Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

* * *

«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

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«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

20 febbraio 2010

Le tute bianche si sono perse a Genova...


…e nessuno è partito alla loro ricerca

Ove si narra di come il composto assedio delle moltitudini di disobbedienti civili biancotutati alle porte dell’Impero sia stato travolto e spazzato via dalla violenta invasione di orde di rozzi barbari nerovestiti.

Questo testo prende spunto dalle considerazioni svolte in «Togliti i baffi, ti abbiamo riconosciuto». La vera storia di un bluff (il Luther Blissett Project e i suoi padrini) e della sua cattiva coscienza (l’Internazionale situazionista), pubblicato in “Invarianti”, n°34, Roma, dicembre 2000, pp.17-34 [che è possibile leggere qui].

1. PARENTELE

«Le tute bianche sono solo uno dei risultati intermedi di un esperimento che proseguirà, lungo un percorso di sperimentazione prettamente italiano, che di recente ha avuto il Luther Blissett Project (1994-99) come principale – ma non unico – laboratorio.» (Roberto Bui, Intervista a Raisat, 10 luglio 2001)

Così il 10 luglio 2001, dieci giorni prima del G8 genovese, Roberto Bui presentava a un intervistatore di Raisat il movimento delle tute bianche. Delle tute bianche Bui è stato uno dei leader, il meno noto al grande pubblico, ma uno dei più importanti, una delle menti che ha lavorato all’ombra delle tornite braccia dei Casarini (e che oggi ambisce a posizioni da leader del nuovo soggetto politico che cerca di rinascere dalle sue ceneri). Il 31 dicembre 1999, nel momento in cui si disfaceva del fantasma di Luther Blissett con la tronfia soddisfazione per il pieno successo ottenuto, Bui non sospettava e soprattutto non prevedeva che l’altro grande investimento della propria promettente carriera al servizio della società dello spettacolo avrebbe avuto vita molto breve.

«Ho 30 anni. Ho fatto parte del Luther Blissett Project fino al dicembre 1999. Ora faccio parte di Wuming. Vivo a Bologna da dieci anni. Sono originario di Ferrara. Sono eterosessuale. Segni particolari: una cicatrice di dieci centimetri al centro del cranio. Sto dalla parte dei centri sociali della Carta di Milano. Ho partecipato ad azioni delle tute bianche. Lo rivendico fino all'ultima goccia di sudore, e mi assumo le responsabilità del caso. […] E sono comunista. Marxista. “Negriano”, addirittura.» (R.Bui, Lettera aperta alla lista Movimento e ai compagni che gestiscono ECN, da www.ecn.org/movimento, 22 giugno 2000 )

Scrivendo queste righe alla lista movimento di ecn.org il 22 giugno 2000, Bui non soltanto dava un volto significativo alla propria presunta identità anonima e sovversiva, ma annunciava trionfante l’adesione al movimento delle tute bianche, nato nel 1998, appena un anno prima dello scioglimento del LBP, con l’obiettivo di andare ben oltre la triste fine che ha fatto a cavallo del 20 e del 21 luglio per le strade di Genova.

2. LE TUTE BIANCHE.

Non ci interessa fare qui una storia delle tute bianche – nate dall’area più morbida e riformista dei centri sociali (Leoncavallo di Milano e centri del nord-est in testa) con l’obiettivo di avviare una strategia propositiva, di dialogo con le istituzioni – bensì limitarci ad una serie di considerazioni sul significato storico della loro esistenza. Lo spunto più interessante per queste riflessioni le ha date un importante simpatizzante del movimento, l’ex-Lotta Continua ed attuale deputato verde Luigi Manconi in un articolo comparso su “La Repubblica” il 14 luglio 2001, sette giorni prima del G8.

«Dal 1989 – cominciava Manconi con un profetismo portasfiga in relazione a quanto auspicato e quanto poi successo a Genova – in Italia, non viene lanciata una bottiglia Molotov (se non da bande del tifo organizzato). E da un decennio, in Italia, non si verificano scontri di piazza paragonabili, per intensità di violenza, a quelli degli anni ’70. Ci sono, piuttosto, rappresentazioni di battaglie di strada e scontri simulati. Spesso, queste performances belliche – grazie alla raffigurazione fotografica o televisiva – sono apparse come vere. Ma, a parte rare eccezioni, si è trattato esclusivamente di rappresentazioni. Posso dirlo perché ho partecipato ad alcune di esse – mi riferisco agli ultimi cinque anni e non al decennio 1967-1977 – con ruoli diversi, ma tutti relativamente a un’attività qualificabile come di mediazione: prima e durante le manifestazioni.»

Manconi non si limitava a testimoniare sulle pagine del principale quotidiano italiano quanto era noto soltanto ai più informati, ma ne spiegava molto lucidamente il senso storico.

«Le "tute bianche” e quei settori di manifestanti che partecipano ai cortei con una “attrezzatura di autodifesa”, che esercitano una pressione fisica e ricorrono all’uso controllato della forza, svolgono un ruolo ambiguo. Ma – questo è il punto – è un ruolo, a mio avviso, positivamente ambiguo. Offre a quell’aggressività di cui si diceva [i movimenti sociali, aveva detto Manconi, sono portatori – oltre che di valori e di fini – di una carica di aggressività che è il segno del loro “antagonismo”], un canale in cui esprimersi e, insieme, uno schema (rituale e agonistico) che l’amministra. Propone uno sbocco – e, dunque, in qualche misura rischia di incentivare la violenza – ma esercita un controllo e pone (tenta di porre) limiti. L’attività delle “tute bianche” è, dunque, letteralmente, un esercizio sportivo (e lo sport è, classicamente, la prosecuzione e la codificazione della guerra con mezzi incruenti), che depotenzia e disinnesca la violenza: perlomeno, la gran parte di essa. Certo, questo presuppone un’idea delle violenza di piazza come una sorta di flusso prevedibile, indirizzabile, controllabile: ma è proprio in questi termini che viene trattata da numerosi responsabili dell’ordine pubblico e da molti leader di movimento.»

