Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

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«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

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«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

29 settembre 2010

Che fare?

«Le Réveil Communiste» (1927)


Dino Erba, Ottobre 1917 – Wall Street 1929. La Sinistra comunista italiana tra bolscevismo e radicalismo: la tendenza di Michelangelo Pappalardi, Colibrì, Milano, 2005.

All’inizio degli anni Venti, sorsero tendenze comuniste radicali che, prima, criticarono, poi cercarono di contrastare, le scelte del movimento comunista internazionale, trascinato dal riflusso della rivoluzione d’Ottobre e sempre più sottomesso al governo sovietico. Fin dai suoi primi passi, si distinse la Sinistra comunista italiana. I suoi militanti, costretti all’esilio, ebbero  occasione di conoscere altre voci critiche; da questo confronto, nel 1927, nacque in Francia il gruppo animato da Michele Pappalardi, che ebbe come riferimenti la Sinistra tedesco-olandese (in particolare il gruppo di Karl Korsch) e la Sinistra russa di Gavril Mjasnikov.
L’attività del gruppo si esaurì nel giro di pochi anni, dal 1927 al 1931, durante i quali pubblicò dapprima «Le Réveil Communiste» e, in seguito, «L’Ouvrier Communiste». Furono, quelli, anni decisivi, in cui l’onda lunga dell’Ottobre russo si andava esaurendo, rivelandosi impotente ad affrontare una crisi di profonda portata come il «crollo di Wall Street», con tutte le implicazioni che la precedettero e la accompagnarono: fascismo, keynesismo e guerra; le cui conseguenze, nello scontro di classe, sono oggi di impellente attualità.
Nella nuova edizione del libro [Quaderni di Pagine marxiste, 2010] non sono presenti due articoli apparsi nella prima. Si tratta di articoli che presentano un notevole interesse, motivo per cui abbiamo ritenuto opportuno renderli pubblici attraverso Internet.
Il primo articolo, Che fare? («Le Réveil Communiste», a. I, n. 1, novembre 1927) ha un carattere programmatico; la critica all’esperienza dell’Internazionale comunista e dei partiti a essa affiliati, aiuta a capire l’impostazione complessiva dell’organizzazione politica animata da Pappalardi: i Gruppi d’Avanguardia Comunista.
Il secondo articolo, Abbasso le assicurazioni sociali! («L’Ouvrier Communiste», a. II, n. 11, agosto 1930) affronta una questione contingente, ma di notevole importanza per i successivi sviluppi: la legge sulle assicurazioni sociali, premessa di quella politica borghese che diverrà nota come Welfare State.
[D.E.].

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Premessa

Che fare?, pubblicato sul primo numero de «Le Réveil Communiste», affronta le questioni dell’unità proletaria e delle sue implicazioni sul piano organizzativo, individuandone i presupposti in un coerente processo di maturazione rivoluzionaria. Ovviamente, il punto di confronto è costituito dagli allora recenti avvenimenti russi.
A questo proposito, è interessante sottolineare come le posizioni dei Gruppi d’Avanguardia Comunista, si distinguano nettamente da quanto veniva allora sostenuto non solo dai trotskisti, ma anche dalla Sinistra comunista italiana (1). Il saggio capovolge l’interpretazione di quest’ultima, che attribuiva l’involuzione russa all’arretramento del movimento rivoluzionario internazionale, e sostiene che la degenerazione era nata nella stessa Russia, con l’abbandono del comunismo di guerra a favore della NEP (Nuova Politica Economica).

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Che fare?

Quando si vuole esporre la verità, bisogna dirla tutta
oppure non dire nulla. Bisogna dirla in modo corretto,
senza misteri, senza reticenze, senza equivocare sulla
sua importanza. Perché, più un errore è grossolano, più
breve e diretto è il cammino che conduce alla verità;
al contrario, l’errore raffinato ci può allontanare
in eterno  dalla verità, perché con maggior difficoltà
ci convinceremmo  che è un errore. Chi sostiene di poter
fornire  agli altri la verità, con la copertura di ogni sorta
di trucchi e travisamenti,  potrà solo essere il magnaccia
della verità, mai il suo amante.
(Lessing)

