Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

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«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

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«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

31 maggio 2010

Marxismo contro fascismo e antifascismo

L'Aventino
[Tratto da N+1 - Estratti]

FASCISMO E ANTIFASCISMO DI IERI E DI OGGI

Il fascismo non è stato "reazione agraria", ma espressione moderna del capitale: repressione armata delle spinte rivoluzionarie proletarie e riformismo sociale, intervento statale diretto nell'economia e sostegno all'industria e alla finanza italiana nello scontro sul mercato mondiale, accentramento istituzionale contro il "cretinismo parlamentare" e integrazione corporativa dei "rappresentanti dei lavoratori" nell'economia.
Questa concezione del fascismo è completamente estranea a quanti non capiscono la sostanziale continuità fra Stato fascista e sua evoluzione nella repubblica "nata dalla Resistenza": continuità nelle istituzioni economiche dominanti, nella politica di intervento statale nell'economia, nel monopartitismo mascherato, nel corporativismo del sindacato sempre più integrato, sempre più partecipe della difesa dell'economia capitalistica.
La caduta politica dello stato fascista è il frutto della sconfitta militare del blocco italo-tedesco ad opera dello schieramento avversario anglo-americano.
Già prima della II Guerra Mondiale, nell'occasione della guerra civile spagnola, i comunisti conseguenti denunciarono il carattere imperialista del conflitto che si stava preparando, denunciarono le forze opportuniste che "rovinarono l'orientamento di classe del proletariato facendolo paurosamente rinculare di almeno un secolo, e chiamarono tutto ciò progressismo. Convinsero gli operai di Francia, d'Italia e di tutti gli altri paesi che la lotta di classe, per sua natura offensiva, a carattere di iniziativa deliberata e dichiarata, si concretava in un difesismo, in una resistenza, in una inutile e sanguinosa emorragia contro forze organizzate capitalistiche che non vennero superate ed espulse che da altre forze non meno regolari e non meno capitalistiche, mentre il metodo adottato impedì assolutamente di inserire nel trapasso un tentativo di attacco autonomo delle forze operaie".
Pur ridotta a un'esigua minoranza dalle epurazioni staliniane, la nostra corrente, la Sinistra Comunista, rivendicò anche durante la II Guerra Mondiale il rifiuto di qualunque blocco partigiano che accomunasse in un unico fronte il proletariato alla borghesia antifascista così come alle classi dominanti filonaziste e mussoliniane.
Nella propaganda della borghesia, l'immensa carneficina della guerra fu ammantata di nobili ideali, di luminose prospettive, che nascondevano la reale natura dello scontro fra i blocchi imperialisti per la supremazia mondiale. La grande maggioranza del proletariato, sotto la guida dei partiti staliniani divenuti nazional-patriottici e "partigiani" dell'imperialismo più forte, fu coinvolta nel massacro collettivo e, ancora una volta, offrì il suo sangue per costruire un "mondo nuovo" che puzzava esattamente come il vecchio e perpetuava lo stesso fetente regime di produzione capitalistica. La nostra corrente soltanto ebbe il coraggio, con poche, isolate voci, di ribadire e rendere attuali le parole d'ordine che il comunismo europeo, con i bolscevichi russi alla testa, aveva lanciato trent'anni prima, allo scoppio del primo conflitto mondiale.
Contro la "difesa della patria": il proletariato è classe internazionale, il lavoro salariato lega gli operai fra di loro al di là dei confini.
Contro l'appoggio ad una o all'altra delle fazioni borghesi: indipendenza della classe proletaria dal fascismo e dall'antifascismo, lotta autonoma di classe contro la borghesia, antifascista e filoamericana così com'era fascista e filotedesca negli anni passati.
I comunisti non devono piegarsi ad una scelta tra gruppi o Stati borghesi in lotta: il loro compito è quello di guidare la classe proletaria nella guerra contro la classe nemica in ogni Stato, qualunque sia la forma di governo che in esso esprime.
La tragedia storica di un proletariato coinvolto nella guerra a fianco di un imperialismo contro l'altro viene oggi disinvoltamente evocata per scopi prettamente di bottega: come allora, si scomodano ideali sublimi e roboanti paroloni. Solidarietà, democrazia, pace, patria, libertà e benessere economico corrono dalle bocche di vecchi politicanti e di nuovi apprendisti del mestiere parlamentare come le chiacchiere dei banditori di aste e degli imbonitori dei mercati ortofrutticoli. Ma quando le grandi tragedie storiche vengono evocate per la seconda volta sullo scenario dell'umanità, come ricorda Marx, esse trovano spazio solo sotto la forma della farsa. E farsa non può che rimanere, amplificata dallo strapotere dei "mass media" e cucinata in tutte le salse per essere servita alle orecchie e ai cervelli del proletariato, trasformato in anonima folla di telespettatori.
Agli appelli di oggi, alle richieste di schierarsi con questo o con quel gruppo parlamentare in nome di un fascismo da avanspettacolo o di un antifascismo che ne è il riflesso, i comunisti non possono che ribadire, cento volte più forte di allora, la medesima risposta: il proletariato non può e non deve legarsi a nessuno dei carrozzoni borghesi ai quali lo si vorrebbe aggregato.
Non c'è nulla da scegliere: i contendenti non rappresentano che due facce della stessa capitalistica medaglia. Sono da abbattere non con "scelte" elettorali, ma con la rivoluzione.

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INQUADRAMENTO STORICO DELLA QUESTIONE

