Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

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«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

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«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

7 gennaio 2009

Marx teorico dell'anarchismo


"L’esistenza dello Stato e l’esistenza della servitù sono inseparabili” (K.Marx)
[Questo scritto di Maximilien Rubel (dello stesso autore abbiamo già presentato Marx libertario) fa parte della raccolta di saggi Marx critico del marxismo, Cappelli, 1981. La sua pubblicazione su questo sito, come sempre, non va confusa con una condivisione integrale da parte nostra delle tesi che vi sono esposte. Ci riferiamo, in particolare, al problema dell’uso di parte proletaria dello Stato e della democrazia (che pure in Marx é concepito in forma assai diversa rispetto a quello preconizzato dalla socialdemocrazia e dal leninismo), quali strumenti della trasformazione rivoluzionaria  e della gestione della transizione al comunismo, problema che Rubel sembra non fare più di tanto oggetto del suo acume critico. Condividiamo qui, invece, l’analisi sviluppata da Guy Debord ne La società dello Spettacolo, che egli così mirabilmente sintetizza: “l’organizzazione rivoluziona­ria ha dovuto imparare che essa non può più combattere l’alienazione sotto forme alienate”: lo Stato, quintessenza dell’astrazione capitalista, non può essere subordinato alle esigenze della rivoluzione, pena la reintroduzione nel seno del processo rivoluzionario stesso del germe del dominio, dell’alienazione e dello sfruttamento. D’altra parte, ad essere superata, a nostro avviso, è la necessità stessa di un periodo di transizione, che accumuli mezzi e risorse in vista della costruzione della comunità umana, del comunismo. A tal proposito rinviamo ai testi contenuti nella sezione “Comunizzazione” di questo sito. Buona lettura. Lmjf] 
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 Marx teorico dell’anarchismo
di Maximilien Rubel

Danneggiato da discepoli che non sono riusciti né a tracciare il bilancio e i limiti della sua teoria né a definirne le norme e il campo di applicazione, Marx ha finito con l’assumere l’aspetto di un gigante mitologico, simbolo dell’onniscienza e dell’onnipotenza, dell’homo faber forgiatore del proprio destino.
La storia della Scuola resta da scrivere, ma almeno ne conosciamo la genesi: codificazione di un pensiero mal conosciuto e mal interpretato, il marxismo è nato e si è sviluppato quando l’opera di Marx non era ancora accessibile nella sua integralità e sue parti importanti erano inedite. Così il trionfo del marxismo come dottrina di Stato e ideologia di partito ha preceduto di alcuni decenni la diffusione degli scritti in cui Marx esponeva nel modo più chiaro e completo i fondamenti scientifici e le intenzioni etiche della sua teoria sociale. Il fatto che si siano prodotti sconvolgimenti profondi in nome di un pensiero i cui princìpi cardinali erano ignoti ai protagonisti del dramma storico, basterebbe già a dimostrare che il marxismo è il più grande, se non il più tragico, malinteso del secolo. Ma con ciò stesso si può misurare la portata della tesi sostenuta da Marx secondo la quale a provocare i mutamenti delle società e le trasformazioni sociali non sono né le idee rivoluzionarie né i princìpi morali, bensì delle forze umane e materiali; idee e ideologie servono perlopiù soltanto a mascherare gli interessi della classe a vantaggio della quale sono stati realizzati gli sconvolgimenti. Il marxismo politico non può richiamarsi alla scienza di Marx e contemporaneamente sottrarsi a quell’analisi critica di cui questa si è armata per smascherare le ideologie di potenza e di sfruttamento.
Ideologia dominante di una classe di padroni, il marxismo è riuscito a svuotare i concetti di socialismo e di comunismo, così com’erano intesi da Marx e dai suoi precursori, del loro contenuto originario, sostituito dall’immagine di una realtà che ne è la totale negazione. Benché strettamente legato agli altri due, un terzo concetto sembra tuttavia essere sfuggito a questo destino: l’anarchismo. Se è noto che Marx ha avuto poca simpatia per certi anarchici, generalmente s’ignora che nondimeno ne ha condiviso l’ideale e l’obiettivo: la scomparsa dello Stato. Conviene dunque ricordare che, sposando la causa dell’emancipazione operaia, Marx si è subito situato nella tradizione dell’anarchismo piuttosto che in quella del socialismo o del comunismo(1). E quando finalmente scelse di definirsi comunista, questa qualifica non designava per lui una delle correnti del comunismo allora esistenti, bensì un movimento di pensiero e un modo di azione che restava da fondare, riunendo tutti gli elementi rivoluzionari ereditati dalle dottrine e dalle esperienze di lotta del passato.
Nelle riflessioni seguenti, cercheremo di dimostrare che, sotto il vocabolo "comunismo", Marx ha sviluppato una teoria dell’anarchia; o meglio ch’egli fu in realtà il primo a gettare le basi razionali dell’utopia anarchica e a definirne un progetto di realizzazione. Viste le dimensioni limitate di questo saggio, presenteremo queste tesi solo come temi di discussione. Il ricorso alle citazioni di riscontro testuale, sarà ridotto al minimo, per fare risaltare meglio l’argomento centrale: Marx teorico dell’anarchismo.
I
Quando nel febbraio 1845, poco prima di partire per l’esilio brussellese, Marx firmò a Parigi un contratto con un editore tedesco, impegnandosi a consegnare entro qualche mese un’opera in due volumi (di circa mille pagine) intitolata Critica della politica e dell’economia politica, era lontano dal sospettare di essersi imposto un compito che avrebbe riempito tutta la sua vita e del quale peraltro avrebbe potuto realizzare solo un grande frammento.
La scelta del tema non aveva niente di fortuito. Perduta ogni speranza di carriera universitaria, Marx aveva trasposto nel giornalismo politico i risultati dei propri studi di filosofia. I suoi articoli sulla "Rheinische Zeitung" di Colonia si battono per la libertà di stampa in Prussia nel nome di una libertà da lui concepita come essenza dell’uomo e come gioiello e ornamento della natura umana; ma anche in nome di uno Stato concepito come realizzazione della libertà razionale, come "il grande organismo in cui le libertà giuridica, morale e politica devono trovare la loro realizzazione e in cui il singolo cittadino, obbedendo alle leggi dello Stato non fa che obbedire alle leggi naturali della propria ragione, della ragione umana" ("Rheinische Zeitung", 10 luglio 1842). Ma la censura prussiana ridusse ben presto al silenzio il filosofo giornalista, che non avrebbe tardato a interrogarsi, nella solitudine di un ritiro di studi, circa la vera natura dello Stato e la portata razionale ed etica della filosofia politica di Hegel. Conosciamo i frutti di questa meditazione, arricchita dallo studio della storia delle rivoluzioni borghesi in Francia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti d’America: oltre a un lavoro incompiuto e inedito - Critica della filosofia hegeliana dello Stato (1843) - due saggi polemici: Introduzione alla critica della filosofia hegeliana del diritto e A proposito della questione ebraica (Parigi, 1844). Questi due scritti costituiscono, in verità, un unico manifesto in cui Marx addita una volta per tutte e condanna senza riserve le due istituzioni sociali ch’egli vede all’origine dei mali e delle tare di cui soffre la società moderna e di cui soffrirà, fino a quando una rivoluzione sociale non li abolirà: lo Stato e il Denaro. Simultaneamente Marx esalta quella potenza che, dopo essere stata la principale vittima di queste due istituzioni, porrà fine al loro regno come a ogni altra forma di dominio di classe, politico o economico: il proletariato moderno, la cui auto-emancipazione è l’emancipazione universale dell’uomo, è, dopo la perdita totale dell’uomo, la conquista totale dell’umano.