Nel decimo anniversario della grande rivoluzione russa, gigantesco fenomeno storico e sociale, inserito nel grande movimento internazionale del proletariato, scatenato dalla guerra mondiale, dopo un secolo di movimenti operai, a 63 anni dalla fondazione delle Prima Internazionale, a 48 anni dalla fondazione della Seconda Internazionale e solo 8 anni dopo la fondazione della Terza Internazionale, in un momento in cui la storia del movimento di classe è tanto ricca di esperienze negative e positive, in cui, tuttavia, gli esiti di questo grande periodo storico non sono del tutto favorevoli alla classe operaia, che si trova a dibattersi nei soliti frangenti, se non peggiori, il problema della reale unità di tutte le forze veramente rivoluzionarie non è assolutamente risolto. Al contrario, si presenta oggi in tutta la sua gravità.
La Prima Internazionale (dato lo spirito assolutamente rivoluzionario dei suoi dirigenti) ebbe fine all’inizio della fase del grande sviluppo capitalistico verso il monopolismo e l’imperialismo economico, anche a causa di tendenze liberal-borghesi e anarco-liberali, presenti in essa, che ne accelerarono lo scioglimento.
Questo fu in realtà il primo tentativo di unità che non ebbe successo. E non poteva averlo, considerato il successivo sviluppo delle forze economiche e politiche della borghesia, considerando anche la grande varietà, non tanto di tendenze sociali, quanto delle ideologie che queste tendenze rappresentavano in seno alla Prima Internazionale. Dal punto di vista storico, la Prima Internazionale sarebbe dovuta servire ai rivoluzionari comunisti come esempio negativo, per quanto riguarda le soluzioni adottate per giungere a uno sbocco unitario. Ed è curioso osservare invece, come quasi tutti i tatticisti del movimento rivoluzionario abbiano preso tali soluzioni come punto d’appoggio, per le loro elaborazioni politiche. Forse nessuno di loro ha applicato nel suo significato profondo e reale la parola d’ordine lanciata da Marx nel famoso indirizzo inaugurale dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori: “Lavoratori di tutti i paesi, unitevi!”.
Fino a oggi, si è cercato di dare a questo problema, che è essenzialmente dinamico, soluzioni artificiose e sbrigative che, naturalmente, hanno causato scottanti delusioni. Questa parola d’ordine, lanciata da oltre mezzo secolo, non ha assolutamente perso nulla della sua importanza, perché è sempre sul terreno dell’unità che il proletariato ha ottenuto i suoi maggiori successi, pur combattendo, come classe, da solo.
La Prima Internazionale si sciolse dopo i primi movimenti rivoluzionari di grande ampiezza del proletariato. Nella lunga fase di sviluppo capitalistico, con la sua evoluzione dalle primitive forme concorrenziali alle più avanzate forme monopolistiche, si costituì la Seconda Internazionale, organismo il quale, come i partiti che ne facevano parte, rispondeva alla particolare fase di sviluppo delle aristocrazie operaie e di addormentamento politico e rivoluzionario di gran parte delle masse più sfruttate, il cui movimento fu circoscritto entro limiti sindacali ed elettorali. Anche in seno alla Seconda Internazionale, l’unità ideologica fu fittizia, poiché abbracciava i più disparati elementi. La sua apparente ortodossia marxista e internazionalista era contraddetta dalla prassi politica delle diverse sezioni e dalla lotta delle correnti veramente rivoluzionarie contro la maggioranza sedicente ortodossa.
A questo punto, si deve riconoscere che la Seconda Internazionale, in quanto allora esprimeva le condizioni e la psicologia delle masse operaie, nella ristrettezza del suo orizzonte politico, non poteva assolutamente essere sensibile alla totalità del grande processo storico in cui il proletariato avrebbe realizzato, con la propria liberazione, la liberazione di tutta la società. E, sotto questo profilo, il Revisionismo si presentava come un’ideologia che corrispondeva perfettamente alla fase di sviluppo economico del capitalismo e come conseguente piattaforma politica dell’aristocrazia operaia segnava la rottura formale degli opportunisti con la tradizione rivoluzionaria. L’ortodossia formale presentava le prospettive rivoluzionarie come qualcosa di molto lontano, che non meritava di essere mischiato con l’attualità, mentre la sinistra rivoluzionaria, anche nel periodo di crescita capitalistica, si rendeva conto della grande importanza dei problemi della rivoluzione, benché non fossero attuali. Essa considerava il complessivo sviluppo del movimento di classe del proletariato come la premessa per la vittoria rivoluzionaria del proletariato stesso, come una germinazione, attraverso l’esperienza della lotta delle classi, delle forze necessarie per quel grande assalto finale che Marx, alla fine della Miseria della filosofia, prospetta in termini inesorabili.
Ma se la Seconda Internazionale era l’espressione storicamente logica dell’epoca della crescita del capitalismo, se essa, dal punto di vista proletario, non poteva che fallire con lo schiudersi della fase rivoluzionaria, se era lontana dal complessivo processo dialettico della lotta delle classi, ne consegue che essa rappresentava un’esperienza e il suo fallimento comportava il fallimento completo di un metodo. Questa esperienza si manifestava nella germinazione di nuove correnti della sinistra, che reagivano contro la politica opportunista dei dirigenti, negando giustamente il suo presunto contenuto classista. La grande crisi del capitalismo, apertasi nel 1914 con lo scoppio della Grande Guerra, infranse definitivamente l’unità delle correnti che si dichiaravano marxiste, creando così le premesse per un nuovo sviluppo del movimento politico della classe operaia. Ma, se l’esperienza della Seconda Internazionale si traduceva, grazie ai veri rivoluzionari, nella negazione stessa dei suoi metodi, evidentemente a queste nuove formazioni politiche decisamente proletarie, come anche alla classe operaia, è mancata una completa esperienza della lotta rivoluzionaria, con tutte le sue complicazioni e sorprese, è mancata una visione completa di tutti i problemi tattici e di tutte le soluzioni politiche.
La questione dello Stato in relazione al proletariato, considerata e analizzata per la prima volta da Lenin in Stato e rivoluzione in modo assolutamente soddisfacente sotto il profilo teorico, resta ancora in attesa di una definitiva soluzione pratica. Sotto questo aspetto, la Comune di Parigi aveva fornito uno riferimento molto importante, ma la sua breve durata non poteva certo rappresentare, per questo problema, un’esperienza completa e una soluzione totale. La Rivoluzione russa e la conseguente esperienza statalista del proletariato russo ci hanno offerto un quadro in cui non mancano le sorprese; questa esperienza, sia positiva sia negativa, sarà più che sufficiente per orientare la nostra azione futura, indicando le misure e le soluzioni circa la questione statale. Il processo di nascita di una nuova Internazionale, che a Zimmerwald si tentò di sollecitare, anche prima della grande Rivoluzione russa, ebbe una conclusione prematura allorché, sull’onda di un grande movimento storico inizialmente proletario, nel 1919 si volle forzare la storia del movimento rivoluzionario. La dichiarazione pregiudiziale del rappresentante dello Spartacusbund(2) al momento della fondazione della Terza Internazionale appare oggi, di fronte al declino dell’Internazionale Comunista, come già affetta dal suo peccato originale, in tutta la sua gravità. Ed è deplorevole che quel rappresentante abbia poi ceduto all’entusiasmo del momento, rinunciando a obbedire coerentemente alla fredda logica della complessiva esperienza storica. E abbiamo pagato assai caro questo peccato originale, con un crollo in cui tutti si sono reciprocamente trascinati. In questo modo nel 1919, anche nel pensiero del grande tattico Lenin, l’unità formale è prevalsa sull’unità sostanziale. Bisogna riconoscerlo: le formazioni politiche che hanno costituito la nuova Internazionale non erano ancora giunte a una completa maturazione ideologica e tattica.
Ora, che abbiamo mostrato il vizio d’origine, costituzionale, della Terza Internazionale, vediamo quali sono i fatti che hanno determinato la sua degenerazione, oggi ormai completa. I presupposti sono la costituzione unilaterale dell’Internazionale, in cui la Rivoluzione russa, attraverso i suoi dirigenti, ha svolto un ruolo eccessivo. Non dobbiamo mai dimenticare che questa prematura soluzione del problema dell’unità politica fra le correnti rivoluzionarie, dal momento che esprimeva il livello di maturazione del proletariato mondiale, comportava in modo assoluto il ruolo egemone del movimento proletario russo e, di conseguenza, dei suoi fattori materiali, nella nuova Internazionale. Come fattori che hanno determinato la degenerazione del Comintern possiamo allora vedere da un lato il progressivo arretramento della Rivoluzione russa su posizioni sempre più di destra e dall’altro la mancanza di forze, nelle restanti sezioni della Terza Internazionale, in grado di opporsi alla crescente influenza di destra, prodotta dall’arretramento del movimento russo. Questa insufficiente maturità politica, che si manifestò al momento della fusione tra le correnti rivoluzionarie a livello internazionale nel 1919, si rivelò in seguito fatale per lo sviluppo di un vero partito comunista mondiale, dal momento che rendeva impossibile rigenerare il Comintern dal suo interno. Questa debolezza è stata aggravata dal ruolo preponderante dei russi, il quale ha impedito che l’esperienza rivoluzionaria seguisse un corso naturale, grazie allo sviluppo di movimenti nei differenti Paesi. Infine, essa viene sempre più rafforzata dal ruolo dispotico del movimento russo, che è un ostacolo conservatore e reazionario contro l’inevitabile formazione di nuove avanguardie politiche, frutto indistruttibile dell’esperienza della classe operaia.
L’influenza politica del PCR sulla Terza Internazionale si manifestò in modo sempre più evidente man mano che la Rivoluzione russa, passando dal comunismo di guerra alla NEP, andava verso la completa liquidazione delle direttive originarie, idealizzando la NEP. La NEP, nella sua essenza, segna un arresto e anche un arretramento nella marcia della Rivoluzione russa, ma questo arretramento non era considerato come una misura definitiva né come un abbandono completo del comunismo, che viene definito comunismo di guerra. A questo punto delle nostre considerazioni sulle cause della degenerazione del Comintern, siamo tenuti a sottolineare la differenza che ci separa su questa questione, non solo dalle correnti centriste, ma anche da quelle correnti, particolarmente diffuse tra i perronisti italiani (dal nome del suo ispiratore intellettuale)(3), che dicendosi di sinistra e bordighisti pretendono, seguendo l’interpretazione ufficiale, di svuotare completamente del suo contenuto rivoluzionario il grandioso tentativo del comunismo di guerra, presentandolo come una banale necessità transitoria! Quando, a partire da questa premessa, si affronta la questione della NEP, si finisce inevitabilmente per idealizzarla, dal momento che la NEP viene vista come l’unica possibile soluzione positiva, sul piano economico, della Rivoluzione russa. Il tentativo attuato dal comunismo di guerra non fu una necessità transitoria, al contrario, lo fu la NEP. E non fu il ristagno del movimento rivoluzionario mondiale a causare questo ristagno, che si suole chiamare nuova politica economica. Per presentare la NEP come una necessità immanente della Rivoluzione russa, viene addotta una giustificazione che contiene nelle premesse la sua idealizzazione. Per questo motivo, non possiamo condividere l’opinione centrista dei nostri perronisti. L’idealizzazione della NEP si presenta fin dall’inizio come una prima espressione ideologica di una classe o di più strati sociali che non sono la classe operaia e, di conseguenza, essa indica un significativo progresso di nuovi strati sociali nell’apparato statale, il quale, a causa della sua burocratizzazione e a causa del regime interno del PCR, è andato staccandosi sempre più dalla classe operaia. (Riguardo i particolari aspetti della degenerazione dell’apparato statale, il punto di riferimento è la critica svolta da Trotsky nel suo Nuovo corso (4), tenendo presenti le considerazioni di Marx sulla Comune, commentate da Lenin in Stato e rivoluzione). Non si tratta ora di esaminare le questioni inerenti lo Stato e la Rivoluzione russa, poiché non possiamo soffermarci sulla complicata questione della degenerazione dell’apparato statale. Ci limitiamo a ricordare questi due fattori essenziali riguardanti la Neo-NEP e l’ipertrofica burocratizzazione, secondo la logica proletaria, dell’apparato statale. A margine, annotiamo che l’esito di questa esperienza statalista del proletariato russo dimostra che la questione dello Stato non ha trovato nella rivoluzione russa una soluzione definitiva e completa. Il proletariato ha il diritto e il dovere di meditare e di discutere questa fondamentale questione, che imprime un carattere originale al suo ruolo storico. Questa discussione in seno alla classe operaia non deve assolutamente indurci a posizioni socialdemocratiche, né si deve scorgere nelle nostre precedenti riflessioni una negazione della dittatura del proletariato. Al contrario, dobbiamo mettere a punto e tutelare contro ogni forma di degenerazione questa forma di governo proletario, che non è e non dovrà mai essere un governo democratico, né un governo socialdemocratico, che poi è la stessa cosa, e neppure un governo il quale sia frutto di un’alleanza di due o più classi, ma dev’essere un governo in cui da un lato l’egemonia della classe operaia sia assoluta e dall’altro l’apparato statale, assolutamente coeso con il proletariato, non debba presentare caratteristiche di rigidità e tendenze a divenire un organismo permanente e sempre più totalitario. Al contrario, lo Stato deve presentare la tendenza a divenire sempre meno rigido e più duttile, salvo acquisire poi, con il grande sviluppo rivoluzionario sull’attuale Internazionale, la tendenza a limitare sempre di più i suoi poteri e, infine, sparire.
L’esperienza russa ci presenta una degenerazione tipica di questa linea di fondo della dittatura proletaria. La burocratizzazione dell’apparato statale, il suo assoluto distacco dalla classe operaia, le manifestazioni ideologiche non proletarie in seno a questo stesso apparato denotano come in Russia la dittatura del proletariato non sia più una realtà nel Paese della più grande rivoluzione della classe operaia, ma una questione di pura forma, sulla quale si scontrano le illusioni di tutte le opposizioni russe. Particolarmente significativo è l’atteggiamento del trotskismo che, se al momento del suo passaggio all’opposizione aveva svolto una critica della situazione russa toccando in profondità la realtà della dittatura proletaria in Unione Sovietica, oggi si appoggia disperatamente a questo lato formale di tale dittatura, assumendolo come fattore fondamentale di tutte le sue posizioni critiche e di tutte le sue ritirate strategiche. Questa posizione, che è una permanente contraddizione tra le premesse critiche e l’atteggiamento pratico, è condivisa in Germania dai maslowiani(5) e in Francia dai giraudisti(6), di cui i perronisti sono oggi l’appendice italiana. Giustificazione di questa sublime incoerenza sarebbe la disciplina!
La progressiva scomparsa della dittatura proletaria in Russia, come elemento reale, dato il “peccato originale”, ha via via provocato nel Comintern quel processo di precoce degenerazione, passato alla storia sotto il nome di bolscevizzazione. Questo difetto d’origine ha fatto sì che al destino della dittatura del proletariato si saldassero strettamente le sorti del Comintern, la cui scomparsa è il corrispettivo della reale sparizione della dittatura del proletariato. Nel nostro ultimo manifesto, diffuso per denunciare le dimostrazioni semi-fasciste che i mostriciattoli della bolscevizzazione inscenano tra i comunisti italiani e tra i cantori dell’ospitalità offerta dalla borghesia belga(7), abbiamo definito il Comintern un organismo in liquidazione, condensando in questa sintetica espressione il nostro pensiero al riguardo. Ora, avendo più spazio a disposizione, possiamo esprimerci in modo più ampio, spiegando che la liquidazione del Comintern è un fatto compiuto. Non ci soffermiamo oltre sulla bolscevizzazione, sia come manifestazione di degenerazione ideologica e tattica (ossia, revisionismo di fatto delle posizioni dialettiche del marxismo operato dal bukarinismo(8), di conseguenza, false posizioni sul terreno tattico: il problema dell’unità e le gravi deviazioni sulla questione della guerra), sia come manifestazione di degenerazione organica (le cellule, passaggio alla politica di massa, attraverso la quale i partiti comunisti diventano veicolo per elementi politicamente semi-coscienti o del tutto incoscienti, dando spazio al dispotismo e all’idiozia burocratica(9)), ma ci riserviamo di analizzare nei dettagli questo tipico processo di degenerazione, già d’altronde esaminato nelle sue linee di fondo nella nostra “Piattaforma della Sinistra”(10) e in altri articoli. Per ora, ci limitiamo a sottolineare come alla visione formalista del problema della dittatura del proletariato corrisponda, per le correnti d’opposizione prima citate, una visione altrettanto formale del problema del Comintern. Stalinisti e Bukarinisti, affossatori della Rivoluzione russa, approfittano per parte loro di questa conservazione della visione formale della rivoluzione proletaria al fine di conservare parimenti la Terza Internazionale come pura forma (dal punto di vista proletario). Non è tanto sulla base dell’espulsione dal Comintern di Trotsky e degli altri membri del Comitato Centrale, che noi giudichiamo come esclusivamente formale la sopravvivenza dell’Internazionale Comunista; noi traiamo queste conclusioni dallo sviluppo di tutta la nostra linea critica. La sparizione formale del Comintern seguirà alla sparizione formale della dittatura del proletariato in Russia? La risposta a questa domanda è contenuta nelle nostre premesse, di conseguenza non è altro che un’illazione. Ma non è questo il punto più spinoso della questione, dal momento che un’evidente liquidazione della pura forma statale sedicente proletaria, ma in realtà nepman-kulakista, spazzerà via tutte le illusioni e creerà una base del tutto nuova, per un nuovo sviluppo del movimento rivoluzionario a livello internazionale. Il punto più grave della questione consiste invece nella possibile sopravvivenza, con una durata indefinita, di questo fantasma o falsificazione della dittatura del proletariato, cui corrisponderà il perdurare di una malsana suggestione presso gli strati proletari politicamente più avanzati e la loro demoralizzazione e corruzione ideologica e politica. Con questo orientamento, il nostro giudizio deve colpire aspramente tutti quegli esponenti dell’opposizione che, formalizzando la questione, contribuiscono abbondantemente a mantenere un simile stato d’animo tra le avanguardie rivoluzionarie e in tutta la classe operaia
Opporre alla falsa interpretazione neo-leninista della questione dello Stato e alla sua formalizzazione da parte dei finti oppositori la vera soluzione marxista, svelare l’ipocrisia di una forma di governo che in Russia non corrisponde più all’egemonia del proletariato, rimettere la questione della rivoluzione mondiale sulla sua base naturale, opporre alla disciplina formale di un organismo come il Comintern, fin d’ora liquidato dal punto di vista rivoluzionario, la vera disciplina comunista, ecco il fondamentale dovere di ogni cosciente operaio comunista.
Che un organismo, ormai ridotto a un fantasma per la reale dinamica delle forze proletarie, si dissolva anche formalmente, ecco una cosa che non provocherà alcun rimpianto per i veri comunisti. Non dobbiamo operarne alcun salvataggio formale, anzi, dobbiamo demolirlo. Ciò che dobbiamo salvare, sono gli strati rivoluzionari ancora suscettibili di essere strappati alla corruzione, la sostanza della dottrina marxista e i risultati preziosi dell’esperienza rivoluzionaria del proletariato. Quest’attività degli elementi comunisti più coscienti, se seguirà una linea rigorosamente marxista e fermamente guidata dall’insieme delle esperienze rivoluzionarie, non dovrà e non potrà ripetere gli errori del passato. L’unità formale ha ormai compiuto il suo funesto ciclo di disastri. La storia del movimento operaio ne è colma. Tanto più, quanto più si è voluto sacrificare la reale dinamica rivoluzionaria alla tradizione unitaria del movimento politico. È la storia del PSI, in quegli anni che la borghesia ha definito rossi(11) e che il proletariato italiano non dimenticherà mai. Tanto più grave quando la follia unitaria ha rimpiazzato la spontaneità del processo rivoluzionario con un ibrido miscuglio di formazioni politiche incoerenti. È la storia del Partito Comunista Tedesco, che, generato dalla grande esperienza della guerra mondiale, dalla originaria impostazione politica decisamente rivoluzionaria dello Spartacusbund, al congresso di Halle(12) fu trasformato in un organismo anacronistico, in cui gli elementi veramente rivoluzionari furono assorbiti, disorientati e dispersi nella marea di militanti del Partito Indipendente. E così, l’unità formale ha preparato la disfatta rivoluzionaria del 1923(13). Di fronte a comunisti che, come Graziadei(14) in Italia e Souvarine(15) in Francia, per sostenere la loro passione per l’unità formale hanno scovato argomenti formidabili nei grandi successi elettorali, siamo costretti a dichiarare che per questi esponenti della destra le prospettive rivoluzionarie sono subordinate a prospettive dettate da compiti secondari o addirittura a deleterie metamorfosi dell’azione rivoluzionaria del proletariato.
Quindi, nelle nuove formazioni politiche d’avanguardia del proletariato, nessuna unità formale, e nessuna organizzazione internazionale, prima di aver sviluppato fino in fondo una linea di sinistra a livello internazionale. Nessun ritorno al passato, che vuol dire cadere in posizioni ormai del tutto liquidate. Ogni aggregazione politica rivoluzionaria, che nasce in opposizione alla demolizione dello spirito rivoluzionario causata dalla bolscevizzazione, ha il dovere di non fare alcuna concessione ideologica al raggruppamento che riunisce nel suo processo di formazione. Bisogna evitare accordi prematuri, poiché le preoccupazioni organizzative possono condurre a una nuova unità formale. L’unità delle sinistre a livello internazionale deve diventare un mezzo per l’azione e anche a prezzo di errori, per i raggruppamenti che tendono all’unità reale delle loro forze politiche.
La nostra tesi è impregnata di passivismo?
Non lo è assolutamente, per il semplice fatto che esige un’azione critica delle avanguardie coscienti contro la degenerazione e la corruzione dell’ideologia e dell’azione rivoluzionarie; e allo stesso tempo esige un grande sviluppo dell’azione da parte dei gruppi rivoluzionari, a stretto contatto con le masse operaie. Richiede un gigantesco lavoro di preparazione per la nuova e prossima prova rivoluzionaria. Contiene in se stessa tutto un programma, in cui la volontà delle élite proletarie se da un lato non pretende di dominare il corso del processo storico dall’altro acquista potenza quando armonizza il suo sforzo con l’insieme delle esperienze rivoluzionarie e si dinamizza tenendosi a contatto con la sintesi delle forze o, molto meglio, con le differenti espressioni della sola forza rivoluzionaria della nostra epoca storica, il proletariato industriale.
Da questa sintesi tra la volontà rivoluzionaria e la realtà, non quella contingente ed effimera (che è solo una forma transitoria della realtà), ma la realtà dialettica e sostanziale del movimento proletario, sgorgano quelle sole forze che determinano la vittoria della classe.
Su questo binario è tracciata la linea di condotta delle élite rivoluzionarie e delle aggregazioni politiche che la seguiranno o che, dopo essersene allontanate per un abbaglio passeggero, la riprenderanno, finendo per incontrarsi sul terreno dell’azione quando suonerà l’ora delle estreme responsabilità. Ed è proprio questa linea d’azione, che ricerca l’unità reale contro l’unità formale, che noi ci sforzeremo di seguire senza esitare e senza barcamenarci, fino al momento in cui, dalla nostra esperienza di gruppi, passeremo a un’esperienza superiore, quella di un nuovo organismo internazionale.

