“La Banquise” (1983)
[Questo testo è stato pubblicato sul primo numero de “La Banquise” (1983), rivista animata da Gilles Dauvé (alias Jean Barrot) e da altri compagni francesi all’inizio degli anni Ottanta.]
Questa introduzione alla critica dei costumi è un contributo a una necessaria antropologia rivoluzionaria. Il movimento comunista ha una dimensione al contempo classista e umana. Esso poggia sul ruolo centrale degli operai proletari senza essere un operaismo, e va verso una comunità umana senza essere un umanismo. Per ora, il riformismo vive della separazione, assommando delle rivendicazioni entro sfere parallele senza mai metterle in discussione. Una delle prove della potenza di un movimento comunista sarà la sua capacità di riconoscere, poi di superare nella pratica il divario, persino la contraddizione, tra queste due dimensioni, classista e comunitaria.
Sono questo divario e questa contraddizione che si manifestano nelle ambiguità della vita affettiva e che rendono più delicata che mai la critica dei costumi.
Quel che segue non è un testo sulla «sessualità», prodotto culturale e storico allo stesso titolo dell’economia e del lavoro. La «sessualità» è nata con essi come sfera specializzata dell’attività umana, perfezionata e teorizzata («scoperta») sotto il capitalismo ottocentesco, da esso banalizzata nel XX secolo e superabile un giorno in una totalità di vita comunista.
Per le stesse ragioni, non si leggerà qui nemmeno una «critica della vita quotidiana». Quest’ultima esprime solo lo spazio sociale escluso dal lavoro e in concorrenza con esso. I «costumi» inglobano al contrario l’insieme dei rapporti umani nei loro aspetti affettivi. Non sono estranei alla produzione materiale (per esempio, la morale borghese della famiglia è indissociabile dall’etica del lavoro).
Dal momento che il capitalismo riassume a modo suo il passato umano che l’ha prodotto, non vi è una critica rivoluzionaria senza una critica dei costumi e dei modi di vita anteriori al capitalismo, quali quest’ultimo li ha integrati.
L’amore, l’estasi, il crimine
L’amore
Secondo i Manoscritti economico-filosofici del 1844, il «rapporto più naturale dell’uomo con l’uomo, è il rapporto dell’uomo con la donna». Questa formula è comprensibile e utilizzabile fin tanto che non si dimentica che la storia degli uomini è quella della loro emancipazione dalla natura mediante la creazione della sfera economica. L’idea dell’uomo come contro-natura, come totalmente estraneo alla natura è certo un’aberrazione. La natura dell’uomo è al contempo un puro dato biologico (noi siamo dei primati), e la sua attività di uomo che modifica dentro e fuori di sé il puro dato naturale.
Essendone parte, l’uomo non è estraneo alle condizioni naturali. Ma vuole conoscerle e ha cominciato a giocare con esse. Si possono discutere i meccanismi che hanno determinato ciò (in quale misura questo modo di procedere è il risultato delle difficoltà della sopravvivenza, particolarmente nelle zone temperate ecc.?), ma certo è che trasformando il suo ambiente, per esserne a sua volta trasformato, l’uomo si è posto in una posizione che lo distingue radicalmente dagli altri stati conosciuti della materia. Liberata da tutti i presupposti metafisici, questa capacità di giocare, in una certa misura, con le leggi della materia, è proprio la libertà umana. Questa libertà, della quale gli uomini sono stati spossessati via via che la producevano – è essa ad aver nutrito l’economia – si tratta di riconquistarla senza illudersi su ciò che è: non la libertà di un desiderio che irrompe senza incontrare degli ostacoli, né la libertà di sottomettersi ai comandamenti (chi li decifrerà?) di Madre Natura. Si tratta anche di dare tutta la sua estensione alla libertà di giocare con le leggi della materia: essa è tanto invertire un corso d’acqua quanto usare per fini sessuali un orifizio che non è stato «previsto» per questo uso. Si tratta infine di vedere che il rischio soltanto garantisce la libertà.
È perché deve lasciare tutto il suo spazio alla libertà umana che la critica dei costumi non può erigere a segno della loro miseria una pratica piuttosto che un’altra. Si legge talvolta che nel mondo moderno, la libertà dei costumi non ricoprirebbe altro che un’attività masturbatoria (solitaria, a due, o più). Fermarsi su questo dato di fatto, è ingannarsi sull’essenza della miseria sessuale. È necessario dilungarsi sull’evidenza che c’è un toccarsi solitario infinitamente meno miserabile di molti amplessi? La lettura di un buon romanzo d’avventura può essere molto più appassionante dei viaggi organizzati. Ciò che è miserabile, è vivere in un mondo dove non esiste più avventura se non nei libri. Le fantasticherie, seguite eventualmente da effetto, che un essere suscita in noi, non sono disgustose. Lo sono le condizioni che bisogna mettere insieme perché sia possibile incontrarlo. Quando leggiamo nella rubrica dei piccoli annunci di un barbuto che invita una signora anziana del piano di sopra e il suo cane a zompare con lui, non sono né la barba, né la vecchiezza, né la zoofilia a disgustarci. Ripugnante è che il desiderio del barbuto diventi motivo di vendita di una merce ideologica particolarmente nauseabonda; è che il barbuto faccia un’inserzione su «Libération».
Quando, da soli in una stanza, si redige un testo teorico, nella misura in cui questo testo offre una presa sulla realtà sociale, si è meno isolati dagli uomini che in un metrò o al lavoro. L’essenza della miseria sessuale non risiede in tale attività piuttosto che in tal altra – anche se la predominanza di una sulle altre può essere sintomatica –, ma attiene al fatto che con altri dieci, in coppia o tutto solo, l’individuo è irrimediabilmente separato dagli altri, a causa dei rapporti di concorrenza, della fatica e della noia. Fatica del lavoro, noia dei ruoli. Noia della sessualità come attività separata.
La miseria sessuale è innanzitutto la costrizione sociale (l’obbligo del lavoro salariato e il suo seguito di miserie psicologiche e fisiologiche, la coazione dei codici sociali) che si esercita in una sfera presentata dalla cultura dominante, e dalla sua versione contestataria, come una delle ultime regioni del mondo dove l’avventura è ancora possibile. La miseria sessuale è anche uno smarrimento profondo degli uomini (nella misura in cui la civiltà capitalista e giudaico-cristiana si è loro imposta) di fronte a ciò che l’Occidente ha fatto della sessualità.
Il cristianesimo ha ripreso dallo stoicismo (dominante nell’Impero romano) la duplice idea che 1) il sesso è alla base dei piaceri 2) si può e si deve dunque controllarlo. L’Oriente, da parte sua, attraverso un’affermazione aperta della sessualità (e non soltanto nell’arte della camera da letto), tende verso un pansessualismo, dove la sessualità certamente deve essere controllata, ma così come il resto: non la si privilegia. L’Occidente non bistratta la sessualità dimenticandola, bensì non pensando che a essa. Sessualizza tutto. Il fatto più grave non è che il pensiero giudaico-cristiano abbia soffocato il sesso, ma che ne sia stato obnubilato; non che l’abbia represso, ma che l’abbia organizzato. L’Occidente fa della sessualità la verità nascosta della coscienza normale, ma anche della follia (isteria). Nel momento in cui la morale entra in crisi, Freud scopre nella sessualità il grande segreto del mondo e di ogni civiltà.
