Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

* * *

«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

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«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

29 luglio 2009

Eravamo sull'orlo dell'abisso... abbiamo fatto diversi passi avanti

di Daniele Pepino (2007)
[Quello che segue è un intervento al dibattito tenutosi a El Paso in occasione della presentazione del libro di Sergio Ghirardi, Lettera aperta ai sopravvissuti, Nautilus, 2007]

Mi si perdoni il tono lapidario, senza fronzoli, di questi appunti, ma tali sono: non vogliono essere né una risposta alla Lettera aperta ai sopravvissuti di Sergio Ghirardi, né una sua critica, solamente qualche spunto di riflessione, nato dalla lettura del suo libro, e buttato giù velocemente e alla rinfusa, come contributo al dibattito di questa sera a El Paso (dal titolo Dall'economia della catastrofe alla società del dono) e a quelli a venire.
Viviamo davvero l'economia della catastrofe, non c'è dubbio e non credo sia il caso di dilungarsi su dimostrazioni che sono sotto gli occhi di tutti, e che sono anche ben argomentate nel libro di Sergio. Pertanto vengo subito al dunque: finita la lettura della Lettera aperta, mi è sembrata subito lampante la debolezza di quella prospettiva che emerge come contraltare salvifico di fronte alla catastrofe in atto. Mentre tutto va a rotoli, come per incanto, ci prepariamo ad accogliere nel grembo fecondo della storia il germoglio di una nuova (l'ennesima!) società. Questa volta non sarà una società mercantile ma "del dono", e non sarà una democrazia rappresentativa ma "soggettiva". Al di là di quest'ultima definizione – che personalmente mi fa accapponar la pelle, come anche alcune descrizioni che ne vengono accennate –, è la complessiva inconsistenza di tale "utopia" che lascia un senso di vuoto. L'impianto stesso del discorso si regge su un'astrazione: da dove germoglierà questo nuovo mondo? Dall'insorgere della volontà di vivere!? Io, semplicemente, non ci credo. Questa non è che la riproposizione del leit motiv, caro all'ideologia situazionista e in particolare a Raoul Vaneigem, per cui tutto il vecchio mondo a un certo punto crollerà di fronte all'affermarsi del soggettivo, del piacere, della pienezza di vita... Ma questi sono dei concetti, astratti, non sono dinamiche materiali e sociali, che sono le cose da cui scaturiscono i cambiamenti. Questa è l'ideologia che ha accompagnato, negli anni '60 e '70, il movimento rivoluzionario radicale. E – mi sbilancio – ritengo che gran parte di quell'ideologia fosse figlia dell'ottimismo tecnologico dominante di quegli anni, anche quando non lo sposava dichiaratamente. Oggi urgono autocritiche e riflessioni.
Quali sono oggi le dinamiche sociali e umane, vive e pulsanti, le viscere di questo mondo putrido da cui può generarsi quella forza in grado di rovesciarlo? (Già, «la forza», questa è ancora – se non mi sono completamente rincoglionito – la leva di ogni cosa, compresa la riscossa degli oppressi, mentre la Lettera aperta sembra dirci che la società del dono germinerà così, senza bisogno di violenza, anzi, con gaiezza...). Sono questi credo gli interrogativi centrali, ai quali non ho certo la risposta pronta, ma sui quali credo sia il caso di riflettere e che credo sia un po' superficiale liquidare riproponendo gli schemi di una ideologia in fin dei conti progressista e stantia: sarà la volontà di vivere a risolvere tutto, insorgendo realizzerà il piacere e abolirà la schiavitù dell'uomo e della natura. (Io sinceramente, lo dico senza ironia, non ho ancora capito cosa sia questa volontà di vivere, né perché mai dovrebbe insorgere ieri oggi o domani). Insomma, la mia impressione è che si sia preferito partire dalla intoccabile teoria situazionista (o meglio dal "Vaneigem-pensiero"), per innestarci sopra un po' di "decrescita", un po' di "MAUSS", un po' di ambientalismo, diciamo così, per aggiornarla. Per carità, non è che sia una infamia – e ciò detto ognuno fa quel che gli pare – però credo sia più fecondo rovesciare la prospettiva: cercare di comprendere le modificazioni del reale, scorgerne le crepe e avvertirne i rumori e gli scricchiolii intorno a noi, per confrontarci con questi e rimettere in discussione le nostre categorie e le nostre sicurezze.