«Le Réveil Communiste», a. I, n. 1, novembre 1927

Note:
(1) Riguardo alle posizioni della Sinistra italiana, cfr. La crisi del 1926 nel partito e nell’Internazionale, Quaderni del Programma Comunista, Milano, 1980.
(2) Alla fondazione della Terza Internazionale (Mosca, marzo 1919), lo Spartakusbund, ossia il Partito Comunista Tedesco, era rappresentato da Hugo Eberlein (1887-1940 o 1944), che, avendo un mandato vincolato contro la fondazione, si pronunciò duramente contro di essa. Tuttavia, al momento del voto, sotto la pressione degli altri delegati, si astenne. Cfr. Ossip K. Flechtheim, Il partito comunista tedesco (Kpd) nel periodo della repubblica di Weimar, Jaca Book, Milano, 1970, pp. 155-156.
(3) Il riferimento è a Ottorino Perrone (1897-1957), esponente della sinistra del PCd'I.
(4) Il testo di Trotsky è del 1923. In Italia, è stato pubblicato per la prima volta nel 1965, dalla casa editrice Samonà e Savelli di Roma.
(5) Seguaci di Arkadij Maslow (1891-1941), dirigente della KPD ed esponente della sinistra con Ruth Fischer (Elfriede Eisler, 1895-1961). Entrambi espulsi nel 1926, parteciparono alla fondazione del Leninbund, che abbandonarono poco tempo dopo, nel tentativo di dar vita ad altri gruppi di opposizione.
(6) Con la definizione di giraudisti si indica la tendenza di sinistra del PCF sostenuta da Suzanne Girault. Nel 1926, la Girault costituì, con Albert Treint (1889-1971), segretario nel 1922, il gruppo Unité Léniniste, che pubblicava l’omonimo giornale. Entrambi furono espulsi nel 1928, in quanto «capi della frazione trotskista».
(7) Probabilmente si tratta di un attacco, più astioso che polemico, a Perrone che, nell’agosto 1927, aveva trovato asilo politico in Belgio. Il manifesto, cui si riferisce l’articolo, è quello diffuso in occasione della costituzione dei Gruppi di Azione Comunista, avvenuta nel luglio 1927.
(8) In quegli anni, Nikolai Bucharin era considerato l’astro emergente della teoria marxista, sia in URSS, sia nell’Internazionale, della quale Bucharin era segretario dal 1926. Di conseguenza, era il bersaglio privilegiato delle opposizioni, riguardo alle principali questioni allora dibattute, come la NEP, il fronte unico con la socialdemocrazia e con i movimenti di liberazione nazionale, il concetto di stabilizzazione capitalistica.
(9) Con la bolscevizzazione, i partiti comunisti adottarono la struttura organizzativa basata sulle cellule di fabbrica, a scapito delle sezioni territoriali. Le cellule avrebbero dovuto dare maggior voce agli operai, che, in realtà, si ritrovarono isolati nella propria fabbrica, avendo come tramite con l’esterno il funzionario di partito, che «portava la linea». Di conseguenza, le cellule limitarono l’orizzonte politico, favorendo, da un lato, il corporativismo e, dall’altro, il burocratismo, come giustamente osservò la Sinistra comunista italiana. Contestualmente, i partiti comunisti svilupparono le cosiddette organizzazioni di massa, per organizzare particolari strati sociali, come i contadini, le donne, i giovani, gli intellettuali e così via. Come osserva l’articolo, questi organismi favorirono solo l’annacquamento delle posizioni del partito e, spesso, non furono altro che creazioni fittizie, cui aderivano quasi esclusivamente i militanti comunisti.
(10)  Al V Congresso del PCF (Lille, 20-26 giugno 1926), gli esponenti della Sinistra italiana presentarono una propria «Piattaforma» in cui venivano riprese e ribadite le tesi avanzate, pochi mesi prima, al Congresso di Lione (gennaio 1926). Cfr. Plateforme de la gauche. Projet de thèses présenté par un groupe de “gauchistes” (bordiguistes) à l’occasion du Ve Congrès du Parti Communiste Français, Imprimerie speciale de la Librairie du Travail, Paris, 1926.
(11) Il cosiddetto «biennio rosso» (1919-21), caratterizzato dalle agitazioni sociali suscitate dalla difficile situazione del dopoguerra, e dalle aspettative accese dall’Ottobre russo.
(12) Al Congresso di Halle (dicembre 1920), fu sancita l’unificazione, sostenuta da Mosca, tra il Partito Comunista Tedesco e la sinistra dell’USPD.
(13) Nell’ottobre 1923, il Partito Comunista Tedesco tentò una fallimentare azione rivoluzionaria, che accese violente polemiche. L’esito fu il definitivo appiattimento del partito sulle direttive di Mosca.
(14)  Antonio Graziadei (1873-1953), esponente e parlamentare socialista, a Livorno (1921) aderì al PCd’I. Professore di economia presso le Università di Pavia, Milano e Roma, in Prezzo e sovrapprezzo nell’economia capitalistica (Bocca, Torino, 1924) criticò la teoria del valore di Marx. Bordiga replicò con La teoria del plusvalore di Carlo Marx base viva e vitale del comunismo, «L’Ordine Nuovo», a. III, nn. 3-4, 5 e 6, ora in Amadeo Bordiga, Economia marxista ed economia controrivoluzionaria, Iskra, Milano, 1976.
(15)  Boris Souvarine (1895-1984) fondatore e dirigente del PCF, ne fu espulso nel 1924. Svolse studi storico-sociali di grande rilievo, tra cui Staline, la prima storia critica del partito bolscevico e della Russia sovietica. Pubblicata in Francia nel 1935, l’opera è stata via via aggiornata alla luce dei successivi avvenimenti. In Italia, il libro è stato pubblicato da Adelphi, nel 1983, sulla base della nuova edizione rivista dall’Autore, Staline. Aperçu historique du bolchévisme, Champ Libre, Paris, 1977.




10 settembre 2010

Contributo a una critica dell'ideologia dell'ultrasinistra

Leninismo e ultrasinistra

di Jean Barrot (1969)

Il testo che segue è il prodotto del lavoro di un gruppo "informale" di compagni che sono tutti passati attraverso l’ultrasinistra e che, in seguito, hanno messo in discussione le concezioni fondamentali di questa corrente. Era stato redatto per la riunione organizzata, nel giugno 1969, da ICO (il bollettino "Informations Correspondance Ouvrière" che riunisce, dal 1958, un gruppo di operai e militanti dell'ultrasinistra). Noi speravamo allora di potere affrontare una discussione di fondo con dei militanti dell'ultrasinistra, "consiliaristi", ma l’ideologia dell'ultrasinistra, che volevamo porre al centro della discussione, ci è apparsa in stato di avanzata decomposizione. Se, come talvolta si dice, la nostra epoca è quella della morte di tutte le ideologie, non sembra che l’ideologia dell'ultrasinistra sia stata risparmiata. Ora, noi possiamo solo accelerare un processo già largamente iniziato. L’importante è andare avanti, facendo progredire il nostro lavoro teorico: ne abbiamo dunque approfittato per sviluppare la parte del testo consacrata alla dinamica del capitalismo e alla legge del valore. Il problema della liquidazione dell’ideologia dell'ultrasinistra è in via di risoluzione, non grazie al nostro testo, ma attraverso il movimento stesso della società; ora quel che importa è porre i problemi della rivoluzione [J.B.].


* * *


«Non solo nelle risposte, ma già negli stessi problemi c'era una mistificazione.»
(Karl Marx, L’ideologia tedesca)

Non v’è alcun dubbio che uno degli scopi principali della riunione organizzata da ICO sarà quello di "coordinare" l’attività di diversi gruppi dell'ultrasinistra esistenti in Francia e nel mondo. Ma subito una domanda s’impone: quale genere di attività? Si possono coordinare solo attività che vadano nello stesso senso, che ruotino intorno alle stesse preoccupazioni, il che, beninteso, non implica un accordo teorico totale, ma presuppone in ogni caso una discussione; e tale discussione può poggiare solo su una base comune. È per questa ragione che proponiamo, in preparazione di questa riunione, un contributo teorico che verte su due punti essenziali e strettamente collegati, che in realtà ne formano uno solo: il cosiddetto problema dell’"organizzazione" e quello del contenuto del socialismo; insomma, il mezzo e il fine del movimento rivoluzionario. La corrente dell'ultrasinistra (indicheremo più oltre cosa intendiamo con questo termine) si è definita su questi due punti. Vorremmo riflettere, qui, sulle soluzioni che essa ha proposto.
Lungi dall’allontanarsi dal lavoro concreto, il nostro modo di procedere, a nostro avviso, è il solo che possa permettere un reale "coordinamento" del lavoro dei diversi gruppi dell'ultrasinistra presenti alla riunione nazionale e a quella internazionale. Tutti i compagni dell'ultrasinistra per i quali l’attività rivoluzionaria è realmente un problema pratico, non possono che porsi il problema teorico dell’orientamento del loro lavoro.
È chiaro che la nostra critica dovrà essere anche storica: non vogliamo in alcun modo contrapporre idee ad altre idee, ma collocare storicamente le concezioni che esaminiamo. Questo atteggiamento è tanto più giustificato, in quanto le concezioni in questione si definiscono attraverso un riferimento costante a un passato ben preciso, e a teorie nate nel contesto di uno specifico periodo della storia del movimento operaio.

