Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

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«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

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«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

12 gennaio 2010

Agli erranti

Centro di documentazione Porfido - Torino (2002)


[Sollecitati dagli ultimi accadimenti – i "fatti di Rosarno", ma anche la lotta vittoriosa degli operai della Fiege di Brembio (Lodi), in gran parte proletari immigrati dal Sud del Mondo – riproponiamo questo testo. Con l'auspicio che si tratti soltanto delle prime piccole avvisaglie che annunciano terremoti sociali di ben più vaste proporzioni.]

Abbiamo chiesto forza lavoro,
sono arrivati uomini.
Max Frisch

  Nessuno emigra per piacere — ecco una verità fin troppo semplice che in molti vogliono occultare. Se una persona lascia di buon grado la sua terra e i suoi affetti non la si definisce migrante, ma semplicemente viaggiatore o turista. La migrazione è uno spostamento forzato, un errare alla ricerca di condizioni di vita migliori.
  Ci sono attualmente 150 milioni di stranieri nel mondo, a causa di guerre, colpi di Stato, disastri ecologici, carestie o del semplice funzionamento della produzione industriale (distruzione delle campagne e delle foreste, licenziamenti di massa, eccetera). Tutti questi fattori compongono un mosaico d’oppressione e di miseria in cui gli effetti dello sfruttamento si fanno a loro volta cause immediate e remote di sofferenza e di sradicamento, in una spirale infinita che rende ipocrita ogni distinzione fra “sfollati”, “migranti”, “profughi”, “richiedenti asilo”, “rifugiati”, “sopravvissuti”. Basta pensare a quanto siano sociali le cosiddette emergenze ambientali (la carenza di acqua, la desertificazione crescente, la sterilità dei campi): l’esplosione di una raffineria di petrolio, unita alla distruzione di ogni autonomia locale su cui è stata edificata, può talvolta cambiare le sorti di un’intera popolazione.
  Contrariamente a quanto vorrebbe far credere la propaganda razzista, l’immigrazione riguarda per il solo 17 per cento il Nord ricco, coinvolgendo di fatto tutti i continenti (in particolare quello asiatico e quello africano); il che significa che per ogni Paese povero ce n’è uno ancora più povero da cui fuggono dei migranti. La mobilitazione totale imposta dall’Economia e dagli Stati è un fenomeno planetario, una guerra civile non dichiarata e senza confini: milioni di sfruttati errano attraverso l’inferno del paradiso mercantile, sballottati di frontiera in frontiera, costretti in campi profughi accerchiati dalla polizia e dall’esercito, gestiti dalle organizzazioni dette di carità — complici rispetto a tragedie di cui non denunciano le cause reali al solo scopo di sfruttarne le conseguenze —, affastellati nelle “zone di attesa” degli aeroporti o negli stadi (macabri circenses per chi non ha neanche il pane), rinchiusi in lager definiti “centri di permanenza temporanea”, infine impacchettati ed espulsi nella più totale indifferenza. Per molti aspetti si può dire che i volti di questi indesiderabili siano il volto del nostro presente — e anche per questo ci spaventano. L’immigrato ci fa paura perché vediamo rispecchiata nella sua la nostra miseria, perché nella sua erranza riconosciamo la nostra condizione quotidiana: quella di individui sempre più stranieri in questo mondo e sempre più stranieri a se stessi.
  Lo sradicamento è la condizione più diffusa nella presente società, si potrebbe dire il suo “centro”, e non una minaccia proveniente da un misterioso e terrifico altrove. Solo affondando lo sguardo nella nostra vita quotidiana possiamo capire in cosa la condizione degli immigrati ci coinvolge tutti. Prima, però, dobbiamo definire un concetto cardine: quello di clandestino.