Infine Manconi riportava in dettaglio due esempi molto indicativi di questa pratica di contrattazione con le autorità e rappresentazione spettacolare di finti scontri; ecco il più significativo:

«Un anno e mezzo fa nel corso di una riunione nella prefettura di una città del Nord, i responsabili dell’ordine pubblico e alcuni leader di movimento discussero puntigliosamente e, infine, convennero minuziosamente – oltre che sul tragitto – sulla destinazione finale del corteo. E ci si accordò sul fatto che vi fosse un punto, segnalato da un numero civico, raggiungibile col consenso delle forze dell’ordine, e un altro punto, segnalato da un numero successivo, non “consentito” ma tollerato. Lo spazio tra i due successivi limiti – un centinaio di metri – fu, poi, il “campo di battaglia” di uno scontro totalmente incruento e pressoché interamente simulato (ma tale non apparve nelle riprese televisive) tra manifestanti e polizia.»

L’analisi delle strategie di piazza delle tute bianche come tentativo di disinnescare ogni tentativo di rivolta spontanea per incanalarne le manifestazioni in rappresentazioni spettacolari riflette una precisa volontà politica corrispondente: traghettare l’area più ampia possibile del movimento antagonista e un’intera generazione di possibili giovani ribelli verso l’alveo delle istituzioni, il “confronto democratico”, la rappresentanza politica. Da dove veniva questa fiducia nel confronto e nella mediazione con le istituzioni e la società civile?

3. TONI NEGRI.

L’aspetto che più caratterizza l’area politica in cui si riconoscevano le tute bianche dal punto di vista ideologico è il pensiero di Toni Negri. Il nucleo originario delle tute bianche – centri sociali di Venezia, Padova, ecc. – dipendeva direttamente dall’autonomia veneta e lo stesso LBP bolognese rivendicava come unica paternità legittima Autonomia Operaia. Recentemente Negri ha sviluppato una teoria che vede nel neocapitalismo – quello per intenderci dell’abusato e vago concetto di globalizzazione – una forma storica che definisce Impero (T.Negri, M.Hardt, Empire, Exils, Paris, 2001). L’Impero altro non è che la gestione politica tecnica e amministrativa della globalizzazione, ovvero della forma contemporanea del “modo di produzione” del capitale. La globalizzazione non è negativa in sé; le biotecnolegie, Internet, ecc. sono fenomeni positivi, gli strumenti della prossima liberazione dell’umanità che avverrà non appena cambierà la gestione del potere, ora nelle mani sbagliate. E’ in questa prospettiva che s’inscriveva la strategia marxista-leninista delle tute bianche: oggi trattare per conquistare posizioni e spostare i rapporti di forza verso la gestione politica più auspicabile, domani impadronirsi del palazzo. E’ chiaro come dietro la fantasiosa interpretazione storica di Negri ci sia la riproposizione aggiornata della vecchia illusione del marxismo scientifico (poi socialismo reale) di poter sganciare da un giorno all’altro la fenomenologia del capitalismo (l’automazione negli anni Cinquanta, la globalizzazione oggi) dalla sua sostanza immutabile (il dominio dell’Economia sull’uomo) che mai viene messa in discussione. E’ una vecchia illusione che comporta come necessaria conseguenza strategica l’organizzazione pratico-teorica autoritaria (che delega qualsiasi forma di democrazia ed azione diretta alla realpolitik della rappresentanza e della contrattazione) e catto-sacrificale (che convince a non scagliare la prima pietra oggi per ritirare la ricompensa domani, nell’aldilà comunista, nella pace sociale eterna del paradiso collocato alla fine della storia) che ha contraddistinto le tute bianche.

4. CONTRO IL “SITUAZIONISMO”: IMPERO O TOTALITARISMO?

Diventa chiaro, alla luce di questo stupido positivismo rivoluzionario, il cardine strategico delle tute bianche, quello che svela la sua fratellanza ed il debito con il LBP di Bui, ovvero l’ossessiva ricerca dell’apparizione mass-mediatica, la convinzione di saper e poter sfruttare i media a proprio piacimento; ed è qui che la cattiva coscienza di Bui ha fatto emergere l’altrettanto ossessivo fantasma del suo atavico nemico.

«Anche nel caso della mobilitazione contro il G8 – scriveva Bui in una lettera a “Limes” del 30 giugno 2000 in cui raccontava i presunti successi storici delle tute bianche – le tute bianche hanno dimostrato una grande capacità di spiazzare, costringendo i media a interpretazioni schizoidi e all’incapacità di collocare stabilmente le tute bianche tra i “buoni” o tra i “cattivi”. D’altro canto, che le tute bianche siano tirate in ballo troppo spesso e a sproposito è altrettanto vero, ma è un effetto collaterale (sgradito, ve l’assicuro) di una “cura” che al movimento ha fatto e sta facendo bene. Non commettiamo il solito errore “situazionista”, che appena qualcuno comincia a capirti e il tuo messaggio “prende” significa che ti stanno fottendo, che ti “recuperano”, che fai parte dello “spettacolo”. Quest’impostazione è una macchina retorica che giustifica l’inazione e l’elitarismo, e va rifiutata.» (R.Bui, Lettera a Limes, 30 giugno 2001)