La miseria sessuale, è un gioco di equilibrio tra due ordini morali, l’ordine tradizionale e l’ordine moderno che coabitano più o meno nei cervelli e nelle ghiandole dei nostri contemporanei: da un lato, si soffre a causa delle costrizioni della morale e del lavoro che impediscono di raggiungere l’ideale storico del pieno godimento sessuale e amoroso; dall’altro, più ci si libera di queste costrizioni (in ogni caso immaginariamente), più questo ideale appare insoddisfacente e vuoto.
Non bisogna scambiare una tendenza e la sua spettacolarizzazione con la totalità: se la nostra epoca è quella di una relativa liberalizzazione dei costumi, l’ordine morale tradizionale non è scomparso. Provate solamente a essere «pedofili» a viso aperto. L’ordine tradizionale funziona e funzionerà ancora a lungo per una buona parte delle popolazioni dei Paesi industrializzati. In una gran parte del mondo, è ancora dominante e ossessivo (si pensi all'Islam, o ai Paesi dell’Est). Nella stessa Francia, i suoi rappresentanti, preti di Roma o di Mosca, sono lungi dall’essere inattivi. Il peso delle sofferenze provocate dai loro misfatti, grava ancora abbastanza perché ci si possa astenere dal denunciarli, in nome del fatto che è il capitale stesso a scalzare le basi dell’ordine morale tradizionale. È falso che ogni rivolta contro quest'ordine vada necessariamente nel senso del neoriformismo; essa può anche rappresentare il grido della creatura oppressa che contiene in germe l’infinita varietà delle pratiche sessuali e sensuali possibili, represse da millenni dalle società oppressive.
Si sarà compreso che noi non siamo contro le «perversioni»; e neppure ci opponiamo alla monogamia eterosessuale a vita. Tuttavia, quando dei letterati o degli artisti (ad esempio, i surrealisti) pretendono di imporci l’amour fou come il massimo desiderabile, dobbiamo pur constatare che essi riprendono il grande mito riduttore dell’Occidente moderno. Questo mito è destinato a fornire un supplemento di anima alle coppie, atomi isolati che costituiscono il migliore fondamento dell’economia capitalista. Tra le ricchezze che un’umanità liberata dal capitale farà prosperare, figurano le innumerevoli variazioni di una sessualità e di una sensualità perverse e polimorfe. Soltanto quando queste pratiche potranno fiorire, l’«amore», qual è cantato da André Breton e Harlequin, apparirà per quello che è: una costruzione culturale transitoria.
L’ordine morale tradizionale è oppressivo e come tale merita d’essere criticato e combattuto. Ma se è entrato in crisi, non è perché i nostri contemporanei abbiano maggiormente il gusto della libertà che i nostri avi, ma perché la morale borghese rivela la sua inadeguatezza alle condizioni moderne di produzione e di circolazione delle merci.
La morale borghese, costituitasi in tutta la sua ampiezza nel XIX secolo e trasmessa attraverso il canale della religione o quello della scuola laica, è nata dal bisogno di un supporto ideologico al dominio del capitalismo industriale, in un’epoca nella quale il dominio del capitale non era ancora totale. Etica sessuale, familiare, del lavoro, andavano di pari passo. Il capitale si sosteneva sui valori borghesi e piccolo-borghesi: la proprietà frutto del lavoro e del risparmio, il lavoro faticoso ma necessario, la vita di famiglia. Nella prima metà del XX secolo, il capitalismo giunge a occupare l'intero spazio sociale. Si rende indispensabile, inevitabile: il salariato diventa la sola attività possibile, poiché non ve ne sono altre. È così che, nel mentre si impone a tutti, il salariato può rappresentarsi come assenza di costrizione, garanzia di libertà. Essendo stato tutto mercificato, ogni elemento della morale diviene caduco. Si accede alla proprietà prima di aver risparmiato, grazie al credito. Si lavora perché è prassi, non per dovere. La famiglia allargata cede il posto alla famiglia nucleare, essa stessa sconvolta dalle pressioni del denaro e del lavoro. La scuola, i mass media contendono ai genitori l’autorità, l’influenza sui figli, la loro educazione. Tutto ciò che era stato annunciato dal Manifesto del partito Comunista, viene realizzato dal capitalismo. Con la scomparsa dei luoghi della vita popolare (caffé etc.), rimpiazzati da quelli del consumo mercantile (uffici, centri commerciali) che non ne possiedono la qualità affettiva, si arriva a chiedere alla famiglia troppo, nel momento in cui essa ha meno che mai da offrire.
Sotto la crisi della morale borghese, c’è più profondamente una crisi della moralità (cioè della socialità) capitalista. C’è una difficoltà a fissare dei «costumi», a trovare modi di relazione tra gli esseri, comportamenti che superino il fallimento della morale borghese. Quale moralità il capitalismo moderno reca agli uomini? La sottomissione di tutti e di tutto, la sua onnipresenza rendono teoricamente superflui i supporti precedenti. Fortunatamente, la cosa non funziona. Non c’è, non ci sarà mai una società capitalista pura, integralmente, unicamente capitalista. Da una parte, il capitale non crea niente ex nihilo, trasforma gli esseri e i rapporti nati al di fuori di esso (contadini inurbati, piccoli borghesi declassati, immigrati) e rimane sempre qualcosa dell’antica socialità, almeno sotto forma di nostalgia. Dall’altra parte, il funzionamento stesso del capitale non è armonioso: non mantiene le promesse del mondo di sogno della pubblicità, e suscita una reazione, un ripiegamento verso i valori tradizionali pur complessivamente superati come la famiglia. Donde il fenomeno seguente: ci si continua a sposare, tuttavia un matrimonio su quattro finisce in un divorzio. Infine, obbligato a dirigere, vincolare, maltrattare i suoi salariati, il capitale deve reintrodurre in permanenza i valori di supporto autoritativi e di obbedienza che nella sua fase attuale rende tuttavia desueti: da cui un impiego costante dell’antica ideologia accanto a quella moderna (partecipazione...)
La nostra è l’epoca della coesistenza delle morali; della proliferazione dei codici, non della loro sparizione. Alla colpevolezza (ossessione di violare un tabù) si giustappone l’angoscia (sentimento di una mancanza di riferimenti dinanzi alla «scelta» da fare). Alla nevrosi e all’isteria di un tempo fanno seguito il narcisismo e la schizofrenia come malattie storiche.