1. L'ultrasinistra

 Cos’è di fatto l'ultrasinistra? Il prodotto, e uno degli aspetti, del movimento rivoluzionario che seguì la Prima Guerra mondiale e che sconvolse l’Europa capitalistica, pur senza distruggerla, tra il 1917 e il 1923. Le idee dell'ultrasinistra affondano le loro radici in questa corrente degli anni Venti, essa stessa espressione della lotta di decine di migliaia di operai rivoluzionari in tutta Europa. Si trattò innanzitutto di un movimento minoritario che si opponeva all’orientamento generale del movimento rivoluzionario mondiale. Il termine stesso è significativo: si possono distinguere una “destra” (i socialpatrioti Ebert, Longuet etc.), un “centro” (Kautsky, la maggioranza del PCF), una “sinistra” (Lenin e l’Internazionale Comunista) e un'“ultrasinistra”.
L'ultrasinistra si definisce fin da subito come opposizione, all’interno del KPD e dell’Internazionale Comunista. Questo movimento si afferma opponendosi alla maggioranza dell’Internazionale Comunista e alle tesi che trionfano nel movimento comunista internazionale, cioè al leninismo. Esso trae la sua forza innanzitutto dal movimento rivoluzionario in Germania e nei Paesi Bassi; i suoi aderenti, in Francia e in Gran Bretagna, sono scarsi(1). (Mettiamo deliberatamente da parte la Sinistra “italiana”, il cosiddetto bordighismo, che non includiamo nell’ultrasinistra e che esamineremo più avanti. Prendiamo in qualche modo come "criterio" per definire l’ultrasinistra l’opposizione comunista di sinistra al leninismo nel suo insieme, come teoria e come pratica).
Uno studio del movimento dell'ultrasinistra mostra che esso è lungi dall’essere monolitico (vedi l’opuscolo di ICO sul movimento dei Consigli in Germania). Peraltro, le sue diverse tendenze subirono un'evoluzione secondo il periodo e le circostanze; per esempio, la Risposta a Lenin di Gorter sviluppa una concezione che l'essenziale della corrente del "socialismo dei consigli" non adotta. Sui due punti fondamentali citati (l’"organizzazione" e il contenuto del socialismo), studiamo dunque solo le idee conservate nell’ulteriore sviluppo di questa corrente, quindi dagli attuali gruppi dell'ultrasinistra, di cui ICO offre senza dubbio uno dei migliori esempi.
Le concezioni dell'ultrasinistra in materia di organizzazione sono contemporaneamente il prodotto di un’esperienza pratica (le lotte operaie in Germania, soprattutto) e di una critica teorica (la critica del leninismo). È noto che, per Lenin, il movimento operaio non può essere rivoluzionario di per sé: occorre un partito che gli apporti la "coscienza di classe", la "coscienza socialista". Il problema fondamentale della rivoluzione consiste, per Lenin, nel forgiare una "direzione" capace di condurre gli operai alla vittoria finale. Sforzandosi di formalizzare teoricamente l’esperienza delle organizzazioni di fabbrica in Germania, l'ultrasinistra oppone alla teoria leninista la concezione secondo la quale la classe operaia non ha alcun bisogno di essere diretta da un partito per essere rivoluzionaria. La rivoluzione sarebbe opera delle masse stesse, organizzate in Consigli operai, e non di un proletariato guidato e controllato da un'élite di rivoluzionari di professione. Il KAPD(2), organizzazione di cui Gorter teorizza l’attività nella sua Risposta a Lenin(3), concepiva ancora il suo ruolo come quello di un’avanguardia organizzata al di fuori delle masse, con la funzione di illuminarle, anche se non di dirigerle, come secondo la teoria leninista.
Questa stessa concezione veniva contestata da alcuni elementi dell'ultrasinistra, contrari al dualismo partito-organizzazione di fabbrica: i rivoluzionari non devono cercare di raggrupparsi in organizzazioni speciali distinte dalle masse. Questa tesi condusse, nel 1920, alla creazione dell’AAUD-E(4) che rimproverava all’AAUD di essere "l’organizzazione di massa" del KAPD. Il comunismo dei consigli, e in primo luogo il suo più brillante teorico, Anton Pannekoek(5), avrebbe fatto proprie le idee dell’AAUD-E; egualmente è su questa concezione che si fonda il lavoro di ICO: ogni raggruppamento di rivoluzionari che esista al di fuori degli organi creati dagli operai stessi, e che tenti di darsi una linea e di formulare una teoria coerente e globale, non può non porsi, in definitiva, come direzione degli operai. Il compito dei rivoluzionari, dunque, sarebbe solo quello di far circolare informazioni e di stabilire contatti, ma non di cercare, in quanto gruppo, di elaborare una teoria e un orientamento d’insieme.
Il contenuto del socialismo fu anch’esso concepito a partire dall’esperienza proletaria dell'epoca e dalla critica del leninismo. L'ultrasinistra poté osservare, in Germania e in Russia, il prodigioso sviluppo dei consigli di fabbrica e dei Consigli operai. In Germania, i Consigli rimasero sotto il dominio politico dei riformisti. In Russia, i compiti cui essi poterono adempiere furono limitati al “controllo operaio” della produzione (1917 e inizio del 1918); in seguito il movimento fu liquidato. Erano i bolscevichi, secondo Lenin, a dovere amministrare la Russia. Così, un apparato burocratico si costituì a poco a poco al fine di gestire l’economia russa. L'ultrasinistra denunciò questa caricatura di socialismo e definì quella che doveva rimanere la sua tesi fondamentale al riguardo: il socialismo è la gestione della società non da parte di una minoranza di "amministratori", ma da parte delle masse operaie organizzate nei Consigli. Il socialismo è la gestione operaia. Questa concezione è rimasta al centro delle idee dell'ultrasinistra. La critica del partito si connette alla critica del "socialismo" russo. Al partito, strumento della presa del potere e della gestione della società socialista, l'ultrasinistra oppone i Consigli operai.
Su questi due punti, in conclusione, la corrente “consiliare” si è sviluppata, negli anni Venti, a partire da una critica del leninismo. Ci si può domandare se questa critica non sia stata, così come le correnti cui si opponeva, il prodotto di un’epoca; e se non sia segnata dai limiti del movimento rivoluzionario di allora. L'ultrasinistra ha analizzato il leninismo in profondità? O piuttosto l’ha criticato senza in realtà colpirne le radici?

2. Il problema dell’"organizzazione"

 Il punto di partenza metodologico della teoria leninista del partito è una distinzione che si trova in tutti i grandi teorici socialisti dell’epoca, e nello stesso Engels, sul finire della sua vita(6); secondo questa concezione "movimento operaio" e "socialismo" (cioè le idee, la dottrina, il marxismo, il socialismo scientifico etc.) sono due entità radicalmente distinte e separate: vi sono, da una parte, gli operai e le loro lotte quotidiane; e, dall'altra, il socialismo e i rivoluzionari. Si deve – dice Lenin, rifacendosi a Kautsky(7) – "introdurre" le idee rivoluzionarie tra gli operai; se movimento operaio e movimento rivoluzionario sono separati, occorre unificarli e assicurare la direzione degli operai da parte di un'avanguardia di rivoluzionari professionali. A questo fine, i rivoluzionari si devono raggruppare separatamente e intervenire dall’esterno nel movimento operaio.
L’analisi di Lenin, che pone i rivoluzionari al di fuori del movimento operaio, si fonda su una constatazione all'apparenza auto-evidente: i rivoluzionari sembrano in effetti collocarsi in una dimensione completamente diversa rispetto a quella in cui si svolge la vita quotidiana degli operai. Lenin non fa che appoggiarsi su quest’apparenza, senza andare al fondo alle cose. Il movimento rivoluzionario, la dinamica che porta al comunismo, sono prodotti dalla società capitalistica. È a partire da questa considerazione che Marx aveva elaborato la sua concezione del partito.
Il termine partito torna spesso sotto la penna di Marx, ma bisogna distinguere tra i princìpi che egli definisce e le analisi congiunturali riguardanti l’evoluzione del movimento operaio della sua epoca. Non vi è alcun dubbio che alcune di queste analisi fossero errate (per esempio quelle sui sindacati). D’altra parte, non vi è alcun testo in cui Marx affermi: «ecco ciò che penso sul partito», ma soltanto un gran numero di osservazioni disperse in tutta la sua opera. Gli esegeti possono dunque sbizzarrirsi. Tuttavia, ci sembra che un punto di vista globale si delinei chiaramente sulla base di queste osservazioni: la società capitalistica produce da sé un partito comunista, il quale altro non è che l’organizzazione del movimento oggettivo (cioè indipendente dalla "coscienza", nel senso di Kautsky e di Lenin) che spinge la società verso il comunismo (più oltre vedremo cosa si intende o, in ogni caso, cosa non si intende per “comunismo”).
In periodo di pace sociale, l’equilibrio della società rimane stabile: gli elementi del sistema si sostengono reciprocamente e nessuna rottura è possibile. In tali condizioni il movimento rivoluzionario è ridotto ad alcuni aspetti limitati e, a prima vista, anche derisori: alcune lotte operaie che si spingono abbastanza lontano da rimettere in causa certi fondamenti dell’ordine costituito (per esempio, oggi, la rimessa in discussione dei sindacati); rivolte brutali che spesso hanno come protagonisti non gli operai ma alcuni strati del contadiname o degli studenti, benché esse svolgano solo il ruolo assegnato loro dalla situazione generale della società in quel dato momento; e, infine, piccoli gruppi, e persino individui isolati: quelli che si chiamano i "rivoluzionari". Questa è la nostra attuale situazione. Nondimeno, non vi sono da un lato gli "operai" e dall’altro i "rivoluzionari"; o, piuttosto, se i rivoluzionari sembrano essere separati dal proletariato, ciò dipende precisamente dal fatto che il "proletariato" è impossibilitato a ergersi a classe dominante.
Lenin ritiene che il proletariato sia riformista e si chiede come possa diventare rivoluzionario. La sua risposta è semplice: il proletariato farà la rivoluzione solo se, dall'esterno, gli viene apportata la “coscienza di classe”. Lenin scava tra riforma e rivoluzione un fossato che gli operai non possono, da soli, superare. La definizione rivoluzionaria del proletariato, quale emerge e s’impone a Marx verso la metà del XIX secolo, dopo diversi decenni di lotte operaie, è al contrario basata sulla costrizione storica. Quando la situazione non gli permette di distruggere i rapporti di produzione capitalistici, il proletariato è costretto a vendere la propria forza-lavoro; domandando aumenti salariali, esso cerca, volente o nolente, di modificare i rapporti di distribuzione. Quando, viceversa, si presenta una situazione rivoluzionaria, il proletariato se la prende coi rapporti di produzione. Esso non scompare mai dalla scena della storia: la lotta di classe riveste forme diverse a seconda della fase, e lo obbliga a essere riformista o rivoluzionario. È per questa ragione che il rivoluzionario s’interessa innanzitutto non a ciò che questo o quel proletario, o anche l’intero proletariato, si rappresenta come scopo, ma a ciò che il proletariato sarà storicamente costretto a fare. Si tratta di comprendere un processo storico, non di imbalsamarlo isolandone uno degli elementi (vedi quanto scriviamo più avanti sulla dinamica del capitalismo)(8).
Di fatto, ogni movimento rivoluzionario corrisponde alla società da cui è stato partorito e a quella che si avvia a instaurare: il movimento comunista, il partito nel senso marxiano, riflette in particolare la divisione lavoro manuale - lavoro intellettuale. Questa divisione esso non la "sceglie"; la base sulla quale si sviluppa gliela impone. In un periodo di pace sociale vi sono degli operai rivoluzionari isolati nelle loro fabbriche, che fanno ciò che possono sul piano delle lotte quotidiane, della critica del capitalismo e delle istituzioni che lo sostengono in mezzo agli operai (sindacati e partiti "operai" riformisti). In genere vi riescono abbastanza male, il che è del tutto ovvio. E, d’altra parte, vi sono dei rivoluzionari (operai e non) che leggono, scrivono e fanno il possibile per diffondere il loro lavoro teorico: in genere, vi riescono egualmente male, il che è altrettanto ovvio. Lenin vorrebbe che i "teorici" dirigessero gli "operai"; ICO rigetta energicamente questa ipotesi e ne conclude che bisogna evitare ogni lavoro teorico collettivo. Ma il problema è altrove: rivoluzionari "operai" e rivoluzionari "teorici" non sono che due aspetti dello stesso processo. Credendo di cogliervi una frattura profonda, Lenin non fa che scambiare l’apparenza per la realtà. D'altra parte, ICO si limita a rovesciare l’errore di Lenin, senza vedere che questa pretesa separazione è soltanto illusoria, com’è d’altronde dimostrato dall’avvento di un periodo in qualche modo rivoluzionario. A cosa abbiamo assistito nel maggio-giugno 1968? Un certo numero di comunisti "consiliari" – la cui attività rivoluzionaria, sia prima che dopo quegli eventi, era ed è consacrata per l’essenziale a una critica teorica della società capitalistica – hanno lavorato con una minoranza operaia rivoluzionaria. Non si sono né “legati” né “uniti” ai lavoratori. E, prima di allora, non erano separati dagli operai più di quanto ogni operaio non sia separato dagli altri nella situazione di atomizzazione della classe operaia che caratterizza ogni periodo non rivoluzionario (com’è stato ampiamente dimostrato, i sindacati non diminuiscono bensì rafforzano quest’atomizzazione). Marx non era più separato dagli operai scrivendo Il Capitale di quanto non lo fosse quando operava nella Lega dei Comunisti e nell’Internazionale: lavorando in questi gruppi egli non avvertiva né il bisogno imperioso (come Lenin) né il timore (come ICO) di costituirsi in direzione della classe operaia.
La concezione marxiana del partito come prodotto storico della società capitalistica, che riveste diverse forme secondo le fasi attraversate da questa società, permette di superare il dilemma tra necessità del partito e timore del partito. Il partito, per Marx, è solo l’organizzazione spontanea (cioè totalmente determinata dall’evoluzione sociale) del movimento rivoluzionario generato dal capitalismo. Il partito sorge spontaneamente dal suolo storico della società moderna. La volontà e il timore di "creare" il partito sono entrambi altrettanto illusori: il rivoluzionario non ha bisogno di costruire il partito più di quanto debba temere di farlo. Tra poco vedremo le conseguenze pratiche di questo punto di vista. Esaminiamo preliminarmente un argomento spesso impiegato dall'ultrasinistra.
«Bisogna guardarsi – si sostiene – dal costituirsi in partito: vedete quel che è successo in Russia dopo il 1917?» Per l’appunto vediamo! La rivoluzione del 1917 è stata effettuata dal partito, nel senso marxiano; quanto al partito che Lenin aveva voluto costruire a partire dal Che fare?, svolse costantemente un ruolo di freno tra febbraio e ottobre. Lo stesso Lenin fu rivoluzionario nel 1917 solo perché respinse nella prassi il Che fare?. In seguito, la debolezza del proletariato russo e la mancata rivoluzione in Europa, costrinsero la rivoluzione russa ad assolvere esclusivamente i compiti della rivoluzione borghese. Il partito bolscevico assicurò la direzione del Paese e la teoria leninista del partito separato dalle masse, dell'"avanguardia cosciente" detentrice del sapere e della... coscienza, servì da potente paravento ideologico alla borghesia di Stato. L'ultrasinistra ha visto in questa ideologia il nocciolo del problema: «niente partito – dicono i consiliari –, o si finisce come in Russia». In realtà, non è il partito bolscevico ad aver causato la disfatta nella rivoluzione russa; è viceversa il mancato affermarsi della rivoluzione su scala mondiale che ha potuto ridare al partito di Lenin il fiato perso tra febbraio e ottobre. Occorre infatti distinguere tra il partito in senso marxiano e il partito bolscevico. Si crede generalmente che sia stato il partito bolscevico a fare la Rivoluzione d’ottobre. È falso. Il partito bolscevico – il partito che Lenin aveva tentato di costruire da oltre quindici anni, la "direzione" delle masse, l’"avanguardia" – era stato scavalcato dallo slancio delle masse organizzate (alle quali, dall’inizio, si erano uniti numerosi bolscevichi). Solo in seguito – invero, quasi subito dopo l’ottobre ’17 – la debolezza della rivoluzione, ha rimesso nelle mani del partito l'intero potere. A quel punto, l’apparato centralizzato del partito bolscevico ha potuto dirigere le masse e organizzare la vita della società russa. L'ultrasinistra non comprese questa distinzione, concludendo per il rifiuto puro e semplice di ogni coerente attività collettiva (ICO). Ci si contentava di adottare una posizione simmetrica a quella leninista. Lenin aveva voluto costruire un partito; l'ultrasinistra rifiuta di farlo. Pro o contro il partito, l’ultrasinistra si limitava a dare una risposta diversa alla medesima falsa domanda. Per noi non è sufficiente rovesciare l’ottica di Lenin, occorre abbandonarla.
Sul piano dell’intervento politico, ICO ha egualmente adottato una posizione simmetrica a quella di Lenin. I gruppi leninisti moderni (Lutte Ouvrière, per esempio) tentano in ogni modo di organizzare gli operai; ICO si accontenta di fare circolare delle informazioni, senza mai prendere posizione collettivamente su un problema. Questa critica di ICO apparsa nel n.11 dell’"Internationale Situationniste" ci pare corretta (il che, certo, non significa che accettiamo l’insieme della teoria e della pratica situazioniste):