Ad ognuno il piacere di verificare post-factum come la supponente convinzione di spiazzare tutti si sia ritorta come un boomerang contro le tute bianche, accusate da destra, dal governo e da parte dell’opinione pubblica, di essere un’organizzazione sovversiva, e da sinistra, dalla base del movimento, di essere un’organizzazione riformista connivente con il potere politico. Intanto il 10 luglio, Bui ribadiva e specificava:

«E’ – affermava Bui, facendo riferimento alla strategia delle tute bianche – un approccio non-situazionista, che fa a meno di Guy Debord, nel senso che rigetta le letture paranoiche sul presunto potere dello “spettacolo”. Tutta la teoria tardo-situazionista, cioè del Debord post-‘68, può tranquillamente essere sintetizzata in questo modo: non contemplare MAI alcuna possibilità di vittoria. Le moltitudini degli spossessati non lottano per essere “radicali” o “irrecuperabili”, lottano per vivere, per strappare un altro giorno dalle grinfie della morte, per conquistare diritti. Da questo punto di vista, il “recupero” non esiste, è solo il rovesciamento allucinato e paranoico di una situazione in realtà auspicabile, cioè la conquista di nuovo terreno sul campo dell’egemonia culturale, perché il conflitto possa trovare consenso e non sia solo uno sterile esercizio para-estetico.» (R.Bui, Intervista a Raisat, cit.)

Bui attacca la teoria situazionista banalizzando il concetto di “spettacolo”, cercando di farlo passare come mero fenomeno mediatico. Nel suo vero significato lo spettacolo è invece molto di più, un’interpretazione della contemporaneità alternativa a quella negriana di Impero: “Lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale” (G.Debord, La società dello spettacolo, tesi 42). Dietro l’operazione di Bui si cela non tanto l’ignoranza del cuore della teoria situazionista, quanto il tentativo di screditare tutta quella parte del movimento che, incarnando (per lo più senza saperlo) (1) alcuni spunti di quella teoria, vive e contesta il capitalismo proprio come un sistema totalitario che estende il suo dominio reale sulle forme della vita quotidiana, una cappa opprimente il cui condizionamento investe non soltanto la miseria materiale del quarto mondo, ma tutti nella miseria emotiva del quotidiano, richiedendo quindi una critica radicale spontanea e generalizzata che non può essere delegata a nessuno e che va agita in prima persona. Da un lato c’è dunque un Impero di cui prendere il comando, dall’altro un totalitarismo che va rovesciato dall’interno. Da un lato il progetto di conquistare e gestire in altro modo il potere, dall’altro quello di dissolvere il potere stesso nella rivoluzione della vita quotidiana. Ai contestatori dell’Impero che insegnano alle persone a lottare per farsi concedere dei “diritti”, i nemici del totalitarismo capitalista ribattono che non ci sono diritti da elemosinare, ma la totalità della vita da conquistare. Ai primi che organizzano scontri e conflitti simbolici funzionali al mercato della rappresentazione politica, i secondi controbattono la necessità di rivolte autentiche e spontanee capaci di creare momenti di libertà immediati, effimere schegge spazio-temporali sottratte all’oppressione del dominio totalitario capitalista. Ai primi che hanno la legittimazione politica come unico mezzo strategico del proprio progetto di conquista del potere, il “recupero” appare come uno strumento necessario e indispensabile; ai secondi, che vorrebbero minacciare l’ordine del mondo con il progetto di un’insurrezione spontanea e collettiva, il recupero appare come il più subdolo degli strumenti repressivi. Ai primi che credono di poter sfruttare i mezzi di comunicazione del capitalismo e hanno strombazzato la gestione/organizzazione delle giornate genovesi per mesi, i secondi rispondono con il silenzio verso gli strumenti della menzogna del potere e si sono presentati in massa a Genova senza dire niente a nessuno.

5. VERSO GENOVA.

Con ottusa e presuntuosa fiducia le tute bianche hanno monopolizzato l’avvicinamento mediatico al G8. Mentre Casarini si è occupato del lavoro “grezzo” con giornalisti della grande stampa e telecamere delle tv nazionali, Bui si è dedicato a quello più oscuro e raffinato con Internet e gli altri ambienti dove la sostanza dei contenuti conta (un po’ di) più della semplice apparizione. Ed è proprio su Internet che pochi giorni prima del G8 è comparso un documento intitolato Pompieri della rivolta. Il testo, diffuso in tre lingue, proponeva la stessa analisi di Manconi rovesciata di segno; come l’articolo di Manconi voleva legittimare le tute bianche agli occhi della sinistra progressista, così questo volantino anonimo voleva screditare le stesse agli ignari manifestanti stranieri che si apprestano a calare su Genova.