La creazione del clandestino, la creazione del nemico

[…] cos’è lei? […]
Lei non è del castello, lei non è del paese, lei non è nulla.
Eppure anche lei è qualcosa, sventuratamente, è un forestiero, uno che è sempre
di troppo e sempre fra i piedi, uno che vi procura un sacco di grattacapi,
[…] che non si sa quali intenzioni abbia.
 F. Kafka

  Il “clandestino” è semplicemente un immigrato che non ha i documenti in regola. Questo non certo per puro piacere del rischio e dell’illegalità, bensì perché nella maggior parte dei casi, per avere tali documenti dovrebbe fornire garanzie il cui possesso non lo avrebbe reso migrante, ma turista o studente straniero. Se gli stessi criteri venissero applicati a tutti, saremmo buttati a mare a milioni. Quale disoccupato italiano, ad esempio, potrebbe fornire la garanzia di un reddito legale? Come farebbero tutti quei precari di qui che lavorano tramite le agenzie interinali, i cui contratti non sono riconosciuti agli immigrati per il permesso di soggiorno? Sono così numerosi, poi, gli italiani che vivono in un appartamento di 60 metri quadrati con altre due persone al massimo? Che li si legga, i vari decreti (di destra come di sinistra) sull’immigrazione, si capirà allora che la clandestinizzazione degli immigrati è un progetto preciso degli Stati. Perché?
  Uno straniero irregolare è più ricattabile, portato ad accettare, sotto la minaccia dell’espulsione, condizioni di lavoro e di esistenza ancora più odiose (precarietà, continui spostamenti, alloggi di fortuna, eccetera). E questa minaccia vale anche per chi il permesso di soggiorno ce l’ha, ma sa benissimo quanto sia facile perderlo quando non si è accondiscendenti con il principale e con gli agenti della questura. Con lo spettro della polizia, i padroni si procurano dei salariati docili, anzi, dei veri e propri lavoratori forzati.
Anche i partiti della destra più reazionaria e xenofoba sanno benissimo che una chiusura ermetica delle frontiere è non solo tecnicamente impossibile, ma anche non vantaggiosa. Secondo le Nazioni Unite, l’Italia dovrebbe, per mantenere l’attuale “equilibrio fra popolazione attiva e inattiva”, “accogliere”, da qui al 2025, una quota cinque volte maggiore di quella attualmente stabilita per anno. La Confindustria, infatti, suggerisce continuamente di raddoppiare le quote fissate finora.
  La concessione di permessi annuali e stagionali oppure il loro rifiuto determinano una precisa gerarchia sociale fra poveri. La stessa distinzione fra rimpatrio coatto immediato e espulsione (cioè l’obbligo, per l’immigrato irregolare, di presentarsi alle frontiere per essere rispedito a casa) permette di scegliere — sulla base di criteri etnici, di accordi economico-politici con i governi dei Paesi da cui l’immigrato proviene e delle necessità del mercato del lavoro — chi clandestinizzare e chi allontanare subito. Le autorità sanno benissimo, infatti, che nessuno si presenterà spontaneamente alle frontiere per farsi espellere; di certo non chi ha speso tutto quello che aveva — e talvolta anche di più — per pagarsi il viaggio di arrivo. Gli imprenditori definiscono le caratteristiche della merce che comprano (l’immigrato è una merce, come tutti del resto), lo Stato raccoglie i dati, la polizia esegue gli ordini.
  Gli allarmi dei politici e dei mass media, i proclami anti-immigrazione creano nemici immaginari, per spingere gli sfruttati di qui a scaricare su di un facile capro espiatorio le crescenti tensioni sociali e rassicurarli, facendo loro ammirare lo spettacolo di poveri ancora più precari e ricattati di loro; per farli sentire, infine, membri di un fantasma chiamato Nazione. Facendo dell’“irregolarità” — che essi stessi creano — un sinonimo di delinquenza e pericolosità, gli Stati giustificano un controllo poliziesco e una criminalizzazione sempre più striscianti dei conflitti di classe. È in questo contesto che si inserisce, ad esempio, la manipolazione del consenso dopo l’11 settembre, sintetizzata dall’ignobile slogan “clandestini=terroristi”, che unisce, se letto nei due sensi, la paranoia razzista alla richiesta di repressione nei confronti del nemico interno (il ribelle, il sovversivo).
  Tuonano, a destra come a sinistra, contro il racket che organizza i viaggi dei clandestini (descritti dai mass media come un’invasione, un flagello, come l’avanzata di un esercito), quando sono le loro leggi a favorirlo. Tuonano contro la “criminalità organizzata” che sfrutta tanti immigrati (fatto vero ma parziale), quando sono loro a fornirle la materia prima disperata e pronta a tutto. Stato e mafia, nella loro simbiosi storica, sono uniti dallo stesso principio liberale: gli affari sono affari.
  Il razzismo, strumento di esigenze economiche e politiche, trova spazio per dilagare in un contesto di massificazione e isolamento generalizzati, quando l’insicurezza crea paure opportunamente manipolabili. Serve a ben poco condannare moralmente o culturalmente il razzismo, poiché esso non è un’opinione o un “argomento”, ma una miseria psicologica, una “peste emozionale”. È nelle presenti condizioni sociali che occorre cercare la spiegazione del suo diffondersi e, al tempo stesso, le forze per combatterlo.

