[Questo scritto di Maximilien Rubel (dello stesso autore abbiamo già
presentato Marx libertario) fa parte della raccolta di saggi Marx critico
del marxismo, Cappelli, 1981. La sua
pubblicazione su questo sito, come sempre, non va confusa con una condivisione
integrale da parte nostra delle tesi che vi sono esposte. Ci riferiamo, in
particolare, al problema dell’uso di parte proletaria dello Stato e della
democrazia (che pure in Marx é concepito in forma assai diversa
rispetto a quello preconizzato dalla socialdemocrazia e dal leninismo), quali strumenti della trasformazione rivoluzionaria e della gestione della transizione al
comunismo,
problema che Rubel sembra non fare più di tanto oggetto del suo acume critico. Condividiamo qui, invece, l’analisi sviluppata da Guy
Debord ne La società dello Spettacolo,
che egli così mirabilmente sintetizza: “l’organizzazione rivoluzionaria ha
dovuto imparare che essa non può più combattere l’alienazione sotto forme alienate”: lo Stato, quintessenza dell’astrazione
capitalista, non può essere subordinato alle esigenze della rivoluzione, pena
la reintroduzione nel seno del processo rivoluzionario stesso del germe del dominio, dell’alienazione
e dello sfruttamento. D’altra parte, ad essere superata, a nostro avviso, è la
necessità stessa di un periodo di transizione, che accumuli mezzi e risorse in vista della costruzione della
comunità umana, del comunismo. A tal proposito rinviamo ai testi contenuti
nella sezione “Comunizzazione” di
questo sito. Buona lettura. Lmjf]
* * *
Marx teorico dell’anarchismo
di Maximilien Rubel
Danneggiato da discepoli che non sono riusciti né a tracciare il bilancio e i limiti della sua teoria né a definirne le norme e il campo di applicazione, Marx ha finito con l’assumere l’aspetto di un gigante mitologico, simbolo dell’onniscienza e dell’onnipotenza, dell’homo faber forgiatore del proprio destino.
La storia della Scuola resta da
scrivere, ma almeno ne conosciamo la genesi: codificazione di un pensiero mal
conosciuto e mal interpretato, il marxismo è nato e si è sviluppato quando
l’opera di Marx non era ancora accessibile nella sua integralità e sue parti
importanti erano inedite. Così il
trionfo del marxismo come dottrina di Stato e ideologia di partito ha preceduto
di alcuni decenni la diffusione degli scritti in cui Marx esponeva nel modo più
chiaro e completo i fondamenti scientifici e le intenzioni etiche della sua
teoria sociale. Il fatto che si siano prodotti sconvolgimenti profondi in
nome di un pensiero i cui princìpi cardinali erano ignoti ai protagonisti del
dramma storico, basterebbe già a dimostrare che il marxismo è il più grande, se
non il più tragico, malinteso del secolo. Ma con ciò stesso si può misurare la
portata della tesi sostenuta da Marx secondo la quale a provocare i mutamenti
delle società e le trasformazioni sociali non sono né le idee rivoluzionarie né
i princìpi morali, bensì delle forze umane e materiali; idee e ideologie
servono perlopiù soltanto a mascherare gli interessi della classe a vantaggio
della quale sono stati realizzati gli sconvolgimenti. Il marxismo politico non
può richiamarsi alla scienza di Marx e contemporaneamente sottrarsi a
quell’analisi critica di cui questa si è armata per smascherare le ideologie di
potenza e di sfruttamento.
Ideologia dominante di una classe di padroni, il marxismo è riuscito a
svuotare i concetti di socialismo e di comunismo, così com’erano intesi da Marx
e dai suoi precursori, del loro
contenuto originario, sostituito dall’immagine di una realtà che ne è la totale
negazione. Benché strettamente legato agli altri due, un terzo concetto
sembra tuttavia essere sfuggito a questo destino: l’anarchismo. Se è noto che
Marx ha avuto poca simpatia per certi anarchici, generalmente s’ignora che
nondimeno ne ha condiviso l’ideale e l’obiettivo: la scomparsa dello Stato. Conviene dunque ricordare che, sposando
la causa dell’emancipazione operaia, Marx si è subito situato nella tradizione
dell’anarchismo piuttosto che in quella del socialismo o del comunismo(1). E
quando finalmente scelse di definirsi comunista, questa qualifica non designava
per lui una delle correnti del comunismo
allora esistenti, bensì un movimento di
pensiero e un modo di azione che restava da fondare, riunendo tutti gli
elementi rivoluzionari ereditati dalle dottrine e dalle esperienze di lotta del
passato.
Nelle riflessioni seguenti,
cercheremo di dimostrare che, sotto il vocabolo "comunismo", Marx ha
sviluppato una teoria dell’anarchia;
o meglio ch’egli fu in realtà il primo a gettare le basi razionali dell’utopia
anarchica e a definirne un progetto di realizzazione. Viste le dimensioni
limitate di questo saggio, presenteremo queste tesi solo come temi di
discussione. Il ricorso alle citazioni di riscontro testuale, sarà ridotto al
minimo, per fare risaltare meglio l’argomento centrale: Marx teorico
dell’anarchismo.
I
Quando nel febbraio 1845, poco
prima di partire per l’esilio brussellese, Marx firmò a Parigi un contratto con
un editore tedesco, impegnandosi a consegnare entro qualche mese un’opera in
due volumi (di circa mille pagine) intitolata Critica della politica e
dell’economia politica, era lontano dal sospettare di essersi
imposto un compito che avrebbe riempito tutta la sua vita e del quale peraltro
avrebbe potuto realizzare solo un grande frammento.
La scelta del tema non aveva
niente di fortuito. Perduta ogni speranza di carriera universitaria, Marx aveva
trasposto nel giornalismo politico i risultati dei propri studi di filosofia. I
suoi articoli sulla "Rheinische Zeitung" di Colonia si battono per la
libertà di stampa in Prussia nel nome di una libertà da lui concepita come
essenza dell’uomo e come gioiello e ornamento della natura umana; ma anche in
nome di uno Stato concepito come realizzazione della libertà razionale, come
"il grande organismo in cui le libertà giuridica, morale e politica devono
trovare la loro realizzazione e in cui il singolo cittadino, obbedendo alle
leggi dello Stato non fa che obbedire alle leggi naturali della propria ragione,
della ragione umana" ("Rheinische Zeitung", 10 luglio 1842). Ma
la censura prussiana ridusse ben presto al silenzio il filosofo giornalista,
che non avrebbe tardato a interrogarsi, nella solitudine di un ritiro di studi,
circa la vera natura dello Stato e la portata razionale ed etica della
filosofia politica di Hegel. Conosciamo i frutti di questa meditazione,
arricchita dallo studio della storia delle rivoluzioni borghesi in Francia, in
Gran Bretagna e negli Stati Uniti d’America: oltre a un lavoro incompiuto e
inedito - Critica della filosofia hegeliana dello Stato (1843)
- due saggi polemici: Introduzione alla critica della filosofia hegeliana
del diritto e A proposito della questione ebraica (Parigi,
1844). Questi due scritti costituiscono, in verità, un unico manifesto in cui
Marx addita una volta per tutte e condanna
senza riserve le due istituzioni sociali ch’egli vede all’origine dei mali e
delle tare di cui soffre la società moderna e di cui soffrirà, fino a quando
una rivoluzione sociale non li abolirà: lo Stato e il Denaro. Simultaneamente
Marx esalta quella potenza che, dopo essere stata la principale vittima di
queste due istituzioni, porrà fine al loro regno come a ogni altra forma di
dominio di classe, politico o economico: il proletariato moderno, la cui
auto-emancipazione è l’emancipazione universale dell’uomo, è, dopo la
perdita totale dell’uomo, la conquista totale dell’umano.