Detto questo, mi sembra importante inquadrare un po' più realisticamente lo scenario in cui dovrebbe irrompere questo «progetto di una decrescita piacevole e conviviale». Perché, sarò sicuramente tacciato di pessimismo apocalittico, ma sento che, ahinoi!, dovremo fare i conti, nel prossimo futuro, con ben altre «piacevolezze»: ci troviamo di fronte a un'umanità che, per una buona metà, sta letteralmente crescendo nell'odio, allattata dalla sete di vendetta. Intere generazioni, le prossime, sono quotidianamente allevate da stragi, bombe, veleni industriali, stupri, deportazioni, fame, campi di concentramento... e non vedono l'ora di riscattarsi. I privilegiati del "Primo mondo", da parte loro, non rinunceranno spontaneamente ai loro privilegi, i cui costi umani e ambientali iniziano a tornare indietro con gli interessi. Tutto torna. Lo scenario più probabile che abbiamo di fronte – e che per certi versi è già iniziato, ma può sempre peggiorare – è quello della guerra civile totale, su scala planetaria. È su questo sfondo che mi sembra un po' stonato il continuo richiamo al festoso sbocciare del «gioco dell'amore e dell'amore del gioco che si apprestano a umanizzare il mondo», concetti che ripetutamente tornano nelle pagine della Lettera aperta ai sopravvissuti. Insomma, queste forze in procinto di umanizzare il mondo e realizzare la felicità, dove sono? Chi sono? A mio avviso mancano di concretezza (a meno che, Dio ce ne scampi!, non sia «La volontà di vivere liberi, pronti a una rivolta sociale fraterna che si fondi sull'uguaglianza nella diversità: questa è stata e resta la sola modernità dell'Europa di cui si dovrebbe democraticamente rendere erede il mondo», come leggiamo a pag. 66. L'ideologia eurocentrica e le reminiscenze inquietanti di questa affermazione credo non meritino ulteriori commenti).
Qui siamo nel bel mezzo di una guerra civile, con prospettive che per la specie umana, e non solo, non sono mai state così apocalittiche. Non si tratta neanche più di scegliere tra la guerra e la pace, si tratta di vedere quale direzione prenderà il conflitto, e noi che parte ne avremo e cosa possiamo fare. Mi si accuserà di non "credere nei miei desideri", ma sono convinto che questo sarà il quadro dell'eventuale prossima rivoluzione sociale, lo scatenarsi delle cattive passioni. Noi qui dobbiamo essere pronti, dobbiamo attrezzarci. Altro che "giochi dell'amore"!
Ultimo appunto: la questione dell'«autoproduzione» o, meglio, dell'«autonomia». In occidente, viviamo in una dipendenza totale da un sistema tecnologico che da un lato è fuori da ogni nostro controllo, dall'altro è di una fragilità impressionante. Basta pensare a quel che può accadere nelle nostre metropoli (che si avviano a diventare sempre più mostruose e affollate), nel momento di una calamità, anche parziale. Pensiamo a New Orleans, a cosa può essere il panico di trovarsi intrappolati in gabbie di chilometri di cemento, con il cibo che finisce... è un incubo da far impallidire l'Abisso di London! Non ci riflettiamo mai abbastanza: siamo come dei polli in batteria, se si interrompe il flusso di mangime lo scenario è il collasso. Siamo una società di handicappati! È proprio di fronte a questo spossessamento che un movimento rivoluzionario in occidente non può non porre tra le sue priorità problematiche la difesa e la riconquista di autonomia, anche materiale, anche alimentare. Possiamo anche chiamarla autoproduzione, se vogliamo, ma l'ottica da cui è inscindibile è quella della guerra civile. Cosa sarebbe stata la guerriglia partigiana senza gli approvvigionamenti, anche materiali, della montagna, di un'economia di villaggio che ne costituiva le retrovie? Oggi, a mio avviso, parlare di autoproduzione e di liberazione di spazi di vita e libertà, ha senso solo in quest'ottica: quella di garantirsi quegli spazi di autonomia, di costruire quelle retrovie che serviranno all'apertura di un fronte interno in occidente («portare la guerra in casa», dicevano i Weathermen di fronte alla guerra USA in Vietnam). Spazi in cui, beninteso, sia possibile viverci nel frattempo e il meglio possibile... Spesso, per altro, è proprio la mancanza di mezzi, di strumenti, di luoghi, di forza materiale, di energia, a costituire limiti e a sancire la rassegnazione; anche di questo è responsabile lo spossessamento e il controllo nella metropoli; garantirsi le postazioni da cui attaccar battaglia e rientrare, non solo è vitale, ma è anche un ulteriore stimolo a sferrare gli assalti.
Qui sta l'importanza dell'autoproduzione, nel senso di spazi sottratti al controllo, di riappropriazione di mezzi e saper-fare: per evitare che il sacrosanto desiderio di gratuità e autonomia, invece che armare la resistenza, apparecchi l'accomodamento in ghetti neo-fricchettoni o post-punk o che altro. Il discorso è vecchio, quel che si ha e quel che si riesce a conquistare va protetto con le unghie e con i denti, questo è fuori discussione. Altrettanto vero però è che, come gli ultimi decenni dimostrano, spesso questo patrimonio – sia un centro sociale, un orto, una pratica – diventa un ghetto in cui rinchiudersi, una ideologia da difendere..., e l'arma si trasforma in zavorra. È vero, l'equilibrio è precario, il confine è incerto e talvolta attraversarlo è addirittura inevitabile. Proprio per questo però è importante non smarrire la rotta, rimettendosi sempre in causa e confrontandosi senza sosta sul senso e la portata di quel che facciamo. Queste brevi note, senza pretese, volevano essere un contributo a tale confronto.
Un lettore sopravvissuto (Pepi)
Piemonte, 16 novembre 2007