La negazione dello Stato e del Denaro, così come l’affermazione del proletariato in quanto classe liberatrice, precedono, nello sviluppo intellettuale di Marx, i suoi studi di economia politica e anche la scoperta del "filo conduttore" che lo guiderà nelle sue ricerche storiche successive, ossia la concezione materialistica della storia. La rottura con la filosofia giuridica e politica di Hegel da una parte, e lo studio critico della storia delle rivoluzioni borghesi dall’altra, gli hanno permesso di fissare definitivamente i postulati etici della propria futura teoria sociale, di cui la critica dell’economia politica gli fornirà le basi scientifiche. Avendo colto il ruolo rivoluzionario della democrazia e del potere legislativo nella genesi dello Stato borghese e del suo sistema di governo, Marx ha messo a profitto le analisi illuminanti di un Alexis de Tocqueville e di un Thomas Hamilton(2), entrambi osservatori perspicaci delle potenzialità rivoluzionarie della democrazia americana, per gettare le fondamenta razionali di un’utopia anarchica in quanto finalità cosciente del movimento rivoluzionario della classe che il suo maestro Saint-Simon aveva definito "la più numerosa e la più povera". Poiché la critica dello Stato l’aveva portato a immaginare la possibilità di una società liberata da ogni autorità politica, doveva ormai intraprendere la critica del sistema economico che assicurava le basi materiali dello Stato. Quanto alla negazione etica del denaro, essa implicava parimenti l’analisi dell’economia politica, scienza dell’arricchimento per gli uni e della miseria per gli altri. Più tardi, Marx avrebbe definito "anatomia della società borghese" la ricerca che stava per iniziare, ed è proprio dedicandosi a questo lavoro di anatomista sociologo che forgerà il proprio strumento metodologico; la riscoperta della dialettica hegeliana lo avrebbe aiutato poi a fissare il piano dell’Economia in sei "rubriche" o "Libri": "Capitale", "Proprietà fondiaria", "Lavoro salariato"; "Stato", "Commercio estero", "Mercato mondiale" (cfr. la prefazione alla Critica dell’economia politica, 1859). In effetti questa doppia "triade" di temi di ricerca corrisponde ai due problemi che Marx si proponeva di trattare quattordici anni prima nell’opera contenente la duplice critica dell’economia e della politica. Marx ha iniziato la propria opera con l’analisi critica del modo di produzione capitalistico, ma sperava di portare a termine non solo la prima triade di rubriche, ma anche d’iniziare la seconda triade che il "Libro sullo Stato"(3) avrebbe dovuto inaugurare. La teoria dell’anarchismo avrebbe così trovato in Marx il suo primo promotore riconosciuto, senza che vi fosse bisogno di portarne la prova indiretta. Quel malinteso del secolo che è il marxismo, ideologia di Stato, è nato da tale lacuna; è quest’ultima che ha permesso ai padroni di un apparato statale battezzato socialista di includere Marx fra gli adepti di un socialismo o di un comunismo di Stato, se non addirittura di un socialismo "autoritario".
Certamente, come ogni insegnamento rivoluzionario, quello di Marx non è esente da ambiguità. Sfruttandole abilmente e invocando certi atteggiamenti personali del maestro, discepoli poco scrupolosi sono riusciti a mettere la sua opera al servizio di dottrine e di azioni che ne rappresentano la più completa negazione, tanto nella sua verità fondamentale quanto nella sua finalità apertamente proclamata. In un’epoca in cui tutto - teorie e valori, sistemi e progetti - si vede rimesso in questione da vari decenni di regresso nell’ordine delle relazioni umane, è importante raccogliere il lascito spirituale di un autore che, consapevole dei limiti della propria ricerca, ha fatto dei postulati dell’autoeducazione critica e dell’auto-emancipazione rivoluzionaria il principio permanente del movimento operaio. Non spetta a una posterità carica di pesanti responsabilità giudicare un morto che non può più difendere la propria causa; in compenso, tocca a noi accettare consapevolmente un insegnamento tutto volto verso un avvenire che è divenuto, certamente, il nostro catastrofico presente, ma che, nella sua parte migliore, resta ancora da creare.
II
Diciamolo un’altra volta: il "Libro" sullo Stato previsto nel piano dell’Economia, ma restato non scritto, poteva contenere soltanto la teoria della società liberata dallo Stato, la società anarchica. Senza essere direttamente destinati a quest’opera, i materiali e i lavori preparati o pubblicati da Marx nel corso della sua attività letteraria permettono sia di avanzare questa ipotesi circa la sostanza dell’opera progettata sia di determinarne la struttura generale. Se la prima triade di rubriche si confondeva con la critica dell’economia politica, la seconda triade avrebbe dovuto, per l’essenziale, esporre la critica della politica. Facendo seguito alla critica del capitale, la critica dello Stato avrebbe dovuto stabilire il determinismo dell’evoluzione politica della società moderna, così come il proposito del Capitale (seguito dai "Libri" sulla Proprietà fondiaria e sul Lavoro salariato) era di "svelare la legge economica di movimento della società moderna" (cfr. la "Prefazione alla prima edizione" de Il Capitale, 1867). E come negli scritti, editi e inediti, anteriori alla Critica dell’economia politica (1859) si rinvengono i princìpi e i postulati cui Marx si è ispirato per fondare la critica del capitale, così se ne possono estrarre le tesi e le norme che l’avrebbero guidato per sviluppare la critica dello Stato. Sarebbe tuttavia falso supporre che il pensiero di Marx sulla politica fosse allora definitivamente fissato, senza possibilità di alcuna modifica nei dettagli, o chiuso a ogni arricchimento teorico. Anzi, se il problema dello Stato non ha mai smesso di assillarlo, non è solo perché si sentiva moralmente costretto a terminare la sua opera principale, ma soprattutto perché la sua partecipazione all’Internazionale operaia dal settembre 1864, i suoi scontri polemici in seno a quest’organismo e gli avvenimenti politici, in particolare la rivalità egemonica tra Francia e Prussia da una parte, Russia e Austria dall’altra, l’hanno sempre tenuto sul chi vive. L’Europa dei trattati di Vienna era ormai solo una finzione, mentre due grandi fenomeni sociali erano sorti sulla scena della storia: i movimenti di liberazione nazionale e il movimento operaio. Difficili da conciliare da un punto di vista puramente concettuale, la mischia delle nazioni e la lotta di classe dovevano porre a Marx e a Engels problemi di decisione teorica la cui soluzione non poteva mancare di porli in contraddizione con i propri princìpi rivoluzionari. Engels si era specializzato nel distinguere i popoli e le nazioni a seconda che potessero o no rivendicare, a suo avviso, il diritto storico all’esistenza nazionale. Il loro senso della realtà storica impediva ai due amici di seguire Proudhon sulla via di un federalismo che, nella situazione dell’epoca, doveva apparire loro una pura follia e nel contempo un’utopia impura; ma grande era il rischio di cadere in un nazionalismo poco compatibile col presunto universalismo del proletariato moderno.