La negazione dello Stato e del
Denaro, così come l’affermazione del proletariato in quanto classe liberatrice,
precedono, nello sviluppo intellettuale di Marx, i suoi studi di economia
politica e anche la scoperta del "filo conduttore" che lo guiderà
nelle sue ricerche storiche successive, ossia la concezione materialistica
della storia. La rottura con la filosofia giuridica e politica di Hegel da una
parte, e lo studio critico della storia delle rivoluzioni borghesi dall’altra,
gli hanno permesso di fissare definitivamente i postulati etici della propria futura teoria sociale, di cui la
critica dell’economia politica gli fornirà le basi scientifiche. Avendo colto
il ruolo rivoluzionario della democrazia e del potere legislativo nella genesi
dello Stato borghese e del suo sistema di governo, Marx ha messo a profitto le
analisi illuminanti di un Alexis de Tocqueville e di un Thomas Hamilton(2),
entrambi osservatori perspicaci delle potenzialità rivoluzionarie della
democrazia americana, per gettare le fondamenta razionali di un’utopia
anarchica in quanto finalità cosciente del movimento rivoluzionario della
classe che il suo maestro Saint-Simon aveva definito "la più numerosa e la
più povera". Poiché la critica dello Stato l’aveva portato a immaginare la
possibilità di una società liberata da ogni autorità politica, doveva ormai
intraprendere la critica del sistema economico
che assicurava le basi materiali dello Stato. Quanto alla negazione etica
del denaro, essa implicava parimenti l’analisi dell’economia politica, scienza
dell’arricchimento per gli uni e della miseria per gli altri. Più tardi, Marx
avrebbe definito "anatomia della società borghese" la ricerca che
stava per iniziare, ed è proprio dedicandosi a questo lavoro di anatomista
sociologo che forgerà il proprio strumento metodologico; la riscoperta della
dialettica hegeliana lo avrebbe aiutato poi a fissare il piano dell’Economia
in sei "rubriche" o "Libri": "Capitale",
"Proprietà fondiaria", "Lavoro salariato"; "Stato",
"Commercio estero", "Mercato mondiale" (cfr. la
prefazione alla Critica dell’economia politica, 1859). In
effetti questa doppia "triade" di temi di ricerca corrisponde ai due
problemi che Marx si proponeva di trattare quattordici anni prima nell’opera
contenente la duplice critica
dell’economia e della politica. Marx ha iniziato la propria opera con
l’analisi critica del modo di produzione capitalistico, ma sperava di portare a
termine non solo la prima triade di rubriche, ma anche d’iniziare la seconda
triade che il "Libro sullo Stato"(3) avrebbe dovuto inaugurare. La
teoria dell’anarchismo avrebbe così trovato in Marx il suo primo promotore riconosciuto,
senza che vi fosse bisogno di portarne la prova indiretta. Quel malinteso del
secolo che è il marxismo, ideologia di Stato, è nato da tale lacuna; è
quest’ultima che ha permesso ai padroni di un apparato statale battezzato
socialista di includere Marx fra gli adepti di un socialismo o di un comunismo
di Stato, se non addirittura di un socialismo "autoritario".
Certamente, come ogni insegnamento rivoluzionario, quello di Marx non è
esente da ambiguità. Sfruttandole abilmente e invocando certi atteggiamenti
personali del maestro, discepoli poco scrupolosi sono riusciti a mettere la sua
opera al servizio di dottrine e di azioni che ne rappresentano la più completa
negazione, tanto nella sua verità fondamentale quanto nella sua finalità
apertamente proclamata. In un’epoca in cui tutto - teorie e valori, sistemi e
progetti - si vede rimesso in questione da vari decenni di regresso nell’ordine
delle relazioni umane, è importante raccogliere il lascito spirituale di un
autore che, consapevole dei limiti della propria ricerca, ha fatto dei postulati dell’autoeducazione critica e
dell’auto-emancipazione rivoluzionaria il
principio permanente del movimento operaio. Non spetta a una posterità
carica di pesanti responsabilità giudicare un morto che non può più difendere
la propria causa; in compenso, tocca a noi accettare consapevolmente un
insegnamento tutto volto verso un avvenire che è divenuto, certamente, il
nostro catastrofico presente, ma che, nella sua parte migliore, resta ancora da
creare.
II
Diciamolo un’altra volta: il
"Libro" sullo Stato previsto nel piano dell’Economia, ma
restato non scritto, poteva contenere soltanto la teoria della società liberata
dallo Stato, la società anarchica. Senza essere direttamente destinati a
quest’opera, i materiali e i lavori preparati o pubblicati da Marx nel corso
della sua attività letteraria permettono sia di avanzare questa ipotesi circa
la sostanza dell’opera progettata sia di determinarne la struttura generale. Se
la prima triade di rubriche si confondeva con la critica dell’economia
politica, la seconda triade avrebbe dovuto, per l’essenziale, esporre la critica della politica. Facendo seguito
alla critica del capitale, la critica
dello Stato avrebbe dovuto stabilire il determinismo dell’evoluzione politica della società moderna, così
come il proposito del Capitale (seguito dai "Libri" sulla Proprietà
fondiaria e sul Lavoro salariato) era di "svelare
la legge economica di movimento della società moderna" (cfr. la
"Prefazione alla prima edizione" de Il Capitale,
1867). E come negli scritti, editi e inediti, anteriori alla Critica
dell’economia politica (1859) si rinvengono i princìpi e i postulati cui
Marx si è ispirato per fondare la critica del capitale, così se ne possono
estrarre le tesi e le norme che l’avrebbero guidato per sviluppare la critica
dello Stato. Sarebbe tuttavia falso supporre che il pensiero di Marx sulla
politica fosse allora definitivamente fissato, senza possibilità di alcuna
modifica nei dettagli, o chiuso a ogni arricchimento teorico. Anzi, se il
problema dello Stato non ha mai smesso di assillarlo, non è solo perché si
sentiva moralmente costretto a terminare la sua opera principale, ma
soprattutto perché la sua partecipazione all’Internazionale operaia dal
settembre 1864, i suoi scontri polemici in seno a quest’organismo e gli
avvenimenti politici, in particolare la rivalità egemonica tra Francia e
Prussia da una parte, Russia e Austria dall’altra, l’hanno sempre tenuto sul
chi vive. L’Europa dei trattati di Vienna era ormai solo una finzione, mentre
due grandi fenomeni sociali erano sorti sulla scena della storia: i movimenti di liberazione nazionale e il movimento operaio. Difficili da
conciliare da un punto di vista puramente concettuale, la mischia delle nazioni
e la lotta di classe dovevano porre a Marx e a Engels problemi di decisione
teorica la cui soluzione non poteva mancare di porli in contraddizione con i propri princìpi rivoluzionari. Engels si
era specializzato nel distinguere i popoli e le nazioni a seconda che potessero
o no rivendicare, a suo avviso, il diritto storico all’esistenza nazionale. Il
loro senso della realtà storica impediva ai due amici di seguire Proudhon sulla
via di un federalismo che, nella situazione dell’epoca, doveva apparire loro
una pura follia e nel contempo un’utopia impura; ma grande era il rischio di
cadere in un nazionalismo poco compatibile col presunto universalismo del
proletariato moderno.