L’accoglienza di un Lager

  Definire Lager i Centri di Permanenza Temporanea per immigrati in attesa di espulsione — centri introdotti in Italia nel 1998 dal governo di sinistra con la legge Turco-Napolitano — non è un’enfasi retorica, come in fondo pensano anche molti di coloro che utilizzano tale formula. Si tratta di una definizione rigorosa. I Lager nazisti sono stati dei campi di concentramento in cui venivano rinchiusi individui che la polizia considerava, anche in assenza di condotte penalmente perseguibili, pericolosi per la sicurezza dello Stato. Questa misura preventiva — definita “detenzione protettiva”— consisteva nel togliere tutti i diritti civili e politici ad alcuni cittadini. Fossero profughi, ebrei, zingari, omosessuali o sovversivi, spettava alla polizia, dopo mesi o anni, decidere sul da farsi. I Lager, cioè, non erano prigioni nelle quali si scontava qualche reato, né un’estensione del diritto penale. Si trattava di campi in cui la Norma stabiliva la propria eccezione; in breve, una sospensione legale della legalità. Un Lager, dunque, non dipende dal numero degli internati né da quello degli assassinii (fra il 1935 e il 1937, prima dell’inizio della deportazione degli ebrei, gli internati in Germania erano 7500), bensì dalla sua natura politica e giuridica.
  Gli immigrati finiscono oggi nei Centri indipendentemente da eventuali reati, senza alcun procedimento penale: il loro internamento, disposto dal questore, è una semplice misura di polizia. Esattamente come accadeva nel 1940 sotto il regime di Vichy, quando i prefetti potevano rinchiudere gli individui “pericolosi per la difesa nazionale o la sicurezza pubblica” oppure (si badi) “gli stranieri in soprannumero rispetto all’economia nazionale”. Si può rinviare alla detenzione amministrativa nell’Algeria francese, al Sudafrica dell’apartheid o agli attuali ghetti per i palestinesi creati dallo Stato di Israele.
  Non è un caso se, rispetto alle condizioni infami dei centri per immigrati, i buoni democratici non si appellano al rispetto di una legge quale che sia, bensì a quello dei diritti umani — ultima maschera di fronte a donne e uomini cui non rimane altro che la pura appartenenza alla specie umana. Non li si può integrare come cittadini, si fa finta di integrarli come Uomini. L’uguaglianza astratta dei princìpi maschera ovunque le disuguaglianze reali.

Un nuovo sradicamento

Gli immigrati che sbarcavano per la prima volta
 a Battery Park non tardavano
ad accorgersi che quel che gli era stato
raccontato della meravigliosa America
non era per niente esatto:
la terra forse apparteneva davvero a tutti,
ma quelli che erano arrivati per primi
si erano già ampiamente serviti,
e a loro non restava altro che
ammassarsi in dieci nei tuguri senza finestre
del Lower East Side e lavorare quindici ore al
giorno. I tacchini non cadevano già arrostiti
direttamente nei piatti e le strade di New York
non erano lastricate d’oro.
Anzi, il più delle volte, non erano
lastricate affatto. E allora capivano che era proprio
per fargliele lastricare che li
avevano fatti venire. E per scavare gallerie
e canali, costruire strade, ponti, grandi
dighe, ferrovie, dissodare foreste, sfruttare
miniere e cave, fabbricare automobili e sigari,
carabine e vestiti, scarpe, chewing-gum,
corned-beef e saponette, e costruire
grattacieli ancora più alti
di quelli che avevano scoperto all’arrivo.
Georges Perec

