Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

* * *

«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

* * *

«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

7 ottobre 2008

Droga e società capitalista neomoderna


Alcune tesi interpretative sul Drago

di Riccardo D'Este
 
Stampa popolare francese del principio dell'Ottocento Le monde renversé, Le-loup, Le Mans

Uno  
Ogni discorso intorno alla droga che non parta dai suoi presupposti fondamentali è, se va bene, fuorviante e mistificatorio e, sennò, direttamente collusivo con la società presente che la produce e riproduce. I presupposti essenziali sono i seguenti:
* la droga è una merce al più alto livello di concentrazione economica e spettacolare;
* la droga, nel suo consumo e nella sua diffusione, nasce da bisogni individuali e collettivi frustrati, irrealizzati e costretti in una one way, in una strada a senso unico;
* la droga ed i suoi fruitori vengono usati per il controllo sociale allargato;
* la droga può provocare gravi malattie (come il carcere, la comunità terapeutica, l'aids eccetera) non tanto per la sua qualità intrinseca come sostanza, ma per la voluta interdizione sociale di cui il proibizionismo è l'aspetto più evidente;
* per questi stessi motivi, la droga produce criminalità, devianza, demenza ed ideologia, fenomeni che da sé sola non potrebbe produrre o produrrebbe in misura assai limitata;
* la droga, infine, assume il suo completo senso neomoderno, fronte alla glaciazione sociale ed alla scomparsa di qualsiasi ipotesi credibile di progresso (produttivo, intellettuale, etico eccetera), solo se riveste i panni del Drago, figura mitica ricorrente ma che trova la sua massima angoscia descrittiva nei troppo popolati deserti contemporanei.
Due 
Prima di affrontare partitamente i sei presupposti fondamentali enunciati sopra, sono necessarie alcune chiarificazioni metodologiche, di merito ed attinenti alla politica (ovviamente massmediatizzata).
Per quanto concerne il metodo, assumiamo come droga la definizione corrente, il concetto di sostanza stupefacente, facendolo solo per comodità analitica e non certo per adesione ideologica. Senza volerci dilungare su quanto abbiamo già scritto in altre occasioni, ci pare immediatamente palese che l'uso di altre sostanze, a partire dall'automobile (che così finalmente smette di sembrare forma per tornare a ciò che non ha mai smesso di essere: sostanza), all'uso di condizioni sociali precostituite, dalla famiglia alla discoteca, possa rientrare a giusto titolo nell'uso di droghe, talora pesanti, spesso pesantissime. Se, del tutto provvisoriamente ed in attesa di un adeguato manuale per districarci tra le droghe nella società contemporanea, intesa anch'essa come drogata e drogogena nonché neomoderna, accettiamo l'equivalenza droga=sostanza "stupefacente" (quando evidentemente la stupefazione non è più materia dei nostri desertici giorni) soltanto perché, per l'appunto, è un oggetto del contendere; su questo, in particolare, si esercitano e sviluppano interessi, ideologie, repressioni di Stato e riproduzioni di capitale. Accettiamo, quindi, di scendere al livello della falsificazione per colpire duramente il falso, al livello del nemico per sostanziare vieppiù la nostra inimicizia radicale verso l'esistente.
Riguardo al merito, va subito affermato che la "sostanza stupefacente" (droga) determina assai poco la figura sociale del "drogato". Vi sono due sovraimpressioni ideologiche che è tempo di svelare e vedremo di farlo con esempi. Se il bevitore di Campari o di Glen Grant non viene immediatamente definito come alcolista, solo per il fatto di assumere quelle sostanze (si parla di alcolista o alcolizzato solo ad alti livelli di dipendenza), se i fumatori non vengono usualmente chiamati tabagisti, se non nel linguaggio sedicente scientifico ed in casi di elevata intossicazione, se al termine "automobilista" o "lavoratore" o "padre" non viene quasi mai data una connotazione negativa, ed anzi spesso ne ha una positiva, mentre sono evidenti l'assuefazione ed i danni che questi ruoli reiterati producono, il frequentatore di sostanze cosiddette stupefacenti è per ciò stesso un "drogato". E ciò anche nel caso di consumatori rapsodici o nel caso di consumatori di sostanze a bassissimo o nullo rischio di assuefazione, ma comunque indicate come "stupefacenti". Il linguaggio svela l'ideologia di cui si nutre, così come l'ideologia denuncia palesemente i suoi linguaggi. Queste merci, dunque, hanno una sovraimpressione: sono droghe e pertanto drogano. E la valenza sedicente morale vi è sempre sottesa.
La seconda sovraimpressione è ancora più sottile: nei sostrati del concetto di drogato vengono inserite immediatamente delle connotazioni repulsive che consentono la repressione o, del pari, il tentativo di recupero. «Rapina nel posto x: erano probabilmente drogati». La rapina, moralmente riprovata da una società normalmente rapinatrice, in questi casi viene in qualche modo "spiegata" dalla presunta natura dei responsabili. Lo stesso direttore generale degli Istituti penitenziari, Niccolò Amato, in una recentissima intervista al giornale torinese "La Stampa" sostiene che i comportamenti delittuosi dei drogati sono essenzialmente di due tipi: quelli messi in opera per procurarsi la sostanza e quelli compiuti sotto l'effetto delle sostanze medesime. Se il primo aspetto (assolutamente vero) dovrebbe, da sé solo, mettere in crisi tutte le ipotesi proibizioniste, il secondo (sostanzialmente falso o comunque irrilevante) tende invece a ribadirle. Se un individuo, sotto l'effetto di sostanze definite stupefacenti, tende a commettere dei delitti, il compito della società è quello di difendersi e quindi di proibire queste sostanze criminogene. L'ironia è sin troppo facile. Prendiamo l'automobile come esempio. Molti possono commettere reati per potersi permettere un'automobile, specie se di lusso eccetera (vero) e molti li possono commettere sotto l'effetto dell'automobile medesima (vero), se per questi si intendono le varie stragi automobilistiche. Ma nessuno pensa di mettere sotto accusa, neppure sul terreno linguistico, l' automobilista, cioè l'automobilista in sé e per sé.
