[Da un intervento sul forum della Lega Giovanile della Sinistra Comunista]
[...] Non ho letto L'insurrezione che viene, ma conosco altri testi di Tiqqun e delle sue successive filiazioni (Teoria del Bloom, La comunità terribile, Elementi per una teoria della Jeune-Fille, Introduzione alla guerra civile etc.) e devo ammettere di esserne rimasto affascinato, inizialmente. Tuttavia, al di là del forte impatto emotivo (legato, credo, al fatto che la condizione esistenziale dell'uomo "capitalizzato" contemporaneo vi è tratteggiata, sul piano descrittivo, in modo impeccabile) e delle indubbie capacità affabulatorie degli Autori, ad una riflessione più attenta l'impianto teorico complessivo mi è parso debole, oltre che alquanto eclettico (un mix di elementi presi da Foucault, Debord, Cesarano, Agamben etc.).
L'errore fondamentale di Tiqqun, a mio avviso, è quello di spostare le contraddizioni del capitalismo odierno interamente al livello dell'individuo, e di perdere di vista il terreno sociale e di classe. Sulla scia di Camatte (che pure aveva scritto cose interessanti a cavallo degli anni '60 e '70), Tiqqun concepisce il capitale in termini eminentemente idealistici: da insieme complesso di rapporti materiali incentrati sullo sfruttamento e sull'alienazione dell'attività umana, quest'ultimo è ridotto a «somma di tutte le rappresentazioni», una sorta di totalità eterea e indistinguibile che permea di sé ogni cosa: la realtà sociale e gli individui. È però soprattutto, per non dire esclusivamente, all'interno di questi ultimi che viene dislocata la contraddizione. In ogni caso, il capitale finisce con l'essere identificato a un puro dominio politico (come, del resto, si può riscontrare in un autore come Negri, apparentemente lontano dai “tiqqunnisti”): un sistema di controllo sociale pervasivo e capillare, poggiante sui due pilastri dello Spettacolo e del Biopotere – l'Impero.
Andando al sodo, ci troviamo di fronte al tentativo di giustificare teoricamente una sorta di “alternativismo” radicale. Riporto, a questo proposito, un brano del “solito” Gilles Dauvé:
«Appel e L’insurrection qui vient dipingono un capitalismo che, dopo avere desertificato la vita intera, avrebbe esaurito tutte le sue risorse; all’interno di questo contesto, iniziare fin d’ora a vivere in modo diverso, sarebbe dunque di per sé una pratica sovversiva.
«A essere obliterata è, né più né meno, quella rottura del continuum storico che prende il nome di rivoluzione. Malgrado la loro opposizione all’altermondialismo, queste tesi ne condividono nella sostanza il rifiuto della globalità e della distruzione del potere politico centrale. Esse lasciano intendere che sia possibile conquistare il potere sulla propria vita a livello locale, rimpiazzando una futura rivoluzione sociale con milioni di rivoluzioni personali e micro-collettive» (Dalla Sinistra comunista alla "comunizzazione").
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