Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

* * *

«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

* * *

«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

24 luglio 2009

Miseria dell’antimperialismo



La nazionalità dell’operaio non è serba, albanese o greca;
essa è il lavoro,  la libera schiavitù, il mercanteggiamento di sé.
Il suo governo non è serbo, albanese o greco; esso è il capitale.
L’aria della patria non è per lui quella serba, albanese o greca;
ma è l’atmosfera irrespirabile dell’officina sociale.
(Karl Marx)

Imperialismo e capitalismo non sono in alcun modo distinguibili. È a partire da questo dato che ci schieriamo contro tutti gli imperialismi: non solo quello targato USA, ma anche quello europeo, russo, cinese, iraniano, indiano, ugandese etc. Ogni stato capitalista è, per sua stessa natura, imperialista; in quale misura esso riesca a mettere in atto questa vocazione, dipende soltanto dalla posizione che occupa nel mercato mondiale e dalla potenza militare che può dispiegare. Non esiste né può esistere un capitalismo pacifico o “umanitario”, e neppure si tratta di una questione di buona volontà, giacché l’alternanza guerra/pace è strettamente funzione dell’accumulazione del capitale e della sua dinamica inerziale.

La presente organizzazione sociale, per conservarsi, deve produrre miseria, distruzione e morte. Si mettano il  cuore in pace le anime belle che esultarono dopo l’elezione alla presidenza degli States del progressista Obama (il quale, per altro, ha già dato un saggio di ciò che andiamo sostenendo con l’invio di un ulteriore contingente di 30.000 soldati nel deserto afghano): a dispetto di tutti gli orpelli mediatici, quello che si estende davanti all’umanità è un orizzonte quanto mai cupo. D’altra parte, il gattopardismo del capitale, lo spettacolo stantio dei falsi antagonismi che esso mette in scena affinché nulla di ciò che è essenziale venga rimesso in questione, ormai mostra la corda. Solo pochi ingenui, per lo più militanti sinistrorsi obnubilati da anni di cretinismo parlamentare inoculato in dosi massicce, continuano a credere alla menzogna elettorale e a entusiasmarsi per un banale cambio di governo. Nondimeno, negli altri, i disincantati, prevale lo scoramento, l’impotenza, il cinismo, l’individualismo.

La guerra non è che la manifestazione estrema del dominio totalitario dell’Economia, di un sistema di sfruttamento alla cui base è la negazione della vita. Quest’ultima prende forma nelle bombe esportatrici di democrazia come nella morte somministrata a piccole dosi – anche e soprattutto nei paradisi mercantili d’occidente – di una vita senza senso, fatta di isolamento, alienazione, noia: morte relazionale e affettiva.

Ci schieriamo quindi contro tutti i nazionalismi, gli eserciti, le guerre di “liberazione nazionale”, le patrie piccole e grandi, le identità etniche e religiose; insomma, contro tutti gli Stati, presenti, passati e futuri, democratici, dittatoriali e persino “operai”. Consapevoli che è, questo, soltanto un degli aspetti di una totalità sociale che deve essere distrutta dalle fondamenta.

Tutto ciò non può non implicare una radicale inimicizia nei confronti dell’ideologia “antimperialista”; ideologia reazionaria che, mentre con una mano brucia la bandiera statunitense e israeliana, con l'altra innalza i vessilli delle borghesie palestinese, basca o irachena – e, sotto sotto,  quello dell’imperialismo europeo... E finge di dimenticare che a ogni conflitto militare si accompagna, sul fronte interno, la guerra contro i proletari, l’attacco alle loro condizioni di esistenza, in Palestina come in Israele, a Los Angeles come a Baghdad.