La droga, quindi, esiste non solo come merce materiale ma anche come merce immateriale: fonte di rappresentazione collettiva e di collettiva rimozione di ciò che vi sta alla base.
Va da sé che il drogato, inteso come fruitore occasionale o stabile di certe merci, le sostanze stupefacenti, esiste e possiede delle sue caratteristiche particolari. Ma non esiste il drogato come entità a sé stante, se non nelle menti ammalate degli specialisti; dopo la scomposizione delle classi socio logicamente intese, solo gli imbecilli possono approdare all 'ideologia di queste nuove "classi" del tutto surrettizie. E poco importa che uno sia pro, l'altro contro e l'altro ancora agnostico. Il drogato è una figura tipologica e topologica volutamente astratta dalle condizioni materiali che vi sono sottese e dalla vasta ricchezza dei comportamenti soggettivi. Né le altre definizioni, come tossicomane, tossicodipendente eccetera, valgono molto di più, se non nelle classificazioni sociologiche, criminologiche o mediche. Evidentemente, al fine dell' analisi, si può tipicizzare, e dunque fissare, un dato comportamento, ma questa tipicizzazione è ancora una volta riduttiva rispetto alla realtà, usa un procedimento che si vuole scientifico ma che in realtà è solo metodologia di metodologia ed avanti così. La vita, anche disperata e "deviata", sfugge alle statistiche, quanto i cultori delle statistiche sfuggono alla vita.
Per quanto attiene alla politica, è evidentissimo che su un simile problema, reale sulla pelle dei soggetti, si giocano importanti ruoli e sostanziosi poteri. Lo dimostra lo stesso modificarsi delle leggi, dato che le leggi sono un' espressione della politica, dei suoi giochi e dei poteri che sono in ballo.
Limitiamoci all'Italia. Nel 1954 gli USA, per mantenere meglio il controllo statalmafioso di una merce la cui domanda era in ascesa, imposero una legge fortemente repressiva: per valorizzare la merce bisognava ricorrere alla proibizione. Fu la spinta per la creazione di valore aggiunto, sebbene in Europa il problema allora non si ponesse se non a livelli individuali e limitatissimi. Nel 1975, quando la merce circolava già con una certa abbondanza ma senza essersi ancora del tutto affermata sul mercato, sotto spinte sedicenti liberali (in realtà volte al consolidamento ed all'allargamento del mercato) l'Italia adottò una legge che si pretendeva permissiva, anche se la condanna dell 'uso di droghe doveva rimanere, e non solo in campo etico, ma "mitigata" dal concetto di "modica quantità".
Dopo lunghi colloqui americani con Rudolph Giuliani, e sotto la spinta del mercato internazionale, Bettino Craxi nel 1988 si impuntò per far passare una legge fortemente sanzionatoria anche nei confronti dei consumatori, lasciando un ampio margine discrezionale e valorizzando le comunità terapeutiche (merce sociale ed ideologica). La ottenne nel 1990 ed è la legge che va sotto il nome di Vassalli-Russo Jervolino.
In questi ultimissimi tempi, sembra esservi un 'ulteriore "sterzata", assai pubblicizzata massmediaticamente, che dovrebbe correggere gli aspetti più ideologici e repressivi della legge oggi in vigore. Il mercato va stabilizzato ed è in questa chiave che va letta la proposta Amato-Pannella.
Da questo indecoroso balletto scaturiscono anche indicazioni politiche. La "droga" viene usata come cavallo di battaglia per sostenere questa o quella alleanza, per creare un'immagine del ceto politico. Se nel 1988 Craxi e chi lo sosteneva voleva mostrarsi come partito d'ordine, oggi, dopo il progressivo sfarinamento dei partiti, i suoi successori, fronte al nuovo partito d'ordine leghista, lamalfiano, neofascista eccetera, cercano di rivestire spettacolisticamente i panni dei difensori delle libertà. I repressori ed i recuperatori hanno in comune la difesa di questa società, la sua perpetuazione. E questa società deve essere terapeutica rispetto ad ogni sommovimento, individuale o collettivo che sia. Non per caso l'arco delle scelte possibili di comunità è vastissimo e va, per l'appunto, dai muscolosi repressori ai pallidi recuperatori: quello che importa è che la terapia e la cosiddetta risocializzazzione vengano imposte. Le leggi sono solo il suggello di tale percorso di autonomizzazione di una società che deve amministrarsi, essendo giunta al capolinea nella produzione di idee, di innovazioni materiali, di progettualità. Con la progressiva caduta dell'economia, la politica assume un ruolo centrale nell'amministrazione, determinando a sua volta una nuova economia, quella fondata sull'imposizione autoritativa di valore e di mercato. Il senso delle leggi va interpretato in questi termini.