Se Proudhon, con le sue aspirazioni federaliste, sembra essere più
vicino di Marx a una posizione anarchica, il quadro si sfuma quando si
consideri la sua concezione globale delle riforme che avrebbero dovuto portare
all’abolizione del capitale e dello Stato. L’elogio di cui Proudhon è fatto
oggetto ne La sacra famiglia (1845) non deve trarci in
inganno: fin da allora le divergenze teoriche tra i due pensatori erano
profonde, poiché questo elogio veniva concesso al socialista francese solo con
una riserva d’immensa portata: la
critica proudhoniana della proprietà non è esterna al sistema economico
borghese; per quanto valida, non rimette in questione dalle fondamenta i
rapporti sociali di produzione del sistema criticato. Nella dottrina
proudhoniana, anzi, le categorie economiche, espressioni teoriche delle
istituzioni del capitale, sono tutte quante conservate in maniera sistematica.
Proudhon ha il merito di aver disvelato le contraddizioni inerenti alla scienza
economica e di aver dimostrato l’immoralità della morale e del diritto
borghesi; la sua debolezza è di aver
accettato le categorie e le istituzioni dell’economia capitalista e di avere
rispettato, nel proprio programma di rimedi e di riforme, tutti gli strumenti
di dominio della classe borghese e del suo potere politico: salario,
credito, banca, scambio, prezzo, valore, profitto, interesse, imposta,
concorrenza, monopolio. Pur avendo saputo applicare la dialettica della
negazione all’analisi dell’evoluzione del diritto e dei sistemi giuridici, si è
tuttavia fermato a mezza strada, rinunciando a estendere il suo metodo critico
della negazione all’economia capitalista. Proudhon ha reso possibile tale
critica, ma è Marx che tenterà di fare di questo nuovo metodo critico un’arma
nella lotta del lavoro contro il capitale e il suo Stato.
Proudhon aveva criticato l’economia e il diritto borghese in nome della
morale borghese; Marx diverrà il
critico del modo di produzione capitalista in nome dell’etica proletaria, i cui
criteri di giudizio sono improntati a una visione del tutto diversa della
società umana. È sufficiente a questo fine perseguire in tutto il suo
rigore logico e fino alle sue ultime conseguenze il principio proudhoniano - o
meglio, hegeliano - della negazione:
la Giustizia
sognata da Proudhon sarà realizzata solo dalla negazione della giustizia, così
come la filosofia non potrà essere realizzata che dalla negazione della
filosofia, cioè da una rivoluzione sociale che permetterà infine all’umanità di
divenire sociale e alla società di divenire umana(4). Sarà la fine della
preistoria dell’umanità e l’inizio della vita individuale, l’apparizione
dell’uomo nella sua pienezza, con facoltà universali, l’avvento dell’uomo totale o polimorfo (vielseitig).
Alla morale realista di Proudhon che cerca di salvare il "lato buono"
delle istituzioni borghesi, Marx contrappone l’etica di un’utopia le cui
esigenze sono all’altezza delle possibilità offerte da una scienza e da una
tecnica sufficientemente sviluppate per provvedere ai bisogni della specie. A un anarchismo tanto rispettoso della
pluralità delle classi e delle categorie sociali quanto favorevole alla
divisione del lavoro e ostile all’associazionismo esaltato dagli utopisti, Marx
oppone un anarchismo negatore delle classi sociali e della divisione del
lavoro, un comunismo che riprende tutto ciò che, nel socialismo utopistico,
potrebbe essere realizzato da un proletariato cosciente del proprio ruolo
emancipatore e padrone delle forze produttive. E tuttavia, a dispetto di
queste vie divergenti - in particolare, come vedremo, di una differente
valutazione dei mezzi politici -, i due tipi di anarchia si orientano verso una
finalità comune, quella che il Manifesto del Partito comunista ha
definito in questi termini:
"La vecchia società borghese con le sue classi e i suoi
antagonismi cede il posto a un’associazione in cui il libero sviluppo di
ciascuno è la condizione della libera realizzazione di tutti".
III
Marx si è rifiutato d’inventare
ricette per le pentole dell’avvenire, ma ha fatto di meglio, o di peggio: ha
voluto dimostrare che una necessità
storica trascinava, simile a una cieca fatalità, l’umanità verso una situazione
di crisi in cui avrebbe dovuto affrontare un dilemma decisivo: essere
annientata dalle proprie invenzioni tecniche o sopravvivere grazie a un
soprassalto di coscienza che l’avrebbe resa capace di rompere con tutte le
forme di alienazione e di asservimento che hanno segnato le fasi della sua
storia. Solo questo dilemma è fatale,
poiché la scelta della via d’uscita è lasciata alla classe sociale che ha tutte
le ragioni per rifiutare l’ordine esistente e per realizzare un modo di
esistenza profondamente diverso dal vecchio. Il proletariato moderno è,
virtualmente, la forza materiale e morale in grado di farsi carico di questo
compito salvifico di portata universale. Tuttavia, questa forza potenziale
potrà diventare reale solo col compimento del tempo della borghesia, poiché
anche quest’ultima assolve una missione storica; se non ne è sempre cosciente,
i suoi ideologi s’incaricano di ricordarle il suo ruolo civilizzatore. Creando
il mondo a propria immagine, la borghesia dei Paesi industrialmente sviluppati
imborghesisce e proletarizza le società che cadono progressivamente sotto il
suo dominio politico ed economico. Considerati dal punto di vista degli
interessi proletari, i suoi strumenti di conquista - il capitale e lo Stato -
sono altrettanto mezzi di asservimento e di oppressione. Quando i rapporti di produzione capitalisti, e pertanto gli Stati
capitalisti, si saranno effettivamente instaurati su scala planetaria, le
contraddizioni interne del mercato mondiale riveleranno i limiti
dell’accumulazione capitalista e provocheranno uno stato di crisi permanente
che metterà in pericolo le basi stesse delle società asservite, fino a
minacciare la sopravvivenza pura e semplice della specie umana. Risuonerà l’ora
della rivoluzione proletaria!
Un’estrapolazione appena audace
ci è bastata per trarre le ultime conseguenze dal metodo dialettico impiegato
da Marx per rivelare la legge economica del movimento della società moderna.
Potremmo avvalorare quest’affermazione astratta mediante riferimenti testuali,
partendo dalle osservazioni metodologiche che si possono spigolare in parecchi
scritti di Marx risalenti a epoche diverse. È anche vero che l’ipotesi più
frequente che Marx ci prospetta nei suoi lavori politici è quella della
rivoluzione proletaria nei Paesi che hanno conosciuto un lungo periodo di
civiltà borghese e di economia capitalista; essa deve segnare l’inizio di un
processo di sviluppo che inglobi a poco a poco il resto del mondo, poiché
l’accelerazione del progresso storico è assicurata per osmosi rivoluzionaria.
Qualunque sia l’ipotesi considerata, un fatto è certo: non c’è spazio, nella teoria sociale di Marx, per una terza via
rivoluzionaria, quella di Paesi che, privi dell’esperienza storica del
capitalismo maturo e della democrazia borghese, mostrerebbero il cammino della
rivoluzione proletaria ai Paesi dotati di un lungo passato capitalista e
borghese.