Laddove la crisi strutturale che attanaglia il capitalismo mondiale da oltre un trentennio inizia a manifestarsi in tutta la sua virulenza, apparecchiando nuovi e inquietanti scenari di guerra, è di fondamentale importanza ribadire con forza e coerenza la posizione internazionalista che da sempre è patrimonio delle minoranze radicali. Così come è necessario affermare che i futuri movimenti sociali, che si auspica si svilupperanno in opposizione alle sempre più numerose e sanguinose guerre del capitale, dovranno essere in primo luogo capaci di sabotare materialmente il dispositivo bellico all’interno dei rispettivi “territori”, pena l’essere relegati, ancora una volta, in un ruolo di impotente e spettacolare testimonianza. Si tratta, in certo modo, di riallacciarsi alle lotte antimilitariste delle generazioni proletarie passate, le cui forme certamente richiedono di essere aggiornate, ma che ebbero il pregio di andare sempre ben oltre, quanto a determinazione ed efficacia, le sfilate belanti dei pacifisti d’ogni risma.

Negli anni tra le due guerre mondiali, le socialdemocrazie occidentali, di concerto con i gestori del capitale di stato sovietico e le loro appendici – i partiti sedicenti comunisti – riuscirono a fare pressoché tabula rasa della tradizione internazionalista del proletariato. Anche l’anarchismo “ufficiale”, già a partire dal 1914, con l’adesione di alcuni suoi esponenti alla causa dell’Intesa, e soprattutto negli anni Trenta, con la partecipazione di fatto ai fronti antifascisti, diede il proprio nefasto contributo. A partire dagli anni Cinquanta, il pacifismo e l’antimperialismo nostrani furono poco più di una cortina fumogena dietro la quale si celava la politica estera filosovietica del Pci (che, d’altronde, faceva il paio con la totale subordinazione, sul piano interno, agli interessi del capitale nazionale): “imperialismo” era sempre e soltanto quello americano!

Il gauchisme degli anni Settanta e i suoi degni eredi (ancora, ahinoi!, in circolazione) si sono collocati – non c’era da dubitarne – nello stesso solco. Così, ogni qual volta due opposte frazioni del capitale mondiale entrano in conflitto, questi “attivisti”, sempre in cerca di una causa per cui militare, si sentono in dovere di schierarsi come bravi soldatini con l’uno o con l’altro campo, sia in nome dell’antifascismo, dell’antiamericanismo o dell’autodeterminazione dei popoli. “Viva l’eroica Resistenza del popolo iracheno!”. “Viva la Libertà del popolo palestinese!”. “Abbasso il tiranno imperialista americano!”. E giù con gli slogan truculenti e le bandiere nazionali! (A proposito del concetto di “popolo”, vero e proprio pilastro dell’ideologia nazional-borghese, vale la pena ricordare che già 150 anni fa il vecchio Marx, polemizzando con Bakunin, lo aveva definito testualmente un’“asineria”!). Questo tipo di atteggiamento, e l’ideologia che lo sostiene, devono essere criticati senza tregua e senza compromessi.

Quanto a noi, siamo convinti che soltanto il ritorno dei proletari alla loro vocazione internazionalista e a un coerente disfattismo rivoluzionario, potrà fermare i massacri che in misura crescente insanguineranno il pianeta. E porre ancora una volta l’alternativa secca: guerra o rivoluzione sociale, distruzione della specie o comunità umana.

* * *

[Quella che segue è una discussione che ha avuto luogo su Indymedia, a seguito della pubblicazione di Miseria dell'antimperialismo] 

Toh! Un altro castellano...