«Le tutine – recita il brano centrale del volantino – si sono appropriate del termine “protesta di Seattle” parlandone all’infinito, ma la realtà delle cose, noi che li abbiamo visti in azione diverse volte, ci raccontano che lo spettacolo procede così. Prima parte: dichiarano guerra, riempendosi la bocca con paroloni e asserendo di poter chiudere o impedire questo o l’altro meeting di turno. Seconda parte: chiedono manifestazioni autorizzate e collaborano con la polizia e con i partiti politici che spesso partecipano alle loro proteste. Terza parte: si presentano alla manifestazione vestiti di tutto punto, caschi e protezioni, si mettono in prima linea, vigilano, con i loro imponenti servizi d’ordine, affinché nessuno abbia la malaugurata idea di fare qualcosa di diverso (soprattutto di colpire direttamente i luoghi del capitale) e che la marcia si svolga quindi senza “problemi”. Quarta parte: ecco dove cercano la loro credibilità rivoluzionaria, negli scontri con la polizia! Solitamente si scontrano alla fine della manifestazione con scudi di plastica e caschi, cercando di sfondare per entrare nella zona proibita. Scontri farsa! Durano qualche minuto e con la massima attenzione a che le televisioni siano presenti, per lamentarsi poi più tardi degli “inauditi” attacchi della polizia. Si noti che la polizia non usa mai gas lacrimogeni che sono la loro arma favorita durante altri tipi di scontro. Ma è con questa farsa che le tute bianche si costruiscono il consenso; la loro intenzione sembra essere quella di captare sempre più gente potenzialmente arrabbiata e disposta ad attaccare il potere e trascinarla in un passivo non-far-niente o comunque solo mero spettacolo. […] La loro apparenza vi lascia credere che sono un movimento rivoluzionario, ma ciò a cui realmente tendono è trasformare la protesta in compromessi istituzionali, in spettacolo per la stampa, riducendo tutto alla ricerca della “pace sociale”.»

Visto con il senno di poi, questo volantino sembra presagire il misero naufragio delle tute bianche sulle barricate erette dagli “utili idioti” anarchici nelle vie di Genova. Ma neppure nel peggiore degli incubi Bui e gli altri avrebbero immaginato qualcosa di simile. Pochi giorni dopo arriva la lunga risposta delle tute bianche, scritta direttamente in inglese e diffusa in Internet. Il testo, anonimo, è soprattutto un collage di brani di Roberto Bui tradotti in inglese; tre sono stralci della lettera scritta da Bui a Limes il 30 giugno, uno è addirittura una autocitazione della lettera alla lista Movimento scritta da Bui l’anno prima. Proprio quest’ultimo è il passo più significativo:

«…”antagonisti” logorati da anni di livori, paranoici analisti di complotti e tradimenti della Causa, tristi affittuari di vite sprecate ad attaccare chi sembrava collocarsi un quarto di millimetro più a destra di loro. Mai un attimo di gioia o di volontà di vincere almeno uno straccio di battaglia: sempre e solo sconfittismo, risentimento e bava essiccata agli angoli della bocca. Chi trae la propria identità dalla contrapposizione allo status quo anziché dalla gioia del farsi comunità si opporrà sempre a qualunque cambiamento sociale. Ecco, questo è “Movimento”. Un luogo triste e nero di putredine.» (da GIAP, giugno 2000, citato in Roberto Bui, Lettera aperta a Movimento e ai compagni che gestiscono ECN, 22 giugno 2000)

Questo è il commento che nel giugno 2000 Bui dava della piazza telematica dove s’incontravano molti degli accaniti oppositori delle tute bianche e che, per estensione, adesso, nel luglio 2001, allargava a tutti quelli che si apprestavano a calare su Genova determinati a non partecipare alla loro parata spettacolare. La migliore risposta alla magnifica accusa di essere dei perdenti, arriverà subito dopo Genova, proprio da uno di questi lividi antagonisti e proprio da quel luogo triste e nero di putredine:

«Il bla-bla-bla di questi eterni sorpresi dalle mosse degli altri, questa gentaglia che ha sempre perso e fatto perdere ma che da sempre si arroga il diritto di spiegare od imporre le strategie sul come si dovrebbe vincere, su cosa è politicamente utile e cosa dannoso alla “causa”, il piagnucolio sulla “sospensione dello stato di diritto”, sulla “notte cilena”, sul movimento di buoni e giusti cittadini in cerca d’un mondo migliore aggrediti “dall’alto” dall’intolleranza del potere e dal “basso” dai provocatori, dalla frange del disagio e della alienazione urbana, mostra ancora una volta in quale pattume umano, teorico e politico si dibattano, in un guazzabuglio infame di cinismo politico (quella Realpolitik che criticano nel potere, e di cui sono da sempre i tristi epigoni) ed incapacità di lettura. (Pane al pane, vino al vino, da www.ecn.org/movimento, 6 agosto 2001).»