È bene ricordare tali
elementari verità della cosiddetta concezione materialistica della storia,
perché la mitologia marxista nata con la Rivoluzione russa del
1917 è riuscita a imporre alle menti poco informate - e sono legioni - una
tutt’altra immagine di questo processo rivoluzionario: l’umanità sarebbe divisa
in due sistemi economico-politici, il mondo capitalista dominato dai Paesi
industrialmente sviluppati e il mondo socialista il cui modello, l’URSS, è
assurto al rango di seconda potenza mondiale in seguito a una rivoluzione
"proletaria". In verità, l’industrializzazione
del Paese è dovuta alla creazione e allo sfruttamento di un immenso proletariato,
e non al trionfo e all’abolizione di quest’ultimo. La finzione di una
"dittatura del proletariato" fa parte dell’arsenale delle idee
imposte dai nuovi padroni nell’interesse del loro potere: numerosi decenni
di barbarie nazionalista e militare su scala mondiale ci consentono di
comprendere lo smarrimento mentale di un’intellighenzia universalmente vittima
del mito denominato "Ottobre socialista"(5).
Non potendo approfondire questo
dibattito in questa sede, ci limiteremo a precisare il nostro proposito sotto
forma di un’alternativa: o la teoria materialistica dello sviluppo sociale è
rigorosamente scientifica - cosa di cui lo stesso Marx, naturalmente, era
persuaso - e in tal caso l’esistenza di un mondo "socialista" è un
mito; oppure il mondo socialista esiste realmente, e ciò costituisce la
confutazione totale e definitiva di questa teoria. Nella prima ipotesi, il mito
del mondo socialista si può spiegare perfettamente: si tratterebbe del prodotto
di una campagna ideologica abilmente condotta dal "primo Stato
operaio" al fine di dissimulare la propria natura; nel secondo caso, la teoria
materialistica del divenire-socialista-del-mondo sarebbe certo smentita,
ma le esigenze etiche e utopiche dell’insegnamento marxiano sarebbero
realizzate; in altre parole, Marx, rifiutato dalla storia come scienziato,
avrebbe trionfato come rivoluzionario.
Il mito del "socialismo
realizzato" è stato fabbricato per giustificare moralmente uno dei più
poderosi modelli di società del dominio e dello sfruttamento che la storia abbia
mai conosciuto. Il problema della natura di questa società è riuscito a
stornare completamente anche le menti più attente dalle teorie, dottrine e
nozioni che formano nel loro insieme il patrimonio intellettuale del
socialismo, del comunismo e dell’anarchismo;
ma fra queste tre scuole del movimento d’idee mirante a una mutazione profonda
della società umana, l’anarchismo è quella che ha meno sofferto di tale
pervertimento: non avendo creato una teoria vera e propria della praxis rivoluzionaria, ha potuto
preservarsi dalla corruzione politica e ideologica che ha colpito le altre due
scuole di pensiero. Nata tanto dai sogni
e dalle nostalgie quanto dal rifiuto e dalla rivolta, si è costituita come la
critica più radicale del principio di autorità in tutte le sue vesti, ed è
soprattutto come tale che è stata assorbita dalla teoria materialistica della
storia. Quest’ultima è
essenzialmente un’idea dell’evoluzione storica dell’umanità che passa,
attraverso tappe successive, da uno stato permanente di antagonismi sociali a
un modo di esistenza fatto di armonia sociale e di pienezza individuale. Al
pari della critica sociale trasmessa dall’utopia anarchica, la finalità comune
alle dottrine radicali e rivoluzionarie pre-marxiane è divenuta parte
integrante del comunismo anarchico di Marx. Con lui, l’anarchismo utopico si
arricchisce di una nuova dimensione, quella della comprensione dialettica del
movimento operaio visto come l’autoliberazione etica inglobante l’intera
umanità. Era inevitabile che la tensione intellettuale provocata dall’elemento
dialettico in una teoria dalle pretese scientifiche, se non addirittura
naturalistiche, fosse all’origine di un’ambiguità fondamentale che segna
indelebilmente l’insegnamento e l’attività di Marx. Uomo di partito(6) non meno
che uomo di scienza, Marx non sempre ha cercato, nella sua attività politica,
di armonizzare i fini e i mezzi del comunismo anarchico. Ma pur avendo a volte
fallito come militante, non cessa per questo di essere il teorico
dell’anarchismo. Si ha dunque il diritto di applicare alla sua teoria la
tesi etica da lui formulata a proposito del materialismo di Feuerbach (1845):
"La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva,
non è questione teorica, bensì una questione pratica. Nella prassi l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il
potere, il carattere immanente del suo pensiero"(6 bis).
IV
La negazione dello Stato e del capitalismo da parte della classe
sociale più numerosa e più miserabile si presenta in Marx come un imperativo
etico prima ancora di essere dimostrata dialetticamente come una necessità
storica. Il suo primo passo, procedendo a una valutazione critica dei
risultati della Rivoluzione francese, equivale a una scelta decisiva, quella
dello scopo che, a suo avviso, ogni
uomo dovrebbe sforzarsi di raggiungere; e tale scopo è precisamente l’emancipazione umana in quanto superamento
dell’emancipazione politica. Lo Stato politico più libero - il cui unico
esempio è fornito dagli Stati Uniti d’America - rende l’uomo schiavo poiché
s’interpone a mo’ di mediatore fra l’uomo e la sua libertà, come Cristo che
l’uomo religioso carica della divinità propria dell’uomo. Politicamente emancipato, nondimeno l’uomo partecipa a una sovranità
immaginaria; quale essere sovrano che gode dei diritti dell’uomo, conduce
una doppia esistenza, quella del cittadino, membro della comunità politica, e
quella del privato, membro della società civile; quella di essere celeste e
quella di essere profano. Come cittadino, egli è libero e sovrano nei cieli della
politica, reame universale dell’eguaglianza; come individuo, viene
reinghiottito e nella vita reale, la
vita civile, si degrada a strumento del suo prossimo; è allora il giocattolo di
potenze estranee, materiali e morali: le istituzioni della proprietà privata,
della cultura, della religione ecc. La
società civile separata dallo Stato politico è la sfera dell’egoismo, della
guerra di tutti contro tutti, della separazione dell’uomo dall’uomo.
Assicurando all’uomo la libertà religiosa, la democrazia politica non lo ha
liberato dalla religione, così come non lo libera dalla proprietà garantendogli
il diritto di proprietà; egualmente mantiene la schiavitù e l’egoismo del
mestiere accordando a tutti la libertà di mestiere. Poiché la società civile
borghese è il mondo del commercio e del lucro, il regno del denaro, potenza
universale che si è asservita la politica, e dunque lo Stato.