Toh! Un altro castellano che parla dalla torre d'avorio dei massimi sistemi.
Facile applicare i massimi sistemi alla realtà sociale. Permette di rimanere sempre sul generale.
Facile rimanere puri quando si vive sulla torre d'avorio, lontani mille miglia dalle contraddizioni sociali.
Facile dire: il proletariato non ha nazione, e pensare che questo possa cancellare centinaia di anni di differenze culturali, etniche, religiose.
Sono perfettamente d'accordo che l'unica differenza tra gli Stati del mondo è solo nella grandezza dei loro denti e che nelle lotte antimilitariste a senso unico si nasconde lo schierarsi con questo o quell'altro imperialismo.
E questo è succeasso in passato, vedi manifestazioni antiUSA durante la guerra del Vietnam, che nascondevano il gioco dell'imperialismo europeo e di quello russo, e succede tuttora quando ad esempio degli italiani bruciano la bandiera statunitense, quando prima di tutto dovrebbero bruciare quella italiana.
Ma vaglielo a dire ai proletari, ai contadini, ai pastori palestinesi o curdi. Schiacciati dalla morsa di Stati non riconducibili alla propria etnia e/o nazionalità. Prova a dirgli "il proletariato non ha nazione". Come potrebbero fare i conti con le loro borghesia nazionali se prima di tutto vengono sfruttati, derubati, uccisi dallo Stato e dalle borghesia di altre nazioni, immensamente più forti delle loro borghesie nazionali?
Sono d'accordo col principio generale: "gli sfruttati non hanno nazione" ma penso allo stesso tempo che palestinesi e curdi hanno tutto il diritto di bruciare le bandiere israeliane e turche. Loro si che ce l'hanno! perchè se prima non si liberano da questi oppressori come potranno rivolgere la loro attenzione contro i borghesi loro connazionali?
In quanto alla polemica tra Marx e Bakunin è trattata in maniera molto superficiale.
Bakunin parla di "popolo" perchè per gli anarchici e in genere per i comunisti antiatoritari, non è solo la classe operaia la classe sociale a subire le contraddizioni del capitalismo.
Ma la cosa più triste e squallida di questo articolo è come viene liquidata l'esperienza anarchica e comunista libertaria della Spagna del 1936. Una rivoluzione sociale della classe operaia, dei contadini e di tutti gli sfruttati viene ridotta ad un semplice fenomeno di "frontismo" antifascista.
Scendi dalla torre, smetti di pontificare, vieni a sporcarti le mani in questo mare di merda che è la società del dominio dello Stato e del Capitale.

Concordo totalmente con l'autore dell'articolo
Inserito da solidarity (non verificato) il Sab, 25/07/2009 - 16:07

Concordo totalmente con l'autore dell'articolo....
il fatto che i lavoratori (di qualunque paese, non solo palestinesi o curdi) non comprendano immediatamente che "il proletariato non ha nazione" è perfettamente normale... è l'ideologia dominante che li divide e li mette l'uno contro l'altro. Accade anche tra lavoratori italiani e gli stranieri che "rubano il lavoro".
Ma un rivoluzionario dovrebbe cercare di diffondere le proprie idee, non di adeguarle a quelle dell'ideologia dominante "per comodità".
Il palestinese che si fa esplodere su un pulman uccidendo lavoratori israeliani, non ha meno colpe del soldato israeliano che spara sui palestinesi. Entrambi lottano per i rispettivi stati, e per entrambi i rispettivi stati forniscono motivi ragionevoli per fare ciò che fanno. Decidere di parteggiare per l'uno o per l'altro (di solito per il più debole) in questa lotta, senza sottolineare la sua natura borghese e senza spingere perchè si trasformi in qualcos'altro, è una mossa reazionaria.
Se per ipotesi arrivasse davvero il giorno in cui rapporti di forza si invertono... saremo qui a bruciare le bandiere palestinesi e a difendere i poveri, deboli, israeliani?
Per quanto riguarda la Spagna, l'unico gruppo davvero rivoluzionario a mio parere è stato quello dei "los amigos de Durruti", frazione anarchica che si è staccata dalla CNT dopo la sua vergognosa alleanza con il fronte borghese.
Non sono quindi i marxisti, in questo caso, ad essere stati dalla parte giusta... ma nemmeno la maggioranza degli anarchici.