La natura del fascismo è studiata dalla Sinistra Comunista in un arco di tempo molto ampio, che va dalle prime manifestazioni aperte, politiche e violente in Italia nel 1919-20 fino al 1970.
La sua analisi del fenomeno fascista diventa inseparabile da quella di tutti gli altri fenomeni del capitalismo maturo almeno dal 1922, all'epoca del rapporto al IV Congresso dell'Internazionale Comunista.
Il relatore per la Sinistra fu Bordiga. Egli rispose innanzitutto all'interpretazione che l'Internazionale dava dei rapporti fra PCd'I e fascismo e che discendeva da un'interpretazione del fascismo del tutto politica, cioè contingente. Nel criticare l'atteggiamento del PCd'I, gli rimprovera di voler rimanere un partito piccolo, elitario, dedito più alla sua organizzazione che alle grandi questioni politiche del momento.
Bordiga risponderà in altre occasioni che le grandi questioni politiche, la tattica, la strategia del partito non sono disgiunte dal ferreo possesso della teoria rivoluzionaria e che le oscillazioni tattiche per un partito (ma questo valeva anche per l'IC) sono deleterie quanto una sconfitta sul campo.
Il fascismo, dice dunque Bordiga nel 1922, non è un fenomeno dovuto alla nascita e all'azione di un movimento politico particolare; è già presente in Italia almeno dal 1914-15, quando una parte della borghesia decide di entrare in guerra. I gruppi sono eterogenei, ma sono guidati dagli interessi della grande borghesia industriale e, prima di invocare l'intervento a fianco dell'Intesa contro Austria e Germania, avevano addirittura raccomandato una guerra contro di essa. Vi erano comunque anche gruppi repubblicani irredentisti, sindacalisti rivoluzionari e anarchici, radicali liberali. Nel rapporto successivo, al V Congresso dell'IC nel luglio 1924, Bordiga ribadisce che fu l'ala estrema, quella anarco-sindacalista ed estremista socialista rinnegata "a fornire al fascismo post-bellico il suo stato maggiore generale".
Il fenomeno fascista non si deve analizzare a partire dalle sue componenti politiche, anche se queste daranno l'impronta ai discorsi e ai documenti nell'azione quotidiana. La componente essenziale del fascismo è la borghesia industriale e il suo Stato. La smobilitazione postbellica, la riconversione industriale, il pericolo di una rivoluzione interna, pongono alla borghesia un "problema gigantesco. Essa non poteva risolverlo né dal punto di vista tecnico, né da quello militare mediante una lotta aperta contro il proletariato; doveva risolverlo dal punto di vista politico".
La borghesia fece dapprima delle concessioni al proletariato attraverso i ministeri liberal-riformisti di Nitti e Giolitti. Nello stesso tempo istituiva un secondo esercito, la Guardia Regia, che non era una polizia e nemmeno un esercito vero e proprio. E continuava a pagare gli ufficiali smobilitati che andavano ad istruire l'apparato militare fascista.
Ma perché la borghesia stava intraprendendo questa strada?
Una prima risposta è che voleva e doveva evidentemente evitare la rivoluzione. Il fascismo dunque prende come primo aspetto quello della guardia bianca controrivoluzionaria. Questo è un aspetto immediato, importante, ma non essenziale. Il fascismo non ha un programma specifico, non ha una sua ideologia, ma risulta dall'insieme delle ideologie della borghesia e delle classi medie che rappresentano la manodopera armata. Al momento (1922) si adagia perfettamente nel gioco parlamentare. Esso non rappresenta una "destra" della borghesia, ma una unione di tutte le esigenze borghesi. Non vuole ideologicamente il predominio violento di una classe sull'altra, ma copia dalla democrazia borghese la massima collaborazione fra le classi. Quando i fascisti formularono un programma organico non inventarono nulla di nuovo, esposero semplicemente un miscuglio di istanze socialdemocratiche e riformiste, condite con un linguaggio un po' più demagogico di quello dei democratici, avvalendosi anche dell'esperienza rivoluzionaria russa, copiando ciò che gli serviva in fatto di organizzazione, disciplina, centralizzazione, partito unico di una classe. L'essenza del fascismo, però, non è in questi suoi aspetti sovrastrutturali, anche se la borghesia ne ha bisogno perché rappresentano la giustificazione politica della controrivoluzione.
La vera risposta al perché la borghesia stesse intraprendendo questa strada sta nel fatto che nell'epoca dell'imperialismo il fascismo è la struttura di qualsiasi forma di governo borghese. L'imperialismo è la fase "suprema", cioè l'ultima. A questa fase corrisponde un modo di governo dei fatti economici e sociali determinato dalla maturità delle condizioni economiche. Non può essere un modo qualsiasi, né può essere un modo adeguato a periodi precedenti della storia del capitalismo. La fase suprema del capitalismo pretende una fase suprema del modo di governo. Il processo è irreversibile, quindi la nuova forma di dominio borghese è irrinunciabile da parte della borghesia.
Questa non è una "invenzione" della nostra corrente. L'analisi approfondita seppure non ancora esplicita della necessità del fascismo la troviamo in Lenin e precisamente nell'Imperialismo, fase suprema del capitalismo. Per Lenin l'aggettivo "supremo" sta come "putrefatto" e lo spiega più volte. Il testo finisce con questa osservazione: l'imperialismo, cioè la putrefazione del capitalismo, è la fase suprema, cioè quella della socializzazione della produzione. Si tratta di capitalismo di transizione, cioè di capitalismo morente.
È per cercare di non morire che il capitalismo deve darsi questa estrema forma di dominio sintetizzata nella parola "fascismo" che la Sinistra utilizza come un comodo riferimento, dietro il quale però vi è una ricostruzione materialistico-dialettica del processo storico che porta al superamento del capitalismo. Il fascismo non è dunque un ritorno indietro nella storia, non rappresenta per il proletariato una sconfitta maggiore di quanto non lo rappresenti la democrazia; anzi, più sono moderni e semplificati i rapporti di classe, meglio è per la rivoluzione futura: "per il movimento che avesse rigata la via diritta, [il fascismo] sarebbe stato, come sarà [riconosciuto] un giorno, il regalo migliore della storia". Grande scandalo, naturalmente tra gli opportunisti; ma in realtà tutto è già scritto per esempio nel 18 brumaio di Marx. Quando l'esecutivo borghese si erge contro il parlamento, con ciò stesso si isola di fronte alla rivoluzione che non avrà altri ostacoli da abbattere.
Invece di gridare con Marx "ben scavato, vecchia talpa!", invece di prepararsi alla risposta armata contro la guardia bianca, l'opportunista ritorna vigliaccamente alla difesa della democrazia e del parlamento. Mentre la storia pone su di un piatto d'argento la semplificazione della via rivoluzionaria, l'opportunista la complica tornando a legami sociali precedenti. Il fascismo in sé non è più controrivoluzionario di altre forme del regime borghese: esso lo diventa a causa della reazione antifascista che getta il proletariato nell'alleanza mortale con altri strati sociali in difesa della democrazia borghese perduta: "Il risultato peggiore, per le sorti delle classe proletaria, è l'entrata nel tronfio affasciamento antifascista della parte proletaria che aveva finalmente imboccata la via originale ed autonoma, sicché tutti, ognuno a modo suo, si sono rimessi a rifare lo sviluppo del primo Risorgimento. Merito questo controrivoluzionario che pesa un secolo, se quello di Mussolini ha pesato un ventennio. Ma il secondo ha pesato in senso controrivoluzionario perché così l'hanno preso i maneggioni della politica opportunista".
Il fascismo ha usato violenza e assassinio né più né meno di quanto hanno fatto i regimi precedenti o successivi, in Italia e altrove. Ma sarebbe sciocco moralismo fermarsi a considerazioni quantitative sulla violenza manifesta o potenziale in confronto delle forme di governo. Invece è materialismo dialettico dimostrare che la violenza contro l'umanità non è dovuta alla forma fenomenica, fascista o meno, del capitalismo ma al capitalismo stesso.
Ideologicamente, abbiamo detto, il fascismo non porta nulla di nuovo, si limita a copiare ciò che gli serve da ciò che già esiste, a destra e soprattutto a sinistra. Ciò che di veramente nuovo introduce è una nuova organizzazione dello Stato, un unico partito borghese centralizzato, una poderosa organizzazione militare e sociale che coinvolge il proletariato stesso.
Nel 1924 si vede ancora una contraddizione mortale tra la necessità organizzativa e centralizzatrice dello Stato borghese e l'ideologia ultraliberista professata dai fascisti. Si tratta di una contraddizione tra il fascismo e chi lo impersona. Se le cose stanno così, non possono durare, "il fascismo è condannato al fallimento in forza dell'anarchia economica del capitalismo, malgrado il fatto che abbia preso saldamente in pugno le redini del governo".
Nel 1924 il fascismo è effettivamente in crisi, non riesce a sfruttare la vittoria elettorale per rilanciare l'economia e ristrutturare completamente lo Stato. L'assassinio di Matteotti provoca una generalizzata ribellione operaia che sembra prefigurare la possibilità di una ripresa di classe. Ma di lì a poco il fascismo compirà il suo capolavoro: razionalizzerà l'intervento dispotico in economia regolando da una parte l'anarchia capitalistica e dall'altra la tendenza naturale al monopolio. Viene ammortizzata la contraddizione fondamentale dell'anarchia produttiva e distributiva, ma viene anche combattuta la tendenza alla eccessiva concentrazione monopolistica, fattore di espropriazione e di limitazione del "libero mercato". Lo Stato acquisterà le aziende sofferenti a causa della concorrenza, le chiuderà o rinnoverà a seconda delle loro condizioni, quindi le restituirà al mercato. Verrà regolato il credito, verranno progettati ampi lavori pubblici.
Keynes razionalizzerà tutto ciò in un sistema teorico formale almeno dieci anni dopo, più tardi ancora delle prime applicazioni del fascismo tedesco. Del resto un fenomeno materiale, un'esigenza vitale del capitalismo non poteva rimanere un'eccezione. "Noi siamo del parere che il fascismo tenda in certo modo a diffondersi anche fuori d'Italia... In generale noi possiamo attenderci all'estero una copia del fascismo italiano che s'incrocerà con forme di estrinsecazione della ondata democratica e pacifista", dicemmo nel 1924.
Fascismo e ondata democratica e pacifista? I delegati europei, seduti a congresso, educati alla democrazia e al pacifismo devono aver pensato di noi: questi sono matti. I delegati russi non compresero e combatterono la Sinistra pagando a caro prezzo il loro errore. In Germania i socialdemocratici Scheidemann e Noske avevano già aperto la strada, i plotoni di esecuzione staliniani eliminarono, dopo regolare e democratico processo, la vecchia guardia bolscevica.
La destra storica che governò l'Italia dopo l'unificazione nazionale fu l'ultimo esempio di governo borghese liberista coerente. Ma fu già accentratrice e unificatrice delle spinte particolaristiche. Scomparve una volta per tutte nel 1876, quando fu vinta dalla sinistra borghese demagogica e parolaia, dimostratasi poi incapace di riformare il suo Stato. Il fascismo non fu un ritorno a situazioni pre-unitarie e pre-borghesi, fu invece fenomeno moderno capace di riforma. Non nel senso che fu il prosecutore della sinistra borghese: esso fu in realtà il realizzatore dialettico delle vecchie istanze del riformismo socialista.
Non aver capito questo, fu un disastro per il movimento operaio mondiale, che precipitò sotto l'influenza di un prodotto sociale peggiore del fascismo stesso: l'antifascismo piagnone e democratoide.
"Quando il primo esempio del tipo di governo totalitario borghese si ebbe in Italia col fascismo, la fondamentale falsa impostazione strategica di dare al proletariato la consegna della lotta per la libertà e le garanzie costituzionali nel seno di una coalizione antifascista manifestò il fuorviarsi totale del movimento comunista internazionale dalla giusta strategia rivoluzionaria. Il confondere Mussolini e Hitler, riformatori del regime capitalistico nel senso più moderno, con Kornilov o con le forze della restaurazione e della Santa Alleanza del 1815, fu il più grande e rovinoso errore di valutazione e segnò l'abbandono totale del metodo rivoluzionario".

* * *

"IL PIÙ DISGRAZIATO E PERNICIOSO PRODOTTO DEL FASCISMO È L'ANTIFASCISMO" (A. Bordiga)

[...]