Se Proudhon, con le sue aspirazioni federaliste, sembra essere più vicino di Marx a una posizione anarchica, il quadro si sfuma quando si consideri la sua concezione globale delle riforme che avrebbero dovuto portare all’abolizione del capitale e dello Stato. L’elogio di cui Proudhon è fatto oggetto ne La sacra famiglia (1845) non deve trarci in inganno: fin da allora le divergenze teoriche tra i due pensatori erano profonde, poiché questo elogio veniva concesso al socialista francese solo con una riserva d’immensa portata: la critica proudhoniana della proprietà non è esterna al sistema economico borghese; per quanto valida, non rimette in questione dalle fondamenta i rapporti sociali di produzione del sistema criticato. Nella dottrina proudhoniana, anzi, le categorie economiche, espressioni teoriche delle istituzioni del capitale, sono tutte quante conservate in maniera sistematica. Proudhon ha il merito di aver disvelato le contraddizioni inerenti alla scienza economica e di aver dimostrato l’immoralità della morale e del diritto borghesi; la sua debolezza è di aver accettato le categorie e le istituzioni dell’economia capitalista e di avere rispettato, nel proprio programma di rimedi e di riforme, tutti gli strumenti di dominio della classe borghese e del suo potere politico: salario, credito, banca, scambio, prezzo, valore, profitto, interesse, imposta, concorrenza, monopolio. Pur avendo saputo applicare la dialettica della negazione all’analisi dell’evoluzione del diritto e dei sistemi giuridici, si è tuttavia fermato a mezza strada, rinunciando a estendere il suo metodo critico della negazione all’economia capitalista. Proudhon ha reso possibile tale critica, ma è Marx che tenterà di fare di questo nuovo metodo critico un’arma nella lotta del lavoro contro il capitale e il suo Stato.
Proudhon aveva criticato l’economia e il diritto borghese in nome della morale borghese; Marx diverrà il critico del modo di produzione capitalista in nome dell’etica proletaria, i cui criteri di giudizio sono improntati a una visione del tutto diversa della società umana. È sufficiente a questo fine perseguire in tutto il suo rigore logico e fino alle sue ultime conseguenze il principio proudhoniano - o meglio, hegeliano - della negazione: la Giustizia sognata da Proudhon sarà realizzata solo dalla negazione della giustizia, così come la filosofia non potrà essere realizzata che dalla negazione della filosofia, cioè da una rivoluzione sociale che permetterà infine all’umanità di divenire sociale e alla società di divenire umana(4). Sarà la fine della preistoria dell’umanità e l’inizio della vita individuale, l’apparizione dell’uomo nella sua pienezza, con facoltà universali, l’avvento dell’uomo totale o polimorfo (vielseitig). Alla morale realista di Proudhon che cerca di salvare il "lato buono" delle istituzioni borghesi, Marx contrappone l’etica di un’utopia le cui esigenze sono all’altezza delle possibilità offerte da una scienza e da una tecnica sufficientemente sviluppate per provvedere ai bisogni della specie. A un anarchismo tanto rispettoso della pluralità delle classi e delle categorie sociali quanto favorevole alla divisione del lavoro e ostile all’associazionismo esaltato dagli utopisti, Marx oppone un anarchismo negatore delle classi sociali e della divisione del lavoro, un comunismo che riprende tutto ciò che, nel socialismo utopistico, potrebbe essere realizzato da un proletariato cosciente del proprio ruolo emancipatore e padrone delle forze produttive. E tuttavia, a dispetto di queste vie divergenti - in particolare, come vedremo, di una differente valutazione dei mezzi politici -, i due tipi di anarchia si orientano verso una finalità comune, quella che il Manifesto del Partito comunista ha definito in questi termini:
"La vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi cede il posto a un’associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è la condizione della libera realizzazione di tutti".
III
Marx si è rifiutato d’inventare ricette per le pentole dell’avvenire, ma ha fatto di meglio, o di peggio: ha voluto dimostrare che una necessità storica trascinava, simile a una cieca fatalità, l’umanità verso una situazione di crisi in cui avrebbe dovuto affrontare un dilemma decisivo: essere annientata dalle proprie invenzioni tecniche o sopravvivere grazie a un soprassalto di coscienza che l’avrebbe resa capace di rompere con tutte le forme di alienazione e di asservimento che hanno segnato le fasi della sua storia. Solo questo dilemma è fatale, poiché la scelta della via d’uscita è lasciata alla classe sociale che ha tutte le ragioni per rifiutare l’ordine esistente e per realizzare un modo di esistenza profondamente diverso dal vecchio. Il proletariato moderno è, virtualmente, la forza materiale e morale in grado di farsi carico di questo compito salvifico di portata universale. Tuttavia, questa forza potenziale potrà diventare reale solo col compimento del tempo della borghesia, poiché anche quest’ultima assolve una missione storica; se non ne è sempre cosciente, i suoi ideologi s’incaricano di ricordarle il suo ruolo civilizzatore. Creando il mondo a propria immagine, la borghesia dei Paesi industrialmente sviluppati imborghesisce e proletarizza le società che cadono progressivamente sotto il suo dominio politico ed economico. Considerati dal punto di vista degli interessi proletari, i suoi strumenti di conquista - il capitale e lo Stato - sono altrettanto mezzi di asservimento e di oppressione. Quando i rapporti di produzione capitalisti, e pertanto gli Stati capitalisti, si saranno effettivamente instaurati su scala planetaria, le contraddizioni interne del mercato mondiale riveleranno i limiti dell’accumulazione capitalista e provocheranno uno stato di crisi permanente che metterà in pericolo le basi stesse delle società asservite, fino a minacciare la sopravvivenza pura e semplice della specie umana. Risuonerà l’ora della rivoluzione proletaria!
Un’estrapolazione appena audace ci è bastata per trarre le ultime conseguenze dal metodo dialettico impiegato da Marx per rivelare la legge economica del movimento della società moderna. Potremmo avvalorare quest’affermazione astratta mediante riferimenti testuali, partendo dalle osservazioni metodologiche che si possono spigolare in parecchi scritti di Marx risalenti a epoche diverse. È anche vero che l’ipotesi più frequente che Marx ci prospetta nei suoi lavori politici è quella della rivoluzione proletaria nei Paesi che hanno conosciuto un lungo periodo di civiltà borghese e di economia capitalista; essa deve segnare l’inizio di un processo di sviluppo che inglobi a poco a poco il resto del mondo, poiché l’accelerazione del progresso storico è assicurata per osmosi rivoluzionaria. Qualunque sia l’ipotesi considerata, un fatto è certo: non c’è spazio, nella teoria sociale di Marx, per una terza via rivoluzionaria, quella di Paesi che, privi dell’esperienza storica del capitalismo maturo e della democrazia borghese, mostrerebbero il cammino della rivoluzione proletaria ai Paesi dotati di un lungo passato capitalista e borghese.
