmente fiancheggiate dai sindacati. In questo caso la lotta armata e
l’insurrezione presuppongono necessariamente la messa in atto di un programma
sociale, l’uso dell’economia come arma. L’aspetto
militare, per quanto grande sia la sua importanza, dipende dal contenuto
sociale. Con il semplice trionfo militare sui suoi avversari, il proletariato,
senza necessariamente saperlo (ma se ne è cosciente ed ha la capacità di
esprimerlo, di farlo sapere altrove, la sua azione è più efficace), trasforma
la società in senso comunista.
Fino ad oggi le lotte non hanno ancora mai raggiunto
lo stadio in cui il loro semplice sviluppo militare avrebbe reso necessaria
l’apparizione di una società nuova. Nelle lotte sociali più importanti, in
Germania tra il 1919 e il 1921, il proletariato, malgrado la violenza della
guerra civile, non ha raggiunto questo stadio. Ma il programma comunista era il
sostrato di quello scontro di forze, che restano incomprensibili senza di esso.
La borghesia seppe servirsi dell’arma dell’economia, nel senso dei suoi
interessi naturalmente, utilizzando ad esempio la disoccupazione per dividere
gli operai. Il proletariato ne fu incapace, e condusse la lotta con mezzi
esclusivamente militari – giungendo fino a creare un’Armata rossa nella Ruhr
nel 1920 – senza utilizzare l’arma fornitagli dalla sua funzione sociale.
In un altro contesto, certe rivolte della minoranza
nera negli Stati Uniti hanno abbozzato una trasformazione sociale, ma soltanto
al livello della distruzione della merce,
e non del capitale stesso. Questa
frazione del proletariato, in quanto per lo più esclusa dalla produzione, non
aveva la possibilità di servirsi dell’arma della lotta economica. Essa restava
fuori dalle imprese. La rivoluzione
comunista implica al contrario – tra gli altri compiti – un’azione che parta
dall’impresa, per distruggerla in quanto unità separata. Le rivolte degli
afroamericani si sono mantenute al livello del consumo e della distribuzione.
La rivoluzione dovrà colpire il cuore del sistema, il centro dove viene
prodotto il plusvalore. Ma di quest’arma si servirà soltanto per distruggerla.
I senza-riserve fanno la rivoluzione, costretti a
instaurare quei rapporti sociali che già affiorano nella società attuale.
Questa rottura presuppone necessariamente una crisi, che d’altra parte può
anche non essere dello stesso tipo di quella del 1929, contrassegnata da una
gigantesca paralisi economica. In ogni caso, per unificare i diversi elementi
in rivolta contro il lavoro salariato, bisogna che la società conosca
difficoltà abbastanza gravi da non poter più isolare le lotte le une dalle
altre. La rivoluzione comunista non è la
sommatoria dei movimenti attuali immediati, né la loro metamorfosi mediato dall’intervento
di un’«avanguardia». Essa presuppone una scossa sociale, un attacco del
capitale a tutti i livelli contro i «senza-riserve», che insieme amplificano
quantitativamente e modificano qualitativamente la loro azione.
Naturalmente questo meccanismo è possibile solo su scala mondiale o, almeno
all’inizio, in parecchi Paesi avanzati.
Da tutto quel che precede risulta chiaro che la
rivoluzione e la società comunista non dipendono da una questione organizzativa,
né di «potere» della classe operaia. Volere d’altronde la dittatura del
proletariato quale esso esiste attualmente è un’assurdità. Come è impossibile
che tutti prendano in mano l’attività sociale finché regnano il valore e il suo
strumento, l’impresa, così il proletariato quale si presenta attualmente
nell’economia è per definizione incapace di dirigere o di gestire checchessia.
Esso non è altro che un ingranaggio del meccanismo di valorizzazione, subisce
la dittatura del capitale. Di conseguenza la
dittatura del proletariato quale esso esiste in questo momento, non può essere
che la dittatura dei rappresentanti del
proletariato, cioè dei capi dei sindacati e dei partiti operai. Nella sua
brutalità, la dottrina ufficiale dei Paesi dell’Est, secondo la quale la
dittatura del proletariato s’identifica con quella del partito, è più lucida e
più franca della teoria di certi «rivoluzionari» che credono possibile una
gestione operaia pur conservando i fondamenti dell’economia attuale.