I tre fattori della vittoria fascista

...Frattanto, il complice di avanguardia della classe dominante italiana, Benito Mussolini, provvedeva a impersonare la riscossa delle forze conservatrici e fondava il movimento fascista. La politica fascista, caratteristica del moderno stadio borghese, faceva in Italia il primo classico esperimento. Col fascismo la borghesia, pur sapendo che lo Stato ufficiale con tutte le sue impalcature è il suo comitato di difesa, cerca di adattare il classico suo individualismo a una coscienza e a un'inquadratura di classe.
Essa ruba così al proletariato il suo segreto storico, e in tale bisogna i suoi migliori pretoriani sono i transfughi dalle file rivoluzionarie. Nella inquadratura fascista, la borghesia italiana seppe in effetti impegnare sé stessa e i suoi giovani personalmente nella lotta, lotta per la vita e per la salvezza dei suoi privilegi di sfruttamento. Ma, naturalmente, il fascismo consisté anche nell'inquadrare nelle file di un partito e di una guardia di combattimento civile gli strati di altre classi tormentate dalla situazione, non esclusi alcuni elementi proletari delusi dalla falsa apparenza dei partiti che da anni parlavano di rivoluzione, ma rivelavano la loro palese impotenza.
Il compito immediato del fascismo è la controffensiva all'azione di classe proletaria, avente scopo non puramente difensivo, secondo il compito tradizionale della politica di stato, ma distruttivo di tutte le forme autonome di organizzazione del proletariato. Quando la situazione sociale è matura nel senso rivoluzionario, sia pure con un processo difficile e pieno di scontri, ogni organo delle classi sfruttate che lo Stato non riesca ad assorbire per irretirlo nella sua pletorica impalcatura, e che seguiti a vivere su una piattaforma autonoma, diventa una posizione di assalto rivoluzionario. La borghesia nella fase fascista comprende che tali organismi, sebbene tollerati dal diritto ufficiale, devono essere soppressi, e, non essendo conveniente inviare a farlo i reparti armati statali, crea la guardia armata irregolare delle squadre d'azione e delle camicie nere.
La lotta si ingaggiò tra i gruppi di avanguardia del proletariato e le nuove formazioni del fascismo e, come è ben noto, fu perduta dai primi. Ma questa sconfitta e la vittoria fascista furono possibili per l'azione di tre concomitanti fattori.
Il primo fattore, il più evidente, il più impressionante nelle manifestazioni esteriori, nelle cronache e nei commenti politici, nelle valutazioni in base ai criteri convenzionali e tradizionali, fu appunto la organizzazione fascista mussoliniana, con le sue squadre, i gagliardetti neri, i teschi, i pugnali, i manganelli, i bidoni di benzina, l'olio di ricino e tutto questo truce armamentario.
Il secondo fattore, quello veramente decisivo, fu l'intiera forza organizzata dell'impalcatura statale borghese, costituita dai suoi organismi. La polizia, quando la vigorosa reazione proletaria (così come da principio avveniva molto spesso) respingeva e pestava i neri, ovunque interveniva attaccando e annientando i rossi vincitori, mentre assisteva indifferente e soddisfatta alle gesta fasciste quando erano coronate da successo. La magistratura, che nei casi di delitti sovversivi e "agguati comunisti" distribuiva trentine di anni di galera ed ergastolo in pieno regime liberale, assolveva quei bravi ragazzi degli squadristi di Mussolini, pescati in pieno esercizio di rivoluzione e di assassinio. L'esercito, in base ad una famosa circolare agli ufficiali del ministro della guerra Bonomi, era impegnato ad appoggiare le azioni di combattimento fascista; e da tutte le altre istituzioni e caste (dinastia, Chiesa, nobiltà, alta burocrazia, parlamento) l'avvento dell'unica forza venuta ad arginare l'incombente pericolo bolscevico era accolta con plauso e con gioia.
Il terzo fattore fu il gioco politico infame e disfattista dell'opportunismo social-democratico e legalitario. Quando si doveva dare la parola d'ordine che all'illegalismo borghese dovesse rispondere (non avendo potuto o saputo precederlo e stroncarlo sotto le sporche vesti democratiche) l'illegalismo proletario, alla violenza fascista la violenza rivoluzionaria, al terrore contro i lavoratori il terrore contro i borghesi e i profittatori di guerra fin nelle loro case e nei luoghi di godimento, al tentativo di affermare la dittatura capitalista quello di uccidere la libertà legale borghese sotto i colpi di classe della dittatura proletaria, si inscenò invece la imbelle campagna del vittimismo pecorile, si dette la parola della legalità contro la violenza, del disarmo contro il terrore, si diffuse in tutti i modi tra le masse la propaganda insensata che non si dovesse correre alle armi, ma si dovesse attendere l'immancabile intervento dell'Autorità costituita dallo Stato, la quale avrebbe ad un certo momento, con le forze della legge e in ossequio alle varie sue carte, garanzie e statuti, provveduto a strappare i denti e le unghie all'illegale movimento fascista.
Come dimostrò l'eroica resistenza proletaria, come attestano le porte delle Camere del Lavoro sfondate dai colpi d'artiglieria attraverso le piazze su cui giacevano i cadaveri degli squadristi, come provarono i rioni operai delle città espugnati, come a Parma dall'esercito, come in Ancona dai carabinieri, come a Bari dai tiri della flotta da guerra, come dimostrò il sabotaggio riformista e confederale di tutti i grandi scioperi locali e nazionali fino a quello dell'agosto 1922 (che, a detta dello stesso Mussolini, segna la decisiva affermazione del fascismo, giacché la pagliaccesca marcia su Roma in vagone letto del 28 ottobre fu fatta solo per i gonzi), senza il gioco concomitante di questi tre fattori il fascismo non avrebbe vinto. E se nella storia ha un senso parlare di fatti non realizzati, la mancata vittoria del fascismo avrebbe significato non la salvezza della democrazia, ma il proseguire della marcia rivoluzionaria rossa e la fine del regime della classe dominante italiana. Questa, ben comprendendolo, in tutti i suoi esponenti, conservatori e social-riformisti, preti e massoni, plaudì freneticamente al suo salvatore.
Se questo giustamente rappresentò il primo dei tre fattori della vittoria, al secondo, la forza dello Stato, vanno dati i nomi dei partiti e degli uomini che governarono l'Italia dal 1910 al 1922, i liberali come Nitti e Giolitti, i social-riformisti come Bonomi e Labriola, i clericali in via di democratizzazione come Meda e Rodinò, i radicali come Gasparotto e così via. Al terzo fattore, costituito dalla politica disfattista dei capi proletari, vanno dati i nomi dei D'Aragona e Baldesi, Turati e Treves, Nenni e compagni, che giunsero, a nome dei loro partiti e dei loro sindacati, a firmare il patto di pacificazione col fascismo, patto che comportava il disarmo di ambo le parti, ma naturalmente valse soltanto a disarmare il proletariato...
Ben presto il nuovo sistema, di cui la chiave evidente era la sostituzione del partito unitario borghese al complesso ciarlatanesco dei partiti borghesi tradizionali (prima realizzazione della tendenza del mondo moderno, per cui in tutti i grandi Stati del capitalismo in fase imperiale amministrerà il potere un'unica organizzazione politica) passò alla liquidazione del personale delle vecchie gerarchie politiche, e questi complici del primo periodo furono liquidati ed espulsi a pedate dalla scena politica. L'episodio centrale della resistenza di questo strato che troppo tardi si accorgeva dello sviluppo degli eventi, ma che storicamente mai avrebbe cambiato strada (perché cambiarla a tempo avrebbe significato rinunziare al sabotaggio della rivoluzione) fu costituito dalla lotta sorta dopo l'uccisione di Matteotti.
Questo gruppo ignobile di traditori invocò e pretese l'appoggio e l'alleanza del proletariato per rovesciare il fascismo, ma nello stesso tempo non cessò dal piatire il legale intervento della dinastia, dal fare l'apologia della legge, del diritto e della morale, tutte armi che non scalfivano per niente la grandeggiante inquadratura fascista, e dal deprecare ogni violenza di masse.
L'avanguardia cosciente del proletariato in tale momento non doveva avere lacrime per la violata libertà di questi sporchi servi del fascismo, ma, dopo avere virilmente sostenuta la bufera della controrivoluzione, ben poteva compiacersi della sorte di questi miserandi relitti delle cricche parlamentari. Da allora, invece, comincia a sorgere il prodotto più nauseante del fascismo, l'antifascismo bolso, incosciente, privo di connotati, incapace di classificare storicamente il suo avversario, incapace di capire che, se questo ha potuto vincere, è perché le vecchie risorse della politica borghese erano fruste e fradicie, incapace di intendere che solo la rivoluzione può superare la fase fascista, e che contrapporvi il nostalgico desiderio del ritorno alle istituzioni e alle forme statali del periodo che la precedette è veramente la più reazionaria delle posizioni.
Durante il suo primo periodo, il fascismo sedò le resistenze, liquidò i residui delle vecchie organizzazioni politiche, impostò la sua non originale e non risolutiva soluzione delle questioni sociali prendendo a prestito dai programmi del socialismo riformista la inserzione nello Stato degli organismi sindacali e la creazione di un meccanismo arbitrale centrale, che, al fine supremo della conservazione dello sfruttamento padronale, compensava i guadagni e le rimunerazioni dei lavoratori contenendo a grandi sforzi in un piano economico generale la speculazione capitalistica.
Ma questo primo esperimento di amministrazione politica totalitaria della vita sociale, nell'ambiente economico italiano di scarso potenziale intrinseco, dette risultati assai meschini, e l'apparente solidità del regime si mantenne solo con l'abuso smodato di una retorica parolaia, che fu la continuazione fedele della vuotaggine del tradizionale parlamentarismo italiano.
Dal punto di vista convenzionale e borghese, il fascismo segnò una nuova era rispetto al ciclo precedente della classe dominante italiana, nelle sue vicende di politica interna ed estera. Contro la concorde, benché opposta affermazione di questa antitesi da parte dei dottrinari da operetta del fascismo e dell'antifascismo, una valutazione marxista riconosce la logica e coerente continuità e responsabilità storica nell'opera e nella funzione della classe dominante italiana prima e dopo il 28 ottobre 1922. Tutto ciò che è stato perpetrato e consumato dopo trova le sue premesse necessarie in quanto si svolse nei precedenti decenni.
Lo stesso movimento fascista, con la pseudo-teoria che mai seppe prendere corpo, nasce con continuità di atteggiamenti, di consegne, di organizzazioni e di capi, dal movimento dei fasci interventisti dal 1914, a cui si richiamano quasi tutti i movimenti che si vantano antifascisti...
Comunque, la situazione succeduta al fascismo è di tale miseria politica, che non contiene nemmeno gli elementi retorici che rispondono a queste banali riesumazioni, alla nuova rivoluzione liberale ed al Risorgimento seconda edizione.
Come si può dire che il più disgraziato e pernicioso prodotto del fascismo è l'antifascismo quale oggi lo vediamo, così può dirsi che la stessa caduta del fascismo, il 25 luglio '43, coprì nel medesimo tempo di vergogna il fascismo stesso, che non trovò nei suoi milioni di moschetti un proiettile pronto ad essere sparato per la difesa del Duce, ed il movimento antifascista nelle sue varie sfumature, che nulla aveva osato dieci minuti prima del crollo, nemmeno quel poco che bastasse per poter tentare la falsificazione storica di averne il merito.
Vi furono negli anni del fascismo ed in quelli di guerra opposizioni, resistenze e rivolte, come vi sono state nelle zone tenute dai fascisti e dai tedeschi lotte condotte da partigiani armati. Ma mentre il politicantismo borghese è riuscito a dare a questi movimenti le sue false etichette liberali e patriottarde, nella realtà sociale tutti quei conati generosi vanno attribuiti a gruppi proletari, che, se nella coscienza politica non si sono saputi svincolare dalle mille menzogne dell'antifascismo ufficiale, nella loro battaglia esprimono il tentativo di una rivincita di classe, di una manifestazione autonoma di forze rivoluzionarie tendenti a schiacciare tutte le forze nemiche degli strati sociali dominanti e sfruttatori.
Il tracollo decisivo del regime fascista è derivato dalla sconfitta militare, dalla logica politica di guerra degli alleati, che, conoscendo la fragilità dell'impalcatura statale militare italiana, hanno localizzato presso di noi i primi formidabili colpi d'ariete della loro riscossa contro i successi tedeschi. Quando il territorio italiano era largamente invaso, il fascismo perse la partita non per il gioco dei suoi rapporti di forza coi partiti italiani antifascisti, ma per il gioco di rapporti di forza tra l'organismo statale militare italiano e quelli nemici...
Poiché la crisi culminante dello Stato borghese italiano (e non del solo fascismo che non era che la sua ultima incarnazione) non coincideva affatto nel tempo con la crisi dell'organismo militare tedesco, si determinò la situazione di liquidazione catastrofica di tutta la forza storica della classe dominante italiana. Questa, nel suo tentativo di gettare a mare l'alleato facendosene un merito agli occhi del vincitore, percorse una via rovinosa, perché in realtà non aveva più forza per costituire una seria pedina nel gioco dell'uno o dell'altro dei contendenti. Cercò di non confessarlo, e tutti gli attuali partiti dell'antifascismo furono complici nella responsabilità di questa vergognosa per quanto vana truffa politica.
Monarchia, Stato Maggiore, burocrazia, dapprima gettano a mare Mussolini, ma, non avendo nulla preparato di positivo per affrontare non tanto il fascismo, quanto il suo alleato tedesco, sono costretti a vivere l'ignobile farsa dei 45 giorni, in cui dicono corna di Mussolini ma proclamano che il popolo italiano deve seguitare a combattere la guerra tedesca. Preparano, poi, non il cambiamento di fronte, impossibile ad un popolo e ad un esercito ormai incapaci di combattere e stanchi di sacrificarsi dopo tutte le vicende passate, ma esclusivamente il loro salvataggio di classe, di casta e di gerarchie, poco curandosi che tale salvataggio di responsabili e complici inveterati della politica fascista duplicasse l'amarezza del calvario del popolo lavoratore italiano.
In questo quadro di clamoroso fallimento corrono a rioccupare i loro posti i partiti della pretesa sinistra antifascista, e quelli che sfruttano i vecchi nomi dei partiti della classe proletaria italiana. Ma nessuno di essi rifiuta la corresponsabilità di questa colossale manovra di inganni e di menzogna.
L'Italia che aveva vissuto per 22 anni di bugie politiche convenzionali, rimane nella stessa atmosfera, aggravata dal disastro economico e sociale. Nessuno dei partiti antifascisti trova la forza di contrapporre alla retorica della immancabile vittoria della banda mussoliniana, l'accettazione coraggiosa della realtà della sconfitta. Essi si pongono sul terreno banale della parola antitedesca cercando invano di presentare ai vincitori una Italia che, facendo per quattro anni la guerra contro di essi, fosse in realtà una loro alleata, e promettendo ciò che nessun partito italiano poteva mantenere, cioè un apporto positivo alla guerra contro la Germania, ed in realtà anche dal punto di vista nazionale non riescono ad un salvataggio parziale ma cadono in un peggiore disfattismo.
Le parole dei giornali dei partiti che si dicono rivoluzionari, echeggianti completamente quelle fasciste - unità nazionale, tregua di classe, esercito, guerra, vittoria - parole altrettanto false quanto allora, mascherano soltanto la libidine di dominio delle classi privilegiate, pronte ancora una volta ad un mercato fatto sulla carne e sul sangue dei lavoratori, e rispondono al tentativo di salvare alla borghesia italiana una posizione di classe economica dominatrice, sia pure vassalla di aggruppamenti statali infinitamente più forti, mediante l'offerta della vita, degli sforzi, del lavoro della classe operaia, a vantaggio prima della guerra, poi del peso titanico della ricostruzione. La borghesia italiana, la stessa che si servì di Mussolini, che plaudì a lui, che lo seguì nella guerra finché fu fortunata, firma coi suoi nemici un armistizio che non può pubblicare, perché con esso ha tentato di risalire dal vortice che la inghiotte a tutte spese di quelle classi che da decenni ha ignobilmente sfruttate e che spera di poter seguitare ad opprimere, se non come padrona assoluta, come aguzzina di nuovi padroni. Di questo segreto contratto e del suo spietato carattere di classe sono volontariamente corresponsabili tutti i partiti che agiscono oggi nel campo politico italiano, che accettarono di coprire la manovra con l'adozione delle false parole dell'alleanza, dell'armamento, della guerra, e che non osano, pur abbeverandosi ad un'orgia di liberalismo, avanzare nessuna timida eccezione critica alla dittatura di queste colossali menzogne.
Ritornando alla tesi-base dell'antifascismo di tutte le sfumature, secondo cui il fascismo fu ritorno reazionario di regimi pre-borghesi e feudali, e dopo la sua caduta si pone il postulato di ricominciare la rivoluzione ed il Risorgimento borghese con la solidarietà di tutte le classi, dalla borghesia al proletariato, e dopo di aver dimostrato l'enorme falsità storica e politica di questa posizione, deve concludersi che, se per un momento la tesi fosse vera, la rinascente borghesia avrebbe dovuto ricominciare il suo ciclo nelle forme iniziali che gli furono proprie, forme di dittatura di classe, di direzione totalitaria del potere, e non di tolleranza liberale.
Lo stesso fatto che le gerarchie politiche oggi prevalenti sono state incapaci a scorgere la necessità, per estirpare il fascismo, di una fase di dittatura e di terrore politico, dimostra che tra il fascismo ed esse - come insegna la valutazione fatta secondo le direttive marxiste - non vi è antitesi storica e politica, che il fascismo nei suoi risultati non è storicamente sopprimibile da parte di correnti politiche borghesi o collaboranti, che gli antifascisti di oggi, sotto la maschera della sterile ed impotente negazione, sono del fascismo i continuatori e gli eredi, e prendono atto passivamente di quanto il periodo fascista ha determinato e mutato nell'ambiente sociale italiano.
E a conclusione di quelli che sono gli aspetti internazionali della commedia e della tragica farsa che va dal 25 luglio all'8 settembre, va ribadito che l'armistizio italiano non fu vero armistizio.
È mancato quel mercato militare che è la base del fatto giuridico di armistizio. Era inutile stipularlo, e bastava proclamare ovunque la consegna dei frammenti di territorio italiano alla forza del primo occupante straniero. Il mercato è stato politico e di classe; quei gruppi, espressione della classe dominante, hanno tentato di barattare il privilegio di governare e sfruttare l'Italia, ossia la classe lavoratrice di questo paese, contro la firma di una serie di condizioni di servitù politica ed economica, che la forza del vincitore era ben libera di realizzare col suo diritto storico, ma che tuttavia la sua propaganda può oggi presentare come giuridicamente garantite.
Con l'armistizio, la casta militare italiana, nella immensa maggioranza, non invertì le direttrici del tiro, ma si preoccupò solo di rubare e vendere il contenuto dei depositi, dopo aver buttato via armi e divise. I fascisti, evidentemente, lo facevano per sabotare l'alleato, gli antifascisti per sabotare i tedeschi. Soltanto a tale risultato poteva condurre il capolavoro della tremenda opposizione antifascista italiana che, con la doppia manovra 25 luglio-8 settembre, coronò degnamente il corso della classe dominante italiana in un secolo di storia. Da allora questo metodo geniale ha preso il nome di "doppio gioco" con la caratteristica della sua miserabilità, e con quella che esso non è servito nemmeno ad ingannare il padrone, da nessuno dei due fronti...