In sintesi, questa è la tesi
iniziale di Marx: come critica dello Stato e del capitale, pertiene più a un
pensiero anarchico piuttosto che a un qualunque socialismo o comunismo. Non ha
ancora niente di rigorosamente scientifico, ma si richiama a una concezione
etica del destino umano, di cui implicitamente si nutre, ponendo l’esigenza di
un compimento nell’ordine del tempo storico. Per questo, senza limitarsi alla
critica dell’emancipazione politica - che riduce l’uomo allo stato di monade
egoista e di cittadino astratto -, definisce sia il fine da raggiungere sia i
mezzi necessari:
"Solo quando l’effettuale uomo individuale ritira in sé l’astratto
cittadino e come uomo individuale nella sua vita empirica, nel suo lavoro
individuale, nelle sue relazioni individuali è diventato essenza-del-genere,
solo quando l’uomo ha riconosciuto e ha organizzato le sue forces propres come forze sociali e perciò non scinde più
da sé le forze sociali nella sembianza del potere politico, solo allora l’emancipazione umana si
adempie" (Sulla questione ebraica, 1844)(6 ter).
Partendo da Il contratto
sociale di Rousseau, teorico del cittadino astratto e precursore di Hegel,
Marx ha trovato la propria strada. Rifiutato un aspetto dell’alienazione
politica esaltata dai due pensatori, è giunto alla visione di una emancipazione umana e sociale che
reintegrerebbe l’individuo nell’interezza delle sue facoltà e nella totalità
del suo essere. Rifiuto parziale, poiché, in quanto dato storico, questa
tappa non può scomparire o essere abolita mediante un atto di volontà. L’emancipazione politica è un
"grande progresso", è anche l’ultima forma dell’emancipazione umana all’interno
dell’ordine stabilito, e come tale potrà essere usata come strumento per sconvolgere tale ordine e
inaugurare la tappa dell’autentica emancipazione umana. Dialetticamente
antinomici, il fine e i mezzi si accordano eticamente nella coscienza del proletariato
moderno, che diviene così il portatore e il soggetto storico della rivoluzione.
Classe che concentra in sé tutte le tare della società e ne incarna la colpa
originaria, il proletariato possiede un
carattere universale per via dell’universalità della sua miseria. Non può
emanciparsi senza emancipare tutte le sfere della società, e proprio
realizzando i postulati di questa etica emancipatrice si abolirà in quanto
proletariato.
Laddove Marx invoca la
filosofia come "testa" e arma intellettuale dell’emancipazione umana
il cui "cuore" sarebbe il proletariato, noi preferiamo parlare di
etica, per significare che non si tratta di una speculazione metafisica ma di
un problema esistenziale: ciò che conta è cambiare il mondo restituendogli il
suo volto umano originario, e non interpretarne la caricatura. Nessuna
filosofia speculativa può offrire all’uomo una soluzione ai suoi problemi di
esistenza, seppur elevando la rivoluzione al rango d’imperativo categorico, Marx ragiona in funzione di un’etica
normativa e non in riferimento a una filosofia della storia o a una teoria
sociologica. Una sola scienza doveva allora destare l’attenzione di Marx
che non poteva né voleva limitarsi alla pura esigenza etica di una
rigenerazione degli uomini e delle società: la scienza della produzione dei
mezzi di esistenza secondo la legge del capitale.
Lo studio dell’economia
politica fu per Marx un modo di lottare per la causa alla quale avrebbe
consacrato ormai tutti gli istanti della sua esistenza di "borghese"
declassato. Quella che fino ad allora era stata solamente intuizione visionaria
e scelta etica diventerà teoria dello sviluppo economico e ricerca dei
determinismi sociali. Ma parimenti sarà partecipazione attiva al movimento
sociale chiamato a mettere in pratica gli imperativi e le norme derivanti dalle
condizioni di esistenza del proletariato industriale. La teoria di una società
senza Stato, senza classi, senza scambi monetari, senza terrori religiosi e
intellettuali, presuppone una teoria critica del modo di produzione capitalista
e l’analisi rivelatrice del processo evolutivo che avrebbe portato, attraverso
tappe successive, ai tipi di società comunista e anarchica. Marx scriverà più tardi:
"Anche quando una società è riuscita a scoprire la legge naturale
del suo movimento [...] non può né saltare d’un balzo, né sopprimere per
decreto, le fasi naturali del processo. Ma può abbreviare e lenire le doglie
del parto" ("Prefazione alla prima edizione" de Il
Capitale, 1867).
Insomma, Marx si sforzerà di dimostrare scientificamente ciò di cui era già
persuaso intuitivamente e che gli sembrava eticamente necessario. E fin dal
primo abbozzo di una critica dell’economia politica affronterà l’analisi del capitale da un punto di vista sociologico,
come potere di comando sul lavoro e sui suoi prodotti, poiché il
capitalista possiede questa forza non in virtù delle sue qualità personali o
umane, ma in quanto proprietario del capitale. Il salariato è una schiavitù, e ogni aumento del salario disposto
d’autorità sarà solo una migliore remunerazione per gli schiavi.
"La stessa uguaglianza del salario, quella che reclama Proudhon,
non fa che generalizzare il rapporto dell’operaio del nostro tempo col suo
lavoro, facendone il rapporto di tutti gli uomini col lavoro. La società viene allora concepita come un
capitalista astratto." (Abbozzo, 1844.)
Schiavitù economica e servitù
politica vanno di pari passo. L’emancipazione politica, il riconoscimento dei
diritti dell’uomo da parte dello Stato moderno ha lo stesso significato del
riconoscimento della schiavitù da parte dello Stato antico (La Sacra famiglia,
1845). Schiavo di un mestiere salariato, l’operaio lo è anche del proprio
bisogno egoista e del bisogno altrui. La condizione umana non sfugge alla
servitù politica nello Stato democratico rappresentativo più che nella
monarchia costituzionale. "Nel mondo moderno ciascuno è ad un tempo membro
della schiavitù e della comunità", sebbene in apparenza la servitù della
società borghese sia il massimo di libertà. Proprietà, industria e religione,
generalmente considerate garanti della libertà individuale, sono, in effetti,
istituzioni che consacrano questa condizione di servitù. Robespierre,
Saint-Just e i loro seguaci sono periti per aver confuso la società antica
fondata sulla schiavitù reale, con lo Stato rappresentativo moderno che si basa
sulla schiavitù emancipata, la società borghese con la sua concorrenza
universale, i suoi interessi privati scatenati, il suo individualismo alienato.
Pur comprendendo perfettamente la natura dello Stato moderno e della società
borghese, Napoleone si è compiaciuto di considerare lo Stato come un fine in sé
e la vita borghese come lo strumento delle proprie ambizioni politiche. Per
soddisfare l’egoismo della nazione francese, ha istituito la guerra permanente
al posto della rivoluzione permanente. La sua sconfitta consacra la vittoria
della borghesia liberale che avrebbe finito per realizzare nel 1830 i suoi
sogni del 1789, facendo dello Stato rappresentativo costituzionale
l’espressione ufficiale del suo potere esclusivo e dei suoi interessi
particolari.
Il problema del bonapartismo fu l’assillo permanente di
Marx, attento osservatore della società francese nella sua evoluzione politica
e nel suo sviluppo economico(7). Ai suoi occhi, la Rivoluzione francese
costituiva il periodo classico dello spirito politico e la tradizione
bonapartista una costante della politica interna ed estera della Francia. Così
Marx si è trovato ad abbozzare una teoria del cesarismo moderno che, se pare
contraddire in parte i princìpi metodologici della sua teoria dello Stato, non
modifica la sua iniziale visione anarchica. Poiché è proprio nel momento in cui
si accingeva a gettare le fondamenta della sua interpretazione materialistica
della storia che egli ha formulato una concezione dello Stato che lo classifica
tra i sostenitori dell’anarchismo più radicale.