La rivoluzione
non è un problema di organizzazione. Tutte le teorie sul «governo dei lavoratori» e sul
«potere operaio» non fanno che proporre delle scappatoie, delle soluzioni alla
crisi del capitale. La rivoluzione è in primo luogo una trasformazione della
società, cioè di ciò che costituisce i rapporti esistenti tra gli uomini, e tra
gli uomini e i loro mezzi di sussistenza. I problemi di organizzazione, di
«capi», sono secondari: essi dipendono da quel che fa la rivoluzione. Questo
vale sia per la messa in moto della rivoluzione comunista, che per il
funzionamento della società che ne risulta. La rivoluzione non sopravviene il
giorno in cui il 51% degli operai è rivoluzionario, e non mette in piedi per
prima cosa un apparato di decisione e di gestione. È il capitalismo, invece,
che non riesce a venire a capo delle questioni di gestione (…). La forma d’organizzazione della rivoluzione
comunista, e di ogni movimento sociale, deriva dal suo contenuto. Il modo
in cui il partito, organizzazione della rivoluzione, si costituisce e agisce,
dipende dai compiti da portare a termine.
Nell’Ottocento, e anche al momento della prima
guerra mondiale, le condizioni materiali del comunismo erano ancora da creare,
almeno in certi Paesi (la Francia ,
l’Italia erano allora poco industrializzate, per non parlare della Russia). La
rivoluzione comunista avrebbe dunque dovuto in un primo tempo sviluppare le
forze produttive, mettere al lavoro i piccolo-borghesi, generalizzare il lavoro
industriale, secondo la regola: «chi non lavora non mangia» (formula da
applicarsi naturalmente soltanto a chi è in grado di lavorare). Il progresso
economico ha in seguito svolto questo compito. Ora le basi del comunismo esistono. Non si tratta più di mandare
gli improduttivi in fabbrica, ma piuttosto di creare le basi di una nuova
industria, qualitativamente diversa dalla precedente, accentuando quel che il
capitale frena e orienta nel senso del profitto: l’importanza del capitale
fisso, il ruolo della scienza e della tecnica, la ricerca. Un insieme di
compiti di trasformazione e di formazione s’impone oggi alla rivoluzione
comunista. La costrizione al lavoro lascerà il posto alla trasformazione delle
condizioni di lavoro.
Per quel che riguarda i Paesi sottosviluppati, la
liquidazione dello scambio e del profitto permetterà insieme di soddisfare i bisogni
più urgenti e, successivamente, di regolare la questione agraria e di
sviluppare l’industria in condizioni diverse da quelle sperimentate nei Paesi
oggi avanzati. Si tratta, su scala mondiale, di un movimento che è insieme di
accumulazione e di dis-accumulazione, di sviluppo e di orientamento delle forze
produttive verso la soddisfazione dei bisogni.
10. Il comunismo come movimento reale
10. Il comunismo come movimento reale
Il comunismo non è soltanto un sistema sociale, un modo di produzione, che nascerà in futuro, a partire dalla rivoluzione comunista. Questa rivoluzione è in effetti l’affrontarsi di due mondi: da una parte tutti coloro che si trovano respinti, esclusi da ogni profondo godimento, e talvolta addirittura minacciati nella loro esistenza fisica, uniti tutti dall’obbligo di entrare in rapporto gli uni con gli altri per agire, per vivere, per sopravvivere; dall’altra un’economia socializzata su scala mondiale, tecnicamente unificata, ma divisa in unità costrette ad opporsi l’una all’altra per rispettare la logica del valore che li unisce e che non indietreggia davanti ad alcuna distruzione per sopravvivere in quanto tale.
Il mondo delle imprese, attuale cornice delle forze
produttive, è dotato di una vita propria; si è costituito in forza autonoma e
sottomette alle sue leggi il mondo dei bisogni reali. La rivoluzione comunista
è la distruzione di questa sottomissione. Il comunismo è lotta contro questa
sottomissione, e in questo senso le si è opposto fin dagli inizi del
capitalismo, ma a quel tempo senza possibilità di successo.