No, solidarity...
Inserito da zatarra - Sab, 25/07/2009 - 19:25

No solidarity, qui non si sta parlando di ideologia dominante ma di condizioni materiali reali degli strati più poveri di una popolazione i quali si trovano sottoposti ad un doppio dominio politico-economico, di cui quello "straniero" è molto più potente. In queste condizioni liberarsi dal dominio "straniero" è una tappa fondamentale senza la quale gli sfruttati non potranno prendere coscienza. Quella coscienza di classe che si acquisisce quando si è di fronte prevalentemente alla borghesia del proprio paese.
Non si tratta di "adeguarsi" alla ideologia dominante, si tratta di avere la capacità di adeguarsi alle particolari condizioni materiali e sociali di un certo periodo storico in un determinato territorio.
Ragionare ai massimi sistemi sensa senza considerare le peculiarità di una certa situazione storico-geografica è sterile e non fa fare nessun passo avanti.
Inoltre le differenze culturali tra popoli di arre geografiche diverse non esistono perchè generate dall'ideologia dominante ma nascono da diverse condizioni fisico-geografiche in cui nasce e si costituisce una certa comunità. Semmai l'ideologia dominante, oggi rappresentata dal Capitale, sfrutta queste differenze reali per dividere gli sfruttati. Mentre buona parte dei marxisti non ricoscendo queste differenze come facenti parte della differente storia delle varie comunità umane, ma pensando che siano generate solo dall'ideologia dominante, su questo terreno sono culturalmente perdenti nei confronti proprio dell'ideologia borghese.
Non si può applicare una teoria che tratta dei massimi sistemi alle realtà particolari senza cadere nel solo proclama di sterili slogan, perchè in queste condizioni c'è l'incapacità di fondo ad analizzare la realtà. La teoria marxista, se calata dall'alto come un insieme di proclami immutati dalla sua nascita, rischia di essere perdente nei confronti di molte ideologie borghesi, magari più spicciole e meno raffinate scientificamente, ma molto più vicine alle realtà dei territori.
In Spagna Los Amigos de Durruti non fu il solo gruppo anarchico ad opporsi alle scelte di una parte della CNT. Molte colonne armate scelsero di stare dalla parte degli oppositori. Così come gli anarchici ebbero al loro fianco i marxisti del POUM (per altro anche loro sterminati dgli stalinisti). Con questo non voglio nascondere gli errori fatti da una parte della CNT, ma non furono la maggioranza. La rivoluzione sociale spagnola fu sconfitta comunque non tanto per gli errori fatti, anche se ebbero la loro importanza, ma per la repressione scientificamente condotta dai franchisti, dai fascisti, dagli stalinisti e dalle allora democrazie borghesi europee.

È vero...