24 luglio 2009

Miseria dell’antimperialismo



La nazionalità dell’operaio non è serba, albanese o greca;
essa è il lavoro,  la libera schiavitù, il mercanteggiamento di sé.
Il suo governo non è serbo, albanese o greco; esso è il capitale.
L’aria della patria non è per lui quella serba, albanese o greca;
ma è l’atmosfera irrespirabile dell’officina sociale.
(Karl Marx)

Imperialismo e capitalismo non sono in alcun modo distinguibili. È a partire da questo dato che ci schieriamo contro tutti gli imperialismi: non solo quello targato USA, ma anche quello europeo, russo, cinese, iraniano, indiano, ugandese etc. Ogni stato capitalista è, per sua stessa natura, imperialista; in quale misura esso riesca a mettere in atto questa vocazione, dipende soltanto dalla posizione che occupa nel mercato mondiale e dalla potenza militare che può dispiegare. Non esiste né può esistere un capitalismo pacifico o “umanitario”, e neppure si tratta di una questione di buona volontà, giacché l’alternanza guerra/pace è strettamente funzione dell’accumulazione del capitale e della sua dinamica inerziale.

La presente organizzazione sociale, per conservarsi, deve produrre miseria, distruzione e morte. Si mettano il  cuore in pace le anime belle che esultarono dopo l’elezione alla presidenza degli States del progressista Obama (il quale, per altro, ha già dato un saggio di ciò che andiamo sostenendo con l’invio di un ulteriore contingente di 30.000 soldati nel deserto afghano): a dispetto di tutti gli orpelli mediatici, quello che si estende davanti all’umanità è un orizzonte quanto mai cupo. D’altra parte, il gattopardismo del capitale, lo spettacolo stantio dei falsi antagonismi che esso mette in scena affinché nulla di ciò che è essenziale venga rimesso in questione, ormai mostra la corda. Solo pochi ingenui, per lo più militanti sinistrorsi obnubilati da anni di cretinismo parlamentare inoculato in dosi massicce, continuano a credere alla menzogna elettorale e a entusiasmarsi per un banale cambio di governo. Nondimeno, negli altri, i disincantati, prevale lo scoramento, l’impotenza, il cinismo, l’individualismo.

La guerra non è che la manifestazione estrema del dominio totalitario dell’Economia, di un sistema di sfruttamento alla cui base è la negazione della vita. Quest’ultima prende forma nelle bombe esportatrici di democrazia come nella morte somministrata a piccole dosi – anche e soprattutto nei paradisi mercantili d’occidente – di una vita senza senso, fatta di isolamento, alienazione, noia: morte relazionale e affettiva.

Ci schieriamo quindi contro tutti i nazionalismi, gli eserciti, le guerre di “liberazione nazionale”, le patrie piccole e grandi, le identità etniche e religiose; insomma, contro tutti gli Stati, presenti, passati e futuri, democratici, dittatoriali e persino “operai”. Consapevoli che è, questo, soltanto un degli aspetti di una totalità sociale che deve essere distrutta dalle fondamenta.

Tutto ciò non può non implicare una radicale inimicizia nei confronti dell’ideologia “antimperialista”; ideologia reazionaria che, mentre con una mano brucia la bandiera statunitense e israeliana, con l'altra innalza i vessilli delle borghesie palestinese, basca o irachena – e, sotto sotto,  quello dell’imperialismo europeo... E finge di dimenticare che a ogni conflitto militare si accompagna, sul fronte interno, la guerra contro i proletari, l’attacco alle loro condizioni di esistenza, in Palestina come in Israele, a Los Angeles come a Baghdad.

Laddove la crisi strutturale che attanaglia il capitalismo mondiale da oltre un trentennio inizia a manifestarsi in tutta la sua virulenza, apparecchiando nuovi e inquietanti scenari di guerra, è di fondamentale importanza ribadire con forza e coerenza la posizione internazionalista che da sempre è patrimonio delle minoranze radicali. Così come è necessario affermare che i futuri movimenti sociali, che si auspica si svilupperanno in opposizione alle sempre più numerose e sanguinose guerre del capitale, dovranno essere in primo luogo capaci di sabotare materialmente il dispositivo bellico all’interno dei rispettivi “territori”, pena l’essere relegati, ancora una volta, in un ruolo di impotente e spettacolare testimonianza. Si tratta, in certo modo, di riallacciarsi alle lotte antimilitariste delle generazioni proletarie passate, le cui forme certamente richiedono di essere aggiornate, ma che ebbero il pregio di andare sempre ben oltre, quanto a determinazione ed efficacia, le sfilate belanti dei pacifisti d’ogni risma.