Ciò che regge il comportamento dei nostri contemporanei, è sempre meno l’insieme dei comandamenti senza appello trasmessi dal pater familias o dal prete, quanto piuttosto una specie di morale utilitarista di pienezza individuale, favorita da una feticizzazione del corpo e da una psicologizzazione forsennata delle relazioni umane, nelle quali la mania interpretativa ha rimpiazzato la confessione e l’esame di coscienza.
Sade era in anticipo sul suo tempo. Egli annunciava semplicemente il nostro: quello della sparizione di ogni garanzia morale prima che l’uomo sia divenuto. La noia intollerabile che il lettore del monotono catalogo del marchese finisce più o meno velocemente per provare, la si ritrova nella lettura di questi piccoli annunci dove si ripetono all’infinito le figure di un piacere senza comunicazione. Il desiderio sadiano mira all’assoluta reificazione dell’altro, cera molle su cui imprimere i propri fantasmi. Atteggiamento mortifero: annientare l’alterità, rifiutare di dipendere dal desiderio dell’altro, sono la ripetizione dell’identico e la morte. Ma, mentre gli eroi sadiani s’impegnano a rompere i freni sociali, l’uomo moderno, nella sua logica di pieno godimento individuale, è divenuto la propria cera da plasmare. Non è trascinato dal suo desiderio, «realizza i suoi fantasmi». O piuttosto, cerca di realizzarli, come si fa jogging invece di correre per diletto o perché si ha bisogno di recarsi rapidamente da qualche parte. L’uomo moderno non si perde nell’altro, fa funzionare e sviluppare le sue capacità di godimento, la sua attitudine all’orgasmo. Fiacco domatore del suo proprio corpo, gli dice: «Godi!», «meglio di così», «corri!», «danza!» ecc.
Per l’uomo moderno, l’obbligo del lavoro è sostituito da quello di un tempo libero «riuscito», la costrizione sessuale dalla difficoltà di affermare un’identità sessuale. La cultura narcisista va di pari passo al cambiamento di funzione della religione: quest’ultima, invece di evocare una trascendenza, diventa un modo per facilitare il passaggio dei momenti di crisi della vita (adolescenza, matrimonio, morte). La religione del resto non basta ad aiutare gli uomini a essere moderni: occorre loro anche il richiamo alla famiglia! «Una famiglia non iper-presente, come nel secolo scorso, ma iper-assente. Essa si definisce non attraverso l’etica del lavoro o del vincolo sessuale, ma attraverso l’etica della sopravvivenza e della promiscuità sessuale.» Così parla uno psicologo, Christopher Lasch (1).
Al centro della crisi della moralità che domina le società occidentali, gli uomini sono meno armati che mai per risolvere la «questione sessuale». Ed è precisamente il momento nel quale essa si pone in tutta la sua crudezza, e nel quale si hanno dunque le maggiori possibilità di accorgersi che questa «questione» non è a sé.
L’uomo moderno si sgomenta, ed è tanto più perduto dinanzi alla mercificazione di tutta la vita che si attacca al sesso maltrattato da duemila anni, che risorge solo per farsi merce. Ci si accorge allora che l’esercizio ininterrotto dei sensi («La Grande Abbuffata») nel mondo della merce, isola ancor più l’individuo, dall’umanità, dai suoi compagni e da se stesso. Si ritorna alla fin fine al cristianesimo, poiché si approda all’idea di una sessualità alienante e mortifera.
L’opera di Georges Bataille, per esempio, è rivelatrice di questa evoluzione del mondo occidentale dopo l’inizio del secolo. Al contrario della storia della civiltà, Bataille parte dalla sessualità per approdare alla religione. Dall’Occhio (1929) alla fine della sua vita, passa la sua esistenza a cercare l’implicito dell’Occhio. La sua traiettoria incrocia il movimento rivoluzionario e se ne allontana tanto più velocemente e facilmente dato che questo movimento sparisce quasi completamente. Nondimeno, negli ultimi anni del periodo fra le due guerre, egli ha avuto il tempo di difendere delle posizioni di fronte all’antifascismo e alla minaccia di guerra, che risaltano sovente per la loro lucidità rispetto allo sproloquio della grande maggioranza dell’estrema sinistra. È per questo che la sua opera è ambigua. Si può utilizzarla come spiegazione delle impasses religiose a cui approda l’esperienza-limite della sessualità sfrenata: «una casa chiusa è la mia vera chiesa, la sola abbastanza inquietante» (2).
Ma se, nel passo succitato, come nella maggior parte della sua opera, Bataille si limita a contraddire i valori accettati, a rifinire una nuova versione del satanismo, è anche arrivato a scrivere delle frasi che rivelano un’intuizione profonda degli aspetti essenziali del comunismo: «intendere la perversione e il crimine non come valori esclusivi ma da integrare nella totalità umana» (3).
L’estasi
Attraverso le costruzioni culturali a cui ha dato origine (amore greco, amor cortese, sistemi di parentela, contratto borghese ecc.), la vita affettiva e sessuale non ha cessato di essere una posta in gioco, matrice di passioni, zona di contatto di un’altra sfera culturale: il sacro. Nella trance, nell’estasi, nel sentimento di comunione con la natura, si esprime in modo parossistico l’aspirazione a superare i limiti dell’individuo. Sviata verso il cosmo o la divinità, fino a oggi quest’aspirazione a fondersi nella specie ha assunto i panni prestigiosi del sacro. Le religioni, e particolarmente le religioni monoteiste, si sono impegnate a circoscrivere il sacro e ad attribuirgli un ruolo conduttore nel mentre lo ponevano lontano dalla vita umana. Al contrario delle società primitive, nelle quali il sacro è inseparabile dalla vita quotidiana, le società statali l’hanno sempre più specializzato. La civiltà capitalista non ha liquidato il sacro, lo ha rimosso, ed i suoi molteplici residui e surrogati continuano a ingombrare la vita sociale. Di fronte a un mondo dove coesistono anticaglie religiose e banalizzazione mercantile, la critica comunista procede con un doppio movimento: al tempo stesso deve desacralizzare, cioè scovare i vecchi tabù là dove si sono rifugiati, e abbozzare un superamento del sacro, che il capitalismo non ha fatto altro che degradare.
Dunque, desacralizzazione delle zone dove si sono rifugiati i vecchi feticci, come ad esempio il pube. Contro l’adorazione del pene, contro il suo imperialismo conquistatore, le femministe non hanno trovato di meglio che feticizzare il sesso delle donne, con gran supporto di pathos e di letteratura, per farne il segno della loro differenza, la piega oscura ove dimora il loro essere! Lo stupro diviene allora il crimine dei crimini, un attentato ontologico. Come se infliggere a una donna la penetrazione di un pene con la violenza fosse più disgustoso che forzarla alla schiavitù salariale attraverso la pressione economica! Ma è vero che nel primo caso il colpevole è facile da trovare: è un individuo, mentre nel secondo caso, è un rapporto sociale. È più facile esorcizzare la propria paura facendo dello stupro una bestemmia, l’irruzione nel sancta sanctorum. Come se la manipolazione pubblicitaria, le innumerevoli aggressioni fisiche del lavoro o la schedatura da parte degli organismi di controllo sociale non costituissero delle violenze intime altrettanto profonde che un coito imposto!