«Abbiamo molti punti in comune con loro [i compagni di ICO] ed un disaccordo fondamentale: crediamo alla necessità di formulare una critica teorica precisa dell’attuale società di sfruttamento. Pensiamo che una tale formulazione teorica non possa essere prodotta che da una collettività organizzata; e viceversa pensiamo che ogni rapporto permanente organizzato attualmente tra i lavoratori debba tendere a scoprire una base teorica generale della sua azione. Quello che la La miseria nell'ambiente studentesco chiamava la scelta dell'inesistenza fatta da ICO in questo campo, non significa che noi pensiamo che i compagni di ICO manchino di idee o di conoscenze teoriche ma, al contrario, che, mettendo volontariamente tra parentesi queste idee, che sono diverse, perdano invece di guadagnare in capacità di unificazione (che è poi della più grande importanza pratica)» [p. 63].

Preciseremo oltre a quali compiti rivoluzionari ci dedichiamo.

3. Il contenuto del socialismo

 La rivoluzione russa dovette adempiere al compito di sviluppare il capitalismo in Russia. Gestire l’economia nel migliore dei modi divenne l'imperativo fondamentale. Così, ci si dedicò a formare, a partire dai quadri del partito bolscevico e dai vecchi "specialisti" borghesi, un corpo di amministratori efficiente. L'ultrasinistra, da parte sua, giunse alla conclusione che la gestione della società da parte di una minoranza che si colloca al di sopra della classe operaia, non può coincidere con il socialismo: alla gestione burocratica essa oppose la “gestione operaia”. Si costituì, in tal modo, una coerente ideologia che poneva al centro i Consigli operai; strumenti di lotta, di conquista del potere e di amministrazione della società futura, essi occupano – per esempio nel testo di Pannekoek, I consigli operai il posto centrale che viene riservato da Lenin al partito. Questa concezione ci costringe a riflettere sulla natura della società capitalistica; infatti, prima di definire il socialismo, occorre sapere a che cosa esso si contrapponga.
La teoria della gestione operaia presenta il capitalismo innanzitutto come un modo di gestione: ciò che conta è che l’economia sia diretta da una minoranza di capitalisti e non dalle masse operaie. Si tratterebbe, dunque, di sostituire gli operai ai padroni(8 bis).
Ma il capitalismo è davvero un modo di gestione? La critica rivoluzionaria del capitalismo inaugurata da Marx, non pone in primo piano il problema della gestione del capitale. Viceversa, Marx ci mostra i capitalisti come una semplice funzione del capitale; egli afferma che il padrone è solo un agente del capitalismo: «Il capitalista non è che il funzionamento del capitale, come l’operaio è quello della forza-lavoro». I pianificatori russi, lungi dal "dirigere" l’economia, ne sono diretti; e tutto lo sviluppo dell’economia russa segue le leggi oggettive dell’accumulazione capitalistica. In breve, il "gestore" è sempre al servizio di rapporti di produzione determinati e costrittivi. Il capitalismo non è un modo di gestione, bensì un modo di produzione basato su precisi rapporti di produzione; sono questi rapporti a dover essere distrutti, se si vuole abbattere il capitalismo. L’analisi rivoluzionaria del capitalismo mette al centro il ruolo del capitale, di cui i "dirigenti" dell’economia possono solo rispettare le leggi oggettive, in URSS come negli Stati Uniti.

4. La legge del valore

 Il capitalismo è fondato sullo scambio: si presenta prima di tutto come un’«immensa accumulazione di merci». Ma pur non potendo esistere senza lo scambio, il capitalismo è diverso dalla semplice produzione di merci: si costituisce anche lottando contro la produzione mercantile semplice. Il capitale è basato innanzitutto su di uno scambio del tutto particolare, lo scambio tra lavoro vivo e lavoro morto. L’originalità di Marx rispetto agli economisti classici consiste innanzitutto nella definizione del concetto di forza-lavoro, che permette di svelare il segreto del plusvalore, distinguendo tra lavoro necessario e pluslavoro.
In che modo le merci vengono commisurate le une alle altre? Con quale meccanismo si stabilisce che una quantità x di merce a equivale a una quantità y di merce b? Marx osserva che bisogna cercare la spiegazione del rapporto tra xa e yb non nel carattere concreto di a e di b, nella qualità rispettiva di queste due merci, ma in una relazione quantitativa. a e b possono scambiarsi nella proporzione xa=yb, solo se contengono entrambe «qualcosa di comune» (Karl Marx, Il Capitale, I, 1). Se facciamo astrazione dal carattere concreto, utile, di a e di b, «resta loro solo una qualità, quella di essere prodotti del lavoro» (ibidem). a e b si scambiano dunque in proporzioni determinate dalle rispettive quantità di lavoro che vi si è cristallizzato; queste stesse quantità di lavoro hanno per misura la loro durata temporale. Il tempo di lavoro medio socialmente necessario al quale l’analisi giunge è un’astrazione; non è possibile calcolare ciò che rappresenta un’ora di lavoro medio per una determinata società. Ma, distinguendo tra lavoro concreto e lavoro astratto, Marx può svelare il meccanismo dello scambio, e analizzare un tipo di scambio affatto particolare: il salariato.

«Ciò che vi è di meglio nel mio libro è: l) di aver dimostrato nel primo capitolo il doppio carattere del lavoro, a seconda che esso si esprima come valore d’uso o come valore di scambio (tutta la comprensione dei fatti è basata su questa tesi) [...].» (Lettera a Engels, 24 agosto 1867)

L’acquisto e la vendita di ogni merce, inclusa la forza-lavoro, obbediscono a ciò che Marx chiama la legge del valore. Tale legge si presenta dapprima abbastanza semplicemente: le merci si scambiano al loro valore, determinato dal tempo di lavoro medio necessario alla loro produzione. Marx afferma nel Libro III del Capitale che «lo scambio di merci ai loro valori – o approssimativamente ai loro valori – presuppone [...] uno stadio meno avanzato che non lo scambio ai prezzi di produzione, che necessita di un elevato livello dello sviluppo capitalistico».
Di fatto, la legge del valore è concepita come la causa, e al contempo la conseguenza, di una lunga evoluzione storica, complessa e contraddittoria.
Lo scambio fa la sua apparizione nella società primitiva, nel momento in cui un dato grado della produttività del lavoro permette alla comunità di produrre più di quanto necessario alla soddisfazione dei propri bisogni. La divisione del lavoro si afferma, così come la moneta, l’"equivalente generale" di tutte le altre merci; il valore di scambio sembra così acquistare un certo grado di autonomia, personificata e individualizzata nelle figure dell’usuraio e del mercante, che vivono della circolazione del denaro e, in fin dei conti, sono mantenuti dal pluslavoro dei lavoratori produttivi.
Chi dice moneta dice prezzo. Il prezzo non è che la forma monetaria del valore, ma non coincide con il valore. Il gioco dell’offerta e della domanda si esercita su tre piani; vi sono infatti la concorrenza l) tra venditori, 2) tra compratori e 3) tra venditori e compratori. Il rapporto tra l’offerta e la domanda fa abbassare o salire il prezzo al di sopra o al di sotto del valore. Ma quel che, per un periodo dato e nei limiti di queste oscillazioni, determina il valore di una merce, non è la concorrenza, ma il costo di produzione di quella merce. Il valore di una merce è determinato dal tempo di lavoro medio, il suo prezzo dal rapporto tra l’offerta e la domanda. La legge del valore si presenta allora come «la legge che, nei limiti delle oscillazioni dei periodi commerciali, mantiene necessariamente il prezzo di una merce eguale ai suoi costi di produzione» (Karl Marx, Lavoro salariato e capitale).
Fin qui ci siamo mantenuti nel quadro della produzione mercantile semplice: il capitalismo sviluppa la legge del valore e complica all’estremo il rapporto prezzo-valore. L’accumulazione primitiva capitalistica poggia essenzialmente su due punti: la trasformazione della forza-lavoro in merce, il che presuppone che essa compaia libera sul mercato e sia dunque distinta dagli altri elementi del processo lavorativo; e l’accumulazione di ingenti capitali, resi disponibili per l’investimento industriale. Le cospicue somme accumulate grazie al sistema mercantilista tra il XV e il XVIII secolo, furono impiegate a questo scopo. In tutt’altro contesto, uno degli obiettivi della liquidazione dei kulak e dei nepmen in Russia, a partire dal 1928, fu quello di permettere allo Stato di impadronirsi di una grossa quantità di valore per reinvestirlo nell’industria. In entrambi i casi, lo sviluppo del capitale commerciale fu la tappa preliminare necessaria a un prodigioso balzo industriale.
Prodotto esso stesso della crescita dello scambio, il capitale lo estende a tutto il pianeta e con ciò modifica non la legge del valore, bensì il suo modo di manifestarsi: le forme del valore vengono trasformate al fine di meglio conservare, sviluppandolo fino in fondo, il contenuto della legge. Così, se una distinzione prezzo-valore esisteva prima che la forza-lavoro venisse scambiata sul mercato, il capitale industriale modifica questo rapporto. È noto che il prezzo ruota intorno al valore secondo le fluttuazioni della domanda e dell’offerta. Ma nella società capitalistica nasce tutta una dinamica della relazione prezzo-valore.

«Che cosa succede se il prezzo di una merce sale? I capitali saranno gettati in massa nell’industria che prospera e questo afflusso di capitali su di un terreno favorevole durerà finché i guadagni vi ritorneranno normali, o piuttosto fino al momento in cui la sovrapproduzione farà cadere i prezzi di questi prodotti al di sotto dei costi di produzione.» (Karl Marx, Lavoro salariato e capitale)

Marx riprende questo problema in maniera sistematica nel Libro III del Capitale:

«Come conseguenza della differente composizione organica dei capitali(9) investiti nelle diverse branche della produzione, visto dunque che diversissime quantità di lavoro sono messe in opera da capitali di eguale grandezza, secondo la differente percentuale che la parte variabile costituisce in un capitale totale di volume dato, questi capitali si appropriano di diversissime quantità di pluslavoro donde producono diversissime masse di plusvalore. Di conseguenza, i tassi di profitto che predominano nelle diverse branche della produzione rivelano originariamente delle grandi differenze. Sotto l’effetto della concorrenza, questi diversi tassi di profitto si eguagliano in un tasso di profitto generale, che è la media di tutti quei diversi tassi di profitto. Si designa con profitto medio il profitto che, conformemente a questo tasso di profitto generale, riviene a un capitale di grandezza data, qualunque sia la sua composizione organica. Si ottiene il prezzo di produzione di una merce aggiungendo al suo costo la parte del profitto medio annuale sul capitale investito (e non soltanto consumato) nella sua produzione, parte calcolata conformemente alle sue condizioni di rotazione.»

Questo processo non è altro che la perequazione del tasso di profitto: lo sviluppo degli scambi produce un prezzo di mercato che oscilla insieme alle fluttuazioni della concorrenza nei limiti prima descritti. Il movimento dei prezzi di mercato (o prezzi correnti) appare come una negazione della legge del valore. Tuttavia, la circolazione del capitale, i suoi incessanti spostamenti in cerca di branche dove i costi di produzione siano i meno elevati possibile, tendono a uniformare i tassi di profitto. Il capitalismo tende a realizzare ciò che Marx chiama il "comunismo del capitale" in cui il plusvalore viene redistribuito. Si crea così un prezzo di produzione, una sorta di media delle oscillazioni dei prezzi di mercato per ogni merce.

«Il prezzo così livellato, che ripartisce ugualmente il plusvalore sociale tra le masse di capitali in proporzione alla loro grandezza, è il prezzo di produzione delle merci, il centro intorno al quale le merci oscillano.» (Karl Marx, Il Capitale, Libro III)

Proprio negando il prezzo di mercato, il prezzo di produzione appare come una nuova negazione della legge del valore, poiché ora il prezzo delle merci si compone del costo di produzione più il profitto medio.