E' vero che tra diversi popoli possono esistere differenze culturali importanti, ma, come dici anche tu, queste differenze diventano contrapposizione violenta solo nella misura in cui vengono strumentalizzate dalle rispettive classi dominanti... se un gruppo rivoluzionario asseconda queste ideologie anzichè combatterle, di fatto diventa strumento (più o meno consapevole) di una delle fazioni in lotta.
Essere internazionalisti non significa essere fuori dalla realtà, anzi, significa avere la possibilità di comprenderla rinunciando ad usare le lenti dell'ideologia dominante, criticandola e mostrando come la contrapposizione tra 2 popoli NON è nell'interesse dei lavoratori ma dei loro "padroni". Il lavoro che secondo me andrebbe fatto è quello di mostrare come gli interessi dei lavoratori di tutti i paesi siano i medesimi, e siano inconciliabili con quelli delle classi dominanti che li mandano al macello per i loro profitti.
E' vero che un palestinese vede come nemico immediato l'israeliano che lo bombarda... ed è comprensibile che provi odio verso israele.
Stesso discorso vale per l'israeliano che teme di salire su un autobus.
Ma quali sono i motivi profondi di questa contrapposizione? Ci si bombarda perchè si appartiene a religioni diverse, oppure perchè si è pedine sulla scacchiera dell'imperialismo?
Compito degli sfruttati è quello di liberarsi del dominio, che sia "nazionale" o "straniero" fa differenza solo dal punto di vista, appunto, delle classi dominanti nazionali o straniere.
Che poi lo straniero sia più "cattivo", è solo una questione di rapporti di forza... il dominio straniero va combattuto non nell'interesse di quello nazionale, ma nell'interesse internazionale di tutti i popoli coinvolti: il nemico non è un paese ma una classe, e questa può sventolare qualunque bandiera.
Se questo sembra un discorso da "massimi sistemi", è solo perchè è molto distante da ciò che il potere ci comunica ogni giorno in tutti i modi... ma in realtà ci fa comprendere la realtà molto meglio delle varie ideologie, talvolta ridicole, che giustificano le guerre.
Per quanto riguarda la spagna, la rivoluzione è stata sconfitta nel momento in cui la CNT e il POUM hanno deciso proprio di affiancare frazione di borghesia democratica contro quella fascista, trasformando una guerra di classe in una guerra tra fazioni borghesi... entrambe impegnate nel soffocare la rivoluzione in tutti i modi.
Il discorso "prima si sconfigge il fascismo, poi si fa la rivoluzione" è conseguenza del non capire che la necessità dell'avvento del fascismo è stata una conseguenza proprio della guerra di classe che già incendiava la spagna. Il fronte repubblicano non è altro che un alternativa di sinistra nella gestione conflitto di classe, che andava spento in qualche modo, ad ogni costo.
La scelta è solo sul modo di reprimere la rivoluzione... e se si è visto nei fatti come il fronte repubblicano non sia stato meno spietato dei fascisti nel svolgere questo compito.
Se quella rivoluzione ci ha insegnato qualcosa, è che allearsi con i propri nemici porta inevitabilmente alla disfatta.
Tanto più se è proprio la borghesia a chiederci di unirci a lei per combattere un "nemico più grande".... che sia Franco o Israele.
Sono consapevole che oggi l'opzione internazionalista sia molto improbabile... ma secondo me è l'unica scelta possibile, se si vuole restare dalla parte giusta della barricata.

In parte sono d'accordo...

In parte sono d'accordo.
L'elemento che unisce tutti i diseredati della Terra è nella loro comune condizione di essere sfruttati economicamente o di essere emarginati dal sistema. E questo è quello su cui si dovrebbe fare leva per far in modo che l'opposizione, al Capitale a agli Stati di tutti i tipi e grandezze, divenga il più possibile generalizzata.
E' l'applicazione della teoria alla pratica che propone l'articolo che non condivido. Il comune riconoscimento della condizione di essere sfruttati a mio parere deve allo stesso tempo comprendere il reciproco riconoscimento e rispetto di culture differenti tra le diverse comunità territoriali di sfruttati.
Per quanto uniti dalla stessa condizione economica un lavoratore norvegese e uno siriano hanno ben poco da spartire dal punto di vista culturale. E questo nell'applicazione dei principi teorici alla pratica di tutti i giorni va considerato, altrimenti si rischia di rimanere lontani dai lavoratori stessi.
Anche perchè queste differenze non le ha inventate il Capitale e però l'espressione politica del Capitale queste differenze le mette bene a frutto per il suo scopo di controllo. E se noi rimaniamo su principi teorici generali siamo perdenti.
Per quanto riguarda la Palestina, non si possono mettere sullo stesso piano un israeliano ed un palestinese. Il primo è il cittadino di un paese occupante, il secondo subisce questa occupazione. E se il secondo non si libererà dell'oppressione dello Stato israeliano, difficilmente prenderà coscienza che tutti i padroni sono uguali.
Per quanto riguarda la Spagna del '36, e questo lo dico sia per me che per te, ragionare con il senno del poi lascia il tempo che trova, nel senso che con i "se" non si fa la storia. Sono d'accordo che l'errore fatto da una buona parte della CNT fu grave, ma allo stesso tempo credo che la rivoluzione sociale sarebbe stata schiacciata lo stesso.
Ma la mia critica iniziale all'articolo non era su questo punto, ma sul fatto che non si può ridurre tutta l'esperienza spagnola agli errori di alleanze fatte dalla CNT, dimenticando la parte più significante della rivoluzione sociale che riguarda la grande sperimentazione di comunismo libertario portata avanti da centinaia di migliaia di lavoratori e contadini attraverso l'esperienza della socializzazione dei mezzi di produzione e in genere della gestione libertaria di tutti gli aspetti economici e sociali della società.
Buona giornata e grazie per il costruttivo confronto.
zatarra