Negli anni tra le due guerre mondiali, le socialdemocrazie occidentali, di concerto con i gestori del capitale di stato sovietico e le loro appendici – i partiti sedicenti comunisti – riuscirono a fare pressoché tabula rasa della tradizione internazionalista del proletariato. Anche l’anarchismo “ufficiale”, già a partire dal 1914, con l’adesione di alcuni suoi esponenti alla causa dell’Intesa, e soprattutto negli anni Trenta, con la partecipazione di fatto ai fronti antifascisti, diede il proprio nefasto contributo. A partire dagli anni Cinquanta, il pacifismo e l’antimperialismo nostrani furono poco più di una cortina fumogena dietro la quale si celava la politica estera filosovietica del Pci (che, d’altronde, faceva il paio con la totale subordinazione, sul piano interno, agli interessi del capitale nazionale): “imperialismo” era sempre e soltanto quello americano!

Il gauchisme degli anni Settanta e i suoi degni eredi (ancora, ahinoi!, in circolazione) si sono collocati – non c’era da dubitarne – nello stesso solco. Così, ogni qual volta due opposte frazioni del capitale mondiale entrano in conflitto, questi “attivisti”, sempre in cerca di una causa per cui militare, si sentono in dovere di schierarsi come bravi soldatini con l’uno o con l’altro campo, sia in nome dell’antifascismo, dell’antiamericanismo o dell’autodeterminazione dei popoli. “Viva l’eroica Resistenza del popolo iracheno!”. “Viva la Libertà del popolo palestinese!”. “Abbasso il tiranno imperialista americano!”. E giù con gli slogan truculenti e le bandiere nazionali! (A proposito del concetto di “popolo”, vero e proprio pilastro dell’ideologia nazional-borghese, vale la pena ricordare che già 150 anni fa il vecchio Marx, polemizzando con Bakunin, lo aveva definito testualmente un’“asineria”!). Questo tipo di atteggiamento, e l’ideologia che lo sostiene, devono essere criticati senza tregua e senza compromessi.

Quanto a noi, siamo convinti che soltanto il ritorno dei proletari alla loro vocazione internazionalista e a un coerente disfattismo rivoluzionario, potrà fermare i massacri che in misura crescente insanguineranno il pianeta. E porre ancora una volta l’alternativa secca: guerra o rivoluzione sociale, distruzione della specie o comunità umana.

* * *

[Quella che segue è una discussione che ha avuto luogo su Indymedia, a seguito della pubblicazione di Miseria dell'antimperialismo] 

Toh! Un altro castellano...

Toh! Un altro castellano che parla dalla torre d'avorio dei massimi sistemi.
Facile applicare i massimi sistemi alla realtà sociale. Permette di rimanere sempre sul generale.
Facile rimanere puri quando si vive sulla torre d'avorio, lontani mille miglia dalle contraddizioni sociali.
Facile dire: il proletariato non ha nazione, e pensare che questo possa cancellare centinaia di anni di differenze culturali, etniche, religiose.
Sono perfettamente d'accordo che l'unica differenza tra gli Stati del mondo è solo nella grandezza dei loro denti e che nelle lotte antimilitariste a senso unico si nasconde lo schierarsi con questo o quell'altro imperialismo.
E questo è succeasso in passato, vedi manifestazioni antiUSA durante la guerra del Vietnam, che nascondevano il gioco dell'imperialismo europeo e di quello russo, e succede tuttora quando ad esempio degli italiani bruciano la bandiera statunitense, quando prima di tutto dovrebbero bruciare quella italiana.
Ma vaglielo a dire ai proletari, ai contadini, ai pastori palestinesi o curdi. Schiacciati dalla morsa di Stati non riconducibili alla propria etnia e/o nazionalità. Prova a dirgli "il proletariato non ha nazione". Come potrebbero fare i conti con le loro borghesia nazionali se prima di tutto vengono sfruttati, derubati, uccisi dallo Stato e dalle borghesia di altre nazioni, immensamente più forti delle loro borghesie nazionali?
Sono d'accordo col principio generale: "gli sfruttati non hanno nazione" ma penso allo stesso tempo che palestinesi e curdi hanno tutto il diritto di bruciare le bandiere israeliane e turche. Loro si che ce l'hanno! perchè se prima non si liberano da questi oppressori come potranno rivolgere la loro attenzione contro i borghesi loro connazionali?
In quanto alla polemica tra Marx e Bakunin è trattata in maniera molto superficiale.
Bakunin parla di "popolo" perchè per gli anarchici e in genere per i comunisti antiatoritari, non è solo la classe operaia la classe sociale a subire le contraddizioni del capitalismo.
Ma la cosa più triste e squallida di questo articolo è come viene liquidata l'esperienza anarchica e comunista libertaria della Spagna del 1936. Una rivoluzione sociale della classe operaia, dei contadini e di tutti gli sfruttati viene ridotta ad un semplice fenomeno di "frontismo" antifascista.
Scendi dalla torre, smetti di pontificare, vieni a sporcarti le mani in questo mare di merda che è la società del dominio dello Stato e del Capitale.