Tre 
Il primo dei presupposti essenziali esposti all'inizio è che la droga, come merce, rappresenta uno dei più alti livelli di concentrazione economica e spettacolare che si conoscano nella società neomoderna. L'ossessivo processo di valorizzazione è sotto gli occhi di tutti e possiamo fare anche i conti della cuoca. Nel cosiddetto Stato degli Shan, tra Birmania, Laos e Thailandia, retto dal famoso Khun Sa (al proposito si veda Intorno al Drago, Nautilus, 1990), un grammo di eroina può costare, se la quantità acquistata è considerevole, non più del corrispettivo di 5.000 lire italiane, con ciò comprendendo anche la tangente che si deve versare per entrare in quel territorio. In Italia, a livello medio, viene a costare al consumatore circa 150.000 lire, dopo vari passaggi e vari tagli. Vogliamo porre, per ipotesi, che il costo dei passaggi vada a pari con il guadagno dovuto ai tagli? (E ciò non è comunque vero perché si sa, a dispetto di giornalisti e sedicenti esperti, che un chilo di eroina in Italia, e pura sopra il 75%, lo si compra con 50 milioni circa, sicché il grammo viene a costare 50.000 lire. E' altresì risaputo che la purezza, al dettaglio, difficilmente supera il 10%, di modo che i conti sono presto fatti. Da un grammo, che costava 50, ne vengono ricavati circa 7.7 per 150.000 che fa un milione e cinquanta, il che significa che in ogni grammo c'è un valore addizionale di un milione.) Ma ritorniamo pure all'ipotesi iniziale, spropositata per difetto. Quale merce si autovalorizza di 30 volte, pagati lautamente tutti i costi possibili? Nessuna, ideologia e spettacolo a parte, ma sarebbe un discorso diverso. (Per la cocaina la valutazione è analoga, se non maggiore. L 'hashish, il "parente povero" delle droghe, ha un'autovalorizzazione, tutte le spese pagate, solo di dieci volte!) Allora, in modo manifesto, la droga è una merce eccellente, cioè ad altissimo tasso di autovalorizzazione. Naturalmente a causa del proibizionismo che determina e sostiene il mercato. Tutto ciò dal punto di vista economico, cioè della cuoca.
Ma va considerato tutto l'indotto e qui si entra in un terreno che fluttua tra l'economico e lo spettacolare e che fa assumere una vigenza di valore assai superiore alla merce. Sarebbe futile qui calcolare quanti mercanti, quanti ricettatori, quanti poliziotti, quanti carabinieri, quante guardie di finanza, quanti secondini, quanti magistrati, quanti avvocati, quanti giornalisti eccetera ricavano la loro paga per il lesso dall'esistenza della droga e del drogato. E medici e psicologi e psichiatri. Nonché, ovviamente, i professionisti del supposto recupero della materia prima, il drogato.
Stampa popolare seicentesca, Il mondo alla riversa (Milano, Castello Sforzesco, Gabinetto delle stampe, Collezione Bertarelli)
Si giunge così, quasi scivolando, all'alto tasso di concentrazione spettacolare della merce droga. La droga non potrebbe avere il suo valore economico senza possedere uno specifico valore spettacolare, dato da un miscuglio di esibizione e di presunto rischio, da un 'immagine della trasgressività e dalla realtà repressiva e recuperatoria. Chi vende droga ha bisogno di chi vende recupero (comunità) e viceversa. Lo Stato, vigile, regola il traffico. Chi assume sostanze stupefacenti deve credere nella droga, poi odiarla, poi sperare di "recuperarsi socialmente" e via così, almeno in buona parte dei casi. Senza l'ideologia, le sostanze cosiddette stupefacenti sarebbero delle merci povere; con lo spettacolo diventano merci eccellenti, inferiori solo al danaro. (Si pensi soltanto al cosiddetto costo del danaro, del tutto fittizio e sovradeterminato.)
Eccoci: questa merce che si valorizza in progress e che per ciò ha bisogno di trafficanti e poliziotti, ma anche di giuristi e di mafiosi, di giornalisti e di politici, di Stato, è divenuta la merce per eccellenza della società neo moderna, quella in cui il valore d'uso è quasi irrintracciabile nella frenesia insensata del valore di scambio.
Eccoci: la fine storica del progresso ha determinato il suo mostro spettacolare: la riproduzione drogata e drogogena, supportata dalla drogorepressione.
Quattro 
La gamma dei bisogni umani a cui le droghe dovrebbero rispondere è vastissima. Le sostanze euforizzanti o calmanti o che alterano comunque gli stati di coscienza, cioè le cosiddette droghe, sono essenzialmente piacevoli, seppur in misura diversa ed a seconda della sensibilità di ciascuno, come tutti sappiamo. Infatti, neppure la caricatura di un Muccioli, già di per sé caricaturale rispetto all'intelligenza, potrebbe sostenere che la gente assume sostanze stupefacenti solo per farsi del male o per culto del Male. Le pulsioni tanatiche sicuramente esistono ed hanno il loro peso specifico nel processo di assunzione di droghe, ma sono assai più complesse, stratificate, profonde e soprattutto coinvolgono molte condotte umane anche al di fuori della droga.
Bisogna affermare in tutta serenità intellettuale che le droghe danno, o possono dare, degli effettivi piaceri, oltre alla simulazione dei medesimi. E' pur vero che la coazione a ripetere, insieme all' ossessiva ricerca del danaro necessario per procurarsi la sostanza e della rete di rapporti indispensabili per stare nel "giro" (e tutto ciò è essenzialmente collegato alla tossicodipendenza), è stressante e può diventare odiosa al punto da cancellare i piaceri iniziali o momentanei. Ma anche qui bisogna essere precisi, senza veli ideologici o moralistici. Spesso proprio questa iterazione fa parte dei "piaceri" della tossicodipendenza e peraltro già quasi quarant'anni fa William S. Burroughs, scrittore per certi altri versi insopportabile e neoavanguardista, affermava che la migliore sostanza è quella che dà più rapidamente assuefazione, proprio perché spesso il tossicodipendente cerca la dipendenza, la coazione a ripetere, vale a dire qualcosa che gli invada l'esistenza e ad essa dia un senso, ancorché stravolto. (Nella fattispecie, Burroughs esaltava, non senza evidenti venature di ironia, la straordinaria capacità di gregarizzazione dei tedeschi, inventori, dopo l'eroina Bayer, di un'eroina sintetica conosciuta come Eukodol e commercializzata in Italia come Eucodale, la cui capacità assuefattiva è decisamente superiore a quella dell' eroina "naturale".)