Nessuno vuole negare che esistano differenze culturali...

Nessuno vuole negare che esistano differenze culturali tra paesi lontani sia per la storia che per la geografia.
Solo non credo che queste differenze possano giustificare una divisione o peggio una contrapposizione tra i lavoratori dei rispettivi paesi.
Se ad esempio i lavoratori siriani e norvegesi un giorno si combatteranno, sarà a causa delle dinamiche economiche dell'imperialismo, e non del fatto che tra i due paesi ci sono differenze religiose/culturali ecc.... queste sono tutte scuse ideologiche per mettere i lavoratori l'uno contro l'altro (musulmani vs cristiani, bianchi vs neri.... ).
Le differenze tra i popoli, al di là del capitalismo, possono solo essere arricchenti per tutti.
I lavoratori palestinesi e israeliani sono uguali nel senso che condividono la stessa posizione di sfruttati in questi rapporti di produzione...
Sono diversi nel senso che appartengono a nazioni diverse, hanno culture diverse, e la potenza dei rispettivi stati è diversa.
ma voglio ancora sottolineare che il motivo per cui si combattono non è affatto la loro diversità culturale/religiosa...
In tutti i conflitti c'è sempre chi prevale, e in questo caso, per varie ragioni, è israele.
Fare il tifo per la nazione palestinese è come dire che si vorrebbe ribaltare i ruoli... e se accadesse, bisognerebbe cominciare a fare il tifo per la nazione israeliana e così via... non c'è via d'uscita, se non la pace borghese tra 2 stati separati.
Una volta comprese le cause reali dei conflitti e la divisione in classi che alla base degli stati, come si fa a scegliere di parteggiare per una delle due parti? da un punto di vista anticapitalista e quindi internazionalista, mi sembra impossibile.
Come si fa a partecipare a una guerra, a uccidere un proprio simile, solo perchè è nato in un altra nazione?
i propri interessi e quelli della nazione in cui ci si trova a vivere, non coincidono. Coincidono solo dal punto di vista della classe dominante nazionale, ma un lavoratore fa parte della classe antagonista ad essa, è sfruttato sia sul lavoro sia come carne da cannone.
Solo unendo i lavoratori di entrambe le parti contro l'unico nemico comune, si può mettere la parola fine alle guerre del capitale.
Se invece contribuiamo noi stessi a fomentare queste divisioni, giustificando e appoggiando uno dei due fronti, facciamo il gioco del nostro nemico... che dal mio punto di vista è il capitalismo e i suoi agenti, non il mio collega che parla un altra lingua.
Ammetto che se fossi un palestinese a cui hanno sterminato la famiglia, mi sarebbe molto difficile comprendere questo discorso.
Forse è proprio la nostra distanza da fatti così terribili, che ci consente di fare un analisi lucida della situazione senza farci travolgere da irrazionali sentimenti di vendetta... sentimenti ben capitalizzati da forse come Hamas.
ciao... e grazie a te per la discussione!

Sono d'accordo...