"L’esistenza dello Stato e
l’esistenza della servitù sono inseparabili. [...] Più lo Stato è potente,
più un Paese è, per questo, politico, meno è disposto a cercare nel principio
dello Stato, dunque nell’organizzazione attuale della società di cui lo Stato
stesso è l’espressione attiva, consapevole e ufficiale, la ragione dei suoi
mali sociali. [...]" (Vorwärts, 1844.)
L’esempio della Rivoluzione
francese gli sembrava allora sufficientemente probante da fargli enunciare una
teoria che corrisponde solo parzialmente alla sociologia politica tratteggiata
sia ne L’ideologia tedesca sia nelle sue riflessioni sul secondo
Impero e sulla Comune del 1871:
"Lungi dal vedere nel principio dello Stato la fonte dei mali
sociali, gli eroi della Rivoluzione francese vedono al contrario nelle tare
sociali la fonte dei mali politici. Così Robespierre vede nella grande povertà
e nella grande ricchezza solo un ostacolo alla democrazia pura. Egli
desidera dunque stabilire una frugalità spartana generale. Il principio della
politica è la volontà" (ibidem).
Quando ventisette anni dopo, a
proposito della Comune di Parigi, Marx prenderà nuovamente in esame le origini
storiche dell’assolutismo politico rappresentato dallo Stato bonapartista,
vedrà nell’opera centralizzatrice della Rivoluzione francese la continuazione
delle tradizioni monarchiche:
"L’apparato dello Stato centralizzato, con i suoi organi militari,
burocratici, clericali e giudiziari, onnipresenti e complicati, che rinchiudono
(avviluppano) il corpo vivente della società civile come un boa constrictor, fu agli inizi foggiato, ai tempi della
monarchia assoluta, come arma della nascente società moderna nella sua lotta
per emanciparsi dal feudalesimo. [...] La prima Rivoluzione francese, che aveva
l’obiettivo di fondare l’unità nazionale, [...] proseguendo nell’opera
intrapresa dalla monarchia assoluta, [...] fu necessariamente costretta a
sviluppare la centralizzazione e l’organizzazione del potere dello Stato, ad
ingrandirne il ruolo e le attribuzioni, ad aumentare il numero dei suoi
strumenti, ad accrescere la sua indipendenza e il suo dominio soprannaturale
sulla società reale [...]. Ogni interesse minore e isolato, prodotto dai
rapporti dei gruppi sociali, fu separato dalla società stessa, delimitato, reso
indipendente da questa e messo in contrapposizione ad essa, in nome della
ragion di Stato, difesa dai sacerdoti del potere di Stato dalle funzioni
gerarchiche esattamente definite" (Primo abbozzo sulla Comune,
1871)(7 bis).
Questa denuncia appassionata
del potere di Stato riassume in qualche modo tutto lo sforzo di studio e di
riflessione critica compiuto da Marx in questo campo, dallo scontro con la
filosofia morale e politica di Hegel, passando per il periodo di elaborazione
della teoria materialistica della storia e i quindici anni di giornalismo
libero e professionale, senza dimenticare l’intensa attività in seno
all’Internazionale operaia. La
Comune sembra essere stata per Marx l’occasione di esporre
l’ultimo stadio del suo pensiero sul problema al quale aveva riservato uno dei
sei libri della sua Economia e di tracciare almeno i contorni di
questa libera associazione di uomini liberi, di cui il Manifesto del
Partito comunista aveva annunciato l’avvento:
"Non si trattò quindi per la Comune di una rivoluzione contro questa o
quell’altra forma di potere dello Stato, legittimista, costituzionale,
repubblicana o imperiale. Fu una rivoluzione contro l’essenza stessa dello Stato, questo aborto sovrannaturale della
società; fu la riappropriazione da parte del popolo della propria vita
sociale"(7 ter).
V
Paragonando il modo di
emancipazione dei servi sotto il regime feudale a quello dei lavoratori
moderni, Marx notava che, a differenza dei proletari, i servi dovevano
sviluppare liberamente le condizioni di esistenza offerte e per questo non
potevano che pervenire al "lavoro libero"; per contro, i proletari
non potevano affermarsi individualmente senza abolire la propria condizione di
vita; ed essendo questa identica a quella dell’insieme della società, non
rimaneva che sopprimere il lavoro salariato. E aggiungeva questa frase che gli
sarebbe servita ormai da leitmotiv, sia nell’attività
letteraria sia nell’azione di comunista militante:
"[I proletari] si trovano quindi anche in antagonismo diretto con
la forma nella quale gli individui della società si sono dati finora
un’espressione collettiva, lo Stato, e devono rovesciare lo Stato per affermare
la loro personalità" (L’ideologia tedesca, 1846)(7
quater).
Questa formula, più vicina
all’anarchismo di Bakunin che a quello di Proudhon, non è frutto di un momento
d’irriflessione passionale né il gesto di un politico che arringhi un’assemblea
operaia. È la conclusione logica, in forma di postulato rivoluzionario, di
tutto uno sviluppo teorico tendente a dimostrare la "necessità
storica" della comune anarchica. Ciò significa che l’avvento della
"società umana" s’inscrive, secondo la teoria marxiana, in un lungo
processo storico. Al fine, sorge una classe sociale che costituisce l’immensa
maggioranza della popolazione delle società industriali, e che può come tale
assumere su di sé un compito rivoluzionario creativo. Ed è per dimostrare la
logica di tale sviluppo che Marx ha cercato di fissare un nesso di causalità fra
i progressi scientifici - soprattutto quelli delle scienze naturali - e le
istituzioni politico-giuridiche da una parte, e il comportamento delle classi
sociali antagoniste dall’altra. Contrariamente
a Engels, Marx non pensava che la trasformazione rivoluzionaria
dell’avvenire sarebbe assomigliata alle rivoluzioni del passato, cataclismi
naturali che stritolano uomini, cose e coscienze. Con l’avvento del lavoratore moderno, la specie umana iniziava il ciclo
della sua vera storia, entrava nella via della ragione e diveniva capace di
realizzare i propri sogni e di darsi un destino a misura delle sue facoltà
creatrici. Le conquiste della
scienza e della tecnologia rendevano possibile un tale esito, ma il
proletariato doveva intervenire affinché la borghesia e il suo capitale non
trasformassero quest’evoluzione in una corsa verso l’abisso.
"I trionfi della scienza sembrano acquisiti al prezzo
dell’avvilimento morale. A mano a mano che l’umanità estende il dominio sulla
natura, l’uomo sembra divenire preda del suo prossimo e della sua propria
infamia."(8)
La rivoluzione proletaria non
avrà dunque nulla di un’avventura politica; sarà un’impresa universale,
condotta d’intesa dall’immensa maggioranza dei membri della società che ha
preso coscienza della necessità e della possibilità di una rigenerazione totale
dell’umanità. Visto che la storia è divenuta mondiale la minaccia di
asservimento da parte del capitale e del suo mercato si estende a tutta la Terra ; di contraccolpo
devono sorgere una coscienza e una volontà di massa completamente tese a un
cambiamento profondo e universale delle relazioni umane e delle istituzioni
sociali. Dacché il pericolo di una barbarie di dimensioni planetarie minaccia
la sopravvivenza degli uomini, i sogni e le utopie comuniste e anarchiche
rappresentano la fonte spirituale dei progetti razionali e delle riforme
pratiche in grado di restituire alla specie umana il gusto della vita, secondo
le norme di una ragione e di un’immaginazione egualmente volte verso il
rinnovamento del destino umano.