«Può dunque sembrare che la teoria del valore sia qui incompatibile con il movimento reale e con i movimenti empirici della produzione.» (Ibidem)

Marx ci invita a ragionare al livello della società considerata globalmente e a considerare il processo di produzione capitalistico dal punto di vista della totalità.

«Il capitale investito in alcuni settori della produzione ha una composizione media, cioè esattamente o approssimativamente la composizione del capitale sociale medio. In questi settori, il prezzo di produzione delle merci coincide esattamente o approssimativamente con il loro valore espresso denaro.» (Ibidem)

Negli altri settori esso non coincide con il valore: si produce ciò che Marx chiama un fenomeno di "compensazione":

«Supporre che le merci di diversi settori della produzione si vendano al loro valore, significa semplicemente che il loro valore è il punto centrale intorno al quale gravitano i loro prezzi e si equilibrano i loro alti e bassi. Dunque bisognerà sempre distinguere, oltre al valore individuale delle merci particolari prodotte dai diversi produttori, un valore di mercato. [...] Per alcune di queste merci il valore si troverà al di sotto del valore di mercato (se la loro produzione esige un tempo di lavoro più corto di quello che esprime il valore del mercato), per altre esso eccederà il loro valore» (Ibidem)

L’interesse dell’analisi di Marx risiede nel tentativo di collegare direttamente il rapporto tra domanda e offerta alla questione del tempo di lavoro (come ha già fatto distinguendo valore e prezzo):

«Perché una merce sia venduta al suo valore mercantile, cioè proporzionalmente al lavoro socialmente necessario che essa contiene, la quantità totale del lavoro sociale consacrato alla massa totale di questa specie di merce deve corrispondere all’ampiezza del bisogno che la società ne prova, beninteso, del bisogno sociale solvibile. La concorrenza, le fluttuazioni dei prezzi correnti che corrispondono alle fluttuazioni dell’offerta e della domanda, tendono costantemente a riportare a quel livello la quantità totale del lavoro consacrato a ogni categoria di merci.» (Ibidem)

Non vi è contraddizione tra il valore, da una parte, e il costo di produzione più il profitto medio, dall’altra. È il funzionamento stesso del capitalismo, attraverso la trasformazione del plusvalore in profitto, a distinguere la frazione del valore di una merce che rappresenta il costo di produzione da quella che rappresenta il profitto medio: il profitto medio, anche se appare come "esterno" (Marx), è nondimeno il prodotto dell’investimento della totalità del capitale impegnato dalla società.

«Certamente, se si prende in considerazione il capitale sociale totale, il valore delle merci che esso ha prodotto (o, in termini di moneta, il loro prezzo) è uguale al valore del capitale costante, più il valore del capitale variabile, più il plusvalore.» (Ibidem)

«È chiaro che il profitto medio non può essere diverso dalla massa totale dei plusvalori ripartiti sulle masse del capitale, alla quota della loro grandezza, nei diversi settori della produzione.» (Ibidem)

Negando doppiamente la legge del valore con il prezzo di mercato e con il prezzo di produzione, il capitalismo non fa che rafforzarla ed estenderla. Il valore acquista ora una forma "modificata", ma la trasformazione dei valori in prezzi di produzione e la creazione del valore mercantile distinto dal valore individuale realizzano la legge generalizzandola:

«Le merci – considerate in blocco e su scala sociale – sono vendute al loro valore.» (Ibidem)

Marx riassume così il meccanismo della manifestazione della legge attraverso la sua doppia negazione:

«La concorrenza riesce a stabilire, dapprima in un settore determinato, un valore mercantile e un prezzo corrente uniformi a partire dai differenti valori individuali delle merci. Ma soltanto la concorrenza dei capitali nei diversi settori genera il prezzo di produzione, e questo livella il profitto tra quei settori. Questo processo richiede uno sviluppo, del modo capitalistico di produzione superiore a quello dello stadio inferiore. [...] Esiste sempre una compensazione: per troppo plusvalore in tale merce, vi è troppo poco plusvalore in tal altra merce, cosicché gli scarti tra i valori e i prezzi di produzione si compensano reciprocamente. Nel sistema capitalistico di produzione, la legge generale si impone come tendenza dominante solo in maniera approssimativa e complessa, come un termine medio e inverificabile tra eterne fluttuazioni.» (Ibidem)

L’importanza di tutti questi sviluppi risiede nel fatto che essi mettono in luce il ciclo storico dello scambio, che continua sotto il capitalismo. Il "marxismo" volgarizzato ha fatto della legge del valore un semplice meccanismo regolatore, rigettando ciò in cui risiedeva l’interesse del lavoro di Marx: la ricerca di una dinamica del capitalismo. Uno degli elementi di tale dinamica è, per il movimento stesso della legge del valore, il tempo di lavoro:

«Io dimostro che proprio perché il valore della merce è determinato dal tempo di lavoro, il prezzo medio delle merci non può mai essere uguale al suo valore.» (Karl Marx, Teorie sul plusvalore)

Il tempo di lavoro medio determina infatti tutta l’organizzazione sociale della produzione e della distribuzione. Regola le proporzioni in cui le forze produttive sono assegnate a tale o a talaltro posto. La legge del valore «si afferma fissando le necessarie proporzioni di lavoro sociale non nel senso generale che si applica a ogni società, ma soltanto nel senso richiesto dalla società capitalistica; detto diversamente, essa stabilisce una ripartizione proporzionale dell’insieme del lavoro sociale in funzione dei bisogni specifici della produzione capitalistica» (Paul Mattick, "ISEA", n. 59). È tra l’altro per questa ragione che i capitali non andranno a investirsi in una fabbrica in India, anche se la produzione di questa fabbrica è necessaria alla sopravvivenza della popolazione: il capitale si dirige sempre là dove si accumula più velocemente. La regolazione mediante il tempo di lavoro medio impone di sviluppare una determinata produzione solo là dove il tempo di lavoro necessario per ottenerla è più vicino al tempo di lavoro medio.

«In un regime sociale dove l’interdipendenza del lavoro sociale esiste sotto la forma dello scambio privato dei prodotti individuali del lavoro, la forma sotto la quale si manifesta la ripartizione proporzionale del lavoro è precisamente il valore di scambio di questi prodotti.» (Karl Marx, Lettera a Kugelmann, 11 luglio 1868)

Tale è la razionalità del capitale: il valore di scambio attraverso il tempo di lavoro medio. L’interesse dell’analisi di Marx consiste nella dimostrazione che questo stesso movimento produce l’irrazionalità del sistema capitalistico. Qui consideriamo solo uno degli aspetti di questa contraddizione, a partire dalle indicazioni di Marx circa la definizione del tempo di lavoro.

5. La contraddizione del tempo di lavoro

 Abbiamo ricordato il ruolo – centrale – del pluslavoro nell’analisi della produzione del plusvalore. Marx insiste sull’origine, sulla funzione storica e sul limite storico del pluslavoro:

«Il grado di produttività già raggiunto ci indica se una parte del tempo di produzione basta alla produzione immediata e se una parte in continuo aumento può essere impiegata a creare dei mezzi di produzione. Questo suppone che la società sia in condizione di aspettare e che possa prelevare, tanto sul consumo immediato, quanto sulla produzione che le è consacrata, una crescente parte della ricchezza già creata per impiegarla in un lavoro che non è immediatamente produttivo (in seno al processo materiale di produzione).
«Tutto questo esige dunque che si sia già raggiunto un certo livello di produttività e un eccedente relativo, e si può dire più esattamente, che questo livello si misura direttamente dal grado in cui il capitale circolante si trasforma in capitale fisso.» (Karl Marx, Grundrisse)

Così il salariato permette di sviluppare le forze produttive a un livello fino ad allora inimmaginabile:

«La vera economia (risparmio) verte sul tempo di lavoro (minimo e riduzione a un minimo dei costi di produzione), ma capita che questa economia corrisponde allo sviluppo della forza produttiva.» (Ibidem)

Il salariato permette la produzione di plusvalore mediante l’appropriazione del pluslavoro da parte del capitale. In questo senso, la miseria alla quale esso condanna l’operaio è una necessità storica. Bisogna costringere il lavoratore a fornire del pluslavoro. Ma così le forze produttive si sviluppano e accrescono la parte relativa del pluslavoro nella giornata lavorativa dell’operaio:

«Il capitale crea una grande quantità di tempo disponibile [...], detto diversamente, un margine di spazio per lo sviluppo di tutte le forze produttive di ogni individuo e dunque anche della società. [...] Esso stesso tende sempre a creare del tempo di lavoro disponibile da un lato, per trasformarlo in plusvalore dall’altro.» (Ibidem)

L’"esistenza contraddittoria" del pluslavoro appare dunque nettamente:

crea la ricchezza sociale,

apporta miseria al lavoratore che lo fornisce.

Questa contraddizione ha una base oggettiva: la necessità del progresso delle forze produttive. Ma, a partire dal momento in cui tale crescita raggiunge un grado formidabile, il pluslavoro diventa talmente importante, rispetto al lavoro necessario, che è possibile trasformare il rapporto lavoro necessario/pluslavoro e distruggere la "base contraddittoria del pluslavoro".

Il capitale «è così, suo malgrado, lo strumento che crea i mezzi del tempo sociale disponibile, che senza posa riduce a un minimo il tempo di lavoro per tutta la società e libera dunque il tempo di tutti in vista dello sviluppo proprio a ciascuno.» (Karl Marx, Grundrisse)

Nel socialismo, il lavoro eccedente rispetto a quello necessario perderà il carattere di pluslavoro, impostogli dai limiti storici delle forze produttive sotto il capitalismo: il tempo disponibile non sarà più fondato sulla povertà del lavoro. Non si avrà più bisogno della miseria per creare la ricchezza. Quando il rapporto tra il lavoro necessario e il pluslavoro sarà sconvolto dallo sviluppo delle forze produttive, l’eccedenza di tempo al di là del lavoro necessario all’esistenza materiale, perderà la sua forma transitoria di pluslavoro.

«Il tempo libero – per il piacere e per le attività superiori – trasformerà, nel più naturale dei modi, colui che ne gode in un risultato diverso, ed è quest’uomo trasformato che poi si presenterà nel processo immediato di produzione.» (Ibidem)

L’economia di tempo di lavoro è una necessità assoluta per lo sviluppo dell’umanità: fonda la possibilità del capitalismo e, a uno stadio più sviluppato, quella del comunismo. È lo stesso movimento che sviluppa il capitalismo e renderà il comunismo al contempo possibile e necessario.
Contemporaneamente, la legge del valore e la misura mediante il tempo di lavoro medio si trovano impegnate nello stesso processo. La legge del valore esprime il limite del capitalismo e svolge un ruolo necessario. Fintanto che le forze produttive sono ancora poco sviluppate e che il lavoro immediato costituisce il fattore essenziale della produzione, la misura attraverso il tempo di lavoro si impone come una necessità assoluta. Ma con lo sviluppo del capitale, in particolare del capitale fisso, «la creazione di ricchezza dipende sempre meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro utilizzato e sempre di più dalla potenza degli agenti meccanici che sono messi in movimento nel corso della durata del lavoro» (ibidem).
La miseria del proletariato ha permesso così di sviluppare in modo prodigioso il capitale fisso, in cui per l’appunto si trovano fissate tutte le conoscenze scientifiche e tecniche dell’umanità: l’automazione, di cui oggi cominciamo a vedere le prime applicazioni, è solo una delle tappe di questo sviluppo. Il capitale continua a regolare la produzione attraverso l’intermediazione della misura del tempo di lavoro medio:

«Il capitale è una contraddizione in processo: da una parte esso spinge alla riduzione del tempo di lavoro a un minimo e, dall'altra parte, esso pone il tempo di lavoro come la sola fonte e la sola misura della ricchezza. Esso diminuisce dunque il tempo di lavoro sotto la sua forma necessaria per accrescerla sotto la sua forma di pluslavoro.» (Ibidem)

Quanto abbiamo scritto circa l’"esistenza contraddittoria" del pluslavoro dev’essere collegato alla questione del tempo di lavoro. La famosa contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione può essere compresa solo se si vedono bene le seguenti opposizioni e gli stretti legami che le uniscono:

contraddizione tra il ruolo del tempo di lavoro medio come regolatore delle forze produttive "in via di sviluppo" e la loro crescita che tende a distruggere la ragione d’essere di questa funzione;

contraddizione tra la necessità di sviluppare al massimo il pluslavoro dell’operaio al fine di produrre il più possibile e la crescita stessa del pluslavoro che rende possibile la sua soppressione.