Sono d'accordo con te che se un giorno i lavoratori siriani e norvegesi si combatteranno, sarà per motivi economici e strategici, legati alle dinamiche imperialiste.
Ma la molla ideologica che li spingerà alla guerra saranno le differenze culturali, religiose ad esempio. Fomentate dall'ideologia dominante del Capitale.
Allora un rivoluzionario deve considerare anche la forma ideologica che nasce dalla condizione materiale, controbbattendola, propagandando non solo l'unita di classe attraverso il principio della medesima condizione economica e sociale di tutti i diseredati, ma anche propagandanto la tolleranza reciroproca delle diverse comunità territoriali. In questo modo si combatterà il Capitale non solo nell'aspetto economico ma anche in quello culturale, fondamentale nel perpretare il dominio altrettanto come quello economico.
Se è pur vero che le idee nascono dalla condizione materiale del genere umano è pur vero che queste idee una volta nate possono camminare con le loro gambe e influenzare a loro volta la sfera materiale.
Rispetto al tema della Palestina, la mia non è solo una posizione sentimentale, dell'anarchico che si schiera sempre col più debole, ma anche pratica. E' umano molto umano che un Palestinese veda come suo principale nemico non la borghesia come classe mondiale ma l'invasore israeliano, operaio o industriale che sia.
Solo quando l'intero popolo palestinese si sarà liberato dell'invasore allora potrà delinearsi con più chiarezza la lotta di classe tra il lavoratore palestinese e il borghese palestinese. Per me è nacessario che ci sia questo passaggio.
buonatte e... a presto se ne avremo voglia e tempo
zatarra

Risposta di "Les Mauvais Jours Finiront"

[...]