  Se facciamo qualche passo indietro, ci risulterà evidente che lo sradicamento è un momento essenziale dello sviluppo del dominio statale e capitalista. Ai suoi albori, la produzione industriale ha strappato gli sfruttati dalle campagne e dai villaggi per concentrarli nelle città. L’antico saper fare dei contadini e degli artigiani è stato sostituito così dall’attività coatta e ripetitiva della fabbrica — attività impossibile da controllare, nei suoi strumenti e nelle sue finalità, dai nuovi proletari. I figli primogeniti dell’industrializzazione, quindi, hanno perso contemporaneamente i loro antichi luoghi di vita e le proprie antiche conoscenze, quelle che permettevano loro di procacciarsi autonomamente una buona parte dei propri mezzi di sussistenza. D’altra parte, imponendo a milioni di uomini e donne condizioni di vita simili (stessi luoghi, stessi problemi, stesso sapere), il capitalismo ne ha unificato le lotte, ha fatto ritrovare loro fratelli nuovi per combattere contro quella stessa vita insopportabile. Il Novecento ha segnato l’apice di questo concentramento produttivo e statale — i cui emblemi sono stati la fabbrica-quartiere e il Lager — ed insieme l’apice delle lotte sociali più radicali per la sua demolizione.
  Negli ultimi vent’anni, grazie alle innovazioni tecnologiche, il capitale ha sostituito alla vecchia fabbrica nuovi nuclei produttivi sempre più piccoli e dislocati sul territorio, disgregando anche il tessuto sociale all’interno del quale erano cresciute quelle lotte, e determinando così un nuovo sradicamento.
  Non solo. La ristrutturazione tecnologica ha velocizzato e facilitato gli scambi, aprendo il mondo intero alla concorrenza più feroce, travolgendo le economie ed i modi di vita di interi Paesi. In Africa, in Asia, in America Latina, la chiusura di moltissime fabbriche, i licenziamenti di massa, in un contesto sociale distrutto dal colonialismo, dalla deportazione degli abitanti dai villaggi alle bidonville, dai campi alle catene di montaggio, ha prodotto uno stuolo di poveri divenuti inutili ai loro padroni, di figli non voluti del capitalismo. Si aggiungano il crollo dei Paesi sedicenti comunisti e il racket dei debiti organizzato dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale e si otterrà una cartografia piuttosto precisa delle migrazioni, delle guerre etniche e religiose.
  Quello che oggi si chiama “flessibilità” e “precarietà” è la conseguenza di tutto ciò: un ulteriore progresso nella sottomissione alle macchine, una maggiore competizione, un peggioramento delle condizioni materiali (contratti, salute, eccetera). La ragione l’abbiamo vista: il capitalismo ha smantellato le “comunità” che aveva esso stesso creato. Sarebbe comunque parziale concepire la precarietà solo in senso economico, come assenza del posto fisso e del vecchio orgoglio per il proprio mestiere. Essa è un isolamento nella massificazione, cioè un conformismo fanatico senza spazi comuni. Nell’angoscioso vuoto di senso e di prospettive, ritorna mistificato il bisogno insoddisfatto di comunità, sotto forma di vecchie e nuove contrapposizioni nazionaliste, etniche o religiose, tragica riproposizione di identità collettive laddove è venuta meno ogni reciprocità reale tra gli individui. Ed è proprio in questo vuoto che trova spazio il discorso integralista, falsa promessa di una comunità redenta.