La questione è più semplice di quel che può apparire a prima vista. A chi va tutti i giorni, iterativamente, a scuola o al lavoro ed intrattiene, nella vita corrente e famigliare, rapporti che si riproducono indefinitamente può anche sembrare strano o malato che qualcuno cerchi l' iterazione nella e della droga, ciò che va sotto i nomi di "schiavitù", di "tunnel" eccetera. In realtà è proprio questo che molti drogati cercano: una normalità nell' (apparente) anormalità, una costanza nella (apparente) diversità. Il consumo di droghe che procurano assuefazione può riempire le giornate, può riempire intere vite, sinché morte non li divida. Nell'evidente impresentabilità ed insopportabilità della sopravvivenza coatta (scuola, lavoro, famiglia, soldi, consumi eccetera) la droga può sembrare un' avventura, un essere o trovarsi al di là di quei recinti. A cui, ovviamente, va aggiunto il piacere diretto che la sostanza può procurare. In una certa fase della sua evoluzione tossicomane, non vi è persona più attiva del consumatore di droghe ad alto tasso di assuefazione fisica o psichica (in particolare gli oppiacei o i derivati della coca): cerca e trova continuamente soldi, cerca e trova continuamente chi gli fornisce l'ambita sostanza, cerca e tro­va con ogni mezzo.
In una società che colonizza le esistenze di ciascuno può avvenire il paradosso: la schiavitù volontaria. L'horror vacui della sopravvivenza spinge a rifugiarsi in ogni apparente eccesso o, viceversa, in una normalità caricaturale.
La droga ha questo grande potere attrattivo: oltre ad offrire un qualche piacere, impone un ciclo di attività onnivore ed onnipresenti. In assenza di vita reale, il massimo grado di simulazione è ciò che compensa, o sembra compensare, la mutilazione e l'assenza. In una società in cui il consumo è tutto, naturalmente non può che trionfare il consumo più parossistico, specie se è eterodiretto e consente un alto tasso di profitto nell' amministrazione e per essa.
Cinque 
Non cadremo certo anche noi nell'iperbole dell'ultrasinistra minoritaria per cui la diffusione di droghe "pesanti" sarebbe stata voluta dai "padroni" per contrastare la sovversione sociale, inquinando le menti e le braccia migliori della nostra generazione. Ben labile sarebbe stata questa intenzionalità sovversiva se fosse bastata una manciata di polveri per ridurla in polvere. Il movimento è stato esattamente opposto: quando il "sogno di una cosa" non è stato all'altezza delle esigenze contemporanee, e spesso è diventato un incubo, quando il progetto rivoluzionario, o presunto tale, si è rivelato inconsistente e si è sgretolato nel suo possibile senso, riducendosi a microstorie politiche, di capetti senza abbastanza gregari e di gregari alla disperata ricerca di uscire dal gregariato, ma senza alcun progetto, allora la droga è stata un approdo anche per molti di quell'ultrasinistra che immotivatamente si autodefiniva rivoluzionaria. Vada sé che dopo un Brandirali o dopo un Sofri il cantuccio delle droghe possa sembrare caldo. Vada sé che tra un dirigente militante ed un normale spacciatore nessuno avrebbe dei ragionevoli dubbi. Vada sé che fra l'impotente schema operaista o la velleità anarchista o l'improbabile sicumera lottarmatista e la prepotente voglia di vivere degli individui si è facilmente insinuata la droga. Va da sé. Ma, come sempre, l'ultrasinistra parla solo di se stessa e per se stessa, come se a pochi metri dalla sua miopia ci fosse un altro continente, che forse c'è.
In realtà, la droga è un fenomeno intrinsecamente e profondamente sociale. Ha toccato gli ex ribelli quanto, se non più, i potenziali integrati. Possiede una valenza politica soltanto in seconda lettura. Perché possiede una sua particolarissima economia, frutto della società della riproduzione, dello spettacolo e dello spreco, e perché incatena i soggetti, quanto il lavoro se non di più, a quella iteratività che consente la continuazione della gestione politica. Il suo specifico uso politico sta nella falsa e coartata contrapposizione: drogaggio e recupero sociale.
Quando parliamo di controllo sociale allargato esprimiamo letteralmente quella che è la verità di fatto. Non è che la società matrigna si inventi forme di controllo sociale per impedire la crescita dei suoi antagonisti, anche se questo è un obiettivo intrinseco e dunque sempre presente. La società in quanto tale è votata al controllo, per il suo mantenimento, ed usa tutti gli strumenti opportuni per consolidarlo, estenderlo, allargarlo. La droga rappresenta controllo sociale non tanto perché disinnesca potenzialità sovversive, quanto perché i suoi fruitori vengono spinti alla coazione a ripetere ed all' auto gratificazione, alla rappresentazione di sé come "diversi". Il controllo si esercita attraverso l'anestesia; è, quindi, una misura intrinseca alla forma del dominio.
Chi potrebbe onestamente sostenere che la coca in sé è un male? Eppure è servita per secoli per far sopportare meglio la fatica ai contadini peruviani o colombiani eccetera, ed ancor oggi si risolve spesso in un input per attività per lo più irragionevoli. Chi potrebbe dire che l'alcol è in sé spiacevole? Eppure gli operai delle prime industrie inglesi, e non solo, con l'alcol potevano tollerare una condizione altrimenti inaccettabile, ed ancor oggi è veicolo di un'euforia altrimenti del tutto immotivata (si pensi agli hooligans, per esempio). Il controllo è preventivo ed anestetico, come dimostrano le grandi istituzioni: famiglia, scuola, (luogo di) lavoro, (fascino del) danaro eccetera, per tacere dell'ignominia dell'alienazione religiosa che, mutando i suoi panni nei vari continenti e riammodernando costantemente le sue forme, è uno degli esempi massimi della schiavitù in qualche modo volontaria e compartecipata.
La droga sta dentro il controllo sociale perché il controllo sociale è di per sé drogato. La sostanza stupefacente c'entra ben poco in questo meccanismo. Quello che invece c'entra è l'obbligo a movimenti quotidiani ossessivi, ad atteggiamenti più riproduttivi che produttivi.