6. 20 LUGLIO: FENOMENOLOGIA DELLA GUERRIGLIA URBANA

Come sia andata nei due giorni di guerriglia di Genova è ormai noto. Venerdì 20 luglio: dopo il corteo unificato per i migranti del 19 luglio e prima di quello del 21 luglio, è in programma la giornata delle piazze tematiche, in cui ogni gruppo manifesta con i propri modi in punti diversi della città. A noi interessano due parti di manifestazione. Da un lato quello che la stampa ha definito il black bloc e che noi adotteremo per un criterio di pura comodità (e di parziale verità cromatica), facendo però attenzione a non identificarlo con una presunta e inesistente organizzazione; dall’altro il corteo delle tute bianche. I cosiddetti black bloc scendono dalla collina di Albaro verso il quartiere della Foce verso le 12 e cominciano un assalto sistematico a banche, negozi, ecc. Disinteressati alla zona rossa e allo scontro con la polizia – tatticamente impossibilitata ad accerchiarli e materialmente impaurita dalla loro determinazione – fanno terra bruciata della città, liberandone gli spazi dal dominio quotidiano delle merci, delle automobili, delle carceri ecc. Quattro quartieri vengono attraversati dalla gaia scienza della distruzione sistematica, coinvolgendo larghe fasce della gioventù locale, (molti ragazzi di San Fruttuoso e di Marassi, quartieri popolari genovesi, sono stati visti aggirarsi in mezzo alle “tute nere”) e il silenzioso consenso di parte della popolazione locale. Poco dopo, verso le 14, il corteo delle tute bianche, ordinato, con un feroce servizio d’ordine interno (2), scende compatto per tentare l’annunciato assedio alla zona rossa. Il copione è il solito.  Come rivela il questore di Genova Colucci era stata accordata una “sceneggiata, e cioè, in cambio di un comportamento disciplinato, la violazione simbolica della “zona rossa” da parte di un gruppetto di manifestanti” (“La Repubblica”, 29 agosto 2001) (3). Ma le cose vanno diversamente; il territorio, all’altezza di Corso Gastaldi e Via Tolemaide è già stato liberato dal passaggio dei black bloc e non si presta più ad un uso pacificato e addomesticato; la tensione è alta e la polizia, depredata del dominio dello spazio urbano, non è più disposta a fare concessioni e differenze tra i manifestanti. Il gruppo di contatto che deve permettere l’avvicinamento concordato alla zona rossa (ne fanno parte cinque parlamentari dei Verdi e di Rifondazione, più Luca Casarini, Don Vitaliano e due esponenti della sinistra comunale di Venezia) non può far nulla. Così racconta Luana Zanelli (“deputata Verde, ex assessora del comune di Venezia, origini nel movimento ambientalista e nel femminismo della differenza, protagonista della stagione del dialogo fra la giunta Cacciari e i centri sociali del nord-est”, da “Il Manifesto”, 22 luglio 2001):

«Tutto è cominciato con l’incursione nel corteo dei primi Black Block, che sono stati fermati e disarmati non dai poliziotti ma dalle Tute Bianche. Gli agenti della Digos ci hanno chiesto di fermarci per controllare la penetrazione degli anarchici, ma non era vero: stavano bloccando il corteo, è partita la prima carica. Loredana De Petris e io abbiamo parlato con alcuni agenti della Digos che conosco, suggerendo che bisognava far ricomporre il corteo e lasciarlo avanzare fino alla linea rossa com’era stato concordato dal Gsf. Ci hanno risposto che se il corteo fosse arrivato alla rete della zona rossa, le forze dell'ordine non avrebbero potuto “gestire l’attacco” di 15.000 persone. Ma non c’era nessun attacco da gestire: c’era da concordare un segnale simbolico per le Tute bianche, bastavano cinque centimetri di zona rossa... ma non è stato possibile contrattare nulla. L’ordine, evidentemente, era di impedire alle Tute bianche di avvicinarsi, attaccandole prima. Piazza Brignole (zona gialla) era in pieno assetto di guerra. Nel frattempo il corteo era ormai fuori controllo per le stesse Tute Bianche.» (da “Il Manifesto”, 22 luglio 2001).

Che il corteo fosse fuori dal controllo delle tute bianche era cosa ben chiara alla polizia, che sapeva evidentemente molto meglio di loro stesse che buona parte di quelle 15000 persone delle loro idee e strategie non sapevano nulla e si trovavano lì più o meno per caso; così quando il corteo stesso viene aggredito dalla polizia e i leader battono rapidamente in ritirata, il grosso dei manifestanti decide di ribellarsi e di ingaggiare una dura battaglia consumatasi nel triangolo di strade comprese tra la ferrovia di Brignole, Corso Torino e Piazza Alimonda. Ed è proprio lì, in Piazza Alimonda, che uno di questi insubordinati, il genovese Carlo Giuliani, alle 17.30, cade sotto i colpi di pistola dei carabinieri. Qui il discorso non merita di andare oltre la constatazione dell’immediatezza con cui il portavoce delle tute bianche genovesi, Matteo Jade, del Centro sociale Zapata, si sia affrettato a contattare televisioni e giornali per specificare che Carlo Giuliani non era una tuta bianca, bensì un punkabbestia, uno squatter, uno degli “utili idioti” contro i quali le tute bianche avevano cercato di mettere in guardia il movimento (cfr. tutti i quotidiani del 21/22 luglio). Carlo Giuliani non era una tuta bianca né un black bloc né uno squatter; era uno delle migliaia di ribelli senza tute né bandiere che a Genova in quei giorni hanno semplicemente voluto esprimere l’insopprimibile esigenza di non voler più sopportare, di strappare per un giorno almeno lo spazio-tempo della propria vita al cappio soffocante dell’alienazione quotidiana. Sulla pretesa delle tute bianche di essersi volute fare portavoce di “moltitudini” (termine a loro caro) che non rappresentavano affatto, si rifletta su queste parole di Oreste Scalzone:

«Come si fa a fare per settimane una “guerriglia mediatica” dicendo “Violeremo la zona rossa, sfonderemo”, usare simbologie ossessivamente militari, guerresche salvo poi precisare “naturalmente, tutto è metaforico, ludico, lasciateci fare, veniamo con le pistole ad acqua…” e poi, a quelli che a sfondare ci vanno con le pietre, oppure, altrettanto simbolicamente, sfondano vetrine di banche o fanno riots, andare a dire che come minimo sono dei rozzi, che non capiscono i sottintesi, non hanno humour, e hanno rovinato tutto?… Come si fa a dare dei teppisti e dei barbari a coloro che hanno lanciato pietre e sfasciato vetrine, e poi gestire tutti assieme la morte di Carlo Giuliani? Carlo chi era?»