Da "La classe dominante italiana e il suo Stato nazionale", agosto 1946.

27 maggio 2010

Sullo Statuto dei diritti dei lavoratori



Tratto da "Lotte Operaie" n. 26, giugno 1970

Il 14 maggio [1970] la Camera ha approvato definitivamente lo "Statuto dei diritti dei lavoratori". Ha preso così vita quella legge che i socialisti vantano come la misura più avanzata che un governo abbia mai preso in Italia nell'interesse dei lavoratori. (1)
Che cos'è questa legge per le masse lavoratrici? Le confederazioni sindacali affermano che lo "statuto" accresce il potere dei lavoratori nella fabbrica ed inizia una fase nuova di relazioni industriali. Per noi internazionalisti non è così. Per noi lo "statuto" è un capolavoro di ipocrisia parlamentare (2), uno strumento di controllo sindacale dell'iniziativa operaia.
L'idea dello "statuto" non è recente, ha una sua storia. La C.G.I.L. aveva proposto uno "Statuto dei diritti democratici dei lavoratori nei luoghi di lavoro" già fin dal lontano 1952, al suo terzo congresso. A quell'epoca la confederazione, partendo dal contrasto stridente tra la realtà giuridica e la realtà sociale, lamentava il fatto che, mentre la carta costituzionale riconosce al lavoratore i più ampi diritti democratici, questi nella fabbrica cessa di essere un cittadino e diventa un oggetto in balia del dispotismo padronale. Essa chiedeva quindi che la Costituzione "entrasse in fabbrica".
Lo spirito della proposta era chiaramente a-classista e pieno di riverenza per i principi astratti della democrazia borghese. Tuttavia in essa c'era meno ipocrisia di quanto se ne trova nella popolarizzazione dell'attuale "statuto". Infatti lo scopo della proposta era di ottenere non già un immaginario "più potere" per i lavoratori, come cianciano i glorificatori dello "statuto", bensì di assicurare all'operaio una certa protezione giuridica contro gli abusi e le vessazioni padronali più umilianti. Per il capo della Confederazione, Di Vittorio, lo "statuto" doveva essere un mezzo di difesa legale dei lavoratori contro le situazioni più incresciose. Negli epigoni, invece, lo "statuto" è diventato qualche cosa di miracoloso: la sorgente del "potere operaio in fabbrica". Siamo dunque al colmo dell'ipocrisia, all'apologia della legge che segna un momento tipico nell'evoluzione del sindacalismo post-bellico: quello che assegna ai sindacati responsabilità dirette in campo economico.
Questa responsabilizzazione dei ruoli del sindacato è profondamente chiarificatrice delle effettive finalità dello "statuto".(3)
Agli inizi degli anni '50 Di Vittorio non si stancava di predicare che il sindacato costituisce un "fattore propulsivo indispensabile del progresso dei popoli". Egli insisteva sulla funzione democratica dei sindacati, per concludere che ogni ostacolo alla loro azione era un impedimento al "progresso della società nazionale" verso la conquista di più alti livelli produttivi. Gli industriali, i dirigenti e i consulenti economici sanno che il ruolo dei sindacati è insopprimibile. Sanno altresì che negli ultimi due anni i sindacati sono stati sottoposti alla prova del fuoco di grandi lotte di massa e di scioperi spontanei, che hanno rivoluzionato metodi e obbiettivi perseguiti da decenni. Senza sviluppo del movimento sindacale non può esserci, come ammoniva Di Vittorio, sviluppo pacifico del reddito nazionale. Perciò i capitalisti hanno promosso, per mezzo del governo, una legge sindacale a sostegno delle confederazioni e l'hanno fatta approvare dal parlamento.
Non deve trarre in inganno il fatto che questa legge inizi con un gruppo di articoli dedicati alla "libertà e dignità del lavoratore". Ciò è ipocrisia giuridica (4). Il suo scopo è quello di potenziare l'azione dei sindacati contro le iniziative operaie che fuoriescono dal quadro della disciplina sindacale. La vantata protezione dei lavoratori "deboli" non è altro che un diversivo o, al massimo, un sottoprodotto della legge (5). La finalità propria dello "statuto" è la protezione dei sindacati. Si badi, non del sindacato in generale, ma dei sindacati attuali, che sono capeggiati da elementi imborghesiti e corrotti, e hanno come scopo lo sviluppo dell'economia nazionale.
Al capitale necessita che tutti i movimenti della classe operaia rientrino nell'ambito dell'azione organizzata dei sindacati. Per questo i settori monopolistici di punta premono affinché si formi un sindacato unitario che, in rappresentanza dei lavoratori di una categoria professionale, contratti il prezzo della forza-lavoro sulla base della produttività del sistema (6). Lo "statuto" accende una garanzia giuridica a salvaguardia dell'azione sindacale. Spiana la strada al controllo del movimento operaio attraverso l'istituzionalizzazione dei sindacati. Garantisce libertà di azione ai sindacati affinché assorbano e contengano le iniziative e la vitalità operaie. Attribuendo ad essi il monopolio dell'azione rivendicativa, lo "statuto" limita, di fatto, il diritto di sciopero e costituisce una minaccia contro le azioni extra-sindacali messe in atto dal proletariato rivoluzionario e dai raggruppamenti di avanguardia.
È indiscutibile: lo "Statuto riconosce poteri ai sindacati". In questo senso è perfettamente legittima la vanagloria delle centrali che considerano questa legge come una specie di "magna charta" sindacale. Ma esse raccontano frottole quando affermano che lo "statuto" è la realtà del nuovo potere operaio in fabbrica.
In fabbrica c'è un solo potere: quello del padrone. Nei luoghi di lavoro non ci sono poteri da conquistare; c'è solo da distruggere il potere del padrone e sostituirlo con quello degli operai associati.
I sindacati mistificano la realtà per inventare poteri che non ci sono e vie pacifiche che l'antagonismo sociale spazza via. In fabbrica non si può comandare in due: o comanda il capitalista o comanda l'operaio. All'infuori di queste due forme di dominio non ne esistono altre. La "cogestione" operai-padroni verso cui sono lanciati i sindacati è semplicemente una maschera del dominio padronale. I sindacalisti di professione sanno solo scoprire paradisi inesistenti per abbellire l'inferno dello sfruttamento capitalistico.
La realtà si beffa sempre dei mistificatori. Mentre si grida alla crescita del "potere operaio", nelle più grandi fabbriche (FIAT, Piaggio, SNIA e via dicendo) i capitalisti passano alle forme più gravi della violenza padronale: decretano sospensioni e attuano serrate.
Dal campo industriale si leva, attualmente, un solo coro: aumentare la produttività, produrre di più! Il capitale rivendica, senza mezzi termini, nuove economie di tempo, una più avanzata razionalizzazione produttiva che sprema ancor di più la forza-lavoro, maggiori ritmi. Questo il linguaggio dei fatti. Di fronte a questa cruda realtà tutti i tentativi di mediazione delle centrali sindacali sono destinati a subire pesanti contraccolpi. La pressione crescente delle masse spezzerà la rete imbrigliante dello "statuto", mandando all'aria gli schemi della cogestione.
Compito nostro è prepararci, con energia ritemprata, alle nuove lotte per ridare slancio all'iniziativa della classe operaia e indirizzarla verso obbiettivi proletari.