Il controllo sociale attraverso il controllo dei fruitori di sostanze stupefacenti è esattamente di questo tipo: indotti determinati bisogni, il controllo diventa automatico, nel senso che le condotte dei singoli o dei gruppi divengono facilmente prevedibili. La previsione è la base del controllo. La proliferazione delle comunità terapeutiche, favorite da leggi proibizioniste, da investimenti economici, da interventi politici, nasce proprio dal bisogno di controllare e gestire interamente il ciclo. Come il cittadino diventa sempre più drogato, il drogato deve divenire sempre più cittadino. I concetti stessi di recupero e di risocializzazione sono, nella loro ripugnanza, assai indicativi: si recupera qualcuno ai valori glaciati di questa società, si risocializza qua­cuno rendendolo membro attivo (cioè totalmente passivo!) nella società della merce e dello spettacolo.
Sei 
La qualità intrinseca delle sostanze definite droghe spesso è assai irrilevante rispetto al peso che viene loro sovraggiunto dal contesto sociale e nell'uso che in certa misura viene favorito o consentito od obbligato. E ciò vale soprattutto per le malattie indotte dalla droga. Le droghe in quanto tali possono provocare varie alterazioni, a volte piacevoli ed umanamente positive ed a volte spiacevoli. Ed anche talune malattie in quanto sostanze (per esempio depressioni polmonari o epatopatie) e per il tipo di assunzione (ad esempio, le flebiti sono frequenti in chi ricorre all'uso dell'ago, così come riniti ed affezioni rinolaringee sono frequenti in chi ricorre all'inalazione). Ma le malattie più gravi sono quasi sempre determinate dall'interdizione sociale, dalle leggi e dalle morali, dalla condizione di minorità in cui il soggetto definito drogato viene a ritrovarsi. Per comodità e sveltezza di analisi, tralasciamo qui le malattie che in qualche misura possono essere considerate "minori" ed affrontiamo le tre più gravi: il carcere, la comunità terapeutica e l'aids.
Stampa popolare seicentesca, Il mondo alla riversa
Ad alcuni potrà sembrare bizzarro che si consideri il carcere come una malattia, ma, schiettamente, non sappiamo trovare dei termini migliori per definirlo. E' una malattia dell'intera società, è un forte riproduttore e diffusore collettivo di malattie, è direttamente patogeno rispetto ai soggetti che sono costretti ad attraversarlo. E' il segno di un morbo sociale e, a sua volta, è induttore di malattie specifiche, mentali e fisiche. E' pur vero, come si dice, che siamo tutti in qualche misura prigionieri dei nostri ruoli e dei comportamenti imposti, ma è altresì vero che il carcere è uno dei punti massimi di concentrazione dell' espropriazione, dell'innaturalità a cui tutti siamo sottoposti. Chi parla di un carcere "dal volto umano", di un carcere "a misura d'uomo", di uno strumento di risocializzazione, mente sapendo di mentire. L'unica cura riguardo a questa grave malattia è evidentemente l'abolizione del carcere medesimo, provvedimento non solo socialmente possibile e legittimo, ma umanamente necessario.
Esaminiamo il rapporto droga-carcere, e viceversa. Non ci rifacciamo a dati statistici precisi, perché per lo più confusi e spesso introvabili, eccettuate le più fredde descrizioni (tot detenuti per reati di droga, tot detenuti che si sono dichiarati tossicodipendenti eccetera), e soprattutto perché sono essenzialmente inaffidabili (la statistica è, per sua natura, una "scienza" appiattente, che dunque descrive solo ciò che già intende descrivere). Nondimeno tutti sappiamo che i frequentatori delle carceri - ed è significativo il delirante aumento in questo periodo della popolazione detenuta, nonostante il considerevole incremento delle "misure alternative" - in buona misura, in maniera diretta o indiretta, hanno a che vedere con le droghe. I dati ufficiali parlano di più di un terzo della popolazione carceraria, quantificandolo in 15.000-18.000, rispetto ad un totale che si aggira sulle 45.000 unità e che è in costante aumento. Secondo calcoli comparativi e fondandoci su esperienze ed informazioni dirette, sosteniamo che i detenuti che in qualche modo hanno a che fare con le droghe sono più della metà della popolazione prigioniera complessiva.
I perché di questa situazione sono di un' evidenza così palmare che ci si vergogna quasi ad affrontarli e discuterli. Le leggi proibizioniste hanno sicuramente un 'incidenza diretta (i reati specificatamente relativi alle droghe), ma assai di più indiretta, e cioè influenzando il mercato ed i suoi prezzi. Nei due sensi: quello del commerciante e quello del consumatore. Se una consistente fetta di società di affari, e non solo di origine malavitosa e mafiosa, si è riciclata nel traffico di stupefacenti è palesemente per l'altissimo tasso di profitto che questo tipo di attività commerciale consente, come si è già descritto. A parte piccole attività microimprenditoriali che possiamo definire quasi artigianali, si tratta per lo più di oligopoli diffusi territorialmente. Ma gli alti profitti determinano una serie di altre attività indotte che conducono al carcere. Non si parla soltanto, per esempio, del riciclaggio del danaro "sporco" (noi tuttavia non conosciamo danaro "pulito"), ma del potere che deriva da queste grosse potenzialità di investimento e che, da un lato, consente un ampio arruolamento di manovalanza a basso costo - non solo per il traffico in sé, ma anche per il reperimento di armi, per azioni violente eccetera - e, dall' altro, un costante intervento nelle e sulle strutture pubbliche per la realizzazione del plusvalore già accumulato. Questo dal lato del commerciante.
Dal lato del consumatore, i prezzi elevati delle sostanze spingono assai spesso ad attività delinquenziali (e di ciò tratteremo nel prossimo paragrafo) per far fronte a delle spese che altrimenti sarebbero ingestibili. Va da sé che i due aspetti spesso si intersecano: molti venditori diventano progressivamente consumatori, molti consumatori diventano progressivamente venditori o comunque collegati direttamente al ciclo della valorizzazione delle droghe.
Il carcere, dunque, è una delle malattie più fortemente determinate dalla merce droga e dal suo valore imposto.