Concordo totalmente con l'autore dell'articolo
Inserito da solidarity (non verificato) il Sab, 25/07/2009 - 16:07

Concordo totalmente con l'autore dell'articolo....
il fatto che i lavoratori (di qualunque paese, non solo palestinesi o curdi) non comprendano immediatamente che "il proletariato non ha nazione" è perfettamente normale... è l'ideologia dominante che li divide e li mette l'uno contro l'altro. Accade anche tra lavoratori italiani e gli stranieri che "rubano il lavoro".
Ma un rivoluzionario dovrebbe cercare di diffondere le proprie idee, non di adeguarle a quelle dell'ideologia dominante "per comodità".
Il palestinese che si fa esplodere su un pulman uccidendo lavoratori israeliani, non ha meno colpe del soldato israeliano che spara sui palestinesi. Entrambi lottano per i rispettivi stati, e per entrambi i rispettivi stati forniscono motivi ragionevoli per fare ciò che fanno. Decidere di parteggiare per l'uno o per l'altro (di solito per il più debole) in questa lotta, senza sottolineare la sua natura borghese e senza spingere perchè si trasformi in qualcos'altro, è una mossa reazionaria.
Se per ipotesi arrivasse davvero il giorno in cui rapporti di forza si invertono... saremo qui a bruciare le bandiere palestinesi e a difendere i poveri, deboli, israeliani?
Per quanto riguarda la Spagna, l'unico gruppo davvero rivoluzionario a mio parere è stato quello dei "los amigos de Durruti", frazione anarchica che si è staccata dalla CNT dopo la sua vergognosa alleanza con il fronte borghese.
Non sono quindi i marxisti, in questo caso, ad essere stati dalla parte giusta... ma nemmeno la maggioranza degli anarchici.

No, solidarity...
Inserito da zatarra - Sab, 25/07/2009 - 19:25

No solidarity, qui non si sta parlando di ideologia dominante ma di condizioni materiali reali degli strati più poveri di una popolazione i quali si trovano sottoposti ad un doppio dominio politico-economico, di cui quello "straniero" è molto più potente. In queste condizioni liberarsi dal dominio "straniero" è una tappa fondamentale senza la quale gli sfruttati non potranno prendere coscienza. Quella coscienza di classe che si acquisisce quando si è di fronte prevalentemente alla borghesia del proprio paese.
Non si tratta di "adeguarsi" alla ideologia dominante, si tratta di avere la capacità di adeguarsi alle particolari condizioni materiali e sociali di un certo periodo storico in un determinato territorio.
Ragionare ai massimi sistemi sensa senza considerare le peculiarità di una certa situazione storico-geografica è sterile e non fa fare nessun passo avanti.
Inoltre le differenze culturali tra popoli di arre geografiche diverse non esistono perchè generate dall'ideologia dominante ma nascono da diverse condizioni fisico-geografiche in cui nasce e si costituisce una certa comunità. Semmai l'ideologia dominante, oggi rappresentata dal Capitale, sfrutta queste differenze reali per dividere gli sfruttati. Mentre buona parte dei marxisti non ricoscendo queste differenze come facenti parte della differente storia delle varie comunità umane, ma pensando che siano generate solo dall'ideologia dominante, su questo terreno sono culturalmente perdenti nei confronti proprio dell'ideologia borghese.
Non si può applicare una teoria che tratta dei massimi sistemi alle realtà particolari senza cadere nel solo proclama di sterili slogan, perchè in queste condizioni c'è l'incapacità di fondo ad analizzare la realtà. La teoria marxista, se calata dall'alto come un insieme di proclami immutati dalla sua nascita, rischia di essere perdente nei confronti di molte ideologie borghesi, magari più spicciole e meno raffinate scientificamente, ma molto più vicine alle realtà dei territori.
In Spagna Los Amigos de Durruti non fu il solo gruppo anarchico ad opporsi alle scelte di una parte della CNT. Molte colonne armate scelsero di stare dalla parte degli oppositori. Così come gli anarchici ebbero al loro fianco i marxisti del POUM (per altro anche loro sterminati dgli stalinisti). Con questo non voglio nascondere gli errori fatti da una parte della CNT, ma non furono la maggioranza. La rivoluzione sociale spagnola fu sconfitta comunque non tanto per gli errori fatti, anche se ebbero la loro importanza, ma per la repressione scientificamente condotta dai franchisti, dai fascisti, dagli stalinisti e dalle allora democrazie borghesi europee.

È vero...