È bene ricordare tali elementari verità della cosiddetta concezione materialistica della storia, perché la mitologia marxista nata con la Rivoluzione russa del 1917 è riuscita a imporre alle menti poco informate - e sono legioni - una tutt’altra immagine di questo processo rivoluzionario: l’umanità sarebbe divisa in due sistemi economico-politici, il mondo capitalista dominato dai Paesi industrialmente sviluppati e il mondo socialista il cui modello, l’URSS, è assurto al rango di seconda potenza mondiale in seguito a una rivoluzione "proletaria". In verità, l’industrializzazione del Paese è dovuta alla creazione e allo sfruttamento di un immenso proletariato, e non al trionfo e all’abolizione di quest’ultimo. La finzione di una "dittatura del proletariato" fa parte dell’arsenale delle idee imposte dai nuovi padroni nell’interesse del loro potere: numerosi decenni di barbarie nazionalista e militare su scala mondiale ci consentono di comprendere lo smarrimento mentale di un’intellighenzia universalmente vittima del mito denominato "Ottobre socialista"(5).
Non potendo approfondire questo dibattito in questa sede, ci limiteremo a precisare il nostro proposito sotto forma di un’alternativa: o la teoria materialistica dello sviluppo sociale è rigorosamente scientifica - cosa di cui lo stesso Marx, naturalmente, era persuaso - e in tal caso l’esistenza di un mondo "socialista" è un mito; oppure il mondo socialista esiste realmente, e ciò costituisce la confutazione totale e definitiva di questa teoria. Nella prima ipotesi, il mito del mondo socialista si può spiegare perfettamente: si tratterebbe del prodotto di una campagna ideologica abilmente condotta dal "primo Stato operaio" al fine di dissimulare la propria natura; nel secondo caso, la teoria materialistica del divenire-socialista-del-mondo sarebbe certo smentita, ma le esigenze etiche e utopiche dell’insegnamento marxiano sarebbero realizzate; in altre parole, Marx, rifiutato dalla storia come scienziato, avrebbe trionfato come rivoluzionario.
Il mito del "socialismo realizzato" è stato fabbricato per giustificare moralmente uno dei più poderosi modelli di società del dominio e dello sfruttamento che la storia abbia mai conosciuto. Il problema della natura di questa società è riuscito a stornare completamente anche le menti più attente dalle teorie, dottrine e nozioni che formano nel loro insieme il patrimonio intellettuale del socialismo, del comunismo e dell’anarchismo; ma fra queste tre scuole del movimento d’idee mirante a una mutazione profonda della società umana, l’anarchismo è quella che ha meno sofferto di tale pervertimento: non avendo creato una teoria vera e propria della praxis rivoluzionaria, ha potuto preservarsi dalla corruzione politica e ideologica che ha colpito le altre due scuole di pensiero. Nata tanto dai sogni e dalle nostalgie quanto dal rifiuto e dalla rivolta, si è costituita come la critica più radicale del principio di autorità in tutte le sue vesti, ed è soprattutto come tale che è stata assorbita dalla teoria materialistica della storia. Quest’ultima è essenzialmente un’idea dell’evoluzione storica dell’umanità che passa, attraverso tappe successive, da uno stato permanente di antagonismi sociali a un modo di esistenza fatto di armonia sociale e di pienezza individuale. Al pari della critica sociale trasmessa dall’utopia anarchica, la finalità comune alle dottrine radicali e rivoluzionarie pre-marxiane è divenuta parte integrante del comunismo anarchico di Marx. Con lui, l’anarchismo utopico si arricchisce di una nuova dimensione, quella della comprensione dialettica del movimento operaio visto come l’autoliberazione etica inglobante l’intera umanità. Era inevitabile che la tensione intellettuale provocata dall’elemento dialettico in una teoria dalle pretese scientifiche, se non addirittura naturalistiche, fosse all’origine di un’ambiguità fondamentale che segna indelebilmente l’insegnamento e l’attività di Marx. Uomo di partito(6) non meno che uomo di scienza, Marx non sempre ha cercato, nella sua attività politica, di armonizzare i fini e i mezzi del comunismo anarchico. Ma pur avendo a volte fallito come militante, non cessa per questo di essere il teorico dell’anarchismo. Si ha dunque il diritto di applicare alla sua teoria la tesi etica da lui formulata a proposito del materialismo di Feuerbach (1845):
"La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva, non è questione teorica, bensì una questione pratica. Nella prassi l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero"(6 bis).
IV
La negazione dello Stato e del capitalismo da parte della classe sociale più numerosa e più miserabile si presenta in Marx come un imperativo etico prima ancora di essere dimostrata dialetticamente come una necessità storica. Il suo primo passo, procedendo a una valutazione critica dei risultati della Rivoluzione francese, equivale a una scelta decisiva, quella dello scopo che, a suo avviso, ogni uomo dovrebbe sforzarsi di raggiungere; e tale scopo è precisamente l’emancipazione umana in quanto superamento dell’emancipazione politica. Lo Stato politico più libero - il cui unico esempio è fornito dagli Stati Uniti d’America - rende l’uomo schiavo poiché s’interpone a mo’ di mediatore fra l’uomo e la sua libertà, come Cristo che l’uomo religioso carica della divinità propria dell’uomo. Politicamente emancipato, nondimeno l’uomo partecipa a una sovranità immaginaria; quale essere sovrano che gode dei diritti dell’uomo, conduce una doppia esistenza, quella del cittadino, membro della comunità politica, e quella del privato, membro della società civile; quella di essere celeste e quella di essere profano. Come cittadino, egli è libero e sovrano nei cieli della politica, reame universale dell’eguaglianza; come individuo, viene reinghiottito e nella vita reale, la vita civile, si degrada a strumento del suo prossimo; è allora il giocattolo di potenze estranee, materiali e morali: le istituzioni della proprietà privata, della cultura, della religione ecc. La società civile separata dallo Stato politico è la sfera dell’egoismo, della guerra di tutti contro tutti, della separazione dell’uomo dall’uomo. Assicurando all’uomo la libertà religiosa, la democrazia politica non lo ha liberato dalla religione, così come non lo libera dalla proprietà garantendogli il diritto di proprietà; egualmente mantiene la schiavitù e l’egoismo del mestiere accordando a tutti la libertà di mestiere. Poiché la società civile borghese è il mondo del commercio e del lucro, il regno del denaro, potenza universale che si è asservita la politica, e dunque lo Stato.