La comunità terapeutica è la seconda malattia che vogliamo prendere in esame. Sappiamo che molti potranno stupirsi o addirittura scandalizzarsi, in quanto, vedendo la realtà con lenti che fanno apparire i fatti in modo rovesciato, credono, o fingono di credere, che la comunità terapeutica sia - ed il nome stesso indurrebbe a crederlo - la cura, o almeno una delle cure, rispetto alla vera malattia, cioè la droga. Questo è falso in senso stretto ed in senso ampio.
Non ci riferiamo soltanto a quelle comunità lager che usano metodi altamente coercitivi e che vanno piuttosto accomunate al carcere, ma all'essenza di tutte le comunità terapeutiche.
Lo scopo dichiaratamente salvifico della comunità si fonda su un assioma: la droga, ancorché fenomeno di diffusione sociale, è fondamentalmente un problema individuale e spinge i soggetti nell' emarginazione. Il còmpito della comunità è quello di rimodellare la personalità dell 'individuo e di renderla compatibile con l'ambiente circostante, alias la società. Dunque, lo si voglia lucidamente o meno, la comunità si erige come pilastro nella perpetuazione della società esistente. Non a caso i termini più usati sono quelli di "recupero", di "risocializzazione" e di "reinserimento" (alcuni, più raffinati o solo più cinici, parlano di "rifunzionalizzazione", neanche che il "drogato" non fosse già di per sé funzionale, sia alla società che alle loro tasche). La società esistente viene assunta come parametro e sostanzialmente immutabile, se non attraverso gradualissime modificazioni. Ma se questo, da un punto di vista teorico radicale, è già nauseabondo, nonché sconfessato dai fatti di ogni giorno, ben più gravi ne sono i risultati pratici sui singoli individui, o su gruppi di essi, ed è per questo che a buon diritto parliamo di malattia.
Malattia, in quanto la rimodellazione della "personalità" del soggetto considerato malato perché "drogato", richiede una sua più o meno volontaria alienazione: il drogato si aliena negli operatori, più in generale nell'ideologia proposta dalla comunità, più in generale ancora nelle ideologie dominanti della società di cui la comunità è espressione. Il "drogato" che ritorna "sano" in realtà diventa comunitàdipendente, tossico dell'ideologia che gli viene propinata. Nei fatti, spesso ritorna alle sue pratiche precedenti, ma con molti maggiori disturbi psichici e fisici, dato che, ai disagi dovuti all'assunzione di droghe in un mondo che le interdice, si somma il senso di colpa e, fisicamente, una sca­sa, ridotta capacità di "galleggiare" nell'ambiente abituale. I casi di overdose sono notevoli, come fra i dimessi dal carcere. Chi, invece, si normativizza di solito ha un bisogno costante di riferirsi all'entità di appoggio, la comunità con le sue ideologie. Una sorta di bambino adulto ed adulterato. Nessun segno di superamento, quindi, ma una particolare forma di regressione e di dipendenza. Una malattia ideologica, insomma. Neppure la psicoanalisi è giunta a tanto, a causare così gravi danni. Ma evidentemente il business delle comunità è di tutt'altre proporzioni. Né la solita giustificazione («intervenire sul disagio, togliere sofferenza») può essere credibile. Non per caso esistono pochissime strutture pubbliche, non per caso in quasi nessuna comunità viene accettato un soggetto in stato di crisi di astinenza acuta, che è il momento più alto del "bisogno", non per caso i programmi terapeutici hanno essenzialmente una valenza ideologica.
Possiamo dire che il presunto rimedio, la comunità, è spesso peggiore del male. Non per nulla viene proposta come opzione rispetto al carcere. E se intendiamo come stato morboso l'aggressione incontrollabile di agenti esterni che tendono a ledere l'organismo vivente, allora affermiamo tranquillamente che la comunità è un agente patogeno.
La terza "malattia" che vogliamo considerare è l'aids. Non ci dilungheremo troppo, rimandando al libro La Mal' aria. Aids e società capitalista neomoderna di recente pubblicazione a cura del gruppo T4/T8. Evidentemente il retrovirus Hiv non colpisce soltanto soggetti tossicodipendenti, ma è altresì vero che attualmente, almeno in Italia, fra i contagiati è molto alta la percentuale di tossicodipendenti. Anche in questo caso le cause o concause sono palesi. Se è vero che l'Hiv si propaga essenzialmente per via sanguigna e per via spermatica, se è vero che il "passaggio" delle siringhe è una delle maggiori cause di contagio, se è vero che il "passaggio" delle siringhe è dovuto alla clandestinità della pratica, di modo che spesso non si possono osservare le necessarie precauzioni igieniche (per non parla­re del carcere, dove praticamente è impossibile ottenere siringhe sterili), è altresì vero che i soggetti maggiormente "a rischio" sono i soggetti più deboli, a causa del tipo di vita che conducono, dello stress eccetera. E' evidentissimo che l'alto prezzo della merce droga, la sua circolazione spettacolarmente clandestina (in realtà si trova ad ogni angolo di strada, ma sempre avvolta in un' aura di illegalità e di pericolo) determinano comportamenti che riducono sensibilmente le difese dell'individuo, aumentano lo stress, spesso impediscono condizioni alimentari, igieniche, abitazionali all' altezza della società capitalista neomoderna, costringendo i consumatori nell' angolo buio ed infetto della società, che è già buia ed infetta per suo conto.
Ma, a differenza di quel che si può credere, l'aids, al pari delle leggi proibizioniste e repressive, aggiunge valore alla merce droga invece di togliervene. Questa è una merce che si valorizza attraverso l'immagine diffusa del rischio, che non viene quasi mai assunta in quanto tale, cioè senza forti connotazioni ideologiche, e che dunque si alimenta con il "rischio". E' una trappola ben congegnata. E se non vengono compiuti efficaci interventi è proprio per la valorizzazione della merce. In una società ridotta all' autoriproduzione costante è necessario che queste "malattie" esistano: un esercito di professionisti mantiene la riproduzione ideologica e materiale della società stessa. Nei casi citati si pensi soltanto al numero di persone che vengono coinvolte nell' amministrazione di leggi e carceri, di comunità, di "aiuti" psicologici e medici eccetera, nonché di tutte quelle che vi fanno sopra diffusione ideologica, cioè informazione. E' senz'altro una delle più potenti industrie della riproduzione iterativa, allargata ed amministrante fra quelle che esistono, ed impiega molte più persone delle maggiori industrie produttive che conosciamo.