Ma lasciamo queste considerazioni ad altri e concentriamoci su un altro aspetto, un altro metro di giudizio degli avvenimenti: l’urbanistica. La psicogeografia della rivolta di Genova ci porta ad un confronto tra l’assedio delle tute bianche alla zona rossa, simbolo del potere dell’Impero, e la deriva devastatrice del black bloc attraverso la città, alla conquista liberatoria degli spazi della vita quotidiana. L’idea sinistroide delle tute bianche e del mondo che rappresentano è che i mali del mondo dipendono solo dal potere illegittimo di quei G8 che gestiscono male ciò che si potrebbe governare meglio e che la rivoluzione consisterebbe nel traghettare le “moltitudini” diseredate del terzo e quarto mondo verso quel presunto Eden che è l’Occidente opulento. In questa visione che non critica nulla del senso della vita quotidiana di chi vive in quell’Occidente, l’organizzazione dello spazio urbano non ha un ruolo decisivo se non come simbolo in situazioni straordinarie come quella del G8. La farsa spettacolare dell’assedio alla zona rossa, strumento urbanistico di uno stato d’eccezione, di una sospensione del cosiddetto “stato di diritto” (al quale evidentemente le tute bianche e quelli come loro credono), sottintende quindi l’idea che ci sia bisogno di soprusi eccezionali per attaccare l’ordine di un mondo altrimenti accettabile; come se le nostre città di tutti i giorni, quando non sono ostaggio di gabbie assurde, fossero lo strumento di una vita quotidiana appassionante; come cioè se non meritassero di essere criticate, saccheggiate, distrutte e ricostruite tutti i giorni. Contro tutto questo, la devastazione di banche, negozi, automobili suona come un duro richiamo alla ben più dura realtà del mondo; rappresenta la concretizzazione urbanistica della critica della vita quotidiana, la messa a soqquadro delle categorie mentali ed esistenziali di tutti, perché tutti costruiamo ogni giorni la prigione nella quale viviamo; non più finta contestazione dei simboli dell’Impero ma assalto reale a uno degli strumenti più efficaci del dominio totalitario capitalista: l’organizzazione quotidiana degli spazi della città, il panopticon urbano che ci controlla e reprime 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno. L’assedio simbolico e spettacolare alla zona rossa sta alla teoria negriana dell’Impero come la guerriglia urbana per le vie di Genova sta alla critica situazionista della vita quotidiana:

«Quando rompiamo una vetrina vogliamo distruggere la fragile facciata di legittimità dietro cui si nasconde la proprietà privata. Allo stesso tempo ci liberiamo delle relazioni sociali distruttive e violente che ci sono state inculcate. Distruggendo la proprietà privata, trasformiamo il suo scarso valore in un qualcosa di più prezioso. Buttar giù una vetrina fa finalmente entrare una ventata di aria fresca nell'asfissiante ambiente dell'ennesimo punto di distribuzione di una catena multinazionale, l'incendio di un cassonetto di immondizia diventa sorgente di luce e calore per strade e anime, i graffiti sulla facciata di un palazzo in centro sono messaggi per su una gigantesca lavagna, idee per un mondo migliore. Dopo le manifestazioni nessuno vedrà più nello stesso modo una vetrina o un martello. L’uso potenziale di una città si è moltiplicato per mille.»

Così scrivevano alcuni ribelli a Seattle nel 1999. Confrontatelo con quanto scrivevano i situazionisti nel 1961:

«Tutto lo spazio è già occupato dal nemico che ha addomesticato a suo uso persino le regole elementari di questo spazio (oltre la giurisdizione: la geometria). Il momento di apparizione dell’urbanismo autentico consisterà nel creare, in certe zone, il vuoto da questa occupazione. Quello che noi chiamiamo costruzione comincia lì. Può comprendersi con l’aiuto del concetto di “buco positivo”, forgiato dalla fisica moderna. Materializzare la libertà, è anzitutto sottrarre ad un piano addomesticato alcune particelle della sua superficie.»

Genova è stato poco più che una scintilla nel buio assoluto di molti anni, ma ha prodotto due risultati concreti. Ha spazzato via l’esistenza dell’organizzazione/repressione del dissenso portata avanti dalle tute bianche e ha dato un esempio concreto della liberazione dello spazio e del tempo della vita quotidiana, ovvero delle strade, dall’oppressione totalitaria del capitalismo. Il primo è un dato oggettivo, sotto gli occhi di tutti; il secondo è invece, purtroppo, una sensazione soggettiva che può essere compresa soltanto da chi era per strada; chi non c’era è stato inevitabilmente risucchiato dal gorgo mediatico ed ha sprecato la propria attenzione nello stupore per la repressione poliziesca e per la sospensione dello stato di diritto e nell’interesse per le farneticazioni varie e assortite sulla presenza di infiltrati, teppisti e neonazisti.

7. DOPO GENOVA. NE’ REVISIONISMI, NE’ ORTODOSSIE

«Da Genova sono tornato sfinito, infuriato, febbricitante, coi legamenti delle ginocchia logorati, senza un filo di voce e dico: non scateniamo la caccia all’anarchico. È difficile mantenere l’equilibrio, distinguersi “con forza” da una pratica (quella del Black Bloc) al contempo facendo capire che quella pratica ha – o perlomeno ha avuto – una sua “storicità” e coerenza, e non corrisponde in alcun modo a quanto si è visto a Genova, dove il “vero” Black Bloc proprio non si è visto. (R.Bui, Il magical Mistery Tour del falso Black Bloc a Genova, da GIAP, nuova serie, n°1, 26 luglio 2001).