Note:
(1) Lo "statuto" si compone di 41 articoli, suddivisi in 6 Titoli, di cui il 1° dedicato alla "libertà e dignità del lavoratore"; il 2° e 3° alle "libertà e attività sindacali"; il 4° a disposizioni varie; il 5° al collocamento; il 6° alle sanzioni.
(2) Nessuno dei partiti parlamentari ha votato contro lo statuto: questi partiti o lo hanno approvato o si sono astenuti. Il PCI, astenendosi, ha dato questa motivazione: "Consideriamo questo statuto un primo passo verso una legislazione che garantisca fino in fondo le libertà costituzionali nei luoghi di lavoro". Il PSIUP, che si è pure astenuto, ha dato una motivazione sostanzialmente analoga a quella del PCI.
(3) E poiché ogni fase caratteristica ha il suo slogan particolare, la parola d'ordine corrispondente a queste passaggio è: il sindacato nell'azienda. Ove all'istanza fumosa di rispetto democratico dell'operaio, subentra la più tangibile tutela giuridica dell'azione del sindacato.
(4) Peraltro le disposizioni sono molto contraddittorie e piene di riserve, tali da consentire qualsiasi violazione e scappatoia.
(5) I gruppi monopolistici hanno vantaggio ad eliminare, nell'interesse della pace aziendale, quei controlli vessatori sugli operai che sono controproducenti e che vengono soprattutto praticati nelle medie e piccole aziende.
(6) Il presidente dell'"INTERSIND" (associazione delle aziende a partecipazione statale) afferma nella sua relazione annuale letta il 12 maggio che: "Senza questo giunto centrale di snodo (cioè il sindacato n.d.r.) del rapporto fra direzioni aziendali e lavoratori, il conflitto di interessi tende a sminuzzarsi in fasi corporative di stabilimento, di reparto, di linea, di squadra, di mestiere, di funzione, fino all'anarchismo individuale".

16 maggio 2010

Il "rinnegato" Kautsky e il suo discepolo Lenin

di Jean Barrot (1969)


Le tre fonti del marxismo: l’opera storica di Marx presenta un interesse storico modesto. Kautsky è stato indiscutibilmente l’ideologo della II Internazionale e l’uomo più potente all’interno del suo partito, il partito socialdemocratico tedesco (SPD). Guardiano dell’“ortodossia”, veniva considerato, quasi universalmente, il maggiore conoscitore dell’opera di Marx ed Engels, e il loro interprete principale. Le posizioni di Kautsky rappresentano dunque una testimonianza di tutta un’epoca del movimento operaio, e meritano di essere conosciute, non foss'altro che per questo motivo. Questa opuscolo si incentra su una questione centrale per il movimento proletario: il rapporto tra la classe operaia e la teoria rivoluzionaria. La risposta che Kautsky dà a tale questione, rappresenta il fondamento teorico della pratica e dell’organizzazione di tutti i partiti che costituivano la II Internazionale, e quindi anche del partito socialdemocratico russo (inclusa la sua frazione bolscevica), membro “ortodosso” della II Internazionale fino al 1914, cioè fino al crollo di quest’ultima di fronte alla Prima guerra mondiale.
Tuttavia, le tesi sviluppate da Kautsky in questo pamphlet, non sono crollate insieme alla II Internazionale; al contrario, sono sopravvissute e hanno costituito il fondamento della III Internazionale, attraverso la mediazione del “ leninismo” e delle sue sventurate varianti staliniane e trotskiste.
Il leninismo sottoprodotto russo del kautskismo? Ecco un'affermazione che farà sussultare coloro che conoscono di Kautsky soltanto gli anatemi lanciati contro di lui dai bolscevichi, e in particolare nell’opuscolo di Lenin La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky; e che non sanno di Lenin se non ciò che conviene sapere nell'ambito delle differenti chiese, cappelle e sagrestie che frequentano.
Tuttavia il titolo stesso dell’opuscolo di Lenin definisce con estrema chiarezza il suo rapporto con Kautsky. Se Lenin tratta Kautsky da rinnegato, è proprio perché ritiene che in precedenza egli fosse un adepto della vera fede, di cui Lenin si considera ora il solo valido difensore. Lungi dal criticare il “kautskismo”, che egli si mostra incapace di identificare, Lenin in realtà si accontenta di rimproverare al suo antico maestro di tradire la sua stessa dottrina.
Da tutti i punti di vista, la rottura di Lenin fu tardiva e superficiale. Tardiva, perché Lenin si era fatto delle grandi illusioni circa la socialdemocrazia tedesca e non aveva capito, se non in un secondo tempo, che il tradimento si era già consumato. Superficiale, perché Lenin si limita a rompere sui problemi dell’imperialismo e della guerra, senza risalire alle cause profonde del tradimento dei partiti socialdemocratici nell’agosto 1914, legate alla natura stessa di questi partiti e ai loro rapporti tanto con la società capitalistica quanto con il proletariato. Questi rapporti devono essere ricondotti al movimento stesso del capitale e della classe operaia, e considerati come una fase di sviluppo del proletariato, piuttosto che come una condizione che potesse essere modificata a volontà da una minoranza, e tanto meno da una dirigenza rivoluzionaria, per quanto cosciente.
Da ciò deriva l’importanza attuale delle tesi che Kautsky sviluppa in questo opuscolo in modo particolarmente coerente, e che costituiscono il tessuto stesso del suo pensiero nel corso di tutta la sua vita; tesi che Lenin riprende e sviluppa sin dal 1900 ne Gli obiettivi immediati del nostro movimento, e poi nel Che fare? (1902), dove cita diffusamente Kautsky, lodandolo a ogni pie' sospinto. Nel 1913, Lenin riprenderà nuovamente queste concezioni ne Le tre fonti e le tre parti integranti del marxismo, in cui sviluppa gli stessi temi citando, a volte parola per parola, il testo di Kautsky.
Queste tesi, fondate su un'analisi storica superficiale e sommaria dei rapporti intrattenuti da Marx ed Engels sia con il movimento degli intellettuali sia con il movimento operaio della loro epoca, possono essere riassunte in poche parole, e alcune citazioni saranno sufficienti a chiarirne la sostanza:

«Un movimento operaio spontaneo e sprovvisto di ogni teoria che dalle classi lavoratrici si indirizzi contro un capitalismo in fase di crescita, è incapace di compiere (...) l’azione rivoluzionaria»

È inoltre necessario realizzare quella che Kautsky chiama «l’unione del movimento operaio e del socialismo»:

«La coscienza socialista di oggi (!?) non può sorgere che sulla base di una profonda conoscenza scientifica (…) Ora, il portatore della scienza non è il proletariato, ma sono gli intellettuali borghesi, (…) così, dunque, la coscienza socialista è un elemento importato dal di fuori, all’interno della lotta di classe del proletariato, e non qualcosa che sorge spontaneamente da essa».