Nella società neomoderna queste malattie sono indispensabili e la droga è uno dei suoi principali vettori. Nella putrescenza dell'esistente societario, la droga, trasformata di senso e di uso, è la merce eccellente della putredine, il valore neomoderno quasi allo stato puro.
Sette 
Dopo quanto sin qui esposto, sarebbe inutile dilungarci sui motivi che determinano, attraverso le droghe, la criminalità (micro e macro) e la devianza. Potremmo ribadire l'importanza del prezzo di mercato, l'essenzialità delle leggi proibizioniste, la ripulsa sociale e morale a cui il "drogato" viene sottoposto. Non ci pare il caso. Ci pare il caso, invece, di sottolineare tre punti.
* La delinquenza è una forma fondamentale di riproduzione economica e per questo viene non solo tollerata ma spesso favorita nella società neomoderna. Sia a livello alto, sia a livello minimo. La gestione mafiosa dell' economia su vasta scala non è affatto differente da quella "legale": gli uni hanno imparato dagli altri e viceversa. Richiede una forte coesione del "gruppo", una gerarchia determinante, un controllo territoriale e sociale notevole, una gestione politica. Soprattutto richiede che il processo di valorizzazione delle merci venga dato essenzialmente dal potere autoritario e dalla circolazione ossessiva. Il potere autoritario serve come fissazione del mercato, come imposizione di questa o quella merce, come autonomizzazione del valore di scambio che, a quel punto, dipende soltanto dal potere autoritario stesso. In questo senso e riguardo alle droghe, le leggi proibizioniste e la gestione mafiosa del mercato funzionano in modo complementare. L'essenziale è che il valore di scambio sia sempre più sganciato dal valore d'uso e tenda ad una sua autonomia che, a livello parossistico, non può venir controllata che da forme delinquenziali, cioè che sappiano ricorrere opportunamente all'intimidazione ed alla violenza. Lo Stato, gestore monopolista della violenza, in una sua fase di ristrutturazione, e dunque di crisi, non può che delegare, almeno in parte, ad altri il suo aspetto delinquenziale. Ma c'è un secondo livello, che potremmo definire di microdelinquenza. La microdelinquenza altro non è se non una forma di perversa autogestione della circolazione di certe merci. Il tossicodipendente, che, per esempio, ruba automobili per comperarsi la roba, inconsapevolmente serve più padroni. E' nel momento della circolazione ossessiva delle merci che queste aggiungono valore. L'automobile rubata andrà ritrovata o sostituita, interverranno le assicurazioni, ci saranno i ricettatori e rivenditori, i quattrini del furto andranno agli spacciatori (in scala) e via così. Nel processo, l'automobile si è autovalorizzata, mentre la roba conserva intatto il suo valore, già autovalorizzatosi in precedenza. Il "lavoro" del tossico diventa così effettivamente lavoro, realmente riproduttivo e sociale. La droga, quindi, esalta al massimo la circolazione delle merci, in base al nuovo modello societario: la merce deve valorizzarsi soprattutto al di là del suo momento produttivo.
* La droga, si è detto, funziona benissimo come produttrice di delinquenza, ma la delinquenza a sua volta è perfettamente funzionale al sistema di gestione amministrativa ed ideologica della società. Per la coesione di una società che non ha più ragioni di esistere, la ricerca e l'individuazione del "nemico" è basilare. Il nemico è quella cosa che ricompatta individui o gruppi sociali che altrimenti potrebbero entrare in collisione. La delinquenza, specie se massmediatizzata e spettacolarizzata, è il "nemico" che consente il ricorso ad emergenze continue, che sono, tutte, delle boccate di ossigeno per un sistema asfittico. La droga, che è già un "nemico", genera l'attuale nemico per eccellenza, la Mafia (perché ovviamente è dalla droga che nella fase attuale le mafie ricavano i loro più alti profitti), e contemporaneamente la microdelinquenza che crea nella gente "dabbene" quello che viene definito un clima di "allarme sociale". La droga sta alla delinquenza come lo Stato sta alla mafia: si alimentano mutuamente e tutti servono molti padroni.
* Sulla creazione di devianza e sulla funzione delle comunità di recupero o delle istituzioni più dichiaratamente repressive, non ci ripeteremo. Che la droga serva anche a questo, ed assai, ci pare sin troppo evidente. Ci preme invece un aspetto spesso troppo sottovalutato: la produzione di comportamento, di ideologia. Ancorché deviante, il "drogato" esprime e manifesta un modello. Si tratta di un modello che sta a cavallo tra la normalità e la trasgressione. Indica l'adesione al consumo al suo stato più puro ed alto. Il suo consumo forzato rimanda a tutti i consumi, per lo più forzati. La sua normalità consiste nella ripetizione maniacale del consumo, la sua trasgressione nell'aver scelto come merce principale una merce illegale. Si creano così delle microcomunità autogratificantisi che in certo senso sono esemplari, indicano dei modelli. Il drogato è, sì, oggetto di pubblica riprovazione, ma spesso anche, in ambienti socialmente e territorialmente ben definibili, di privata ammirazione, specie nella fase "ascendente" del suo iter (quando ruba mo­to o si mette a spacciare, ha tanti quattrini, li sperpera volentieri eccetera). La devianza così, prima di finire in pasto alle pratiche repressive e recuperatorie, è motore ideologico, è punto di riferimento sociale - positivo e negativo al tempo spesso. La diffusione iterativa ed allargata di ideologie è uno dei presupposti, oltre che una delle conseguenze, della società dello spettacolo, della società neomoderna, quella in cui lo spettacolo da sé solo non basta più ma può avere forza soltanto attraverso il suo incessante "riammodernamento".