Così comincia il documento che Bui ha scritto a caldo subito dopo le giornate di Genova, sicuramente l’intervento più lucido e pericoloso tra quelli dei nemici della rivolta di Genova. Tutte le componenti della sinistra cadono nel delirio assoluto: Casarini e le tute bianche si bloccano tra l’incudine della diffidenza del movimento e il martello della volontà di repressione di stato, e soltanto una parte della sinistra progressista cerca di recuperarne l’importante lavoro fatto in questi anni per il recupero politico della gioventù post PCI (è soprattutto Cacciari a prodigarsi nel dividere i buoni dai cattivi per evitare, come afferma lui stesso, che “la terza generazione di giovani si perda alla violenza”); tutti, indifferentemente, coloro che credono nella democrazia e nei suoi diritti, gridano invece scandalizzati contro la repressione poliziesca. In questo contesto Bui tenta la mossa revisionista, appellandosi all’esistenza di un “vero” black bloc di cui recuperare le potenzialità politiche “costruttive” sottraendone le istanze agli “utili idioti”, ai falsi black bloc, rozzi incivili incapaci di contenere la loro ansia di rivolta. Bui ricostruisce in modo assurdo le giornate del G8; mentre nel mese successivo l’intero apparato delle forze dell’ordine italiano verrà sommerso da furiosi attacchi esterni e divorato da altrettanto feroci faide interne sulla pessima gestione delle giornate, Bui vede in ogni mossa l’azione premeditata e perfettamente coordinata di infiltrati della polizia e di hooligans neonazisti. Detto – come avevano capito Burgess e Kubrick con un acume inversamente proporzionale al pietismo di Pasolini – che la pavida codardia ed il meschino conformismo intrinseci alla sua umana natura spingono il vero fascio ad arruolarsi nella polizia per esercitare in modo legale il diritto alla violenza piuttosto che a proclamarsi nemico della società e a rischiare trasferte pericolose come quella di Genova (4), non resta che constatare che eventuali presunti neonazisti, teppisti di strada o tifosi senz’arte né parte che abbiano partecipato alle devastazioni di Genova, si sono ribellati concretamente alle condizioni oggettive che creano la loro rabbia quotidiana – pur mal compresa e peggio esercitata nel resto della loro vita – in modo più ammirevole di chi si riempie la bocca del cadavere di programmi rivoluzionari già morti ancor prima di essere svenduti per i due centimetri di marciapiede contrattati con la questura di turno. Oltre che rivelare una mentalità paranoica, l’operazione revisionista di Bui ha uno scopo più subdolo su cui vale la pena di spendere le ultime considerazioni. Ai rivendicatori di un’ortodossia black bloc (quelli presunti che Bui testimonia di aver visto andarsene schifati da Genova il venerdì sera e quelli reali che hanno voluto farsi portavoce di un movimento che non esiste nei giorni successivi), ovvero ai presunti professionisti della guerriglia urbana che spaccano in modo scientifico, puritano e funzionalista soltanto le vetrine delle banche come simboli del capitalismo, va infatti rinfacciata la piena legittimità dei ribelli dilettanti (che agiscono per diletto) che, presi dal furore dionisiaco della rivolta, si abbandonano alla devastazione generosa di un’organizzazione dell’alienazione dello spazio urbano che va ben oltre gli spazi occupati dalle banche. Solo una cieca ottusità può pensare di razionalizzare secondo criteri di moralità o utilità politica il gesto gratuito e passionale della distruzione, inibendo la sfrenatezza del piacere che è invece l’unica garanzia di autenticità e di senso di una rivolta. Proprio Genova offre il migliore esempio di quel ricatto pietistico della difesa ad oltranza dell’accettazione della miseria umana che sta alla base della stessa morale rinunciataria che si preoccupa di salvare dal fuoco della rivolta l’automobile proletaria o la piccola proprietà privata: gli operai dell’Ilva di Cornigliano che scioperano in difesa del loro oppressore Riva contro la chiusura di quelle acciaierie che sono la fonte della loro schiavitù e della malattia mortale dell’intero quartiere di Cornigliano – difesi ad oltranza da tutto l’arco della sinistra, istituzionale e non – sono l’immagine specularmente inversa, nonché i peggiori eredi, dei loro gloriosi antenati, i primi nemici del totalitarismo capitalista: i luddisti. Finché non scardineremo le solide fondamenta della sopravvivenza generalizzata, ovvero i nostri “diritti” e le nostre “proprietà private”, non si uscirà mai dalla tristezza dell’alienazione quotidiana. E soltanto quando si rinuncerà a ragionare in termini di simboli, che siano zone rosse o banche, il flusso dirompente della storia potrà spazzare via le acque stagnanti delle finte ribellioni o delle rivolte misurate.

8. CONCLUSIONE

Un mese dopo i fatti di Genova, domenica 26 agosto, è ripreso il campionato di calcio italiano. Gli occhi della stampa sono tutti centrati sui tifosi; in una partita di precampionato, nella curva della Lazio, notoriamente di estrema destra, compare uno striscione dal titolo “Ideali diversi… Onore a Carlo Giuliani”, in altri stadi, tra cui quello di Genova in occasione della prima del campionato, carabinieri e poliziotti vengono colti al grido di “Assassini”. Già, con cautela, prima delle calde giornate genovesi e senza freni poi nel mese successivo, il delirio giornalistico ha cercato di liquidare il fenomeno black bloc come una diramazione del teppismo da stadio. Questa tipica forma di schizofrenia mediatica – a metà tra il lucido desiderio di occultare/si la verità e l’ottusa autoconvinzione – ha un fondo di verità storico (il disagio “insensato” dell’hooligan) e un ottimo valore di similitudine, nei termini in cui lo si può dedurre da quanto scrive uno dei più noti opinionisti calcistici italiani, Gianni Mura, alla vigilia del suddetto campionato:

«Quando l’Italia era un paese normale (più povero e più dignitoso) i tifosi erano spettatori paganti, battevano le mani o fischiavano, stop. Il pubblico è il dodicesimo giocatore, sentenziò Helenio Herrera. Ma stava ancora al suo posto. Poi pian piano, col tifo organizzato, è nato lo spettattore, ossia lo spettatore che non vuole solo godersi lo spettacolo ma farne parte, diventare attore. E nemmeno sullo sfondo, da coro greco, ma da protagonista.» (G.Mura, Il calcio ricattato dagli ultrà, da “La Repubblica”, 24 agosto 2001).