Alla fin fine, ciò che spinge il somalo a strappare la clitoride della sua donna e ciò che muove le femministe proviene dalla medesima concezione dell’individualità umana come oggetto possibile di un rapporto di proprietà. Il somalo, convinto che la sua donna faccia parte del bestiame, crede sia suo dovere proteggerla dal desiderio femminino, dannoso parassita per l’economia del gregge. Ma, così facendo, accorcia singolarmente e impoverisce il proprio piacere, il proprio desiderio. Nella clitoride della donna, è il desiderio umano che è preso di mira simbolicamente, tutti i sessi confusi. Questa donna mutilata, è dell’umanità stessa a essere amputata. La femminista che grida che il suo corpo le appartiene vorrebbe badare al proprio desiderio da sé ma, quando desidera, entra in una comunità nella quale l’appropriazione si dissolve.
«Il mio corpo è mio»: questa rivendicazione pretende di dare un contenuto concreto ai Diritti dell’Uomo del 1789. Non si è ripetuto che essi concernono solo un uomo astratto e non producono in definitiva che l’individuo borghese!? Si dirà oggi: borghese, maschio, bianco, adulto. Il neo-riformismo pretende di correggere questa lacuna attivandosi per dare un contenuto reale a questo «uomo» finora astratto. I diritti «reali» dell’uomo «reale», insomma. Ma l’«uomo reale» non è altro che la donna, l’ebreo, il corso, l’omosessuale, il vietnamita ecc. «Il mio corpo è mio» è nella linea di una rivoluzione borghese che si tenta di completare, di perfezionare indefinitamente invitando la democrazia a cessare di essere «formale». Si criticano qui gli effetti invece della loro causa.
L’esigenza di una proprietà sul proprio corpo individuale rinnova la rivendicazione borghese del diritto di proprietà. Per sfuggire all’oppressione secolare delle donne trattate un tempo dal loro marito (e oggi ancora, sotto altre forme) come oggetto di possesso, il femminismo non trova niente di meglio che allargare il diritto di proprietà. Che la donna a sua volta divenga proprietaria, così sarà protetta: a ciascuno il suo! Rivendicazione miserabile, in cui si riflette l’ossessione della «sicurezza» che i mass media e tutti i partiti si sforzano di far condividere ai nostri contemporanei. Rivendicazione nata in un orizzonte chiuso all’interno del quale per dominare qualcosa (in questo caso, il proprio corpo) non si può immaginare altro modo dall’appropriazione privativa. Il nostro corpo è di coloro che ci amano, e questo non in virtù di un «diritto» garantito giuridicamente, ma perché, carne ed emozione, noi non viviamo e non ci muoviamo se non in funzione degli altri. E, nella misura in cui noi sappiamo e possiamo amare la specie umana, il nostro corpo le appartiene.
Contemporaneamente alla desacralizzazione, la critica comunista deve denunciare l’utopia capitalista di un mondo dove non si potrà più amare da morire, dove, essendo stata appiattita ogni cosa, tutto si equivarrà e si scambierà. Fare dello sport, baciare, lavorare, nello stesso tempo quantificato, tagliato come un salame: il tempo industriale. I sessuologi saranno lì a guarire tutte le debolezze della libido, gli psicoteraupeuti a evitare ogni sofferenza psichica e la polizia, sostenuta dalla chimica, a prevenire ogni sconfinamento; in quel mondo, non esisterà più la sfera dell’attività umana che, essendo la posta in gioco capace di rimettere in causa tutta la vita, potrebbe dare un altro ritmo al tempo.
È l’illusione astorica a fondare le pratiche mistiche e pericolose. Di fatto, di esse ci sta a cuore solo ciò che, per definizione, non è propriamente loro: il comunicabile. Non si esce dalla storia ma essa, quella dell’individuo come quella della specie, non è nemmeno il puro svolgimento lineare che il capitalismo s’impegna a produrre, e a far credere di produrre. La storia comporta degli apogei che vanno al di là e al di qua del presente, degli orgasmi che si perdono nell’altro, nella socialità e nella specie.
«Il cristianesimo ha sostanziato il sacro ma la natura del sacro [...] è forse ciò che si produce di più inafferrabile tra gli uomini, il sacro non è che un momento privilegiato di unità di comunione, momento di comunicazione convulsiva di ciò che ordinariamente viene soffocato»(4).
Questo momento di «unità di comunione», lo si ritrova oggi in un concerto, nel panico che s’impadronisce di una folla e, nella sua forma più degradata, nei grandi slanci patriottici e in altri sussulti dell’Union Sacrée: la sua manipolazione permette ogni mascalzonata. Si può presumere che nella guerra moderna, a differenza di ciò che accade nei Paesi capitalisti arretrati come l’Iran, solo una minoranza parteciperà, il resto guarderà. Ma niente è sicuro; la manipolazione del sacro ha forse ancora dei giorni radiosi davanti a sé, poiché fino a oggi il sacro ha rappresentato il solo momento intenso offerto alla manifestazione di questo bisogno irreprimibile dell’uomo: essere insieme.
Oltre a fornire una nicchia più o meno immaginaria al riparo dalla lotta di classe, le pratiche mistiche hanno potuto servire a cementare delle rivolte, come dimostrato per esempio dal ruolo della trance taoista nella resistenza al potere centrale dell’antica Cina, del vudu nelle insurrezioni degli schiavi o dei profetismi millenaristi. Se le ricerche mistiche contemporanee giocano un ruolo controrivoluzionario, giacché sono solo una delle forme del ripiegamento su sé stesso dell’individuo borghese, questo non toglie che la banalizzazione mercantile di tutti gli aspetti della vita tenda a svuotare l’esistenza del suo contenuto passionale. Il mondo in cui viviamo ci propone di amare solo un’accozzaglia di insufficienze individuali. Confrontato con le società tradizionali, questo mondo ha perduto una dimensione essenziale della vita umana: i tempi intensi dell’unione dell’uomo con la natura. Siamo condannati a guardare le feste dei raccolti in tivù.
Ma noi non ne vogliamo sapere di un ridicolo passatismo, di un ritorno a delle gioie di cui la storia ci ha fatto scoprire il carattere ripetitivo, ingannevole e limitato. Allorché il capitale tende a stabilire il suo regno assoluto, cercare altrove rispetto alla rivoluzione l’«unità di comunione» e la «comunicazione convulsiva», diviene puramente reazionario. Il fatto che il capitalismo abbia banalizzato tutto, ci offre l’occasione di liberarci di questa sfera specializzata, la sessualità. Noi vogliamo un mondo in cui l’impeto fuori di sé esista come possibilità in tutte le attività umane – un mondo che ci proponga la specie come oggetto di amore, e degli individui le cui insufficienze saranno quelle della specie e non più quelle del mondo. La posta oggi in gioco, ciò che merita il rischio della morte, ciò che potrebbe donare un altro ritmo al tempo, è il contenuto della vita tutta intera.
