Miei cari ammiratori,
da tempo volevo scrivere qualche riga su di un fenomeno che, sia
pure con il distacco che la mia distanza m’infonde, un poco mi
inquieta: la mia santificazione.
Il pungolo che mi ha spinto a decidermi è stata la notizia
dell’ennesima mostra su di me, con tanto di patrocini, e di un
dibattito, cui parteciperanno il direttore di un giornale e un prete,
sul mio modo di intendere il vangelo. Il colmo della misura, si sa, è
un sentimento dell’animo affatto misterioso, per cui non saprei dire
come mai proprio ora, dopo una folta schiera di articoli, libri,
documentari, tributi, esposizioni, conferenze e persino lezioni
universitarie, ho deciso di prender la penna. Quale uomo come sono e
soprattutto fui, ho provato sulle prime un certo piacere nel vedere la
mia assenza colmata dalla passione e dalla curiosità. Ma da spirito
appartato e discreto quale ho sempre cercato di essere, ora comincio a
sentirmi offeso.
Se ho sempre cantato i soli, gli ultimi, i poveri, i delinquenti e i
disertori, non è stato solo per ragioni poetiche («chi costruisce
prigioni si esprime sempre meno bene di chi costruisce la libertà»,
diceva il mio amico Stig Dagerman) e nemmeno perché, nel mondo in cui
vivevo e voi tuttora vivete, tale ‘materiale’ non rischiava né rischia
di scarseggiare. Si è trattato di una scelta etico-sociale ben precisa,
ancorché, nel mio caso, più ai margini che ‘attiva’.
Quando vedo strofe delle mie canzoni scritte sui muri dei quartieri
popolari, piccolo segno contro la città dei benpensanti e della
polizia, sempre mi rallegro e mi conforto. Quando mi citano i notabili,
i direttori di gazzette o gli altri salariati del circo culturale,
arrossisco e scalpito.
Mentre si ghigliottina ogni pensiero solitario e difforme, mentre
anarchici e ribelli sono perseguitati, calunniati e stretti in cella,
qualche buffone così bene accasato in questo mondo elogia il mio
spirito libertario, rendendolo inoffensivo e mummificato. I poeti,
queste brave persone…
Il vangelo che sento mio non è certo quello delle chiese, delle
«monachelle e dei fratacchioni» (Manganelli), dei ventri obesi e dei
cuori a forma di salvadanai, né quello degli imbrattacarte
incravattati. Io sto sulla cattiva strada — quella di Gherardino
Segalello, di Margherita e di Dolcino, quella delle scelte pericolose
contro la ricchezza e contro il potere. È alla Fortuna di chi ha
profanato gli antichi templi, di chi sfida i roghi moderni e fa di se
stesso fiamma che ho intonato i miei canti.
Non intendevo allietare le serate dei soddisfatti, accompagnare la
loro direzione assolata di servi obbedienti alle leggi del branco, né
portare un poco di grazia in un mondo (di parole e di musica) sempre
più misero. Di fronte all’orrore che ci circonda, a quella catastrofe
che è ogni giorno in cui non accade nulla, come ebbe a scrivere un
altro ligure celebre, non c’è bisogno di Fondazioni, miei cari, bensì
di serie rovine.
Anche se vagabondo sopra una selva di sguardi obliqui e rancori
organizzati; anche se converso solo con i muti e i malinconici,
fuggendo le cornacchie, i professori e i noiosi; anche se non vedo
ancora crescere quel coro di vibrante protesta che vagheggiavo, la mia
lingua è sempre adatta per il vaffanculo…
Da nessun luogo,
Fabrizio De André
Fabrizio De André
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