Queste parole di Kautsky sono, secondo Lenin, «profondamente giuste».
Va da sé che questa unione tanto auspicata del movimento operaio e del socialismo non poteva realizzarsi allo stesso modo nelle condizioni tedesche e in quelle russe. Ma è importante vedere che le divergenze profonde del bolscevismo sul terreno organizzativo non risultano dalla diversità delle condizioni, ma unicamente dall’applicazione degli stessi principi in situazioni politiche, economiche e sociali differenti.
In effetti, lungi dal conseguire un'unione sempre più estesa del movimento operaio e del socialismo, la socialdemocrazia realizzerà soltanto la propria unione con il capitale e con la borghesia. Quanto al bolscevismo, dopo essere stato nella rivoluzione russa come un pesce nell’acqua («i rivoluzionari sono nella rivoluzione come l’acqua nell’acqua»), per effetto della sconfitta della rivoluzione, realizzerà una fusione quasi completa col capitale statale gestito da una burocrazia totalitaria.
Tuttavia, il “leninismo” continua a ossessionare la coscienza di molti rivoluzionari, più o meno di buona volontà, alla ricerca di una ricetta vincente… Persuasi di essere “l’avanguardia del proletariato” in quanto detengono “la coscienza” – mentre non possiedono che una falsa teoria – essi militano per unificare due mostri metafisici: «un movimento operaio spontaneo, privo di ogni teoria» e una coscienza socialista disincarnata.
Questo atteggiamento è banalmente volontaristico. Ora, se come ha detto Lenin, «l’ironia e la pazienza sono le principali qualità del rivoluzionario», e se «l’impazienza è la principale fonte dell’opportunismo» (Trotsky), l’intellettuale, il teorico rivoluzionario non deve preoccuparsi di essere legato alle masse; poiché, se la sua teoria è rivoluzionaria, egli è già legato alle masse. Non ha da «scegliere il campo del proletariato» (non è Sartre a utilizzare questo linguaggio, ma Lenin), in quanto, dicendolo più chiaramente, egli non ha altra scelta. La critica teorica e pratica di cui l'intellettuale è portatore, è determinata dal rapporto che egli intrattiene con la società; non può «liberarsi da questa passione che sottomettendovisi» (Marx). Se “ha scelta”, significa che ha già cessato di essere rivoluzionario, e che la sua critica teorica è invecchiata.
Il problema della penetrazione delle idee rivoluzionarie che egli propaganda, negli ambienti operai è, per questo motivo, completamente trasformato: allorché le condizioni storiche, i rapporti di forza tra le classi in lotta, principalmente determinati dal movimento autonomo del capitale, impediscono ogni irruzione rivoluzionaria del proletariato sulla scena della storia, l’intellettuale fa come l’operaio: ciò che può. Studia, scrive, fa conoscere i suoi lavori il più possibile (generalmente assai male). Quando studiava al British Museum, Marx, in quanto prodotto del movimento storico del proletariato, era legato, se non ai lavoratori, quanto meno al movimento storico del proletariato. Egli non era più isolato dai lavoratori di quanto un lavoratore qualsiasi non lo fosse dai suoi simili, laddove le condizioni del momento limitavano i suoi rapporti a quelli consentiti dal capitalismo.
Di contro, quando il proletariato si costituisce in classe e, in un modo o nell’altro, dichiara guerra (e non ha bisogno che gli si trasmetta il sapere per farlo, non essendo esso stesso, nei rapporti di produzione capitalistici, altro che capitale variabile; basta che voglia cambiare anche solo di poco la propria condizione, per essere di colpo al cuore del problema […]), il rivoluzionario non si trova a essere né più né meno legato al proletariato di quanto lo fosse prima. Nondimeno, la critica teorica si fonde allora con la critica pratica; e non perché vi sia stata apportata dall’esterno, ma perché questi due elementi costituiscono un tutt’uno.
Se nel periodo precedente l’intellettuale ha avuto la debolezza di credere che il proletariato rimaneva passivo perché era privo di “coscienza”, e che per questo era giusto considerarsi “avanguardia” – al punto di voler dirigere il proletariato – egli si riserva delle amare delusioni.
Tuttavia, è questa la concezione che costituisce la parte essenziale del leninismo e che rivela l’ambiguità storica del bolscevismo. Questa concezione è potuta sopravvivere soltanto perché la rivoluzione russa è fallita, vale a dire perché i rapporti di forza, su scala internazionale, tra capitale e proletariato, non hanno permesso a quest’ultimo di farne una critica teorica e pratica. È ciò che tenteremo di dimostrare analizzando sommariamente quanto è avvenuto in Russia e qual è stato il vero ruolo del bolscevismo.
Credendo di vedere nei circoli rivoluzionari russi il frutto dell'«unione del movimento operaio e del socialismo», Lenin si ingannava fortemente. I rivoluzionari organizzati nei gruppi socialdemocratici, non apportavano alcuna “coscienza” al proletariato. Beninteso, un opuscolo o un articolo teorico sul marxismo potevano risultare molto utili per gli operai; ma non servivano certo a trasmettere loro la coscienza, la conoscenza della lotta di classe; tutt'al più servivano a precisare le cose e a far riflettere di più. Lenin non comprese questa realtà. Non soltanto egli intendeva trasmettere alla classe operaia la conoscenza della necessità del socialismo in termini generali, ma voleva al contempo offrirle delle parole d’ordine imperative, che esprimessero quel che essa avrebbe dovuto fare al momento opportuno. D’altronde questo è naturale, dal momento che il partito di Lenin, in quanto depositario della coscienza di classe, si considerava in primo luogo il solo capace di discernere gli interessi generali della classe operaia, al di là di tutte le sue divisioni tra i diversi strati; e, secondariamente, il solo capace di analizzare in permanenza la situazione e di formulare parole d’ordine adeguate.
Ora, la rivoluzione del 1905 doveva mostrare l’incapacità pratica del partito bolscevico di dirigere la classe operaia, e il ritardo del partito d’avanguardia. Tutti gli storici, anche quelli maggiormente favorevoli ai bolscevichi, riconoscono che nel 1905 il partito bolscevico non aveva capito assolutamente nulla del fenomeno dei soviet. L’apparizione di nuove forme di organizzazione aveva suscitato la diffidenza dei bolscevichi. Lenin affermava allora che i Soviet non erano: «né un parlamento operaio né un organo di autogoverno proletario». La cosa importante da notare è che gli operai russi non sapevano di accingersi a costituire i soviet; tra loro, solo una esigua minoranza conosceva l’esperienza della Comune di Parigi. Tuttavia crearono un embrione di Stato operaio, benché nessuno li avesse educati. La tesi kautskista-leninista, infatti, nega alla classe operaia ogni possibilità di creare qualcosa di originale, se non sotto la guida del partito-fusione-del-movimento-operaio-e-del-socialismo. Ora, come si vede nel 1905, per riprendere la frase delle “Tesi su Feuerbach”, «l’educatore ha bisogno egli stesso di essere educato».
Lenin, tuttavia, al contrario di Kautsky, ha svolto un'attività rivoluzionaria (si veda, tra l’altro, la sua posizione sulla guerra). Ma in realtà, Lenin non fu rivoluzionario che contro la sua teoria della coscienza di classe. Prendiamo il caso della sua azione tra il febbraio e l’ottobre del 1917. Lenin aveva lavorato per oltre quindici anni, a partire dal 1900, alla creazione di un'organizzazione d’avanguardia capace di realizzare l’unione del “socialismo” e del “movimento operaio”, che raggruppasse i “dirigenti politici”, cioè i «rappresentanti d’avanguardia capaci di organizzare il movimento e di dirigerlo». Ora, nel 1917, così come era avvenuto nel 1905, questa direzione politica, rappresentata dal Comitato Centrale del partito bolscevico, si rivelò incapace di affrontare i compiti del momento, e in ritardo rispetto all'attività rivoluzionaria del proletariato. Tutti gli storici, ivi compresi gli storici stalinisti e trotskisti, mostrano come Lenin dovette sostenere una lunga e difficile battaglia contro la direzione della sua organizzazione per far trionfare le proprie tesi; e non ci sarebbe riuscito se non si fosse appoggiato agli operai del partito, l’avanguardia genuina organizzata nelle officine, e interna o vicina ai circoli socialdemocratici. Si dirà che tutto ciò sarebbe stato impossibile senza l’attività condotta per anni dai bolscevichi, sia nelle lotte quotidiane degli operai sia nella difesa e nella propaganda delle idee rivoluzionarie.
La maggioranza dei bolscevichi, e in primo luogo Lenin, con la loro propaganda e con la loro agitazione incessanti hanno effettivamente contribuito alla sollevazione dell’ottobre 1917. In quanto militanti rivoluzionari hanno giocato un ruolo efficace, ma in quanto “direzione della classe” e”avanguardia cosciente”, sono stati in ritardo sul proletariato. La rivoluzione russa si è svolta contro le idee del Che fare?, e nella misura in cui queste idee sono state applicate (creazione di un organo dirigente della classe operaia separato da essa), si sono rivelate un freno e un ostacolo alla rivoluzione. Nel 1905, Lenin è in ritardo sulla storia perché si rifà alle tesi del Che fare?. Nel 1917, Lenin partecipa al movimento reale delle masse russe e facendo ciò rigetta, nella pratica, la concezione sviluppata nel Che fare?.
Se applichiamo a Kautsky e Lenin il trattamento inverso di quello che essi hanno fatto subire a Marx, se connettiamo le loro concezioni alla lotta di classe invece di separarle da essa, il kautskismo-leninismo appare come caratteristico di tutto un periodo della storia del movimento operaio, dominato dalla II Internazionale. Dopo essersi sviluppato e organizzato alla meno peggio, il proletariato si è venuto a trovare, sin dalla fine del XIX° secolo, in una situazione contraddittoria. Possedeva diverse organizzazioni il cui scopo era fare la rivoluzione, e nello stesso tempo si mostrava incapace di farla, perché le condizioni non erano ancora mature. Il kautskismo-leninismo è l'espressione e la soluzione di questa contraddizione: postulando che il proletariato, per essere rivoluzionario, deve passare per il cammino tortuoso della conoscenza scientifica, consacra e giustifica l’esistenza di organizzazioni capaci di inquadrare, dirigere e controllare il proletariato.
Così come è stato presentato, il caso di Lenin è più complesso di quello di Kautsky, nella misura in cui Lenin fu, per una parte della sua vita, rivoluzionario, contro il kautskismo-leninismo. D’altronde, la situazione della Russia era totalmente differente da quella della Germania, che possedeva un regime pressoché di democrazia borghese, dove esisteva un movimento operaio fortemente sviluppato e integrato nel sistema. Al contrario, in Russia, tutto era ancora da costruire, e la questione non era se si dovesse partecipare alle attività parlamentari, borghesi e sindacali riformiste, poiché banalmente queste non esistevano. In tali condizioni, Lenin poteva adottare una posizione rivoluzionaria malgrado le sue idee kautskiste. Tra l’altro, bisogna sottolineare che, fino alla Prima guerra mondiale, egli considerava la socialdemocrazia tedesca come un modello.
Nelle loro storie rivedute e corrette del leninismo, gli stalinisti e i trotskisti ci mostrano un Lenin capace di comprendere lucidamente e di denunciare, prima del 1914, il “tradimento” della socialdemocrazia e dell’Internazionale. Si tratta di una pura leggenda. Conoscendo bene la storia della II Internazionale, si può dimostrare che non soltanto Lenin non lo denunciò, me che, prima della guerra, non aveva affatto compreso il fenomeno della degenerazione della socialdemocrazia. Prima del 1914, Lenin elogiava il partito socialdemocratico tedesco per aver saputo riunire il “movimento operaio” e il “socialismo” (cfr. Che fare?). Citiamo soltanto alcuni passi tratti dall’articolo necrologico August Bebel (che contiene d’altronde numerose superficialità ed errori di fondo riguardo alla vita di questo «dirigente», di questo «modello di capo operaio», e alla storia della II Internazionale).

«Le basi della tattica parlamentare della socialdemocrazia tedesca (e internazionale), che non cede di un pollice ai nemici, che non si lascia sfuggire la minima possibilità di ottenere un miglioramento, per quanto possa essere minimo, per gli operai; che, nello stesso tempo, si mostra intransigente sul piano dei principi e si orienta sempre verso la realizzazione dell’obiettivo finale, le basi di questa tattica furono messe a punto da Bebel…».

Lenin rivolgeva queste lodi alla «tattica parlamentare della socialdemocrazia tedesca (e internazionale)», «intransigente sul piano dei principi»(!) nell’agosto del 1913. Quando un anno più tardi credette che il numero del «Vorwärts» (l'organo del partito socialdemocratico tedesco) che annunciava il voto favorevole ai crediti di guerra da parte dei deputati socialdemocratici, fosse un falso fabbricato dallo stato maggiore tedesco, egli manifestava soltanto l’illusione che aveva nutrito fin dal 1900-1902 e dal Che fare?, sull’Internazionale in generale e sulla socialdemocrazia tedesca in particolare. (Non consideriamo qui l’atteggiamento di altri rivoluzionari di fronte agli stessi problemi: si pensi soltanto a Rosa Luxemburg; tale questione meriterebbe uno studio dettagliato).
Abbiamo visto come Lenin, nel 1917, avesse abbandonato nella pratica le tesi del Che fare?. Ma l’immaturità della lotta di classe a livello mondiale, e in particolare la mancata rivoluzione in Europa, comportarono il fallimento della rivoluzione russa. I bolscevichi si ritrovarono al potere, con il compito di «amministrare la Russia» (Lenin) e di portare a termine i compiti della rivoluzione borghese, che qui non si era potuta verificare; ossia assicurare lo sviluppo dell’economia russa, non potendo tale sviluppo che essere capitalistico.
Garantire il disciplinamento della classe operaia – nonché delle opposizioni interne al partito – divenne un obiettivo fondamentale. Lenin, che nel 1917 non aveva rinnegato esplicitamente il Che fare?, riprese le concezioni “leniniste” che sole potevano permettere il “necessario” inquadramento degli operai. L’Opposizione Operaia e il Gruppo Operaio1 furono schiacciati, per aver negato “il ruolo dirigente del partito”. Allo stesso modo, la teoria leninista del partito venne imposta all’Internazionale comunista. Dopo la morte di Lenin, Zinoviev, Stalin e altri, dovevano svilupparla insistendo sempre di più sulla «disciplina di ferro» , «l’ unità di pensiero e l’unità di azione», mentre il principio sul quale poggiava l’Internazionale stalinizzata era lo stesso che si trovava alla base dei partiti socialisti riformisti (il partito separato dai lavoratori che fornisce loro la coscienza di ciò che sono). Chiunque rifiutasse la teoria leninista-stalinista cadeva nella «palude opportunista, socialdemocratica, menscevica…». Da parte loro, i trotskisti si richiamavano al pensiero di Lenin e citavano il Che fare?. La crisi dell’umanità non è altro che «la crisi della direzione», diceva Trotsky: occorreva dunque creare a ogni costo una direzione. Supremo idealismo, la storia del mondo veniva spiegata con la crisi della sua coscienza.
In definitiva, lo stalinismo trionfò soltanto nei paesi in cui lo sviluppo del capitalismo non poteva essere assicurato dalla borghesia, senza che le condizioni fossero unificate affinché il movimento operaio, successivamente, potesse distruggerle. Nell’Europa dell’Est, in Cina, a Cuba si è formato un gruppo dirigente nuovo, composto da quadri del movimento operaio burocratizzato, da vecchi specialisti o tecnici borghesi, talora da quadri dell’esercito o da studenti in sintonia col nuovo ordine sociale, come in Cina. In ultima analisi, un tale processo non era possibile se non a causa della debolezza del movimento operaio. In Cina, ad esempio, lo strato sociale motore della rivoluzione fu la classe dei contadini che, incapace di dirigersi da sola, non poteva che farsi dirigere dal “partito” . Prima della presa del potere, questo gruppo organizzato nel “partito” dirige le masse e le “regioni liberate”, se mai dovessero esservi; in seguito, esso prende nelle proprie mani l’insieme della vita sociale del paese.
Ovunque le tesi di Lenin sono state un potente fattore di burocratizzazione. Infatti, secondo Lenin, la funzione di direzione del movimento operaio è una funzione specifica assicurata da alcuni “capi” organizzati separatamente dal movimento, il cui ruolo è esclusivamente questo. Nella misura in cui preconizzava un corpo separato di “rivoluzionari di professione” capaci di guidare le masse, il leninismo è servito come giustificazione ideologica alla formazione di direzioni separate dai lavoratori. A questo livello, il leninismo, fuori dal suo contesto originale, non è che una tecnica di inquadramento delle masse e un'ideologia che giustifica la burocrazia e sostiene il capitalismo; il suo recupero era storicamente necessario per lo sviluppo di nuove strutture sociali che rappresentano, esse stesse, una necessità storica per l'evoluzione del capitale.
Mano a mano che il capitalismo si estende e perviene a dominare l’intero pianeta, maturano le condizioni affinché vi sia la possibilità di una rivoluzione. L’ideologia leninista comincia a fare il suo tempo, nel vero senso della parola.
È impossibile prendere in esame la questione del partito senza riportarla alle condizioni storiche nelle quali si colloca questo dibattito; in ogni caso, benché sotto forme differenti, lo sviluppo dell’ideologia leninista è determinato dall’impossibilità della rivoluzione proletaria.
Se la storia ha dato ragione al kautskismo-leninismo, se i suoi avversari non hanno mai potuto né organizzarsi durevolmente e nemmeno presentarne una critica coerente, ciò non è dovuto al caso: il successo del kautskismo-leninismo è un prodotto della nostra epoca; e i primi attacchi seri – e pratici – contro di esso, segnano la fine di tutta una fase storica. Per fare questo occorreva che il capitalismo si sviluppasse largamente, su scala mondiale. La rivoluzione ungherese del 1956 ha suonato le campane a morto per tutto un periodo di controrivoluzione, ma anche di maturazione rivoluzionaria. Nessuno può sapere quando questo periodo sarà definitivamente superato, ma è certo che la critica delle tesi di Kautsky e di Lenin, prodotti di questa epoca, diventerà allora possibile e necessaria. Ecco perché abbiamo ritenuto importante ripubblicare Le tre fonti del marxismo: l’opera storica di Marx; per far meglio conoscere e comprendere quella che fu, e quella che è tutt'ora, l’ideologia dominante all'interno del movimento operaio. Lungi dal voler dissimulare le idee che condanniamo e combattiamo, vogliamo, al contrario, diffonderle largamente, al fine di mostrare quanto siano state necessarie e, al contempo, quale sia il loro limite storico.
Le condizioni che hanno permesso la nascita e lo sviluppo delle organizzazioni di tipo socialdemocratico e bolscevico, oggi sono superate. Per quanto riguarda l’ideologia leninista, oltre all’utilizzo che ne viene fatto dai burocrati al potere, lungi dall’avere un’utilità per i gruppi rivoluzionari che sostengono l’unione del socialismo e del movimento operaio, non può servire ad altro che a cementare provvisoriamente l’unione di intellettuali mediocri e di lavoratori mediocremente rivoluzionari.