Il crimine
«Che la storia non abbia alcun senso, ecco di cosa ci rallegriamo. Ci tormentiamo per una soluzione felice del divenire, per una festa finale di cui solo le nostre fatiche e i nostri disastri faranno le spese? Per dei futuri idioti saltellanti sulle nostre ceneri? La visione di un compimento paradisiaco oltrepassa, nella sua assurdità, le peggiori divagazioni dello spirito. Tutto ciò che sarà addotto a pretesto, a giustificazione dei Tempi, è che si trovi qualche momento più proficuo di altri, accidenti senza conseguenze nell’intollerabile monotonia delle perplessità.» (E.M. Cioran, Précis de décomposition)
Il comunismo non è un compimento paradisiaco.
Innanzitutto, identificare il comunismo in un paradiso porta ad accettare tutto nell’attesa. In caso di rivoluzione sociale, si ammetterà di non cambiare da cima a fondo la società: una società senza Stato né prigione, d’accordo, però più tardi... quando gli uomini saranno perfetti. Fino ad allora, tutto si giustifica: Stato operaio, prigioni del popolo etc., poiché il comunismo non si confarebbe che a un’umanità di dèi.
C’è poi una visione tranquillizzante della società desiderabile che toglie la voglia di desiderarla. Ogni comunità, quali che siano le sue dimensioni, impone ai suoi membri di rinunciare a una parte di loro stessi e, se si intendono come desideri positivi quelli la cui realizzazione non comprometterebbe la libertà degli altri, ogni comunità costringe ciascuno a lasciare insoddisfatti alcuni dei suoi desideri positivi. Per la semplice e buona ragione che questi desideri non sono per forza condivisibili da uno o altri membri. Ciò che rende sopportabile una tale situazione, è la certezza che, per chiunque giudichi che queste rinunce minino l’integrità stessa della persona, rimarrebbe la possibilità di ritirarsi, il che non accadrebbe senza sofferenza. Ma il rischio della sofferenza e della morte non è indispensabile alla pienezza del senso della vita?
Che l’umanità, giocando con le leggi della materia, rischi di annientarsi, e con essa ogni vita sul pianeta, non è ciò che ci tormenta. L’insopportabile, è che lo faccia nell’incoscienza assoluta e, per così dire, suo malgrado, poiché ha creato il capitale che le impone le sue proprie leggi inumane. È tuttavia vero che da quando l’uomo ha cominciato a modificare il suo ambiente, lo ha fatto a rischio di distruggerlo e di distruggersi, e che questo rischio sussisterà senza dubbio, quali che siano le forme di organizzazione sociale. Si potrebbe ugualmente concepire un’umanità che, dopo aver dapprima combattuto, poi addomesticato e amato l’universo, decida infine di scomparire, di ritornare al grembo della natura sotto forma di polvere. In ogni caso, non vi è umanità senza rischio, poiché non vi è umanità senza l’altro. Lo si verifica bene nel gioco delle passioni.
Se non facciamo molta fatica a immaginare che una società meno rigida sarà in grado di dare alle donne e agli uomini (agli uomini condannati dopo rivoluzione borghese a portare solo abiti da lavoro!) l’occasione di essere più belli, di praticare dei rapporti di seduzione al tempo stesso più semplici e più raffinati, non possiamo comunque impedirci di sbadigliare all’evocazione di un mondo nel quale tutti piaceranno a tutti, dove si potrà baciare come ci si stringe la mano, senza che ciò impegni ad alcunché (è proprio questo il mondo che ci promette la liberalizzazione dei costumi). Karl continuerà dunque, con tutta probabilità, a piacere a Jenny più di Friedrich. Ma sarebbe come credere ai miracoli immaginare che non accadrà mai che Friedrich provi desiderio per Jenny senza che lei lo corrisponda. Il comunismo non garantisce affatto la concordanza di tutti i desideri. E la tragedia reale del desiderio non corrisposto parrebbe il prezzo insuperabile da pagare perché il gioco della seduzione resti appassionante. Non in virtù del principio del vecchio stupido detto «ciò che si ottiene senza pena non ha valore», ma perché il desiderio include l’alterità dell’altro e dunque, la sua possibile negazione. Niente gioco sociale e umano senza posta in gioco e senza rischio! Ecco l’unica norma che sembra insuperabile. A meno che la nostra immaginazione scimmiesca, che resta dipendente dal vecchio mondo, ci impedisca di comprendere l’uomo.
Ciò che rende Fourier meno noioso della maggior parte degli altri utopisti è che, oltre a un inventario molto poetico e molto intenso dei possibili, il suo sistema integra la necessità dei conflitti. Noi sappiamo che la quasi totalità dei casi considerati crimini o delitti dal vecchio mondo non sono che cambiamenti bruschi di proprietario (il furto), incidenti della concorrenza (l’omicidio di un cassiere di banca) o il prodotto della miseria dei costumi. Ma, in un mondo senza Stato, non è inimmaginabile che l’esacerbazione delle passioni possa condurre un uomo a far soffrire o a uccidere un altro uomo. In un tale mondo, la sola garanzia che un uomo non ne torturi un altro, dipenderà dal fatto che egli non ne provi il bisogno. Ma se lo prova? Se torturare lo diverte? Sbarazzati delle vecchie rappresentazioni del tipo «occhio per occhio, dente per dente», «prezzo del sangue» etc., una donna il cui amante sia stato ucciso, un uomo la cui amata torturata, giudicheranno, malgrado la loro rabbia, certo stupido uccidere qualcuno, vederlo rinchiuso, per compensare fantasmaticamente la perdita subita – forse... Ma se il desiderio di vendetta prevale? E se l’altro continua a uccidere?
Nel movimento operaio, gli anarchici sono senza dubbio tra i pochi a essersi posti concretamente il problema di una vita sociale senza Stato. La risposta di Bakunin non è davvero convincente: «Abolizione assoluta di tutte le pene degradanti e crudeli, delle punizioni corporali e della pena di morte, in quanto consacrate ed eseguite dalla legge. Abolizione di tutte le pene a termine indefinito o troppo lunghe che non lasciano alcuna possibilità di riabilitazione: il crimine dovrebbe essere considerato come una malattia eccetera». Parrebbe di leggere il programma del Partito Socialista quando non era ancora al potere. Ma il seguito è più interessante: «Ogni individuo, condannato dalla legge di una qualsiasi società – comune, provincia o nazione – conserverà il diritto di non sottomettersi affatto alla pena che gli sarà stata imposta, dichiarando che non vuole più far parte di questa società. Ma, in questo caso, quest’ultima avrà a sua volta il diritto di espellerlo dal suo grembo e di dichiararlo al di fuori della sua garanzia e della sua protezione. Ricaduto così sotto la legge naturale “occhio per occhio, dente per dente”, almeno sul territorio occupato da questa società, il refrattario potrà essere derubato, maltrattato, anche ucciso senza alcuna preoccupazione. Ciascuno potrà liberarsene come di una bestia malefica, mai però asservirlo né impiegarlo come schiavo» (5).