Guerra civile

  Tutto ciò porta a uno scenario che è sempre più quello della guerra civile permanente, senza distinzione tra “tempi di pace” e “tempi di guerra”. Il conflitto non viene più dichiarato — come ha dimostrato l’intervento militare nei Balcani —, ma semplicemente amministrato a garanzia del mantenimento dell’Ordine Mondiale.
  Questo scontro senza sosta attraversa l’intera società e gli stessi individui. Gli spazi comuni di dialogo e di lotta sono sostituiti dall’adesione agli stessi modelli mercantili: i poveri si fanno la guerra tra loro per la felpa o il cappellino alla moda. Gli individui si sentono sempre più irrilevanti, pronti allora a sacrificarsi per il primo trombone nazionalista o per uno straccio di bandiera. Maltrattati quotidianamente dallo Stato, eccoli a difendere con zelo una qualsiasi Padania (desolata e inquinata, con fabbriche e centri commerciali ovunque — sarebbe questa l’invidiabile “terra degli avi”?). Attaccati a quel miraggio di proprietà che è loro rimasto, hanno paura di scoprirsi per quello che sono: ingranaggi intercambiabili di una Megamacchina, bisognosi di psicofarmaci per arrivare a sera, sempre più invidiosi verso chiunque appaia anche solo più felice di loro. A una razionalità sempre più fredda, astratta e calcolatrice corrispondono delle pulsioni sempre più brutali e inconfessate. Cosa di meglio, allora, di qualcuno diverso per pelle o religione su cui scaricare il proprio rancore? Come diceva un mozambicano, la “gente ha preso la guerra dentro di sé”. Bastano alcune condizioni esterne perché tutto ciò esploda come in Bosnia. E queste condizioni, ce le stanno apparecchiando con cura. All’universalismo capitalista si oppone, in un tragico gioco di specchi, il particolarismo etnico. Sotto l’ordine istituzionale, con i suoi spazi sempre più anonimi e sorvegliati, cova l’implosione dei rapporti umani. Sembrano le stesse sabbie mobili da cui è emerso, negli anni Trenta, l’uomo totalitario.

Due uscite possibili

  Perché abbiamo parlato così tanto, fin qui, di immigrazione e di razzismo, dal momento che non siamo direttamente coinvolti dal problema dell’erranza e dell’espulsione? Il capitalismo stesso accomuna sempre di più le nostre vite all’insegna della precarietà e dell’impossibilità di decidere del nostro presente e del nostro futuro: è per questo che ci sentiamo fratelli, nei fatti, degli sfruttati che sbarcano sulle coste di questo Paese.
  Di fronte al sentimento di spoliazione che milioni di individui provano verso un imperialismo mercantile che costringe tutti a sognare lo stesso sogno senza vita, non è possibile alcun appello al dialogo e all’integrazione democratica. Checché ne dicano gli antirazzisti legalitari, è tardi per le ipocrite lezioni di educazione civica. Quando crescono ovunque — dalle bidonville di Caracas alle periferie di Parigi, dai territori palestinesi ai centri e agli stadi in cui vengono rinchiusi i clandestini — i campi in cui confinare la miseria; quando lo stato d’eccezione — cioè la sospensione giuridica di ogni diritto — diventa la norma; quando si lasciano letteralmente marcire milioni di esseri umani nelle riserve del paradiso capitalista; quando si militarizzano e si blindano interi quartieri (Genova, vi dice qualcosa?), parlare di integrazione è un’ignobile burla. Da queste condizioni di disperazione e di paura, da questa guerra civile planetaria, ci sono solo due uscite: o lo scontro fratricida (religioso e clanico, in tutte le sue varianti), oppure la tempesta sociale della guerra di classe.
  Il razzismo è la tomba di ogni lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori, è l’ultima carta — la più sporca — giocata da chi vorrebbe vederci massacrare tra di noi. Può evaporare solo nei momenti di rivolta comune, quando si riconoscono i propri nemici reali — gli sfruttatori e i loro tirapiedi — e ci si riconosce come sfruttati che non vogliono più esserlo. Lo scontro sociale degli anni Sessanta e Settanta in Italia — quando i giovani operai immigrati dal sud incontrarono quelli del nord sul terreno del sabotaggio, dello sciopero selvaggio e dell’assoluta slealtà verso il padrone — lo ha dimostrato. La scomparsa dopo gli anni Settanta delle lotte rivoluzionarie (dal Nicaragua all’Italia, dal Portogallo alla Germania, dalla Polonia all’Iran) ha sgretolato la base di una solidarietà concreta fra gli espropriati della Terra. Questa solidarietà potrà essere riconquistata solo nella rivolta, e non nelle parole impotenti dei nuovi terzomondisti e degli antirazzisti democratici.
  O il massacro clanico e religioso, dunque, o la guerra di classe. E solo in fondo a quest’ultima possiamo intravedere un mondo libero dallo Stato e dal denaro, in cui per vivere e viaggiare non ci sarà bisogno di alcun permesso.