Così come l’umanità ha in un primo momento
attribuito alle sue idee, alla sua visione del mondo, un’origine esterna,
credendo che l’essenza dell’uomo risiedesse, non nei suoi rapporti sociali, ma
nel suo legame con un’entità estranea al mondo reale (Dio) di cui l’uomo non
era che un prodotto; allo stesso modo l’umanità,
nel suo sforzo di appropriazione, di adattamento nei confronti del mondo
circostante, ha dovuto in un primo tempo creare un mondo materiale, un
complesso di forze produttive, un’economia, un mondo di oggetti che la
schiaccia e la domina, prima di potersene appropriare e di trasformarlo,
adattandolo ai suoi bisogni.
La rivoluzione comunista non è che il prolungamento,
e al contempo il superamento, dei movimenti sociali attuali. Le discussioni sul
comunismo si pongono generalmente su di un terreno sbagliato: in esse ci si
domanda quel che si farà dopo la rivoluzione. Non si collega mai il comunismo a
quel che succede nel momento in cui se ne parla. C’è una rottura: si fa la
rivoluzione, poi si costruisce il comunismo. In realtà il comunismo è il prolungamento di bisogni reali che si manifestano fin
d’ora, ma che non trovano la loro
vera soddisfazione perché l’attuale situazione lo impedisce. Esiste già fin
d’ora tutto un insieme di pratiche, di gesti, anche di atteggiamenti,
comunisti: essi esprimono non soltanto un rifiuto globale del mondo attuale, ma
soprattutto uno sforzo per costruirne un altro. Nella misura in cui questo
fine non viene raggiunto, non si vedono che
i limiti, che la tendenza, e non il suo prolungamento possibile (i «gauchisti» teorizzano
tali limiti come il fine del movimento, e in tal modo non
fanno che rafforzarli).
Nella negazione del lavoro dell’operaio-massa (OS),
nella lotta degli sfrattati che occupano un appartamento o un locale vuoto,
appare la prospettiva comunista, lo sforzo di creare una cosa radicalmente diversa, non a partire da un rifiuto puro e semplice
del mondo attuale (hippies), ma
utilizzando, trasformando quel che questo mondo produce e spreca. Questa cosa è nascosta dentro le lotte,
qualsiasi cosa pensino e vogliano, coscientemente, coloro che vi partecipano, e
qualsiasi cosa affermino i «gauchisti» che vi prendono parte e che le
teorizzano. Tali movimenti saranno ulteriormente condotti a prender coscienza
dei loro atti, a comprendere quel che fanno per farlo meglio.
Per coloro che sin d’ora si pongono la questione del
comunismo, non può esser questione di intervenire in tutte queste lotte per
apportarvi il messaggio comunista, proponendo a queste azioni limitate di
volgersi ad una «vera» attività comunista. Non si tratta di apportare certe
parole d’ordine ma in primo luogo di
mostrare la ragione e il meccanismo di queste lotte, di mostrare quel che
saranno costrette a fare. Questa azione non ha senso che attraverso una partecipazione reale a tali movimenti,
senza attivismo, ma ogni volta che è possibile. Questo non significa
l’abbandono, da parte di quelli che vi si dedicano, dell’attività propriamente
teorica, di ricerca e di esposizione. Non è stato ancora detto tutto e, per
esempio, questo testo e altri, non sono che approcci al problema. Detto questo,
c’è un certo modo di fare della teoria che conduce a non entrare mai in
contatto con il movimento sociale reale; in ogni modo questo non è propriamente
un problema, in quanto l’attività comunista saprà distinguere questi due differenti
modi di essere.
Dal punto di vista negativo, tutto quel che serve a
demolire le mistificazioni del capitale, che esse vengano dallo Stato, dal
Partito Comunista o dai «gauchisti», è ugualmente una pratica comunista - che
questa propaganda si faccia con le parole, con dei testi scritti o con dei gesti.
L’attività teorica è anche pratica.
Da un lato, non bisogna fare nessuna concessione ideologica. Dall’altro, il
solo modo di portare avanti il programma e di permettere al comunismo teorico
di svolgere il suo ruolo pratico, è quella di partecipare all’agitazione e
all’unificazione che i movimenti sociali intraprendono (…). A suo modo, il
comunismo è già passato all’attacco.
Note:
Note:
(1) Cfr. E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in
Inghilterra, Il Saggiatore, Milano, 1969
(2) Cfr. K.Marx – F.Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti,
1991
(3) Cfr. La recensione del Capitale
di Engels , in F.Engels, Selected Writings, Penguin, 1967, pp.
177-184.
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