Questa soluzione ricorda l’atteggiamento dei primitivi: l’individuo che ha infranto un tabù non è mai più preso sul serio, si ride ogni volta che apre bocca, oppure deve partire per la giungla, o diventa invisibile etc. In tutti i casi, espulso dalla comunità, è votato a una morte prossima.
Se si tratta di distruggere le prigioni per ricostruirle più ariose e un po’ meno rigide, che non si conti su di noi. Saremo sempre a fianco del refrattario. Poiché, cos’è una pena «troppo lunga»? Non è necessario esserci marciti in galera per sapere che in prigione il tempo è, per definizione, sempre troppo lungo. Ma se si tratta di rimpiazzare la galera con un allontanamento ancora più radicale, che non si conti a maggior ragione su di noi. Quanto a trattare il crimine come una malattia, è questa la strada che porta al totalitarismo del neurolettico o del discorso psichiatrico.
«È curioso constatare che basta perdere la propria “serietà” (nella qual cosa un uomo non invecchiato anzitempo potrebbe rivaleggiare con il più terribile dei bambini) per trovare simpatici i più infimi briganti. L’ordine sociale tenderebbe a una risata? [...] La vita non è una risata, affermano, non senza la più comica gravità, gli educatori e le madri di famiglia ai bambini stupiti [...]. Io immagino tuttavia che nello sfortunato cervello oscurato da questo misterioso ammaestramento, un paradiso ancora rutilante cominci con un formidabile rumore di stoviglie rotte [...] il piacere senza freno dispone di tutti i prodotti del mondo, tutti gli oggetti gettati in aria sono da rompere come dei giocattoli» (6).
Che fare dei distruttori di stoviglie? Oggi, è impossibile rispondere a questa domanda, e ugualmente non è sicuro che in una società senza Stato vi si trovi una risposta soddisfacente. L’uomo che rifiuta il gioco, che rompe le stoviglie, che è pronto a correre il rischio di soffrire, persino a morire, per il semplice gusto di rompere il legame sociale, tale è il rischio senza dubbio insuperabile al quale va incontro una società che rifiuti d’espellere dal grembo dell’umanità chicchessia, per quanto asociale. I danni che la società dovrà subire saranno sempre meno grandi di quelli ai quali si esporrebbe facendo dell’asociale un mostro. Per salvare qualche vita, per quanto «innocente», non bisogna che il comunismo perda la sua ragion d’essere. Constatiamo che, fino a oggi, le mediazioni concepite per evitare o addolcire i conflitti e mantenere l’ordine interno alla società, hanno provocato un’oppressione e delle perdite umane infinitamente più grandi di quelle che si riteneva avrebbero impedito o limitato. Nel comunismo, nessuno Stato alternativo, nessun «non-Stato», che sarebbe ancora uno Stato.
«La repressione delle reazioni antisociali è, oltre che chimerica, inaccettabile come principio»(7).
La questione non è soltanto importante per un lontano avvenire. È anche una posta in gioco in un periodo di turbamenti sociali. Pensiamo alla sorte riservata ai saccheggiatori e ai ladri durante le sommosse del XIX secolo, all’ordine morale che queste sommosse riproducevano al loro interno. Ugualmente, nella Russia dei primi tempi della rivoluzione, a un formidabile movimento di trasformazione dei costumi, si è giustapposto un «Codice matrimoniale bolscevico», di cui il solo titolo è tutto un programma. Ogni periodo più o meno rivoluzionario porterà alla nascita di gruppi a metà strada tra la sovversione sociale e la delinquenza, a temporanee ineguaglianze, ad accaparratori, a profittatori e, soprattutto, a tutta una gamma di condotte sfumate che sarà difficile qualificare come «rivoluzionarie», «di sopravvivenza», «controrivoluzionarie» ecc. La comunizzazione progressiva risolverà queste questioni ma in una, due generazioni, forse più. Fino ad allora, occorrerà prendere delle misure, non nel senso di un «ritorno all’ordine», che sarà uno degli slogan chiave di tutti gli antirivoluzionari, ma sviluppando ciò che costituisce l’originalità del movimento comunista: essenzialmente, esso non reprime, sovverte.
Questo significa innanzitutto che utilizza solo la quantità di violenza strettamente necessaria per raggiungere i suoi scopi; non per moralismo o non-violenza, ma perché tutta la violenza superflua si autonomizza e diviene un fine in sé. Ciò implica quindi che la sua arma è innanzitutto e in primo luogo la trasformazione dei rapporti sociali e la produzione delle condizioni di esistenza. I saccheggi spontanei cessanno d’essere un cambiamento di massa di proprietari, una semplice giustapposizione di appropriazioni privative, se si costituisce una comunità di lotta tra i saccheggiatori e i produttori. A questa condizione solamente, il saccheggio può essere il punto di partenza di una riappropriazione sociale delle ricchezze e di una loro utilizzazione in una prospettiva più ampia del puro e semplice consumo (il quale non è in sé condannabile, non essendo la vita sociale che attività produttiva, quindi anche consumo e consumazione; e se i poveri vogliono procurarsi dapprima qualche piacere, chi altri oltre ai preti penserà a rimproverarli?). Quanto agli accaparratori, se saranno necessarie talvolta delle misure violente, sarà per recuperare i beni e non per punire. In tutti i casi, è solo estendendo il regno della gratuità che si toglierà loro di fatto ogni possibilità di nuocere. Se il denaro non è che carta, se non si può più convertire in denaro ciò che si accaparra, a che fine accaparrare?
Più una rivoluzione si radicalizza, e meno ha bisogno di essere repressiva: noi l’affermiamo tanto più volentieri in quanto per il comunismo, la vita umana, come sopravvivenza biologica, non è il valore supremo. È il capitalismo che ci impone questo mostruoso imbroglio: la sicurezza di una sopravvivenza massima in cambio di una sottomissione massima all’economia. Eppure, un mondo in cui ci si deve nascondere per scegliere l’ora della propria morte non è radicalmente devalorizzato?
Nel comunismo, non si parte dai valori che ci si dà, ma dai rapporti reali nei quali si vive. Ogni gruppo pratica, rifiuta, ammette, impone certi atti e non altri. Prima di avere dei valori, e per averli, ci sono delle cose che si fanno o non si fanno, si impongono o si vietano.