13 maggio 2010

Grecia: un momento critico e soffocante

Ta Paidia Tis Galarias (2010)*


[«Ma non scoppiano forse tutte le rivolte, senza eccezione, nel disperato isolamento dell'uomo dalla comunità? Ogni rivolta non presuppone forse necessariamente questo isolamento? Avrebbe avuto luogo la rivoluzione del 1789 senza il disperato isolamento dei cittadini francesi dalla comunità? Essa era appunto destinata a sopprimere tale isolamento. Ma la comunità dalla quale l'operaio è isolato è una comunità dì ben altra realtà e di ben altra estensione che non la comunità politica. Questa comunità, dalla quale il suo lavoro lo separa, è la vita stessa, la vita fisica e spirituale, la moralità umana, l'attività umana, l'umano piacere, l'essenza umana. L’essenza umana è la vera comunità umana. Come il disperato isolamento da essa è incomparabilmente più universale, insopportabile, pauroso, contraddittorio dell'isolamento dalla comunità politica, così anche la soppressione di tale isolamento e anche una reazione parziale, una rivolta contro di esso, è tanto più infinita quanto più infinito è l'uomo rispetto al cittadino e la vita umana rispetto alla vita politica. La rivolta industriale, perciò può essere parziale fin che si vuole, essa racchiude in sé un'anima universale; la rivolta politica può essere universale fin che si vuole, essa cela sotto le forme più colossali uno spirito angusto» (Karl Marx)].