L’uomo non può uscire dal regno
della necessità per entrare in quello della libertà, come pensava Engels, e non
può esserci passaggio diretto dal capitalismo all’anarchismo. La barbarie
economica e sociale instaurata dal modo di produzione capitalista non potrà scomparire in seguito a una
rivoluzione politica preparata, organizzata e diretta da un’élite di rivoluzionari di professione aventi la pretesa di agire e di
pensare in nome e a beneficio della maggioranza degli sfruttati e degli
alienati. Costituito in classe e in partito nelle condizioni della democrazia
borghese, il proletariato libera se stesso lottando per conquistare tale
democrazia: fa del suffragio universale, appena ieri "strumento
d’inganno", un mezzo di emancipazione. Una classe che costituisce
l’immensa maggioranza di una società moderna si aliena politicamente solo per trionfare sulla politica e conquista
il potere di Stato solo per utilizzarlo contro la minoranza prima dominante.
La conquista del potere politico è un atto "borghese" per natura; si
tramuta in azione proletaria solo per la finalità rivoluzionaria conferitale
dagli autori di questo sconvolgimento. Tale è il senso di quel periodo storico
che Marx non ha avuto paura di denominare "dittatura del proletariato", proprio per sottolinearne la differenza rispetto alla dittatura
esercitata da un’élite, la
dittatura nel senso giacobino del termine(9). Certo, attribuendosi il merito di
aver scoperto il segreto dello sviluppo storico dei modi di produzione e di
dominio, Marx non poteva immaginare che il proprio insegnamento sarebbe stato
usurpato nel XX secolo da rivoluzionari di professione che si sarebbero
arrogati il diritto d’impersonare la dittatura del proletariato. Egli
immaginava questa forma di transizione sociale solo per Paesi in cui il
proletariato avrebbe saputo approfittare del periodo democratico-borghese per
creare le proprie istituzioni e costituirsi in classe dominante della società.
Paragonata ai secoli di violenza e di corruzione che sono occorsi al
capitalismo per dominare l’universo, la
durata del processo di transizione che deve portare alla società anarchica sarà
assai più breve e conoscerà molta meno violenza poiché l’accumulazione del
capitale e la concentrazione del potere statale opporranno un proletariato di massa
a una borghesia numericamente debole.
"Per trasformare la proprietà privata e frazionata, oggetto del
lavoro individuale, in proprietà capitalistica, saranno stati necessari più
tempo, sforzi e sofferenze di quelli che non esigerà la metamorfosi in proprietà
sociale della proprietà capitalistica, che riposa già di fatto su un modo di
produzione collettivo. Là si trattava dell’espropriazione della massa da parte
di pochi usurpatori; qui, si tratta dell’espropriazione di pochi usurpatori da
parte della massa." (Il Capitale, I.)
Marx non ha elaborato in tutti
i dettagli una teoria della transizione,
e si possono cogliere differenze
notevoli tra i diversi abbozzi teorici e pratici disseminati nella sua
opera. Tuttavia attraverso queste affermazioni, talvolta contraddittorie, un
principio di base rimane intatto, e costante al punto di permettere la
ricostruzione coerente di tale teoria. Ed è forse su questo punto che il mito
della fondazione del "marxismo" da parte di Marx ed Engels rivela la sua nocività. Mentre il primo faceva del
postulato dell’autopraxis proletaria
il criterio di ogni autentica azione di classe e di ogni vera conquista
politica, il secondo, soprattutto dopo la scomparsa dell’amico, ha finito col
separare i due elementi costitutivi del movimento operaio: l’azione di classe -
la Selbsttätigkeit
- del proletariato da una parte, e la politica di partito dall’altra. Marx
pensava che, più di ogni atto politico isolato, l’autoeducazione comunista e anarchica fosse parte integrante
dell’attività rivoluzionaria degli operai: era loro compito rendersi idonei
alla conquista e all’esercizio del potere politico come mezzo di resistenza
contro i tentativi della borghesia per riconquistare e recuperare il suo
potere. Il proletariato deve
temporaneamente costituirsi in forza materiale per difendere il proprio diritto
e il proprio progetto di trasformare la società creando progressivamente la
comunità umana. Lottando per affermarsi come forza di abolizione e di
creazione, la classe operaia - che è "di tutti gli strumenti di produzione
la più grande forza produttiva"(10) - assume il progetto dialettico di una
negazione creatrice: corre il rischio
dell’alienazione politica al fine di rendere la politica anacronistica. Un
simile progetto non ha nulla in comune né con la passione distruttrice di un
Bakunin né con l’apocalisse anarchica di un Courderoy. L’estetismo
rivoluzionario non aveva posto in questo progetto politico, concepito per fare
trionfare la supremazia virtuale delle masse oppresse e sfruttate. Agli occhi
di Marx, l’Internazionale operaia poteva divenire questa organizzazione di
combattimento, poiché combinava la forza del numero con quello spirito
rivoluzionario che l’anarchismo proudhoniano concepiva in tutt’altra maniera.
Legandosi all’Ait, Marx non aveva abbandonato la posizione presa contro
Proudhon nel 1847, quando si trattava di definire un anarchismo antipolitico
realizzabile attraverso un movimento politico:
"Ciò vuol dire forse che dopo la caduta dell’antica società ci
sarà una nuova dominazione di classe riassumentesi in un nuovo potere politico?
No. [...] La classe lavoratrice sostituirà, nel corso del suo sviluppo,
all’antica società civile un’associazione che escluderà le classi e il loro
antagonismo, e non vi sarà più potere politico propriamente detto, poiché il
potere politico è precisamente il compendio ufficiale dell’antagonismo nella
società civile.
Nell’attesa, l’antagonismo tra il proletariato e la borghesia è una
lotta di classe contro classe, lotta che, portata alla sua più alta espressione,
è una rivoluzione totale. [...] Non si dica che il movimento sociale esclude il
movimento politico. Non vi è mai movimento politico che non sia sociale nello
stesso tempo.
Solo in un ordine di cose in cui non vi saranno più classi né
antagonismo di classi le evoluzioni sociali cesseranno
di essere rivoluzioni
politiche" (Miseria
della filosofia, 1847)(11).
Il proposito di Marx è qui di
un realismo a prova di ogni interpretazione "idealista". Questo
discorso al futuro bisogna evidentemente intenderlo come l’annuncio di un progetto normativo che impegna i
lavoratori a comportarsi da rivoluzionari pur lottando politicamente.
"La classe operaia è rivoluzionaria, o non è niente." (Lettera a J.B.Schweitzer,
1865.) È il linguaggio di un pensatore la cui dialettica rigorosa rifiuta,
contrariamente a quella di un Proudhon o di uno Stirner, di meravigliare
facendo sistematicamente ricorso al paradosso gratuito e alla violenza verbale.
E se tutto non è e non può essere risolto in questa dialettica dimostrativa dei
fini e dei mezzi, il suo merito è almeno quello d’incitare le vittime del
lavoro alienato a comprendersi e ad autoeducarsi per intraprendere assieme una
grande opera di creazione collettiva. In questo senso, l’appello di Marx rimane
attuale, a dispetto del marxismo trionfante e in ragione di questo trionfo(12).