In sintesi, questa è la tesi iniziale di Marx: come critica dello Stato e del capitale, pertiene più a un pensiero anarchico piuttosto che a un qualunque socialismo o comunismo. Non ha ancora niente di rigorosamente scientifico, ma si richiama a una concezione etica del destino umano, di cui implicitamente si nutre, ponendo l’esigenza di un compimento nell’ordine del tempo storico. Per questo, senza limitarsi alla critica dell’emancipazione politica - che riduce l’uomo allo stato di monade egoista e di cittadino astratto -, definisce sia il fine da raggiungere sia i mezzi necessari:
"Solo quando l’effettuale uomo individuale ritira in sé l’astratto cittadino e come uomo individuale nella sua vita empirica, nel suo lavoro individuale, nelle sue relazioni individuali è diventato essenza-del-genere, solo quando l’uomo ha riconosciuto e ha organizzato le sue forces propres come forze sociali e perciò non scinde più da sé le forze sociali nella sembianza del potere politico, solo allora l’emancipazione umana si adempie" (Sulla questione ebraica, 1844)(6 ter).
Partendo da Il contratto sociale di Rousseau, teorico del cittadino astratto e precursore di Hegel, Marx ha trovato la propria strada. Rifiutato un aspetto dell’alienazione politica esaltata dai due pensatori, è giunto alla visione di una emancipazione umana e sociale che reintegrerebbe l’individuo nell’interezza delle sue facoltà e nella totalità del suo essere. Rifiuto parziale, poiché, in quanto dato storico, questa tappa non può scomparire o essere abolita mediante un atto di volontà. L’emancipazione politica è un "grande progresso", è anche l’ultima forma dell’emancipazione umana all’interno dell’ordine stabilito, e come tale potrà essere usata come strumento per sconvolgere tale ordine e inaugurare la tappa dell’autentica emancipazione umana. Dialetticamente antinomici, il fine e i mezzi si accordano eticamente nella coscienza del proletariato moderno, che diviene così il portatore e il soggetto storico della rivoluzione. Classe che concentra in sé tutte le tare della società e ne incarna la colpa originaria, il proletariato possiede un carattere universale per via dell’universalità della sua miseria. Non può emanciparsi senza emancipare tutte le sfere della società, e proprio realizzando i postulati di questa etica emancipatrice si abolirà in quanto proletariato.
Laddove Marx invoca la filosofia come "testa" e arma intellettuale dell’emancipazione umana il cui "cuore" sarebbe il proletariato, noi preferiamo parlare di etica, per significare che non si tratta di una speculazione metafisica ma di un problema esistenziale: ciò che conta è cambiare il mondo restituendogli il suo volto umano originario, e non interpretarne la caricatura. Nessuna filosofia speculativa può offrire all’uomo una soluzione ai suoi problemi di esistenza, seppur elevando la rivoluzione al rango d’imperativo categorico, Marx ragiona in funzione di un’etica normativa e non in riferimento a una filosofia della storia o a una teoria sociologica. Una sola scienza doveva allora destare l’attenzione di Marx che non poteva né voleva limitarsi alla pura esigenza etica di una rigenerazione degli uomini e delle società: la scienza della produzione dei mezzi di esistenza secondo la legge del capitale.
Lo studio dell’economia politica fu per Marx un modo di lottare per la causa alla quale avrebbe consacrato ormai tutti gli istanti della sua esistenza di "borghese" declassato. Quella che fino ad allora era stata solamente intuizione visionaria e scelta etica diventerà teoria dello sviluppo economico e ricerca dei determinismi sociali. Ma parimenti sarà partecipazione attiva al movimento sociale chiamato a mettere in pratica gli imperativi e le norme derivanti dalle condizioni di esistenza del proletariato industriale. La teoria di una società senza Stato, senza classi, senza scambi monetari, senza terrori religiosi e intellettuali, presuppone una teoria critica del modo di produzione capitalista e l’analisi rivelatrice del processo evolutivo che avrebbe portato, attraverso tappe successive, ai tipi di società comunista e anarchica. Marx scriverà più tardi:
"Anche quando una società è riuscita a scoprire la legge naturale del suo movimento [...] non può né saltare d’un balzo, né sopprimere per decreto, le fasi naturali del processo. Ma può abbreviare e lenire le doglie del parto" ("Prefazione alla prima edizione" de Il Capitale, 1867).
Insomma, Marx si sforzerà di dimostrare scientificamente ciò di cui era già persuaso intuitivamente e che gli sembrava eticamente necessario. E fin dal primo abbozzo di una critica dell’economia politica affronterà l’analisi del capitale da un punto di vista sociologico, come potere di comando sul lavoro e sui suoi prodotti, poiché il capitalista possiede questa forza non in virtù delle sue qualità personali o umane, ma in quanto proprietario del capitale. Il salariato è una schiavitù, e ogni aumento del salario disposto d’autorità sarà solo una migliore remunerazione per gli schiavi.
"La stessa uguaglianza del salario, quella che reclama Proudhon, non fa che generalizzare il rapporto dell’operaio del nostro tempo col suo lavoro, facendone il rapporto di tutti gli uomini col lavoro. La società viene allora concepita come un capitalista astratto." (Abbozzo, 1844.)
Schiavitù economica e servitù politica vanno di pari passo. L’emancipazione politica, il riconoscimento dei diritti dell’uomo da parte dello Stato moderno ha lo stesso significato del riconoscimento della schiavitù da parte dello Stato antico (La Sacra famiglia, 1845). Schiavo di un mestiere salariato, l’operaio lo è anche del proprio bisogno egoista e del bisogno altrui. La condizione umana non sfugge alla servitù politica nello Stato democratico rappresentativo più che nella monarchia costituzionale. "Nel mondo moderno ciascuno è ad un tempo membro della schiavitù e della comunità", sebbene in apparenza la servitù della società borghese sia il massimo di libertà. Proprietà, industria e religione, generalmente considerate garanti della libertà individuale, sono, in effetti, istituzioni che consacrano questa condizione di servitù. Robespierre, Saint-Just e i loro seguaci sono periti per aver confuso la società antica fondata sulla schiavitù reale, con lo Stato rappresentativo moderno che si basa sulla schiavitù emancipata, la società borghese con la sua concorrenza universale, i suoi interessi privati scatenati, il suo individualismo alienato. Pur comprendendo perfettamente la natura dello Stato moderno e della società borghese, Napoleone si è compiaciuto di considerare lo Stato come un fine in sé e la vita borghese come lo strumento delle proprie ambizioni politiche. Per soddisfare l’egoismo della nazione francese, ha istituito la guerra permanente al posto della rivoluzione permanente. La sua sconfitta consacra la vittoria della borghesia liberale che avrebbe finito per realizzare nel 1830 i suoi sogni del 1789, facendo dello Stato rappresentativo costituzionale l’espressione ufficiale del suo potere esclusivo e dei suoi interessi particolari.
Il problema del bonapartismo fu l’assillo permanente di Marx, attento osservatore della società francese nella sua evoluzione politica e nel suo sviluppo economico(7). Ai suoi occhi, la Rivoluzione francese costituiva il periodo classico dello spirito politico e la tradizione bonapartista una costante della politica interna ed estera della Francia. Così Marx si è trovato ad abbozzare una teoria del cesarismo moderno che, se pare contraddire in parte i princìpi metodologici della sua teoria dello Stato, non modifica la sua iniziale visione anarchica. Poiché è proprio nel momento in cui si accingeva a gettare le fondamenta della sua interpretazione materialistica della storia che egli ha formulato una concezione dello Stato che lo classifica tra i sostenitori dell’anarchismo più radicale.