Quello che segue è il resoconto della manifestazione del 5 maggio e di quanto avvenuto nei giorni seguenti, accompagnato da alcune riflessioni di carattere generale sulla situazione critica che il movimento greco sta attraversando. Malgrado si collochi all'interno di una fase parossistica di terrorismo finanziario, che cresce in ampiezza di giorno in giorno attraverso la minaccia costante della bancarotta dello Stato e i reiterati appelli a “fare sacrifici”, la risposta del proletariato, alla vigilia del voto delle nuove misure di austerità in Parlamento, è stata impressionante. Si è trattato, probabilmente, della più grande manifestazione di lavoratori dai tempi della fine della dittatura (più imponente persino di quella del 2001 che portò al ritiro del progetto di riforma delle pensioni). Stimiamo che vi fossero almeno 200.000 manifestanti nelle strade del centro di Atene, e circa 50.000 di più nel resto del paese.
Vi sono stati scioperi pressoché in tutti i settori del processo di (ri)produzione. È riapparsa sulla scena una moltitudine proletaria simile a quella che aveva preso possesso delle strade nel dicembre 2008 (anche in questa occasione i media della propaganda ufficiale hanno parlato, in termini peggiorativi, di “giovani incappucciati”), ugualmente armata di asce, mazze, martelli, bottiglie molotov, pietre, bastoni, maschere e occhialini anti-gas. Nonostante in alcuni casi i manifestanti travisati siano stati accolti con grida di disapprovazione, allorché cercavano, talvolta con successo, di attaccare degli edifici, in generale si sono trovati in sintonia con questa marea variopinta, colorata di manifestanti inferociti. Gli slogan andavano dal rifiuto del sistema politico nel suo insieme – «Bruciamo il bordello parlamentare!» – alle parole d'ordine patriottiche – «Fuori dal FMI!» – o populiste – «Ladri!», o anche «La gente esige che gli imbroglioni vadano in prigione». Gli slogan aggressivi contro i politici in generale, nel corso della giornata, sono diventati via via preponderanti.
Alla manifestazione indetta dalla GSEE-ADEDY [confederazione sindacale che include sia il settore pubblico che quello privato], i partecipanti hanno riempito la piazza a migliaia. Il presidente della GSEE è stato accolto dai fischi e dagli ululati, quando ha iniziato a parlare. E quando la direzione del sindacato ha voluto ripetere la manovra che aveva già tentato una prima volta l'11 marzo scorso, per aggirare il grosso della manifestazione e prenderne la testa, solo in pochi l'hanno seguita...
La manifestazione convocata dal PAME (il “Fronte operaio” del KKE, il Partito comunista greco), è stata a sua volta imponente (oltre 20.000 persone) ed è arrivata in piazza Syntagma per prima. L'intenzione era quella di restarvi soltanto qualche istante, e di andarsene prima dell'arrivo del grosso del corteo. Tuttavia, i partecipanti alla manifestazione si sono fermati per lo più nella piazza, gridando slogan rabbiosi contro i politici. Secondo il leader del KKE, si sarebbe trattato di provocatori fascisti (di fatto egli ha accusato il LAOS, partito che raccoglie un mix di militanti dell'ultra-destra e di nostalgici della Giunta dei colonnelli) che, brandendo le bandiere del PAME, avrebbero incitato i militanti del KKE a entrare di forza nel palazzo del Parlamento, screditando in tal modo la lealtà costituzionale del partito! Malgrado questa accusa possieda un qualche fondamento, poiché alcuni fascisti sono stati effettivamente visti sul posto, la verità – secondo alcune testimonianze – è che i dirigenti del KKE hanno avuto non poche difficoltà a convincere i propri militanti ad abbandonare rapidamente la piazza, e a non gridare slogan contro il Parlamento. È forse troppo azzardato vedere in questo episodio un segno della disobbedienza montante verso le regole d'acciaio di questo partito monolitico; ma in tempi così incerti, nessun può davvero saperlo...
La settantina di fascisti che fronteggiavano le forze anti-sommossa insultavano i politici («Politici, figli di puttana!»), cantavano l'inno nazionale e lanciavano pietre contro il palazzo del Parlamento, probabilmente con l'intenzione, rivelatasi vana, di evitare un escalation di violenza. Tuttavia, sono stati rapidamente riassorbiti dall'enorme ondata di manifestanti che nel frattempo aveva raggiunto la piazza.
Ben presto, una moltitudine di lavoratori (elettrici, postali, impiegati municipali etc,) ha cercato in tutti i modi di entrare nel palazzo del Parlamento, ma le migliaia di poliziotti in tenuta anti-sommossa schierati sul piazzale antistante l'entrata glielo hanno impedito. Un altro gruppo di lavoratori, uomini e donne dall'età più disparate, ha preso a insultare e minacciare i poliziotti che si trovavano davanti alla Tomba del Milite Ignoto. Per quanto la polizia sia riuscita, grazie a un massiccio contrattacco, con tanto di lancio di gas lacrimogeni, a disperdere la folla, altri gruppi di manifestanti continuavano ad affluire davanti al Parlamento, mentre i primi gruppi che erano stati costretti a battere in ritirata, si riorganizzavano in via Panepistimiou e in corso Syngrou. Qui, questi gruppi hanno iniziato a distruggere ogni cosa e hanno attaccato le forze anti-sommossa che si trovavano nelle strade adiacenti.
Nonostante la maggior parte dei grandi stabili del centro fossero stati protetti con imposte metalliche, i manifestanti sono riusciti ad attaccare alcune banche ed edifici pubblici. Si è potuto assistere a una vasta distruzione di proprietà, soprattutto in corso Syngrou. Qui, infatti, le forze di polizia non avevano sufficienti effettivi per reagire tempestivamente a questo gruppo di manifestanti, poiché avevano ricevuto l'ordine di dare priorità alla protezione del Parlamento e all'evacuazione delle vie Panepistimiou e Stadiou, lungo le quali i manifestanti riconfluivano senza sosta verso il Parlamento stesso. Alcune automobili di lusso, un ufficio del Ministero delle Finanze e uno della Prefettura di Atene sono stati incendiati. Qualche ora più tardi, questa parte della città sembrava ancora una zona di guerra. Gli scontri si sono susseguiti per quasi tre ore. È impossibile raccontare tutto quello che è accaduto per le strade. Riportiamo un solo episodio: alcuni insegnanti, insieme ad altri lavoratori, sono riusciti a circondare degli agenti del gruppo Delta – un nuovo corpo anti-sommossa che si sposta in moto – e hanno dato loro una buona dose di legnate, mentre i poliziotti gridavano: «Per favore, no! Siamo lavoratori anche noi!».
I manifestanti che erano stati respinti verso via Panepestimiou, intanto, tornavano a gruppi verso il Parlamento, dove hanno a lungo fronteggiato la polizia. Qui si sono nuovamente mescolati e si sono fermati. Un impiegato municipale di mezza età, che teneva delle pietre tra le mani, ci ha raccontato, commosso, come la situazione gli ricordasse i primi anni dopo la fine della dittatura, e la manifestazione del 1980 – alla quale partecipò – che commemorava gli avvenimenti del Politecnico e nel corso della quale la polizia uccise una donna di 20 anni, la lavoratrice Kanellopoulou.
Di lì a poco, sono arrivate, tramite i telefoni cellulari, le terribili notizie battute dalle agenzie di stampa estere: 3 o 4 persone morte nell'incendio di una banca. C'era stato in effetti qualche tentativo di dar fuoco a delle banche, ma nella maggior parte dei casi, i manifestanti si erano fermati, poiché vi erano dei crumiri barricati all'interno. Solo lo stabile della Marfin Bank è stato dato effettivamente alle fiamme. Nondimeno, soltanto pochi minuti prima della tragedia, non erano affatto degli “hooligans mascherati” che gridavano «crumiri!» all'indirizzo degli impiegati della banca, ma dei gruppi organizzati di scioperanti, che li apostrofavano e li insultavano affinché lasciassero l'edificio.
Date le dimensioni e la densità della manifestazione, il fracasso, i canti, evidentemente una certa confusione – naturale in situazioni come questa – rende difficile riferire con precisione ciò che è accaduto in quel tragico frangente. L'ipotesi che appare più plausibile (mettendo insieme i frammenti d'informazione raccolti da alcuni testimoni), è quella che in questa banca posta nel cuore della città, il giorno dello sciopero generale, circa 20 impiegati siano stati costretti dal loro padrone a lavorare, chiusi a chiave nell'edificio «per garantire la loro sicurezza», e che tre di essi siano morti per asfissia. Inizialmente, una bottiglia molotov è stata lanciata attraverso un buco fatto nel vetro di una finestra al pianterreno. Quando alcuni impiegati sono usciti sul balcone, dei manifestanti hanno gridato loro di uscire e hanno cercato di estinguere l'incendio. Ciò che a quel punto è accaduto, e come in un istante l'edificio sia andato a fuoco, non sappiamo dire.
La macabra serie di fatti che sono seguiti all'incendio è stata probabilmente già riportata a sufficienza: i manifestanti che cercano di soccorrere le persone rimaste intrappolate all'interno, i pompieri che ci mettono troppo tempo a fare uscire alcuni impiegati, il sorridente banchiere miliardario inseguito da una folla inferocita.
(In seguito, il Primo ministro ha riferito in Parlamento sull'accaduto, denunciando l'«irresponsabilità politica» di chi si oppone alle misure di austerità e provoca morte, mentre i “provvedimenti salutari” del governo «difendono la vita»).
Il ribaltamento della situazione ha avuto successo. Ne è immediatamente seguita un'imponente operazione delle forze anti-sommossa: la folla è stata dispersa e inseguita e l'intero centro della città è rimasto accerchiato fino a tarda notte. L'enclave libertaria di Exarchia è stata posta in stato d'assedio; uno squat anarchico è stato sgomberato e diversi occupanti sono stati arrestati; un locale frequentato da immigrati è stato devastato. Una nube di fumo persistente ha continuato a incombere sulla città, lasciando un misto di amarezza e di inebetimento.
Le conseguenze dell'accaduto sono diventate visibili l'indomani: gli avvoltoi dei media hanno strumentalizzato la tragica morte dei 3 impiegati, presentandola come una “tragedia personale”, separata dal suo contesto reale (meri corpi umani astratti dalle loro relazioni sociali); alcuni si sono spinti a chiedere la criminalizzazione della resistenza e della protesta in quanto tali. Il governo, nel frattempo, ha preso tempo, spostando l'attenzione su altre questioni, e i sindacati si sono sentiti sollevati da ogni obbligo di indire uno sciopero, il giorno stesso in cui le misure del governo venivano approvate.
In questo clima di paura e di delusione, nel pomeriggio alcune migliaia di persone si sono ugualmente riunite davanti al Parlamento, nel corso di una manifestazione organizzata dai sindacati e dalle organizzazioni di sinistra. La rabbia era ancora palpabile. Alcuni pugni si sono levati, bottiglie d'acqua e petardi sono stati lanciati contro le forze antisommossa, si sono gridati slogan contro la polizia e il Parlamento. Una donna attempata ha chiesto agli altri manifestanti di cantare: «Che se ne vadano!» (i politici); un giovane, dopo avere pisciato in una bottiglia, l'ha lanciata contro la polizia. Anche qualche anti-autoritario era presente, e quando è scesa la notte e i sindacati e la maggior parte delle organizzazioni di sinistra hanno abbandonato il campo, alcune persone, del tutto ordinarie, a mani nude, hanno deciso di rimanere. Caricati con violenza dalla polizia in assetto anti-sommossa, inseguiti e calpestati dagli squadroni di piazza Syntagma, giovani e vecchi, spaventati ma furiosi, si sono dispersi nelle vie adiacenti.
L'ordine era finalmente ristabilito. Tuttavia, nei loro occhi si poteva leggere non soltanto la paura, ma anche l'odio. Non c'è dubbio, torneranno...
Passiamo ora a qualche riflessione di carattere più generale:
1. Severe misure contro gli anarchici e gli anti-autoritari sono già state prese, e si profila un loro ulteriore inasprimento. La criminalizzazione di un intero movimento politico-sociale, che coinvolge anche le organizzazioni dell'estrema sinistra, è sempre stata utilizzata dallo Stato come strategia di diversione, e a maggior ragione sarà utilizzata oggi, nel momento in cui i tre morti della Marfin Bank hanno creato un clima favorevole alla manovra. Tuttavia, la demonizzazione degli anarchici non indurrà le centinaia di migliaia di persone che hanno sfilato in corteo, né coloro che sono rimasti a casa – ma che sono comunque coinvolti – a dimenticare il FMI e il “pacchetto di salvataggio” che il governo ha imposto. La persecuzione del nostro movimento non aiuterà le persone a pagare le fatture, né garantirà loro un avvenire che rimane incerto. Il governo sarà presto costretto a criminalizzare la resistenza tout court; anzi si può dire che abbia già cominciato a farlo, come testimoniano gli avvenimenti del 6 maggio.
2. Lo Stato farà un piccolo sforzo, tirando le orecchie a qualche uomo politico per placare “l'emozione popolare” ed evitare che si trasformi in “sete di sangue”. Alcuni casi flagranti di “corruzione” saranno forse puniti, e alcuni uomini politici sacrificati, per confondere le acque.
3. Vi è un costante riferimento a una “deriva costituzionale”, che viene tanto dal LAOS (estrema destra) quanto dal KKE, in uno spettacolo di recriminazioni che rivela i crescenti timori, da parte della classe dirigente, di un aggravarsi della crisi politica e della crisi di legittimità delle istituzioni. Vengono riciclati diversi scenari (un “partito degli uomini d'affari”, un regime sul modello della Giunta dei colonnelli), che riflettono le paure profonde di un sollevamento proletario, ma che in realtà sono utilizzate per spostare la questione della “crisi del debito” dalle strade all'arena politica – sotto forma della domanda banale: «chi è la soluzione?», anziché «qual è la soluzione?».
4. Detto questo, è tempo di approcciare le questioni più cruciali. È ormai chiaro che il giochetto rivoltante che consiste nel trasformare la paura/colpa del debito nella paura/colpa della resistenza e del sollevamento (violento) contro il terrorismo del debito, è già cominciato. Se la lotta di classe si intensifica, le condizioni potranno assomigliare sempre di più a quelle di un'autentica guerra civile.
La questione della violenza è diventata centrale. Così come valutiamo la gestione della violenza da parte dello Stato, siamo costretti ad analizzare la violenza proletaria: il movimento deve affrontare il problema della legittimazione della violenza e del suo contenuto in termini pratici.
Per quel che riguarda il movimento anarchico e anti-autoritario, e la sua tendenza insurrezionalista, che è preponderante, la tradizionale glorificazione “machista” e feticizzata della violenza sussiste da troppo tempo ed è stata troppo importante, perché oggi ce la si possa lasciare alle spalle. La violenza fine a sé stessa, in tutte le sue varianti (inclusa la lotta armata propriamente detta) non ha smesso di diffondersi negli ultimi anni, soprattutto dopo la rivolta del dicembre 2008, allorché un certo grado di decomposizione nichilista ha fatto la sua apparizione (vi abbiamo fatto riferimento nel nostro testo Le passage rebelle d’une minorité prolétarienne...), estendendosi al movimento stesso. Alla periferia di questo movimento, ai suoi margini, sono apparsi in numero crescente dei giovanissimi, portatori di una violenza nichilista senza limiti (il “nichilismo di dicembre”) e propugnatori di una “distruzione” che può coinvolgere anche il “capitale variabile” (i crumiri, gli “elementi piccolo-borghesi, i “cittadini rispettosi della legge”). Che una tale degenerazione nasca dalla rivolta e dai suoi limiti, piuttosto che dalla crisi in quanto tale, è di un'evidenza palmare.
Alcune condanne di questi atteggiamenti avevano già allora iniziato a farsi sentire, e così pure una certa auto-critica (alcuni gruppi anarchici arrivarono a designare gli autori di quegli atti con l'epiteto di “canaglie para-statali”), ed è molto probabile che gli anarchici e gli anti-autoritari organizzati (gruppi o squat) cercheranno di isolare, sia politicamente che operativamente, queste tendenze. Tuttavia, la situazione è molto più complessa, e va oltre la capacità di (auto)critica teorica e pratica del movimento. A posteriori, si può sostenere che i tragici avvenimenti di cui abbiamo riferito, con tutte le loro conseguenze, si sarebbero potuti verificare già all'epoca della rivolta del dicembre 2008. Se ciò non è accaduto, non è stato solamente frutto del caso (la stazione di servizio che si trovava accanto a un palazzo in fiamme e che non è esplosa, il fatto che gli scontri più violenti, quelli di sabato 7 dicembre, si siano svolti di notte, quando la maggior parte degli edifici erano vuoti); ma è stato anche in virtù della creazione di una sfera pubblica proletaria (per quanto limitata) e di diverse comunità di lotta impegnate a costruire un proprio percorso, non soltanto per mezzo della violenza, ma anche attraverso i propri contenuti e discorsi, e con altri mezzi di comunicazione.
Sono state queste comunità preesistenti (studenti, tifosi di calcio, immigrati, anarchici) a trasformarsi in comunità di lotta, talvolta attorno a delle tematiche di rivolta che hanno potuto dare alla violenza un ruolo significativo. Comunità come quelle emergeranno ancora, adesso che non è più soltanto una minoranza di proletari a essere coinvolta? Emergeranno delle forme pratiche di auto-organizzazione nei luoghi di lavoro, nei quartieri e nelle strade, in misura tale da determinare la forma e il contenuto della lotta, e collocare, di conseguenza, la violenza in una prospettiva di liberazione?
Si tratta di questioni complesse e urgenti, alle quali potremo trovare una risposta soltanto nella lotta.

* Ta Paidia Tis Galarias (I ragazzi della galleria), è un gruppo-rivista greco di area comunista radicale, attento ai conflitti di classe internazionali e alla critica serrata alle ideologie (http://www.tapaidiatisgalarias.org/).