Una macchina che si può spezzare

  Negli anni Ottanta c’era uno slogan che diceva: “Oggi non è tanto il rumore degli scarponi che dobbiamo temere, quanto il silenzio delle pantofole”. Ora stanno tornando entrambi. Con un linguaggio da Guerra Santa (le forze dell’ordine quale “esercito del bene” che protegge i cittadini dagli immigrati, l’“esercito del male”, come ha affermato di recente il presidente del Consiglio), lo Stato sta organizzando quotidianamente retate ai danni degli immigrati. Le loro case vengono devastate, i clandestini vengono rastrellati per strada e deportati, rinchiusi nei lager ed espulsi nella più totale indifferenza. In numerose città sono già in costruzione nuovi centri di detenzione. La legge Bossi-Fini, degna continuazione della Turco-Napolitano, vuole limitare i permessi di soggiorno in base alla durata esatta del contratto di lavoro, schedare tutti gli immigrati, trasformare la clandestinità in reato e rafforzare la macchina delle espulsioni.
  Il meccanismo democratico della cittadinanza e dei diritti, per quanto allargati, presupporrà sempre l’esistenza di esclusi. Criticare e cercare di impedire le espulsioni degli immigrati significa al tempo stesso realizzare una critica in atto del razzismo e del nazionalismo; significa cercare uno spazio comune di rivolta contro lo sradicamento capitalista che ci coinvolge tutti; significa ostacolare un importante quanto odioso meccanismo repressivo; significa spezzare il silenzio e l’indifferenza dei civilizzati che rimangono a guardare; significa infine mettere in discussione il concetto stesso di legge, all’insegna del principio “siamo tutti clandestini”. Si tratta, insomma, di un attacco a uno dei pilastri della società statale e di classe: la competizione fra poveri, la sostituzione, oggi sempre più minacciosa, della guerra etnica o religiosa alla guerra sociale.
  La macchina delle espulsioni ha bisogno, per funzionare, del concorso di molte strutture pubbliche e private (dalla Croce Rossa che cogestisce i lager alle ditte che forniscono servizi, dalle compagnie aeree che deportano i clandestini agli aeroporti che organizzano le zone d’attesa, passando per le associazioni dette di carità che collaborano con la polizia). Tutte queste responsabilità sono ben visibili e ben attaccabili. Dalle azioni contro i centri di detenzione (come è successo un paio di anni fa in Belgio e qualche mese fa in Australia, quando delle manifestazioni si sono concluse con la liberazione di alcuni clandestini), a quelle contro le “zone di attesa” (come in Francia, ai danni della catena di hotel Ibis, che fornisce le proprie stanze alla polizia) o per impedire i voli dell’infamia (a Francoforte, un sabotaggio dei cavi a fibre ottiche aveva messo fuori uso, qualche anno fa, tutti i computer di un aeroporto per un paio di giorni), mille sono le pratiche che un movimento contro le espulsioni può realizzare.
  Oggi come non mai è nelle strade che si può ricostruire la solidarietà di classe. Nella complicità contro le retate della polizia; nella lotta contro l’occupazione militare dei quartieri; nell’ostinato rifiuto di ogni divisione che i padroni vorrebbero imporci (italiani e stranieri, immigrati regolari e clandestini); nella consapevolezza che ogni oltraggio subito da qualsiasi espropriato della Terra è un oltraggio a tutti - solo in questa maniera gli sfruttati di mille Paesi potranno finalmente riconoscersi.

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