Da questi accenni risulta che
la teoria sociale di Marx si presenta espressamente come un tentativo di
analisi obiettiva di un movimento storico e non come un codice morale o
politico di una praxis rivoluzionaria tendente a realizzare un ideale di vita
sociale; come studio scientifico di un processo di sviluppo che coinvolge cose
e individui, e non come somma di norme a uso di partiti e di élites aspiranti al potere. Tuttavia
questo è solo l’aspetto esteriore e riconosciuto di tale teoria, che segue una duplice traiettoria concettuale di cui l’una
possiede un orientamento rigorosamente determinista e l’altra si dirige
liberamente verso l’obiettivo immaginario di una società anarchica.
"Non è nel passato ma solo nell’avvenire che la Rivoluzione sociale
del XIX secolo potrà trovare la fonte della sua poesia. Non potrà iniziare da
se stessa prima di essersi liberata da ogni credenza superstiziosa nel
passato." (Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, 1852.)(12
bis)
Il passato è la necessità
irrimediabile, e un osservatore armato di tutti gli strumenti analitici è in
grado di spiegare il concatenarsi dei fenomeni colti. Ma se è vano sperare
nella realizzazione di tutti i sogni che l’umanità, attraverso i suoi profeti e
i suoi visionari, ha potuto nutrire, l’avvenire potrebbe almeno portare agli
uomini la fine delle istituzioni che hanno ridotto la loro vita a uno stato
permanente di servitù in tutti i campi sociali. Questo è, in rapida sintesi, il
legame tra la teoria e l’utopia nell’insegnamento di Marx, che si è formalmente
proclamato "anarchico" quando scriveva:
"Per anarchia, tutti i socialisti intendono quanto segue:
una volta raggiunto lo scopo del movimento proletario, l’abolizione delle
classi, il potere dello Stato che serve a mantenere la grande maggioranza dei
produttori sotto il giogo di una esigua minoranza di sfruttatori, si dissolve e
le funzioni governative si trasformano in semplici funzioni amministrative"
(Le cosiddette scissioni nell’Internazionale, Genève, 1872)(12 ter).
Note:
(1) Forse sotto l’influenza di William Godwin e
di Proudhon.
(2)
Thomas Hamilton, Les Hommes et les Múurs aux États-Unis, 1832 (trad.
fr. dall’inglese). Ristampa dell’ed. Bruxelles, 1834, Paris-Genève,
Slatkine, 1979.
(3) Maximilien Rubel, "Piano e metodo
dell’"economia"", in Marx critico del marxismo,
Cappelli, Bologna, 1981, pp. 109-48.
(4) Karl Marx, Tesi su Feuerbach (1845),
in Marx-Engels, Opere, Ed. Riuniti, Roma, 1972, vol. V, pp. 3-5.
(5) Vedi Maximilien Rubel, "Il mito
dell’Ottobre", in Marx critico del marxismo, cit., pp. 149-261.
[La "Parte II" dell’edizione italiana di Marx critique du
Marxisme manca del saggio "La fonction historique de la nouvelle
bourgeoise", pp. 133-45 (Ndc).]
(6) "Parlando di partito, io do a questa
parola un senso eminentemente storico." (Lettera di Marx a Freiligrath, 29
febbraio 1860.) Vedi Maximilien Rubel, Pages de Karl Marx pour une éthique
socialiste, Payot, Paris, 1970, tomo I, pp. 42 sgg. e 76 sgg.
(6 bis)
Karl Marx, Tesi su Feuerbach, in Marx-Engels, Opere, cit.,
vol. V, p. 3 (Ndc).
(6 ter) Karl Marx, Sulla questione ebraica
(trad. it. di Luciano Parinetto), in Luciano Parinetto - Livio Sichirollo, Marx
e Shylock, Unicopli, Milano, 1982, pp. 143-44 (Ndc).
(7)
Vedi Maximilien Rubel, Karl Marx devant le bonapartisme, Mouton,
Paris-La Haye, 1960.
(7 bis) Karl Marx, Primo abbozzo di redazione
per “La guerra civile in Francia”,
in Friedrich Engels - Karl Marx, 1871. La Comune di Parigi. La guerra civile in Francia,
Ed. International - La
Vecchia Talpa , Savona-Napoli, 1975, pp. 212-13 (Ndc).
(7 ter) Ibidem, p. 215 (Ndc).
(7 quater) Karl Marx, L’ideologia tedesca,
in Marx-Engels, Opere, cit., vol. V, p. 66 (Ndc).
(8) Allocuzione pronunciata a Londra, nell’aprile
1856, per celebrare l’anniversario dell’organo dei cartisti "People’s
Paper", in Maximilien Rubel, Pages de Karl Marx pour une éthique
socialiste, cit., tomo II, p. 100.
(9) Vedi Hal Draper, Marx and the
Dictatorship of the Proletariat, "Études de marxologie", Paris,
n. 6, 1962, pp. 5-74.
(10) Karl Marx, Miseria della filosofia,
in Marx-Engels, Opere, cit., vol.
(11) Ibidem, p.
(12) Il quadro limitato entro cui si muove questo
saggio non ci permette di allargare la nostra dimostrazione, e quindi ci
limiteremo a citare tre testi che nullificano la leggenda - bakuniniana e
leninista - di un Marx "adoratore dello Stato" e "apostolo del
comunismo di Stato" o che identifica la dittatura del proletariato con la
dittatura di un partito, o addirittura di un uomo.
a) Note in margine al libro di Bakunin “Stato e anarchia”, Genève, 1873 (in
russo). Temi principali: dittatura del proletariato e mantenimento della
piccola proprietà rurale; condizioni economiche e rivoluzione sociale;
estinzione dello Stato e trasformazione delle funzioni politiche in funzioni
amministrative delle comunità cooperative autogestite.
b) Critica al programma del Partito operaio
tedesco (Programma di Gotha),
1875. Temi principali: le due fasi evolutive della società comunista fondata
sul modo di produzione cooperativo; la borghesia classe rivoluzionaria; azione
internazionale delle classi operaie; critica della "legge bronzea del
salario"; ruolo rivoluzionario delle cooperative operaie di produzione;
insegnamento primario liberato dall’influenza della religione e dello Stato;
dittatura rivoluzionaria del proletariato considerata come transizione politica
verso una trasformazione delle funzioni statali in funzioni sociali.
c) Comunità contadina e prospettive
rivoluzionarie in Russia (risposta a Vera Zasulich), 1881. Temi
principali: la comunità rurale, elemento di rigenerazione della società russa;
ambivalenza della comunità e influenza del contesto storico; sviluppo della
comunità e crisi del capitalismo; emancipazione contadina ed esazioni fiscali;
influenze negative e rischi di scomparsa della comunità; minacciata dallo Stato
e dal capitale, la comunità russa sarà salvata solo dalla rivoluzione russa.
Questi tre documenti costituiscono in qualche
modo la quintessenza del libro che Marx pensava di scrivere sullo Stato.
Converrebbe inoltre ricordare qui diversi scritti di Engels sul tema dello
Stato che si rifanno direttamente o indirettamente alla teoria di Marx, senza
tuttavia che vi sia coincidenza assoluta tra le due posizioni.
(12 bis)
(12 ter) In Karl Marx - Friedrich Engels, Critica
dell’anarchismo, a cura di Giorgio Backhaus, Einaudi, Torino
1972, p. 76 (Ndc).
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