"L’esistenza dello Stato e l’esistenza della servitù sono inseparabili. [...] Più lo Stato è potente, più un Paese è, per questo, politico, meno è disposto a cercare nel principio dello Stato, dunque nell’organizzazione attuale della società di cui lo Stato stesso è l’espressione attiva, consapevole e ufficiale, la ragione dei suoi mali sociali. [...]" (Vorwärts, 1844.)
L’esempio della Rivoluzione francese gli sembrava allora sufficientemente probante da fargli enunciare una teoria che corrisponde solo parzialmente alla sociologia politica tratteggiata sia ne L’ideologia tedesca sia nelle sue riflessioni sul secondo Impero e sulla Comune del 1871:
"Lungi dal vedere nel principio dello Stato la fonte dei mali sociali, gli eroi della Rivoluzione francese vedono al contrario nelle tare sociali la fonte dei mali politici. Così Robespierre vede nella grande povertà e nella grande ricchezza solo un ostacolo alla democrazia pura. Egli desidera dunque stabilire una frugalità spartana generale. Il principio della politica è la volontà" (ibidem).
Quando ventisette anni dopo, a proposito della Comune di Parigi, Marx prenderà nuovamente in esame le origini storiche dell’assolutismo politico rappresentato dallo Stato bonapartista, vedrà nell’opera centralizzatrice della Rivoluzione francese la continuazione delle tradizioni monarchiche:
"L’apparato dello Stato centralizzato, con i suoi organi militari, burocratici, clericali e giudiziari, onnipresenti e complicati, che rinchiudono (avviluppano) il corpo vivente della società civile come un boa constrictor, fu agli inizi foggiato, ai tempi della monarchia assoluta, come arma della nascente società moderna nella sua lotta per emanciparsi dal feudalesimo. [...] La prima Rivoluzione francese, che aveva l’obiettivo di fondare l’unità nazionale, [...] proseguendo nell’opera intrapresa dalla monarchia assoluta, [...] fu necessariamente costretta a sviluppare la centralizzazione e l’organizzazione del potere dello Stato, ad ingrandirne il ruolo e le attribuzioni, ad aumentare il numero dei suoi strumenti, ad accrescere la sua indipendenza e il suo dominio soprannaturale sulla società reale [...]. Ogni interesse minore e isolato, prodotto dai rapporti dei gruppi sociali, fu separato dalla società stessa, delimitato, reso indipendente da questa e messo in contrapposizione ad essa, in nome della ragion di Stato, difesa dai sacerdoti del potere di Stato dalle funzioni gerarchiche esattamente definite" (Primo abbozzo sulla Comune, 1871)(7 bis).
Questa denuncia appassionata del potere di Stato riassume in qualche modo tutto lo sforzo di studio e di riflessione critica compiuto da Marx in questo campo, dallo scontro con la filosofia morale e politica di Hegel, passando per il periodo di elaborazione della teoria materialistica della storia e i quindici anni di giornalismo libero e professionale, senza dimenticare l’intensa attività in seno all’Internazionale operaia. La Comune sembra essere stata per Marx l’occasione di esporre l’ultimo stadio del suo pensiero sul problema al quale aveva riservato uno dei sei libri della sua Economia e di tracciare almeno i contorni di questa libera associazione di uomini liberi, di cui il Manifesto del Partito comunista aveva annunciato l’avvento:
"Non si trattò quindi per la Comune di una rivoluzione contro questa o quell’altra forma di potere dello Stato, legittimista, costituzionale, repubblicana o imperiale. Fu una rivoluzione contro l’essenza stessa dello Stato, questo aborto sovrannaturale della società; fu la riappropriazione da parte del popolo della propria vita sociale"(7 ter).
V
Paragonando il modo di emancipazione dei servi sotto il regime feudale a quello dei lavoratori moderni, Marx notava che, a differenza dei proletari, i servi dovevano sviluppare liberamente le condizioni di esistenza offerte e per questo non potevano che pervenire al "lavoro libero"; per contro, i proletari non potevano affermarsi individualmente senza abolire la propria condizione di vita; ed essendo questa identica a quella dell’insieme della società, non rimaneva che sopprimere il lavoro salariato. E aggiungeva questa frase che gli sarebbe servita ormai da leitmotiv, sia nell’attività letteraria sia nell’azione di comunista militante:
"[I proletari] si trovano quindi anche in antagonismo diretto con la forma nella quale gli individui della società si sono dati finora un’espressione collettiva, lo Stato, e devono rovesciare lo Stato per affermare la loro personalità" (L’ideologia tedesca, 1846)(7 quater).
Questa formula, più vicina all’anarchismo di Bakunin che a quello di Proudhon, non è frutto di un momento d’irriflessione passionale né il gesto di un politico che arringhi un’assemblea operaia. È la conclusione logica, in forma di postulato rivoluzionario, di tutto uno sviluppo teorico tendente a dimostrare la "necessità storica" della comune anarchica. Ciò significa che l’avvento della "società umana" s’inscrive, secondo la teoria marxiana, in un lungo processo storico. Al fine, sorge una classe sociale che costituisce l’immensa maggioranza della popolazione delle società industriali, e che può come tale assumere su di sé un compito rivoluzionario creativo. Ed è per dimostrare la logica di tale sviluppo che Marx ha cercato di fissare un nesso di causalità fra i progressi scientifici - soprattutto quelli delle scienze naturali - e le istituzioni politico-giuridiche da una parte, e il comportamento delle classi sociali antagoniste dall’altra. Contrariamente a Engels, Marx non pensava che la trasformazione rivoluzionaria dell’avvenire sarebbe assomigliata alle rivoluzioni del passato, cataclismi naturali che stritolano uomini, cose e coscienze. Con l’avvento del lavoratore moderno, la specie umana iniziava il ciclo della sua vera storia, entrava nella via della ragione e diveniva capace di realizzare i propri sogni e di darsi un destino a misura delle sue facoltà creatrici. Le conquiste della scienza e della tecnologia rendevano possibile un tale esito, ma il proletariato doveva intervenire affinché la borghesia e il suo capitale non trasformassero quest’evoluzione in una corsa verso l’abisso.
"I trionfi della scienza sembrano acquisiti al prezzo dell’avvilimento morale. A mano a mano che l’umanità estende il dominio sulla natura, l’uomo sembra divenire preda del suo prossimo e della sua propria infamia."(8)
La rivoluzione proletaria non avrà dunque nulla di un’avventura politica; sarà un’impresa universale, condotta d’intesa dall’immensa maggioranza dei membri della società che ha preso coscienza della necessità e della possibilità di una rigenerazione totale dell’umanità. Visto che la storia è divenuta mondiale la minaccia di asservimento da parte del capitale e del suo mercato si estende a tutta la Terra; di contraccolpo devono sorgere una coscienza e una volontà di massa completamente tese a un cambiamento profondo e universale delle relazioni umane e delle istituzioni sociali. Dacché il pericolo di una barbarie di dimensioni planetarie minaccia la sopravvivenza degli uomini, i sogni e le utopie comuniste e anarchiche rappresentano la fonte spirituale dei progetti razionali e delle riforme pratiche in grado di restituire alla specie umana il gusto della vita, secondo le norme di una ragione e di un’immaginazione egualmente volte verso il rinnovamento del destino umano.