La relazione contraddittoria tra i rapporti di produzione e le forze produttive può essere compresa solo come un concetto da costruire, come sintesi di numerose questioni a vari livelli (problemi del credito, della rendita etc.; cfr. Il Capitale, Libro III): la contraddizione del tempo di lavoro e la sua dinamica sono una delle manifestazioni dell’opposizione tra la crescita delle capacità produttive e i rapporti sociali nella società capitalistica.
Marx ha tentato di sintetizzare queste due questioni:

«Non appena il lavoro, nella sua forma immediata, ha cessato di essere la fonte principale della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore di uso. Il pluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere la condizione dello sviluppo delle forze generali del cervello umano.» (Ibidem)

La "liberazione dell’uomo" tanto annunciata da tutti gli utopisti (antichi e moderni), è da quel momento possibile:

«Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo. Subentra il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro, ma in generale la riduzione del lavoro necessario della società a un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico etc. degli individui, grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro.» (Ibidem)

Quella che si potrebbe definire la dialettica del tempo di lavoro riguarda anche la società comunista e la necessaria transizione che vi conduce. Ponendo il problema del tempo di lavoro e della sua misura, come abbiamo cercato di fare, è possibile comprendere quelle affermazioni di Marx che, a prima vista, potrebbero risultare paradossali, e persino contraddittorie.

«Ogni bambino sa che ogni nazione perirebbe se interrompesse il lavoro, anche solo per una settimana(9 bis). Ugualmente, egli sa che la creazione di prodotti corrispondenti a bisogni diversi richiede diverse quantità determinate di lavoro sociale collettivo... Ora, è evidente che una forma data di produzione sociale non può in alcun modo eliminare questa necessità di una ripartizione, nelle proporzioni definite, del lavoro sociale; si possono solo trasformare le sue manifestazioni. Non si possono eliminare le leggi di natura. In condizioni storiche diverse, si può solo trasformare la forma sotto la quale queste leggi si manifestano.» (Karl Marx, Lettera a Kugelmann, 11 luglio 1868)

Abbiamo visto che, sotto il capitalismo, la legge del valore organizza ciò che Bucharin chiama «le proporzioni socialmente indispensabili tra le diverse branche della produzione», determinando così ciò che egli definisce «lo stato di equilibrio» della società: il regolatore fondamentale essendo il tempo di lavoro medio.
È anche curioso leggere, dalla penna di Marx, che

«in realtà nessun tipo di società può impedire che la produzione sia regolata, in un modo o nell’altro, dal tempo di lavoro disponibile della società stessa. Ma, fintanto che questa fissazione della durata del lavoro non si effettua sotto il controllo cosciente della società, il che può essere fatto soltanto sotto il regime della proprietà comune, ma con il movimento dei prezzi delle merci, la tua tesi esposta con tanta precisione negli “Annali Franco-tedeschi” resta interamente valida." (Lettera a Engels, 8 gennaio 1868)(10).

In realtà, non vi è incoerenza nel pensiero di Marx, a questo livello. Questa lettera, in particolare, fu interpretata in tutti i modi possibili e immaginabili nel dibattito che oppose Bucharin a Preobrazenskij, senza che mai, a nostra conoscenza, l’autentica analisi di Marx fosse messa in luce. Marx opponeva la regolazione mediante il tempo socialmente necessario alla regolazione mediante il tempo disponibile. Evidentemente, non si tratta di due metodi da applicare, ma di due processi storici oggettivi che mettono in gioco l’insieme dei rapporti sociali.
Sono note le pagine della Critica del programma di Gotha in cui Marx spiega che

«All’interno della società cooperatrice, basata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, i produttori non scambiano i loro prodotti; tanto meno il lavoro trasformato in prodotti appare qui come valore di questi prodotti, come una proprietà oggettiva da essi posseduta, poiché ora, in contrapposto alla società capitalistica, i lavori individuali non esistono più come parti costitutive del lavoro complessivo attraverso un processo indiretto, ma in modo diretto.»

Questo passaggio del Libro II del Capitale viene citato di meno:

«In luogo di una società capitalistica supponiamo una società comunista. Innanzitutto il capitale-denaro sparirebbe completamente, e con esso tutte le transazioni travestite che implica. La questione si ridurrebbe a questo: che la società è obbligata a calcolare in anticipo la quantità di lavoro, di mezzi di produzione e di sussistenza che, senza il minimo inconveniente, essa può impiegare in imprese che, come per esempio la costruzione di ferrovie, durante un periodo abbastanza lungo, un anno o anche di più, non forniscono né mezzi di produzione, né alcun prodotto di utilità immediata, ma, al contrario, sottraggono dei mezzi di produzione e di sussistenza alla produzione annuale totale del lavoro. Mentre nella società capitalistica, dove l’intelligenza sociale si manifesta solo a cose fatte, è inevitabile che, senza posa, si producano delle grandi perturbazioni.»

Marx afferma, dunque, che nella società comunista esisterà un altissimo grado di sviluppo delle forze produttive. Questo fatto permetterà di non misurare più in termini di tempo di lavoro medio. Occorrerà, tuttavia, valutare attentamente l’importanza relativa da dare a questa o a quella branca della produzione, e dunque scegliere e calcolare; soltanto che la "misura" non si effettuerà più in funzione del costo sociale del prodotto, ma in relazione alla comparazione tra i diversi bisogni. «A ciascuno secondo i suoi bisogni», nell’ottica di Marx, non significa che "tutto" esisterà "in abbondanza"; la nozione di abbondanza assoluta è essa stessa una nozione ideologica, e non un concetto scientifico. La formula suddetta implica effettivamente un calcolo e una scelta, non più sulla base del valore di scambio, ma in funzione del valore d’uso, dell’utilità sociale del prodotto considerato(11). D’altronde, Marx espone lo stesso punto di vista in Miseria della filosofia:

«In una società futura, ove fosse cessato l'antagonismo delle classi, ove non esistessero più classi, l'uso non sarebbe più determinato dal minimo del tempo di produzione; ma il tempo di produzione che verrebbe dedicato ai diversi oggetti sarebbe determinato dal loro grado di utilità sociale.»

Così, si chiarisce la nota frase sul passaggio dal regno della "necessità" al regno della "libertà": quest’ultima è concepita come un rapporto in cui gli uomini, padroneggiando il processo di produzione della vita materiale, possono infine adattare le loro aspirazioni al livello raggiunto dallo sviluppo delle forze produttive(12). La crescita della ricchezza sociale e il fiorire dell’individualità coincidono.

«La vera ricchezza è, in effetti, lo sviluppo della forza produttiva di tutti gli individui. Da allora in poi non sarà più il tempo di lavoro, ma il tempo disponibile a misurare la ricchezza.» (Marx, Grundrisse)

In questo senso, Maximilien Rubel ha ragione quando parla del «tempo, terreno della liberazione umana» (13).
È chiaro che la dinamica analizzata da Marx esclude ogni ipotesi d'un passaggio graduale al comunismo, attraverso la scomparsa progressiva della legge del valore. Al contrario, la legge del valore non cessa di manifestarsi con forza fino alla soppressione del capitalismo: essa si autodistrugge continuamente... soltanto per ricomparire a un livello superiore. Abbiamo mostrato come il movimento che ha dato origine alla legge del valore tenda a distruggerne la ragion d’essere; ciò nonostante, essa continua a esistere e a regolare il funzionamento del sistema. Ne consegue che la rivoluzione è necessaria; ma, al contempo, si comprende come essa sia possibile. Il motore della lotta rivoluzionaria non è la "coscienza", né tanto meno la "spontaneità" pura degli operai, bensì la crescita delle forze produttive, di cui il proletariato stesso è, secondo Marx, una delle componenti essenziali.
In definitiva, la natura contraddittoria del tempo di lavoro rimanda al problema del duplice carattere del lavoro, fonte della dialettica valore d’uso-valore di scambio. L’analisi marxiana tenta di dare una definizione del capitale e del ruolo che esso svolge nella storia dello scambio. In queste pagine, non abbiamo fatto che presentare un aspetto del lavoro di Marx. D’altronde, la sua analisi, per quanto completa, non può bastarci; in ogni caso bisogna prima conoscerla bene. È per questa ragione che ci concentriamo su Marx. Qui abbiamo solo posto una questione; ora dobbiamo stare attenti a non imitare quel pensatore di cui Marx diceva che riusciva a risolvere i problemi solo semplificandoli.

6. La gestione operaia

 La teoria della gestione operaia della società mediante i Consigli operai ignora completamente il movimento del capitalismo; ne conserva, viceversa, tutte le categorie e le caratteristiche: salario, scambio, legge del valore, limitazione aziendale etc. Il socialismo da essa propostoci è solo un capitalismo... gestito democraticamente dagli operai. Delle due l’una:

o i Consigli operai cercheranno di funzionare diversamente dalle imprese capitalistiche – il che è impossibile stante il permanere degli attuali rapporti di produzione – e saranno perciò spazzati via dalla reazione che troverà la sua fonte principale nella sopravvivenza di tali rapporti. (E questo giacché i rapporti di produzione non sono rapporti inter-umani – vedi la definizione di "Socialisme ou Barbarie"(14), secondo cui i rapporti capitalistici di produzione si darebbero laddove sussiste una distinzione tra dirigenti ed esecutori –, ma il modo in cui si rapportano tra loro i diversi fattori del processo lavorativo: il fattore soggettivo (la forza-lavoro umana) e il fattore oggettivo (i mezzi di produzione). Ciò che costituisce l’essenza dei rapporti capitalistici, è l’ergersi dei fattori oggettivi come potenza estranea rispetto al lavoratore, potenza che lo domina in quanto capitale. Il rapporto "umano" dirigente-esecutore è solo una manifestazione del rapporto fondamentale capitale-salariato);

– oppure i Consigli operai accetteranno di funzionare come imprese capitalistiche. Ma allora il sistema dei Consigli sopravviverà soltanto come illusione destinata a mascherare lo sfruttamento; e i dirigenti "eletti" non tarderanno a diventare in tutto e per tutto uguali ai capitalisti tradizionali. La funzione del capitalista, per Marx, tende irresistibilmente a separarsi da quella dell’operaio: «Del resto, la legge vuole che lo sviluppo economico attribuisca queste funzioni a persone diverse; [...] tale è la tendenza della società ove domina il modo di produzione capitalistico». La gestione operaia sfocerà nel capitalismo, o piuttosto il capitalismo non avrà mai cessato di esistere, con tutti i suoi corollari: concorrenza, salariato etc.

La burocrazia sovietica aveva preso il controllo dell’economia; l'ultrasinistra vuole che siano le masse a farlo. Ancora una volta l’ultrasinistra rimane sul terreno del leninismo, accontentandosi di dare una risposta diversa al medesimo problema. Nondimeno, così facendo, essa avanza un principio giusto (contrariamente a Lenin): l’impossessamento dell’economia da parte degli operai è necessario. Ma non è un fine in sé: è una condizione necessaria – ma non sufficiente – della distruzione del capitalismo. Il socialismo non è la gestione, per quanto "democratica" e "operaia", del capitale, bensì è la sua distruzione.