Il drogato, anche in questo caso, è la materia prima.
Sostenere che la liberalizzazione delle droghe (non la loro statalizzazione, ciò che va sotto il nome di legalizzazione, che affiderebbe maggiore autorità allo Stato senza toglierne al mercato) è l'unica soluzione possibile è una banalità di base, che naturalmente bisogna diffondere in ogni situazione possibile. Ma è altresì certo che questa ipotesi non può nascere dall'illusione di porre rimedio alla delinquenza ed alla devianza, ma dalla convinzione che è necessario cominciare a porre rimedio al capitale ed allo Stato.
La delinquenza, dopo essere stata opportunamente utilizzata e spettacolarizzata, deve trasformarsi in devianza istituzionalizzabile. La devianza in progressiva demenza, onde concludere il ciclo. Con buona pace della materia prima. Ed è in questo percorso, e solo in esso, che la materia prima, cioè il cosiddetto drogato, deve ricostituirsi come soggetto, rifiutandosi di essere materia prima, negandosi al senso della colpa, impedendosi di funzionare realmente come materia prima. Sabotando gli architetti ed i muratori che, usandola come mattone, edificano quell'orrore che la droga da sé sola non potrebbe mai costruire.
Otto 
Ma, affinché l'intero meccanismo funzioni, la droga deve venir trasformata nel Drago, in un' entità terribile e venefica che ci fa sperare tutti nell'intervento di San Giorgio. Il processo di spettacolarizzazione raggiunge qui il suo punto più elevato, la sua vetta. La droga viene scorporata non solo dalle sue caratteristiche intrinseche, di sostanza, ma anche dalla sua effettiva valenza sociale, dall'impulso sociale alla creazione di drogati. Così astratta, la droga, uno dei motori della società mercantile neomoderna, assume un aspetto quasi mitico e maligno. Serve a nascondere la glaciazione a cui tutti siamo sottoposti, a dimostrare che la ricerca dei piaceri si trasforma nella loro mostruosa negazione. L'immagine del Drago, che spesso abbiamo usato, non è stata scelta per caso né è soltanto frutto di un anagramma (droga-drago). Il drago è un "mostro" incerto, di cui si disconosce la natura e la provenienza, che in certe culture viene adottato come simbolo di forza, di potenza, ed in altre di malignità, espressione del male. Noi della droga conosciamo perfettamente la natura e la provenienza, ma nel processo di rimozione eteroguidato tendiamo a dimenticarle, a trasformarla in una mostruosità. L'inibizione morale e sociale non sarebbe possibile se la droga non venisse trasformata nel Drago. E, senza inibizione, la merce droga non sarebbe quel motore di cui si è detto sin qui. Né i falsi sciamani potrebbero presentarsi come dei San Giorgio. Riproduciamo qui, non per gusto della ripetitività ma per amore dell'essenzialità, il manifesto "Liberarsi", accluso a suo tempo nel volume Intorno al Drago.
«Il Drago è stato evocato, risvegliato dal sonno del mito, lo si è fatto aggirare tra i gas delle metropoli affinché fiammeggianti potessero stagliarsi le immagini dei nuovi San Giorgio rilucenti d'armi e di parole.
Il Drago di oggi si chiama Droga. Ma ovviamente, trattandosi di professionisti della menzogna, nessuno dice la verità: né i pretesi San Giorgio, né i molti untorelli, né gli specialisti d'ogni specialismo, né i terapeuti interessati, né i preti voraci d'anime, né i liberals illuminati dalla vanità, né, certo, i poliziotti, i giudici, gli avvocati, i giornalisti. Né i mafiosi e gli spacciatori. Nessuno dice: in verità siamo tutti amici del Drago, l'abbiamo costruito, imposto, prodotto e riprodotto, sceneggiato, è la merce per eccellenza, quella che tutte le contiene e le spiega, spiegandone i perversi meccanismi.
Nessuno dice: abbiamo gonfiato ed arricchito le mafie perché Stato e Mafia devono vivere in simbiosi mutualistica, devono presupporsi ed alimentarsi a vicenda, rappresentarsi come Società, la Seconda Natura, per la maggior gloria del Dio-Capitale, della sua Merce, del suo Spettacolo.
Liberarsi dalla subordinazione alla droga, compresa quella ideologica e produttivistica, significa liberarsi dalla società mercantil-spettacolare. Liberarsi dalle Mafie è liberarsi dallo Stato.
I Draghi ed i San Giorgio stanno dalla stessa parte. Già solo questa ragione, e mille di più ne esistono, basterebbe per scegliere di stare dalla parte opposta: quella della liberazione.»
Nove 
Il ramo dell'ago di Narco che più ci sta infettando è quello intriso dal sangue delle ideologie e delle false spiegazioni. Quello che, miserevole ago, si spaccia come rutilante spada. Quello che non può fare a meno di Narco, costruito a sua immagine e somiglianza.
L'altro ramo dell'ago di Narco fa assai meno paura perché si disvela da sé, non nasconde le sue miserie.
Chiunque parli di liberazione dalla dipendenza dalle droghe senza parlare della necessità della liberazione dalla società presente, parla con lingua biforcuta ed è nostro nemico, un sostenitore dell' esistente.
Chiunque parli, invece, della riscoperta della stupefazione, come moto irrinunciabile dell'animo lanciato nei difficili percorsi dell'avventura e della fondazione della comunità umana e lo colleghi con la critica radicale di tutti gli aspetti della società capitalista neomoderna e del suo Stato, parla con lingua diritta, ed è nostro amico, sostenitore della più ampia delle "cure" che si possano ipotizzare.
«La ferocità del quale spettacolo fece quelli populi in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi.»
N. Machiavelli, Il Principe».
[Testo tratto da Nel vento, sito sul quale sono reperibili molti degli scritti di Riccardo D'Este]

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