Come l’industria calcistica ha allevato per decenni spettatori totalmente passivi e si trova ora ostaggio di orde di neobarbari devastatori, così l’industria dell’antagonismo politico si è illusa di poter allevare una generazione di disobbedienti civili e si è trovata sommersa da orde di violenti “nichilisti”. Non c’è che dire: i barbari son tornati e l’Impero finalmente vacilla…

«Di certo come area della disobbedienza civile si è peccato di eccessivo politicismo e si è sottovalutato l’avversario, e tutto va ripensato. La disobbedienza civile come l’abbiamo conosciuta negli ultimi due anni non è più praticabile.» (Roberto Bui, 23 luglio 2001)


NOTE
(1) Dico questo, perché le definizioni molto nette che seguono sono chiaramente frutto di una mia astrazione interpretativa del tutto personale e non trovano riscontro diretto in nessun testo o manifesto di un’area molto sfaccettata che si compone di piccoli gruppi fortemente politicizzati tanto quanto (se non di più) di singoli individui difficilmente assimilabili in categorie omogenee.
(2) Come sintesi delle innumerevoli testimonianze di aggressioni e pestaggi ai danni di manifestanti italiani e stranieri che, spesso ignari della natura delle tute bianche, si abbandonavano al piacere di “liberare la fiducia nelle proprie tentazioni” rivoltose, valga la seguente testimonianza diretta di un Wu-Ming, amico e compagno di lavoro di Bui: "Avevo i nervi tesi quel sabato mattina, quando le nostre strade si sono incrociate per la seconda volta. Tutti avevamo i nervi tesi. Dopo quello che era successo venerdì, il riot, le infiltrazioni, il ragazzo ucciso, nessuno si fidava più di nessuno. Ogni spezzone del grande corteo di massa aveva la consegna di autodifendersi. Dai provocatori, dagli infiltrati, dai casinisi sfasciatori con le mazze. Bisognava evitare che le famiglie, i signori e le signore di cinquant’anni, i nostri genitori, ci andassero di mezzo… E tu, poveraccio, ti sei trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Eri lì seduto, e tenevi la mazza nascosta in un giornale.. Noi te l’abbiamo spiegato che non potevi rimanere lì, ai bordi del corteo, col bastone. Che dovevi mollarlo o andartene a fare in culo lontano da lì. Ma tu hai voluto fare il duro, ci hai detto di farci i cazzi nostri. Tu, coglione!, il giorno dopo che c’era stato un morto in piazza, dopo che i carabinieri infiltrati ne avevano fatte di tutti i colori, tirandosi dietro ogni scoppiato che volesse sfasciare vetrine e incendiare macchine, dopo tutto questo, con la paranoia che ci aveva contagiati tutti e i nervi a fior di pelle, tu, coglione!, vieni in manifestazione (una manifestazione pacifica di migliaia di persone) con la spranga! E per di più ti fai trovare nel nostro spezzone. Io non volevo incrinarsituati due costole. Io non sono un picchiatore né un violento. Che tu ci creda o no mi sono buttato su di te per proteggerti, coglione che non sei altro!, perché i miei compagni, in preda alla paura e alla paranoia, potevano disfarti la faccia a calci. Mi sono buttato su di te urlando “Fermi! Fermi!” per evitare che ti facessero male sul serio. Solo che peso ottanta chili”. (Wu Ming 4, Mi dispiace per le tue costole, da “GIAP”, 26 luglio 2001).

(3) A conferma, riportiamo anche una concordante testimonianza delle stesse tute bianche: “Tutto questo è successo nonostante le forze dell’ordine fossero state preventivamente informate su modalità e tempi della nostra manifestazione: gli si era pure detto che a noi bastava che ci mettessero di fronte i blindati con le reti, per mettere in scena un po’ di resi - stenza, buona per i media, per raggiungere i nostri obiettivi di novelli disobbedienti civili” (Danilo Molliconi, Con Carlo prima di morire, in “Diario”, agosto 2001, p.50).

(4) A due terzi del film Alex incontra due dei suoi vecchi compagni di ultraviolenza, arruolatisi nel frattempo nella polizia, che affermano: “Per dei vecchi drughi come noi il lavoro più adatto è questo: poliziotti”. Sempre a proposito del profetismo di Arancia meccanica, immaginiamo un prossimo venturo incontro tra le tute bianche, i ds e la polizia; quando più nessuna delirante categoria partorita dalle loro ottusità complementari riuscirà a spiegare il fenomeno dell’ultraviolenza delle tute nere, non è escluso che i nostri firmeranno un programma di rieducazione sociale simile a quello toccato in sorte al mitico Alex, dove solo la genetica cercherà di spiegare lombrosianamente perché tanti giovani non riescono a godersi i piaceri del progresso.

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