L’uomo non può uscire dal regno della necessità per entrare in quello della libertà, come pensava Engels, e non può esserci passaggio diretto dal capitalismo all’anarchismo. La barbarie economica e sociale instaurata dal modo di produzione capitalista non potrà scomparire in seguito a una rivoluzione politica preparata, organizzata e diretta da un’élite di rivoluzionari di professione aventi la pretesa di agire e di pensare in nome e a beneficio della maggioranza degli sfruttati e degli alienati. Costituito in classe e in partito nelle condizioni della democrazia borghese, il proletariato libera se stesso lottando per conquistare tale democrazia: fa del suffragio universale, appena ieri "strumento d’inganno", un mezzo di emancipazione. Una classe che costituisce l’immensa maggioranza di una società moderna si aliena politicamente solo per trionfare sulla politica e conquista il potere di Stato solo per utilizzarlo contro la minoranza prima dominante. La conquista del potere politico è un atto "borghese" per natura; si tramuta in azione proletaria solo per la finalità rivoluzionaria conferitale dagli autori di questo sconvolgimento. Tale è il senso di quel periodo storico che Marx non ha avuto paura di denominare "dittatura del proletariato", proprio per sottolinearne la differenza rispetto alla dittatura esercitata da un’élite, la dittatura nel senso giacobino del termine(9). Certo, attribuendosi il merito di aver scoperto il segreto dello sviluppo storico dei modi di produzione e di dominio, Marx non poteva immaginare che il proprio insegnamento sarebbe stato usurpato nel XX secolo da rivoluzionari di professione che si sarebbero arrogati il diritto d’impersonare la dittatura del proletariato. Egli immaginava questa forma di transizione sociale solo per Paesi in cui il proletariato avrebbe saputo approfittare del periodo democratico-borghese per creare le proprie istituzioni e costituirsi in classe dominante della società. Paragonata ai secoli di violenza e di corruzione che sono occorsi al capitalismo per dominare l’universo, la durata del processo di transizione che deve portare alla società anarchica sarà assai più breve e conoscerà molta meno violenza poiché l’accumulazione del capitale e la concentrazione del potere statale opporranno un proletariato di massa a una borghesia numericamente debole.
"Per trasformare la proprietà privata e frazionata, oggetto del lavoro individuale, in proprietà capitalistica, saranno stati necessari più tempo, sforzi e sofferenze di quelli che non esigerà la metamorfosi in proprietà sociale della proprietà capitalistica, che riposa già di fatto su un modo di produzione collettivo. Là si trattava dell’espropriazione della massa da parte di pochi usurpatori; qui, si tratta dell’espropriazione di pochi usurpatori da parte della massa." (Il Capitale, I.)
Marx non ha elaborato in tutti i dettagli una teoria della transizione, e si possono cogliere differenze notevoli tra i diversi abbozzi teorici e pratici disseminati nella sua opera. Tuttavia attraverso queste affermazioni, talvolta contraddittorie, un principio di base rimane intatto, e costante al punto di permettere la ricostruzione coerente di tale teoria. Ed è forse su questo punto che il mito della fondazione del "marxismo" da parte di Marx ed Engels rivela la sua nocività. Mentre il primo faceva del postulato dell’autopraxis proletaria il criterio di ogni autentica azione di classe e di ogni vera conquista politica, il secondo, soprattutto dopo la scomparsa dell’amico, ha finito col separare i due elementi costitutivi del movimento operaio: l’azione di classe - la Selbsttätigkeit - del proletariato da una parte, e la politica di partito dall’altra. Marx pensava che, più di ogni atto politico isolato, l’autoeducazione comunista e anarchica fosse parte integrante dell’attività rivoluzionaria degli operai: era loro compito rendersi idonei alla conquista e all’esercizio del potere politico come mezzo di resistenza contro i tentativi della borghesia per riconquistare e recuperare il suo potere. Il proletariato deve temporaneamente costituirsi in forza materiale per difendere il proprio diritto e il proprio progetto di trasformare la società creando progressivamente la comunità umana. Lottando per affermarsi come forza di abolizione e di creazione, la classe operaia - che è "di tutti gli strumenti di produzione la più grande forza produttiva"(10) - assume il progetto dialettico di una negazione creatrice: corre il rischio dell’alienazione politica al fine di rendere la politica anacronistica. Un simile progetto non ha nulla in comune né con la passione distruttrice di un Bakunin né con l’apocalisse anarchica di un Courderoy. L’estetismo rivoluzionario non aveva posto in questo progetto politico, concepito per fare trionfare la supremazia virtuale delle masse oppresse e sfruttate. Agli occhi di Marx, l’Internazionale operaia poteva divenire questa organizzazione di combattimento, poiché combinava la forza del numero con quello spirito rivoluzionario che l’anarchismo proudhoniano concepiva in tutt’altra maniera. Legandosi all’Ait, Marx non aveva abbandonato la posizione presa contro Proudhon nel 1847, quando si trattava di definire un anarchismo antipolitico realizzabile attraverso un movimento politico:
"Ciò vuol dire forse che dopo la caduta dell’antica società ci sarà una nuova dominazione di classe riassumentesi in un nuovo potere politico? No. [...] La classe lavoratrice sostituirà, nel corso del suo sviluppo, all’antica società civile un’associazione che escluderà le classi e il loro antagonismo, e non vi sarà più potere politico propriamente detto, poiché il potere politico è precisamente il compendio ufficiale dell’antagonismo nella società civile.
Nell’attesa, l’antagonismo tra il proletariato e la borghesia è una lotta di classe contro classe, lotta che, portata alla sua più alta espressione, è una rivoluzione totale. [...] Non si dica che il movimento sociale esclude il movimento politico. Non vi è mai movimento politico che non sia sociale nello stesso tempo.
Solo in un ordine di cose in cui non vi saranno più classi né antagonismo di classi le evoluzioni sociali cesseranno di essere rivoluzioni politiche" (Miseria della filosofia, 1847)(11).
Il proposito di Marx è qui di un realismo a prova di ogni interpretazione "idealista". Questo discorso al futuro bisogna evidentemente intenderlo come l’annuncio di un progetto normativo che impegna i lavoratori a comportarsi da rivoluzionari pur lottando politicamente. "La classe operaia è rivoluzionaria, o non è niente." (Lettera a J.B.Schweitzer, 1865.) È il linguaggio di un pensatore la cui dialettica rigorosa rifiuta, contrariamente a quella di un Proudhon o di uno Stirner, di meravigliare facendo sistematicamente ricorso al paradosso gratuito e alla violenza verbale. E se tutto non è e non può essere risolto in questa dialettica dimostrativa dei fini e dei mezzi, il suo merito è almeno quello d’incitare le vittime del lavoro alienato a comprendersi e ad autoeducarsi per intraprendere assieme una grande opera di creazione collettiva. In questo senso, l’appello di Marx rimane attuale, a dispetto del marxismo trionfante e in ragione di questo trionfo(12).