E' vero che tra diversi popoli possono esistere differenze culturali importanti, ma, come dici anche tu, queste differenze diventano contrapposizione violenta solo nella misura in cui vengono strumentalizzate dalle rispettive classi dominanti... se un gruppo rivoluzionario asseconda queste ideologie anzichè combatterle, di fatto diventa strumento (più o meno consapevole) di una delle fazioni in lotta.
Essere internazionalisti non significa essere fuori dalla realtà, anzi, significa avere la possibilità di comprenderla rinunciando ad usare le lenti dell'ideologia dominante, criticandola e mostrando come la contrapposizione tra 2 popoli NON è nell'interesse dei lavoratori ma dei loro "padroni". Il lavoro che secondo me andrebbe fatto è quello di mostrare come gli interessi dei lavoratori di tutti i paesi siano i medesimi, e siano inconciliabili con quelli delle classi dominanti che li mandano al macello per i loro profitti.
E' vero che un palestinese vede come nemico immediato l'israeliano che lo bombarda... ed è comprensibile che provi odio verso israele.
Stesso discorso vale per l'israeliano che teme di salire su un autobus.
Ma quali sono i motivi profondi di questa contrapposizione? Ci si bombarda perchè si appartiene a religioni diverse, oppure perchè si è pedine sulla scacchiera dell'imperialismo?
Compito degli sfruttati è quello di liberarsi del dominio, che sia "nazionale" o "straniero" fa differenza solo dal punto di vista, appunto, delle classi dominanti nazionali o straniere.
Che poi lo straniero sia più "cattivo", è solo una questione di rapporti di forza... il dominio straniero va combattuto non nell'interesse di quello nazionale, ma nell'interesse internazionale di tutti i popoli coinvolti: il nemico non è un paese ma una classe, e questa può sventolare qualunque bandiera.
Se questo sembra un discorso da "massimi sistemi", è solo perchè è molto distante da ciò che il potere ci comunica ogni giorno in tutti i modi... ma in realtà ci fa comprendere la realtà molto meglio delle varie ideologie, talvolta ridicole, che giustificano le guerre.
Per quanto riguarda la spagna, la rivoluzione è stata sconfitta nel momento in cui la CNT e il POUM hanno deciso proprio di affiancare frazione di borghesia democratica contro quella fascista, trasformando una guerra di classe in una guerra tra fazioni borghesi... entrambe impegnate nel soffocare la rivoluzione in tutti i modi.
Il discorso "prima si sconfigge il fascismo, poi si fa la rivoluzione" è conseguenza del non capire che la necessità dell'avvento del fascismo è stata una conseguenza proprio della guerra di classe che già incendiava la spagna. Il fronte repubblicano non è altro che un alternativa di sinistra nella gestione conflitto di classe, che andava spento in qualche modo, ad ogni costo.
La scelta è solo sul modo di reprimere la rivoluzione... e se si è visto nei fatti come il fronte repubblicano non sia stato meno spietato dei fascisti nel svolgere questo compito.
Se quella rivoluzione ci ha insegnato qualcosa, è che allearsi con i propri nemici porta inevitabilmente alla disfatta.
Tanto più se è proprio la borghesia a chiederci di unirci a lei per combattere un "nemico più grande".... che sia Franco o Israele.
Sono consapevole che oggi l'opzione internazionalista sia molto improbabile... ma secondo me è l'unica scelta possibile, se si vuole restare dalla parte giusta della barricata.

In parte sono d'accordo...

In parte sono d'accordo.
L'elemento che unisce tutti i diseredati della Terra è nella loro comune condizione di essere sfruttati economicamente o di essere emarginati dal sistema. E questo è quello su cui si dovrebbe fare leva per far in modo che l'opposizione, al Capitale a agli Stati di tutti i tipi e grandezze, divenga il più possibile generalizzata.
E' l'applicazione della teoria alla pratica che propone l'articolo che non condivido. Il comune riconoscimento della condizione di essere sfruttati a mio parere deve allo stesso tempo comprendere il reciproco riconoscimento e rispetto di culture differenti tra le diverse comunità territoriali di sfruttati.
Per quanto uniti dalla stessa condizione economica un lavoratore norvegese e uno siriano hanno ben poco da spartire dal punto di vista culturale. E questo nell'applicazione dei principi teorici alla pratica di tutti i giorni va considerato, altrimenti si rischia di rimanere lontani dai lavoratori stessi.
Anche perchè queste differenze non le ha inventate il Capitale e però l'espressione politica del Capitale queste differenze le mette bene a frutto per il suo scopo di controllo. E se noi rimaniamo su principi teorici generali siamo perdenti.
Per quanto riguarda la Palestina, non si possono mettere sullo stesso piano un israeliano ed un palestinese. Il primo è il cittadino di un paese occupante, il secondo subisce questa occupazione. E se il secondo non si libererà dell'oppressione dello Stato israeliano, difficilmente prenderà coscienza che tutti i padroni sono uguali.
Per quanto riguarda la Spagna del '36, e questo lo dico sia per me che per te, ragionare con il senno del poi lascia il tempo che trova, nel senso che con i "se" non si fa la storia. Sono d'accordo che l'errore fatto da una buona parte della CNT fu grave, ma allo stesso tempo credo che la rivoluzione sociale sarebbe stata schiacciata lo stesso.
Ma la mia critica iniziale all'articolo non era su questo punto, ma sul fatto che non si può ridurre tutta l'esperienza spagnola agli errori di alleanze fatte dalla CNT, dimenticando la parte più significante della rivoluzione sociale che riguarda la grande sperimentazione di comunismo libertario portata avanti da centinaia di migliaia di lavoratori e contadini attraverso l'esperienza della socializzazione dei mezzi di produzione e in genere della gestione libertaria di tutti gli aspetti economici e sociali della società.
Buona giornata e grazie per il costruttivo confronto.
zatarra

Nessuno vuole negare che esistano differenze culturali...