Per cominciare, vorrei precisare che questo testo è stato pensato come un (potenziale) volantino e che pertanto non era possibile, per ragioni di spazio, trattare in modo approfondito le diverse tematiche che vi sono toccate. Oltre a un generico moto di fastidio verso l'adesione acritica da parte di quel che fu il “movimento antagonista” all’ideologia antimperialista (eredità dello stalino-leninismo), che mi ha ispirato la stesura del testo, l’intento era principalmente quello di suscitare un minimo di discussione intorno a questi temi. Dunque, ben vengano confronti come quello che si è sviluppato qui su indy tra solidarity e zatarra.
Credo che solidarity abbia ben colto lo spirito di “Miseria dell’antimperialismo” che, in fin dei conti, non fa che riproporre, seppure in modo un po’ sommario, le posizioni internazionaliste delle minoranze radicali del ‘900: dalla Luxemburg ai comunisti dei consigli, dai “bordighisti” – che pure si divisero rispetto alle lotte di “liberazione nazionale” – a una parte, per quanto minoritaria, del movimento anarchico. Non ho quindi molto da aggiungere alle sue considerazioni. Soltanto un paio di annotazioni:
1) Nessuno nega l’esistenza di differenze culturali, linguistiche etc.. Ma non si deve dimenticare che non si tratta di differenze determinate puramente da fattori naturali, geografici etc., bensì da rapporti sociali storicamente definiti, fondati sull’alienazione, l’oppressione, la violenza. E questo vale tanto per il capitalismo quanto per le epoche e le formazioni sociali anteriori. Le aree territoriali culturalmente e linguisticamente omogenee, in epoca capitalistica, sono state la risultante di guerre, pulizie etniche e, in generale, di politiche statuali più o meno imposte con la forza (si pensi, ad esempio, all’introduzione dell’obbligo scolastico); questo, fino ai giorni nostri. È vero che, da un lato, il capitale utilizza le differenze “ereditate” – nelle quali, ripeto, vi è ben poco di “naturale” – per dividere gli sfruttati; ma è altrettanto vero che, nel suo movimento, esso tende a livellarle, standardizzando bisogni, modi di pensare, linguaggi, ideologie etc.; salvo poi reintrodurre differenze “culturali” e “identità” sempre più fittizie, ideologiche, cioè autonomizzate rispetto alle condizioni materiali di esistenza degli individui.
Detto questo, da un punto di vista internazionalista, radicale, libertario, comunista – o come si ritenga più opportuno definirlo – una volta riconosciute le differenze linguistico-culturali nella loro storicità (che implica necessariamente anche caducità), sarebbe paradossale attribuire loro una “legittimità” in quanto fondamento di “comunità nazionali” che sono un portato dell’epoca borghese. Alla base di una concezione rivoluzionaria, dovrebbe esserci, al contrario, per come la vedo io, un’idea di meticciato, di contaminazione reciproca e anche – perché no? – di conflitto tra le diverse “forme di vita”. Il che implica l’abbandono di ogni identità collettiva o individuale (“identità” come alcunché di stabile e immutabile, oltreché imposto ideologicamente dall’esterno).
2) Riguardo alla guerra di Spagna, solidarity ha già spiegato come, in quel caso, una potenziale rivoluzione sociale sia stata tramutata nel suo opposto: una guerra civile in cui due frazioni della borghesia spagnola, pur condividendo lo scopo di impedire qualsiasi esito rivoluzionario, si contendevano il controllo dello Stato, in nome e per conto delle principali potenze imperialiste europee (se dietro a Franco c’erano certamente Hitler, Mussolini e la Gran Bretagna, dietro il governo repubblicano c’era la Russia di Stalin). Se questo poté accadere fu anche perché la CNT e il POUM abbandonarono il terreno della lotta di classe, cioè della lotta rivoluzionaria contro il capitalismo, per collocarsi su quello dell’antifascismo, della democrazia e dell’alleanza con la borghesia progressista. E lo fecero non solo sul piano ideologico ma, molto concretamente, organizzando l’arruolamento e la partenza dei miliziani per il fronte e invitando i propri aderenti a sospendere qualsivoglia azione di lotta (scioperi etc.): la produzione doveva marciare a pieno ritmo, per sostenere lo sforzo bellico dello stato repubblicano. Tra i pochi gruppi rivoluzionari a mantenere, senza tentennamenti, una posizione coerentemente classista e internazionalista vi furono, allora, la sinistra comunista “italiana” (il gruppo che in Francia pubblicava la rivista “Bilan”) e il gruppo di Paul Mattick negli Stati Uniti. Per la Spagna, oltre agli “Amigos de Durruti”, bisogna ricordare anche la “Columna de Hierro”.
Quanto alle collettivizzazioni furono certamente un esperimento sociale degnissimo, sebbene, come evidenziarono i consiliaristi (che per altro in maggioranza si schierarono con il movimento anarchico, durante la guerra civile), per molti aspetti criticabile sul piano strettamente economico. Il limite principale del movimento delle collettivizzazioni, d’altronde, fu quello di non porsi in termini rivoluzionari il problema dello Stato – il quale, infatti, non appena ne ebbe la possibilità, lo stroncò. Questa deficienza del movimento affondava le proprie radici proprio nell’ideologia antifascista, cioè nell’idea che il nemico da combattere fosse in primo luogo il franchismo e non il capitalismo in quanto tale; e che solo una volta sconfitto il nemico ipoteticamente più temibile, si sarebbe potuta portare a termine la rivoluzione. Sappiamo come è andata finire…
A ben guardare, lo schema è identico a quello che gli “antimperialisti” applicano, mutatis mutandis, alla questione palestinese. Dopodiché, se si vuole, da un punto di vista psicologico, tutto è “comprensibile”: il palestinese disperato e plagiato da qualche capo popolo di Hamas, che si fa saltare su un autobus provocando una strage, come il soldato israeliano che, per difendere i “suoi compatrioti”, fa il suo lurido mestiere…
Sempre a proposito della questione palestinese, vi segnalo i due testi seguenti:

http://mondosenzagalere.blogspot.com/2008/12/fawda.html
http://mondosenzagalere.blogspot.com/2008/12/riproponiamo-qui-di-seguito-una-serie_30.html

Ciao,
F.

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