Da questi accenni risulta che la teoria sociale di Marx si presenta espressamente come un tentativo di analisi obiettiva di un movimento storico e non come un codice morale o politico di una praxis rivoluzionaria tendente a realizzare un ideale di vita sociale; come studio scientifico di un processo di sviluppo che coinvolge cose e individui, e non come somma di norme a uso di partiti e di élites aspiranti al potere. Tuttavia questo è solo l’aspetto esteriore e riconosciuto di tale teoria, che segue una duplice traiettoria concettuale di cui l’una possiede un orientamento rigorosamente determinista e l’altra si dirige liberamente verso l’obiettivo immaginario di una società anarchica.
"Non è nel passato ma solo nell’avvenire che la Rivoluzione sociale del XIX secolo potrà trovare la fonte della sua poesia. Non potrà iniziare da se stessa prima di essersi liberata da ogni credenza superstiziosa nel passato." (Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, 1852.)(12 bis)
Il passato è la necessità irrimediabile, e un osservatore armato di tutti gli strumenti analitici è in grado di spiegare il concatenarsi dei fenomeni colti. Ma se è vano sperare nella realizzazione di tutti i sogni che l’umanità, attraverso i suoi profeti e i suoi visionari, ha potuto nutrire, l’avvenire potrebbe almeno portare agli uomini la fine delle istituzioni che hanno ridotto la loro vita a uno stato permanente di servitù in tutti i campi sociali. Questo è, in rapida sintesi, il legame tra la teoria e l’utopia nell’insegnamento di Marx, che si è formalmente proclamato "anarchico" quando scriveva:
"Per anarchia, tutti i socialisti intendono quanto segue: una volta raggiunto lo scopo del movimento proletario, l’abolizione delle classi, il potere dello Stato che serve a mantenere la grande maggioranza dei produttori sotto il giogo di una esigua minoranza di sfruttatori, si dissolve e le funzioni governative si trasformano in semplici funzioni amministrative" (Le cosiddette scissioni nell’Internazionale, Genève, 1872)(12 ter).
 

Note:
(1) Forse sotto l’influenza di William Godwin e di Proudhon.
(2) Thomas Hamilton, Les Hommes et les Múurs aux États-Unis, 1832 (trad. fr. dall’inglese). Ristampa dell’ed. Bruxelles, 1834, Paris-Genève, Slatkine, 1979.
(3) Maximilien Rubel, "Piano e metodo dell’"economia"", in Marx critico del marxismo, Cappelli, Bologna, 1981, pp. 109-48.
(4) Karl Marx, Tesi su Feuerbach (1845), in Marx-Engels, Opere, Ed. Riuniti, Roma, 1972, vol. V, pp. 3-5.
(5) Vedi Maximilien Rubel, "Il mito dell’Ottobre", in Marx critico del marxismo, cit., pp. 149-261. [La "Parte II" dell’edizione italiana di Marx critique du Marxisme manca del saggio "La fonction historique de la nouvelle bourgeoise", pp. 133-45 (Ndc).]
(6) "Parlando di partito, io do a questa parola un senso eminentemente storico." (Lettera di Marx a Freiligrath, 29 febbraio 1860.) Vedi Maximilien Rubel, Pages de Karl Marx pour une éthique socialiste, Payot, Paris, 1970, tomo I, pp. 42 sgg. e 76 sgg.
(6 bis) Karl Marx, Tesi su Feuerbach, in Marx-Engels, Opere, cit., vol. V, p. 3 (Ndc).
(6 ter) Karl Marx, Sulla questione ebraica (trad. it. di Luciano Parinetto), in Luciano Parinetto - Livio Sichirollo, Marx e Shylock, Unicopli, Milano, 1982, pp. 143-44 (Ndc).
(7) Vedi Maximilien Rubel, Karl Marx devant le bonapartisme, Mouton, Paris-La Haye, 1960.
(7 bis) Karl Marx, Primo abbozzo di redazione per “La guerra civile in Francia”, in Friedrich Engels - Karl Marx, 1871. La Comune di Parigi. La guerra civile in Francia, Ed. International - La Vecchia Talpa, Savona-Napoli, 1975, pp. 212-13 (Ndc).
(7 ter) Ibidem, p. 215 (Ndc).
(7 quater) Karl Marx, L’ideologia tedesca, in Marx-Engels, Opere, cit., vol. V, p. 66 (Ndc).
(8) Allocuzione pronunciata a Londra, nell’aprile 1856, per celebrare l’anniversario dell’organo dei cartisti "People’s Paper", in Maximilien Rubel, Pages de Karl Marx pour une éthique socialiste, cit., tomo II, p. 100.
(9) Vedi Hal Draper, Marx and the Dictatorship of the Proletariat, "Études de marxologie", Paris, n. 6, 1962, pp. 5-74.
(10) Karl Marx, Miseria della filosofia, in Marx-Engels, Opere, cit., vol.
(11) Ibidem, p.
(12) Il quadro limitato entro cui si muove questo saggio non ci permette di allargare la nostra dimostrazione, e quindi ci limiteremo a citare tre testi che nullificano la leggenda - bakuniniana e leninista - di un Marx "adoratore dello Stato" e "apostolo del comunismo di Stato" o che identifica la dittatura del proletariato con la dittatura di un partito, o addirittura di un uomo.
a) Note in margine al libro di Bakunin “Stato e anarchia”, Genève, 1873 (in russo). Temi principali: dittatura del proletariato e mantenimento della piccola proprietà rurale; condizioni economiche e rivoluzione sociale; estinzione dello Stato e trasformazione delle funzioni politiche in funzioni amministrative delle comunità cooperative autogestite.
b) Critica al programma del Partito operaio tedesco (Programma di Gotha), 1875. Temi principali: le due fasi evolutive della società comunista fondata sul modo di produzione cooperativo; la borghesia classe rivoluzionaria; azione internazionale delle classi operaie; critica della "legge bronzea del salario"; ruolo rivoluzionario delle cooperative operaie di produzione; insegnamento primario liberato dall’influenza della religione e dello Stato; dittatura rivoluzionaria del proletariato considerata come transizione politica verso una trasformazione delle funzioni statali in funzioni sociali.
c) Comunità contadina e prospettive rivoluzionarie in Russia (risposta a Vera Zasulich), 1881. Temi principali: la comunità rurale, elemento di rigenerazione della società russa; ambivalenza della comunità e influenza del contesto storico; sviluppo della comunità e crisi del capitalismo; emancipazione contadina ed esazioni fiscali; influenze negative e rischi di scomparsa della comunità; minacciata dallo Stato e dal capitale, la comunità russa sarà salvata solo dalla rivoluzione russa.
Questi tre documenti costituiscono in qualche modo la quintessenza del libro che Marx pensava di scrivere sullo Stato. Converrebbe inoltre ricordare qui diversi scritti di Engels sul tema dello Stato che si rifanno direttamente o indirettamente alla teoria di Marx, senza tuttavia che vi sia coincidenza assoluta tra le due posizioni.
(12 bis)
(12 ter) In Karl Marx - Friedrich Engels, Critica dell’anarchismo, a cura di Giorgio Backhaus, Einaudi, Torino 1972, p. 76 (Ndc).

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