Nelle società contraddittorie e classiste, l’interdetto è fissato e, al contempo, fatto per essere aggirato o violato. I divieti delle società primitive, e in una certa misura delle società tradizionali, non costituiscono, propriamente parlando, una morale. Valori e divieti vi sono riprodotti in ogni istante attraverso ogni atto della vita sociale. Quando lavoro e vita privata si oppongono sempre più radicalmente, allora s’impone la questione dei costumi, che diviene lancinante nel XIX secolo in Europa, con lo sviluppo di ciò che i borghesi chiamavano le classi pericolose. Bisogna contemporaneamente che l’operaio sia reputato libero di andare al lavoro (per giustificare la libertà del capitalista di rifiutarglielo), e che la morale lo mantenga in buone condizioni spiegandogli che egli non deve spassarsela e che il lavoro è la sua dignità. Non c’è morale se non perché vi sono dei costumi, cioè un dominio che la società lascia teoricamente a disposizione dell’individuo, ma che allo stesso tempo si impegna a legiferare dall’esterno.
La legge (religiosa, poi statale) presuppone lo scarto. Qui è la differenza con il comunismo dove non si ha bisogno di legge intangibile che ciascuno sa non verrà rispettata. Nessun assoluto, se non forse la priorità della specie – che non significa la sua sopravvivenza. Nessuna regola falsamente universale. Ogni morale razionalizza a posteriori, come il diritto, l’ideologia. Essa si vuole e si dice sempre fondamento della vita sociale; nel mentre si vuole essa stessa senza fondamento, dal momento che poggia solo su Dio, sulla natura, sulla logica, sul bene sociale... cioè un fondamento inesistente poiché non si può rimetterlo in discussione. Le regole che si daranno (in un modo che non possiamo prevedere) gli esseri umani nel comunismo deriveranno dalla socialità comunista. Esse non costituiranno una morale in quanto non pretenderanno una illusoria universalità nel tempo e nello spazio. Le regole del gioco comprenderanno la possibilità di giocare con le regole.
«La rivolta è una forma di ottimismo appena meno ripugnante dell’ottimismo corrente. La rivolta, per essere possibile, presuppone che si prenda in considerazione la possibilità di reagire, cioè che vi sia un ordine di cose preferibile e al quale bisogni tendere. La rivolta stessa, considerata come un fine, è ottimista, significa considerare il cambiamento, il disordine come qualche cosa di soddisfacente. Non posso credere che ci sia qualcosa di soddisfacente. [...]
* * *
Quando si ha la pretesa di articolare una critica globale del mondo, non si saprà accettare che la critica si limiti alla pura teoria. Ci sono periodi nei quali l’attività sovversiva si riduce quasi interamente alla redazione di testi o a scambi di punti vista tra individui. È dentro questo «quasi» che si spiega il nostro disagio: per continuare a gettare uno sguardo lucido sul mondo, occorre essere abitati da una tensione che non è facile da affrontare, poiché implica rifiuto, una certa marginalizzazione, una grande sterilità. Questo rifiuto, questa marginalizzazione e questa sterilità contribuiscono a mantenere la passione tanto quanto tendono a irrigidirla in acidità misantropica o in mania intellettuale. Colui che rifiuta l’organizzazione del mondo da parte del capitale non considera alcuno degli atti di cui è intessuta la vita sociale come scontato. Le stesse manifestazioni del dato biologico non sono al riparo dal suo tormento! Accettare di procreare gli parrà sospetto – come voler partorire in un mondo simile, dal momento che non si vuole ponderare una possibilità di cambiarlo?
Domanda: – Secondo voi, il suicidio è un ripiego?
– Esattamente, è un ripiego antipatico quasi quanto un mestiere o una morale»(8).
Tutta una letteratura nichilista ha sviluppato il punto di vista del «distruttore di stoviglie», del refrattario a ogni legame sociale, con il gusto della morte come corollario obbligato. Ma la bella musica dei pensatori nichilisti non ha impedito alla maggior parte di essi di perdersi nei rumori della vita quotidiana fino a un’età rispettabile. Incoerenza che conforta l’idea che il refrattario assoluto sia soltanto un mito letterario. Quanto ai rari individui che come Rigaut scelsero il ripiego del suicidio, o come Genet gustarono davvero l’abiezione, essi vissero questo mito come una passione. Ma che senza dubbio siano esistiti dei mistici sinceri non prova in nessun modo l’esistenza di Dio. Questi «refrattari» nutrono un elitismo che è fin dall’inizio una posizione falsa. Il fatto più grave non è che si credano superiori, ma che si pensino come differenti dal resto dell’umanità. Si vogliono osservatori di un mondo dal quale sarebbero in disparte, mentre si può comprendere solo ciò a cui si partecipa. L’esteriorità si crede lucida, invece cade nella peggiore trappola; Bataille stesso lo dice:
«[...] Io non ho mai potuto guardare l’esistenza con il dispregio distratto dell’uomo solo»(9).
«Poiché è l’agitazione umana, con tutta la volgarità dei piccoli e dei grandi bisogni, con il suo disgusto aperto per la polizia che la soffoca, l’agitazione di tutti gli uomini (esclusa questa polizia e gli amici di questa polizia), che sola condiziona le forme mentali rivoluzionarie, in opposizione alle forme mentali borghesi»(10).
Il mito del refrattario ha talvolta ingombrato la teoria rivoluzionaria: si veda la fascinazione dei situazionisti per i fuorilegge in generale, e per Lacenaire in particolare, fascinazione portata al suo culmine nell’affliggente ultimo film di Debord. Ma se questo mito deve essere criticato, è anche perché si limita a contraddire, e tende dunque a corroborare, la produzione di mostri affascinanti da parte delle società di classe.
Su questo oceano di zombies nel quale siamo immersi, corre talvolta un brivido di passione, quando si dà in pasto ai cittadini un essere radicalmente estraneo, qualcosa che ha la forma di un uomo ma al quale si nega ogni umanità reale. Per il nazi, era l’ebreo, per l’antifascista, è il nazi. Per le folle contemporanee, sono i terroristi, i malviventi o gli assassini di bambini. Allorché si tratta di braccare questi mostri e di determinarne il castigo, le passioni infine risorgono e le fantasie che si credevano sopite galoppano. Peccato che questo tipo d’immaginazione e le sue raffinatezze siano proprio quelle che si attribuiscono al mostro garantito non umano: il carnefice nazista.
Non si sono potuti costringere tutti a rispettare una legge che è in contraddizione con il funzionamento reale dei rapporti sociali. Non si è potuto impedire l’omicidio quando c’erano motivi per uccidere. Non si è potuto prevenire il furto quando c’erano delle ineguaglianze e che il commercio si fondasse sul furto. Allora, si esemplifica concentrandosi su di un caso. Di più: si esorcizza la parte di sé che avrebbe voluto essere il carnefice di quei corpi senza difesa o l’assassino-violatore di questi bambini. La parte d’invidia nel grido di odio della folla non ha bisogno di essere messa in evidenza. Salta agli occhi, persino a quegli occhi fatti per non vedere, quelli dei giornalisti.