Nessuno vuole negare che esistano differenze culturali tra paesi lontani sia per la storia che per la geografia.
Solo non credo che queste differenze possano giustificare una divisione o peggio una contrapposizione tra i lavoratori dei rispettivi paesi.
Se ad esempio i lavoratori siriani e norvegesi un giorno si combatteranno, sarà a causa delle dinamiche economiche dell'imperialismo, e non del fatto che tra i due paesi ci sono differenze religiose/culturali ecc.... queste sono tutte scuse ideologiche per mettere i lavoratori l'uno contro l'altro (musulmani vs cristiani, bianchi vs neri.... ).
Le differenze tra i popoli, al di là del capitalismo, possono solo essere arricchenti per tutti.
I lavoratori palestinesi e israeliani sono uguali nel senso che condividono la stessa posizione di sfruttati in questi rapporti di produzione...
Sono diversi nel senso che appartengono a nazioni diverse, hanno culture diverse, e la potenza dei rispettivi stati è diversa.
ma voglio ancora sottolineare che il motivo per cui si combattono non è affatto la loro diversità culturale/religiosa...
In tutti i conflitti c'è sempre chi prevale, e in questo caso, per varie ragioni, è israele.
Fare il tifo per la nazione palestinese è come dire che si vorrebbe ribaltare i ruoli... e se accadesse, bisognerebbe cominciare a fare il tifo per la nazione israeliana e così via... non c'è via d'uscita, se non la pace borghese tra 2 stati separati.
Una volta comprese le cause reali dei conflitti e la divisione in classi che alla base degli stati, come si fa a scegliere di parteggiare per una delle due parti? da un punto di vista anticapitalista e quindi internazionalista, mi sembra impossibile.
Come si fa a partecipare a una guerra, a uccidere un proprio simile, solo perchè è nato in un altra nazione?
i propri interessi e quelli della nazione in cui ci si trova a vivere, non coincidono. Coincidono solo dal punto di vista della classe dominante nazionale, ma un lavoratore fa parte della classe antagonista ad essa, è sfruttato sia sul lavoro sia come carne da cannone.
Solo unendo i lavoratori di entrambe le parti contro l'unico nemico comune, si può mettere la parola fine alle guerre del capitale.
Se invece contribuiamo noi stessi a fomentare queste divisioni, giustificando e appoggiando uno dei due fronti, facciamo il gioco del nostro nemico... che dal mio punto di vista è il capitalismo e i suoi agenti, non il mio collega che parla un altra lingua.
Ammetto che se fossi un palestinese a cui hanno sterminato la famiglia, mi sarebbe molto difficile comprendere questo discorso.
Forse è proprio la nostra distanza da fatti così terribili, che ci consente di fare un analisi lucida della situazione senza farci travolgere da irrazionali sentimenti di vendetta... sentimenti ben capitalizzati da forse come Hamas.
ciao... e grazie a te per la discussione!

Sono d'accordo...

Sono d'accordo con te che se un giorno i lavoratori siriani e norvegesi si combatteranno, sarà per motivi economici e strategici, legati alle dinamiche imperialiste.
Ma la molla ideologica che li spingerà alla guerra saranno le differenze culturali, religiose ad esempio. Fomentate dall'ideologia dominante del Capitale.
Allora un rivoluzionario deve considerare anche la forma ideologica che nasce dalla condizione materiale, controbbattendola, propagandando non solo l'unita di classe attraverso il principio della medesima condizione economica e sociale di tutti i diseredati, ma anche propagandanto la tolleranza reciroproca delle diverse comunità territoriali. In questo modo si combatterà il Capitale non solo nell'aspetto economico ma anche in quello culturale, fondamentale nel perpretare il dominio altrettanto come quello economico.
Se è pur vero che le idee nascono dalla condizione materiale del genere umano è pur vero che queste idee una volta nate possono camminare con le loro gambe e influenzare a loro volta la sfera materiale.
Rispetto al tema della Palestina, la mia non è solo una posizione sentimentale, dell'anarchico che si schiera sempre col più debole, ma anche pratica. E' umano molto umano che un Palestinese veda come suo principale nemico non la borghesia come classe mondiale ma l'invasore israeliano, operaio o industriale che sia.
Solo quando l'intero popolo palestinese si sarà liberato dell'invasore allora potrà delinearsi con più chiarezza la lotta di classe tra il lavoratore palestinese e il borghese palestinese. Per me è nacessario che ci sia questo passaggio.
buonatte e... a presto se ne avremo voglia e tempo
zatarra

Risposta di "Les Mauvais Jours Finiront"

[...]