7. Il limite storico dell’ultrasinistra

Esaminando le due tematiche dell'organizzazione e del contenuto del socialismo, non abbiamo fatto che richiamare la tesi fondamentale di Marx, secondo cui nella società dominata dal capitale esiste un movimento che tende alla rivoluzione. Il nostro compito è innanzitutto quello di evidenziare questo movimento; in tal modo, i problemi dell'"organizzazione" e del contenuto del socialismo si chiariscono. Prodotto della società capitalistica, il movimento rivoluzionario ne porta anche le stimmate: la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Ma non bisogna teorizzare questo dato alla maniera di Lenin, né come fa ICO; occorre invece riconoscerlo come una fase necessaria che sarà superata solo con il pieno successo della rivoluzione.
Non esiste, dunque, contrariamente a quanto afferma Lenin, un "problema dell’organizzazione". Vi sono soltanto delle forme in cui il movimento spontaneo verso il comunismo generato dalla società, si incarna. L’apporto teorico di Marx consiste precisamente nel mettere in evidenza la dinamica interna che conduce dal capitalismo al comunismo. Con ciò, il socialismo non appare più come la semplice gestione della società da parte del proletariato, ma come il compimento del ciclo storico del capitale ad opera del proletariato. Il proletariato non può accontentarsi d’impadronirsi del mondo; esso conduce a termine il movimento proprio del capitalismo. Questo è quanto separa Marx da tutti i pensatori utopisti e riformisti: il socialismo è il prodotto di una dinamica oggettiva, della stessa dinamica che generò il capitalismo e lo propagò su tutto il pianeta. Marx insiste soprattutto sul contenuto di questo movimento; Lenin e l'ultrasinistra hanno invece posto l'accento sulla forma (forma organizzativa e forma di gestione della società socialista), dimenticando il contenuto del movimento rivoluzionario.
Questa "rimozione" fu essa stessa un prodotto storico. La situazione propria dell'epoca, e in primo luogo lo sviluppo ancora limitato delle forze produttive, impediva alle lotte rivoluzionarie di acquistare un contenuto comunista (nel senso che abbiamo definito). Essa impose quindi ai rivoluzionari, delle forme che giocoforza non potevano essere radicali, né comuniste. Queste, a loro volta, segnarono e accrebbero i limiti dell’epoca(15).
Le idee dell'ultrasinistra si sono formate e sviluppate in un periodo storico in cui le condizioni di maturazione della rivoluzione erano ancora incompiute: il capitalismo non era abbastanza sviluppato e il proletariato abbastanza forte, perché una rivoluzione comunista potesse imporsi. Il leninismo non esprime se non l’impossibilità della rivoluzione nelle condizioni proprie della sua epoca. A quel tempo, le idee di Marx sul partito erano state accantonate da svariati lustri; lo stesso Engels, verso la fine della sua vita, le aveva abbandonate. È, questa, l’epoca delle grandi organizzazioni riformiste, poi dei partiti di tipo bolscevico (che di fatto ricadono rapidamente nel riformismo). Il movimento rivoluzionario, stretto com'è tra la socialdemocrazia e il leninismo, non riesce a manifestarsi come tale. Ovunque, in Germania, in Italia, in Gran Bretagna, l’inizio degli anni Venti è contrassegnato dall’inquadramento e dall’irregimentazione della classe operaia. Per reazione a questa situazione, l'ultrasinistra sviluppa il tipico timore di coartare i lavoratori. Invece di cogliere il significato dei partiti leninisti in quanto prodotto della sconfitta operaia, essa rifiuta qualsiasi partito e lascia, al pari di Lenin, la concezione marxista del partito nei ripostigli della storia. Quanto al contenuto del socialismo, basti considerare che, tra il 1917 e il 1936 – dalla rivoluzione russa fino alla rivoluzione spagnola, passando per le insurrezioni in Germania, in Cina e altrove – nessun movimento sociale significativo ha rimesso in discussione la base del capitalismo. In questo contesto, allorché un movimento rivoluzionario trionfa, può solo tentare di gestire il capitalismo, giammai di rovesciarlo.
In queste condizioni, l'ultrasinistra non poteva elaborare una vera critica del leninismo; essa poteva tutt'al più contraddirlo sistematicamente, senza mai andare al fondo delle cose, senza cogliere, cioè, il contenuto profondo del movimento rivoluzionario – per la buona ragione che esso non appariva ancora chiaramente. È per questo motivo che, laddove difende posizioni corrette su alcuni punti (critica dei sindacati e dei partiti "operai", in primis), alle forme preconizzate dal leninismo l'ultrasinistra può soltanto contrapporre altre forme, senza mai riuscire a enucleare il contenuto del movimento rivoluzionario. Essa, così, non fa che sostituire al feticismo leninista del partito, quello dei Consigli operai.
Si può in definitiva affermare che questa corrente non sia riuscita a superare davvero il leninismo. Le sue concezioni, per tutto un periodo storico, furono necessarie ed ebbero un ruolo positivo: si trattò di una tappa inevitabile. Ma oggi che il leninismo ha fatto ormai il suo tempo – poiché la fase controrivoluzionaria di cui fu il prodotto sta per concludersi –, le idee dell'ultrasinistra, in quanto sono state niente più che il pendant del leninismo, devono e possono essere superate. Questa critica è possibile, solo in quanto lo sviluppo del capitalismo su scala planetaria ci permette d’intravvedere il contenuto reale del movimento rivoluzionario che esso stesso produce. Arroccandoci in una difesa a spada tratta delle posizioni tradizionali dell'ultrasinistra (rifiuto del partito e gestione operaia), non faremmo che trasformarle in pura ideologia, nel senso in cui Marx parla dell'"ideologia tedesca". Si tratta di un’eredità importante, che tuttavia è il prodotto di una fase della storia del movimento rivoluzionario che si trova alle nostre spalle: se non riusciremo a superare il nostro passato – il che non implica assolutamente un rigetto brutale ma, al contrario, un’assimilazione profonda –, finiremo col recitare Pannekoek come altri recitano I princìpi del leninismo, incapaci di svolgere un ruolo, allorché il contenuto della rivoluzione sarà portato avanti da quel "partito proletario" che non avremo saputo riconoscere.
La Sinistra comunista italiana ("bordighista") offre un altro esempio di una corrente rivoluzionaria, prodotto del medesimo periodo storico, che non è riuscita a comprendere e a superare le proprie origini(16). Essa accetta le idee di Lenin fino al “fronte unico” – verità fino al 1921, errore dopo. Questa corrente si è sviluppata mantenendo l’idea di un programma rivoluzionario che attacchi i fondamenti stessi del capitalismo; rifiutando la teoria della gestione operaia, ha elaborato una tra le analisi più profonde dell’economia russa, mettendo in primo piano non già la burocrazia, come fanno i trotskisti e "Socialisme ou Barbarie", bensì i rapporti di produzione in quanto tali. La rivoluzione, per la Sinistra comunista italiana, non può essere che la distruzione dello scambio e della legge del valore. Tuttavia, questa tendenza, nonostante concepisca il partito come un prodotto della società, resta attaccata alle tesi del Che fare?, donde una grande confusione teorica (benché i testi “bordighisti” risultino spesso interessanti). In definitiva, anche la Sinistra comunista italiana è rimasta prigioniera dell’epoca che l’ha generata. [Al riguardo, si veda la rivista «Invariance», in particolare, i nn. 1 (sul partito), 2 (sul valore), 3 (critica dell’autogestione), 4 (sul Maggio '68), 5 (Perspectives), 7 (La révolution communiste. Thèses de travail) della I serie, e il n. 1 (Le Kapd et le mouvement prolétarien) della II serie] (17).

Il nostro testo mira a un solo scopo: riconoscere la nostra ideologia per superarla. Potremo, solo così, intraprendere il lavoro teorico necessario: studio del programma rivoluzionario, della questione del valore in Marx e in altri teorici, analisi del capitalismo (il problema dell’imperialismo, per esempio), così come elaborazione di lavori storici per meglio assimilare il nostro passato (il leninismo, la Terza Internazionale etc.). Nello stesso tempo, possiamo e dobbiamo far conoscere i vecchi testi dell'ultrasinistra, per meglio evidenziare sia il loro ruolo storico sia i loro limiti(18).
Quando il proletariato si costituisce in classe, il rivoluzionario lo raggiunge, senza che alcuna barriera teorica o sociologica impedisca al movimento rivoluzionario di unificarsi. La coerenza teorica, come affermano i situazionisti nell’estratto del n. 11 dell’"Internationale Situationniste" che abbiamo citato, è un obiettivo permanente dei rivoluzionari, nella misura in cui facilita sempre il coordinamento pratico delle energie rivoluzionarie. I rivoluzionari non esitano mai a intervenire in modo organizzato per far conoscere la loro critica della società.
Non si tratta di dettare la "linea giusta " agli operai rivoluzionari; ma non si tratta nemmeno di astenersi da ogni intervento rivoluzionario coerente, con il pretesto che «gli operai devono decidere da soli». Poiché, da una parte, gli operai prendono solo le decisioni imposte loro dalla situazione generale della società; e, dall’altra, il movimento rivoluzionario è una totalità organica di cui la teoria è un elemento inseparabile. I comunisti rappresentano e difendono sempre gli interessi generali del movimento. In ogni situazione, non rinunciano a esprimere tutto il senso di quanto accade e a fare delle proposte di azione conseguenti; se la situazione è rivoluzionaria, se l’espressione del movimento e le proposte di azione sono giuste, esse si integrano necessariamente nella lotta del proletariato e contribuiscono alla formazione del partito della rivoluzione comunista.
Questo testo non è un “prendere o lasciare”. Non è una piattaforma, ma solo un contributo a un lavoro teorico in divenire. Benché le sue ipotesi fondamentali siano il prodotto di una riflessione sufficientemente lunga, il testo nella sua esposizione può apparire rapido e poco elaborato. Ciò significa che intendiamo proseguire il lavoro.


Luglio 1969 – rivisto nell’aprile 1970.


NOTE:

(1) Cfr. Denis Authier (a cura di), La Gauche allemande (Textes), La Vecchia Talpa (Invariance), Napoli, 1973.
(2) Cfr. Il movimento dei consigli in Germania, pubblicato da ICO, e i documenti contenuti nel n. 7 di "Invariance" [soprattutto Il KAPD al terzo congresso mondiale (1921), pp. 81-94, e il testo sulla KAI, pp. 94-102]. Il KAPD – Partito Comunista Operaio Tedesco – fu il risultato dell’esclusione di 60.000 militanti della sinistra dal Partito Comunista Tedesco (KPD), che contava allora 100.000 membri in tutto. La sinistra si opponeva risolutamente alla direzione leninista-luxemburghista del KPD, propugnando 1) il sistematico astensionismo elettorale, in una fase del capitalismo in cui il parlamentarismo ha perso il suo ruolo e deperisce più o meno velocemente; 2) la distruzione dei sindacati, organi del "parlamentarismo economico". Tuttavia era favorevole alla creazione della Terza Internazionale, mentre la destra del KPD la giudicava prematura. L’evoluzione dell’URSS indusse il KAPD, fin dal 1921, a una critica della società e dello Stato russi (che identificò con un capitalismo a gestione burocratica), e dunque della Terza Internazionale, divenuta nel frattempo uno strumento della politica estera della Russia. Insieme a gruppi di altri Paesi, il KAPD costituì un’effimera Internazionale Comunista Operaia (KAI). Cfr., al riguardo, la dichiarazione di Trotsky contro questa Quarta Internazionale, nel n.11 dell’"Internationale Situationniste".
(3) Ed. it. Samonà & Savelli, Roma, 1972.
(4) L’AAUD – Unione Generale Operaia di Germania – riuniva gli operai rivoluzionari delle organizzazioni di fabbrica. L’AAUD-E – Unione Operaia Generale di Germania-Organizzazione Unitaria – nacque da una scissione dell’AAUD. L’aggettivo Unitaria esprimeva il rigetto della distinzione tra organizzazione politica (partito) e organizzazione economica (sindacati, Consigli) del proletariato.
(5) Compagno di Hermann Gorter, Anton Pannekoek fu tra l'altro autore di Worker’s Councils, testo che in qualche modo rappresenta una sintesi delle idee "consiliari", e di Lenin filosofo (Feltrinelli, Milano, 1972) dove egli dimostra come il materialismo di Lenin si collochi sul terreno del materialismo borghese. Un’antologia di scritti di Pannekoek, a cura di Serge Bricianer, è stata pubblicata in italiano da Musolini (Torino, 1974), sotto il titolo Pannekoek e i consigli operai.
(6) Cfr. la sua prefazione alla Guerra dei contadini in Germania, scritta nel 1874 (Lenin la cita diffusamente nel Che fare?).
(7) Cfr. Karl Kautsky Les trois sources du Marxisme, Spartacus, Paris, 1974, e i commentari di Pierre Guillaume e di Jean Barrot. Sulle origini del movimento operaio russo e la nascita del leninismo, si veda la prefazione di Denis Authier a Léon Trotsky, Rapport de la délégation sibérienne, Spartacus, 1970 (trad. it. La Vecchia Talpa, Napoli, 1974).
(8) Cfr. Karl Marx, Révélations sur le procès des communistes, in Maximilien Rubel, Pages choisies pour une éthique socialiste, Rivière, Paris, p. 205.
(8 bis) Cfr. Fondements de l’économie communiste, in "Information et Correspondance Ouvrière", n. 101; e Paul Mattick, Marx e Keynes, De Donato, Bari, 1975.
(9) Marx distingue il capitale variabile, investito in salari, dal capitale costante, investito in mezzi di produzione.
(9 bis) Lo sciopero generale di tre settimane nel Maggio ’68 è un segno dell’enorme sviluppo delle forze produttive e delle riserve.
(10) Marx fa qui allusione all’articolo di Engels, Abbozzo di una critica dell’economia politica. Successivamente lo stesso Engels commentò il proprio lavoro nell'Antidühring (Terza parte): "Sin dal 1844 io dissi [...] che questa valutazione dell’effetto utile e del consumo del lavoro è tutto ciò che in una società comunista potrebbe rimanere del concetto di valore dell’economia politica. Ma stabilire scientificamente questa tesi, come si vede, è divenuto possibile solo grazie al Capitale di Marx".
(11) Proprio con questo, il problema dei Paesi arretrati e del loro sviluppo a tutti i livelli si pone sotto una nuova luce (cfr. l’India).
(12) "Il busillis della società borghese è precisamente di non permettere a priori un’organizzazione sociale della produzione che sia cosciente: il razionale e il necessario non si affermano che in quanto media e la loro azione è cieca." (Marx, Lettera a Kugelmann, 11 luglio 1868).
(13) Maximilien Rubel, Pages choisies de Karl Marx, cit., p. 307.
(14) Cfr. la nostra "Presentazione" a Notes pour une analyse de la révolution russe, in Jean Barrot, Communisme et question russe, Société encyclopédique française et Éditions de la Tête de Feuilles, Paris, 1972, pp. 15-20 (trad. it. http://mondosenzagalere.blogspot.com/2010/09/socialisme-ou-barbarie-e-la-natura.html)
(15) Si veda il lavoro, assai interessante e documentato, di Kommunistik Program, (Bagsvært, Danimarca). Testi disponibili in francese sono La question syndicale et la gauche allemande dans la IIIe Internationale, e La perspective communiste.
(16) Cfr. le riviste «Bilan» (pubblicata tra le due guerre mondiali), «Programme Communiste» (che appare da una decina di anni) e «Fil du temps», nonché l’opuscolo La question parlementaire dans l’Internationale Communiste. Una vastissima documentazione esiste ovviamente anche in lingua italiana.
(17) Per una bibliografia dettagliata delle pubblicazioni della Sinistra comunista italiana, si veda «Invariance», n. 8.
(18) Un bilancio del lavoro del partito si trova in «Le mouvement communiste», n. 3.