Al contrario, il comunismo è una società senza mostro. Senza mostro, perché ciascuno infine, nei desideri e negli atti degli altri, riconoscerà altrettante figure possibili dei propri desideri e del proprio essere uomo. «L’essere umano è la vera Gemeinwesen dell’uomo» (Karl Marx): la parola Gemeinwesen, o essere collettivo, esprimono il nostro movimento molto meglio della parola comunismo, che non si associa di primo acchito se non a una messa in comune delle cose. La frase di Marx merita ulteriori sviluppi e vi torneremo. Per ora accontentiamoci di vedere in questa frase la critica dell’umanismo borghese. Mentre l’uomo onesto di Montaigne può essere tutti gli uomini, grazie alla mediazione della cultura, l’uomo comunista sa, per pratica, di poter esistere com’è solo perché tutti gli altri esistono come sono.
Ciò non significa per nulla che nessun desiderio debba essere represso [dal soggetto]. Repressione e sublimazione impediscono di cadere nel rifiuto dell’alterità. Ma il comunismo è una società senz’altra garanzia che il libero gioco delle passioni e dei bisogni, mentre la società capitalista è presa dal delirio della sicurezza che essa vorrebbe garantire contro tutti i rischi della vita, ivi compresa la morte. Tutti i pericoli e i rischi possibili dovrebbero essere «coperti da assicurazione», al di fuori dei «casi di forza maggiore» – guerra e rivoluzione – e ancora... Il solo avvenimento contro il quale il capitalismo non può fornire un’assicurazione, è la sua propria scomparsa.
* * *
Quando si ha la pretesa di articolare una critica globale del mondo, non si saprà accettare che la critica si limiti alla pura teoria. Ci sono periodi nei quali l’attività sovversiva si riduce quasi interamente alla redazione di testi o a scambi di punti vista tra individui. È dentro questo «quasi» che si spiega il nostro disagio: per continuare a gettare uno sguardo lucido sul mondo, occorre essere abitati da una tensione che non è facile da affrontare, poiché implica rifiuto, una certa marginalizzazione, una grande sterilità. Questo rifiuto, questa marginalizzazione e questa sterilità contribuiscono a mantenere la passione tanto quanto tendono a irrigidirla in acidità misantropica o in mania intellettuale. Colui che rifiuta l’organizzazione del mondo da parte del capitale non considera alcuno degli atti di cui è intessuta la vita sociale come scontato. Le stesse manifestazioni del dato biologico non sono al riparo dal suo tormento! Accettare di procreare gli parrà sospetto – come voler partorire in un mondo simile, dal momento che non si vuole ponderare una possibilità di cambiarlo?
Tuttavia, al di là di qualche semplice principio – non partecipare alle imprese di mistificazione o di repressione (né sbirri, né divi), non far carriera –, non si può pretendere di fissare in modo preciso e definitivo le forme del rifiuto. Per la critica radicale, non ci sono costumi buoni, ve ne sono semplicemente di peggiori di altri; e vi sono certi comportamenti che mutano la teoria in derisione. Volersi rivoluzionario in un periodo non rivoluzionario: ciò che conta non sono tanto i risultati di questa contraddizione, forzatamente parcellari e mutilanti, quanto la contraddizione stessa e la tensione del rifiuto.
A che pro criticare la miseria dei costumi se deve permanere? Il nostro modo di essere non ha senso se non in rapporto al comunismo. Perché alla citazione di Cioran con la quale abbiamo aperto questa sezione, conviene rispondere che le fatiche e i disastri realmente insopportabili sono quelli che non ci appartengono e che ci sono imposti da questo mondo. La sola giustificazione che noi troviamo al tempo che ci uccide, è la storia che ci offrirà la sua rivincita. Il senso del nostro modo di essere è la possibilità che il legame sociale non sia garantito da nient’altro che da se stesso, e che ciò funzioni!
Se la crisi si aggrava, ci sarà sempre meno posto per le scelte intermedie. Si potrà sempre meno reclamare «un po’ meno polizia». La scelta sarà sempre più tra ciò che esiste, o niente polizia del tutto. È allora che l’umanità dovrà davvero dimostrare se ama la libertà.
Amore. Estasi. Crimine. Tre prodotti storici nei quali l’umanità ha vissuto e vive le sue relazioni e pratiche affettive. L’amore, conseguenza dell’indifferenza e dell’egoismo generalizzati, rifugio in qualche essere privilegiato, per caso e per necessità. È l’impossibile amore dell’umanità che si realizza alla meno peggio in un singolo individuo. L’estasi, escursione al di fuori del profano, del banale, nel sacro, sfuggito, subito recuperato e limitato dalla religione. Il crimine, unica via di uscita quando la norma non può più essere né rispettata né aggirata.
L’amore, il sacro e il crimine sono dei modi di fuggire il presente e di dargli un senso. Positivo o negativo: i tre includono ciascuno attrazione e repulsione, e entrano in una relazione di attrazione e di rifiuto gli uni in rapporto agli altri. L’amore è glorificato ma se ne diffida. Il sacro è per essenza minaccia di profanazione, la chiama per escluderla e, con lo stesso movimento, rafforzarsi. Il crimine è punito ma affascina.
Questi tre modi di trasporto fuori dal quotidiano, il comunismo non li generalizzerà più di quanto li abolirà. Ogni vita (collettiva o individuale) presuppone le sue frontiere. Ma il comunismo sarà amorale per il fatto che non avrà più bisogno di norme fisse, esteriori alla vita sociale. Modi di vita e modelli di comportamento circoleranno, non senza contrasto o violenza, e saranno trasmessi, trasformati e prodotti contemporaneamente ai rapporti sociali. Il sacro scomparirà in quanto separazione assoluta tra un aldiqua e un aldilà. Così, nessuno spazio per la religione: né per quelle di un tempo, né per quelle moderne che non conoscono più dei, ma solo diavoli da espellere dal corpo sociale. La libertà dell’uomo, la sua capacità di modificare la propria natura, lo proiettano al di là di se stesso. Finora, la morale, ogni morale, e tanto più insidiosamente nella misura in cui non si presenta come tale, fa di questi aldilà degli enti che schiacciano l’essere umano. Il comunismo non livellerà la «montagna magica», farà in modo di non esserne dominato. Creerà e moltiplicherà le lontananze e il piacere di perdervisi, ma anche la capacità di farne sorgere di nuove, il che sovverte la sottomissione «naturale» a un qualsiasi ordine del mondo.
NOTE:
1. «Le Monde», 12 aprile 1981.
2. Georges Bataille, Le coupable, pubblicato nel 1944 (Œuvres, V, p. 247).
3. Georges Bataille , 4 aprile 1936 (Œuvres, II, p. 273).
4. Georges Bataille, Le sacré (Œuvres, I).
5. Michail Bakunin, La libertà.
6. Georges Bataille, Les Pieds Nickelés.
7. Lettre aux médecins-chefs des asiles de fous, in «La Révolution Surréaliste», n. 3, 15 aprile 1925.
8. Jacques Rigaut, Testimonianza nell’«Affaire Barrès», Écrits.
9. Georges Bataille, Œuvres, II, p. 274).
10.Georges Bataille, Œuvres, II, pp. 108-9).
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