Per cominciare, vorrei precisare che questo testo è stato pensato come un (potenziale) volantino e che pertanto non era possibile, per ragioni di spazio, trattare in modo approfondito le diverse tematiche che vi sono toccate. Oltre a un generico moto di fastidio verso l'adesione acritica da parte di quel che fu il “movimento antagonista” all’ideologia antimperialista (eredità dello stalino-leninismo), che mi ha ispirato la stesura del testo, l’intento era principalmente quello di suscitare un minimo di discussione intorno a questi temi. Dunque, ben vengano confronti come quello che si è sviluppato qui su indy tra solidarity e zatarra.
Credo che solidarity abbia ben colto lo spirito di “Miseria dell’antimperialismo” che, in fin dei conti, non fa che riproporre, seppure in modo un po’ sommario, le posizioni internazionaliste delle minoranze radicali del ‘900: dalla Luxemburg ai comunisti dei consigli, dai “bordighisti” – che pure si divisero rispetto alle lotte di “liberazione nazionale” – a una parte, per quanto minoritaria, del movimento anarchico. Non ho quindi molto da aggiungere alle sue considerazioni. Soltanto un paio di annotazioni:
1) Nessuno nega l’esistenza di differenze culturali, linguistiche etc.. Ma non si deve dimenticare che non si tratta di differenze determinate puramente da fattori naturali, geografici etc., bensì da rapporti sociali storicamente definiti, fondati sull’alienazione, l’oppressione, la violenza. E questo vale tanto per il capitalismo quanto per le epoche e le formazioni sociali anteriori. Le aree territoriali culturalmente e linguisticamente omogenee, in epoca capitalistica, sono state la risultante di guerre, pulizie etniche e, in generale, di politiche statuali più o meno imposte con la forza (si pensi, ad esempio, all’introduzione dell’obbligo scolastico); questo, fino ai giorni nostri. È vero che, da un lato, il capitale utilizza le differenze “ereditate” – nelle quali, ripeto, vi è ben poco di “naturale” – per dividere gli sfruttati; ma è altrettanto vero che, nel suo movimento, esso tende a livellarle, standardizzando bisogni, modi di pensare, linguaggi, ideologie etc.; salvo poi reintrodurre differenze “culturali” e “identità” sempre più fittizie, ideologiche, cioè autonomizzate rispetto alle condizioni materiali di esistenza degli individui.
Detto questo, da un punto di vista internazionalista, radicale, libertario, comunista – o come si ritenga più opportuno definirlo – una volta riconosciute le differenze linguistico-culturali nella loro storicità (che implica necessariamente anche caducità), sarebbe paradossale attribuire loro una “legittimità” in quanto fondamento di “comunità nazionali” che sono un portato dell’epoca borghese. Alla base di una concezione rivoluzionaria, dovrebbe esserci, al contrario, per come la vedo io, un’idea di meticciato, di contaminazione reciproca e anche – perché no? – di conflitto tra le diverse “forme di vita”. Il che implica l’abbandono di ogni identità collettiva o individuale (“identità” come alcunché di stabile e immutabile, oltreché imposto ideologicamente dall’esterno).
2) Riguardo alla guerra di Spagna, solidarity ha già spiegato come, in quel caso, una potenziale rivoluzione sociale sia stata tramutata nel suo opposto: una guerra civile in cui due frazioni della borghesia spagnola, pur condividendo lo scopo di impedire qualsiasi esito rivoluzionario, si contendevano il controllo dello Stato, in nome e per conto delle principali potenze imperialiste europee (se dietro a Franco c’erano certamente Hitler, Mussolini e la Gran Bretagna, dietro il governo repubblicano c’era la Russia di Stalin). Se questo poté accadere fu anche perché la CNT e il POUM abbandonarono il terreno della lotta di classe, cioè della lotta rivoluzionaria contro il capitalismo, per collocarsi su quello dell’antifascismo, della democrazia e dell’alleanza con la borghesia progressista. E lo fecero non solo sul piano ideologico ma, molto concretamente, organizzando l’arruolamento e la partenza dei miliziani per il fronte e invitando i propri aderenti a sospendere qualsivoglia azione di lotta (scioperi etc.): la produzione doveva marciare a pieno ritmo, per sostenere lo sforzo bellico dello stato repubblicano. Tra i pochi gruppi rivoluzionari a mantenere, senza tentennamenti, una posizione coerentemente classista e internazionalista vi furono, allora, la sinistra comunista “italiana” (il gruppo che in Francia pubblicava la rivista “Bilan”) e il gruppo di Paul Mattick negli Stati Uniti. Per la Spagna, oltre agli “Amigos de Durruti”, bisogna ricordare anche la “Columna de Hierro”.
Quanto alle collettivizzazioni furono certamente un esperimento sociale degnissimo, sebbene, come evidenziarono i consiliaristi (che per altro in maggioranza si schierarono con il movimento anarchico, durante la guerra civile), per molti aspetti criticabile sul piano strettamente economico. Il limite principale del movimento delle collettivizzazioni, d’altronde, fu quello di non porsi in termini rivoluzionari il problema dello Stato – il quale, infatti, non appena ne ebbe la possibilità, lo stroncò. Questa deficienza del movimento affondava le proprie radici proprio nell’ideologia antifascista, cioè nell’idea che il nemico da combattere fosse in primo luogo il franchismo e non il capitalismo in quanto tale; e che solo una volta sconfitto il nemico ipoteticamente più temibile, si sarebbe potuta portare a termine la rivoluzione. Sappiamo come è andata finire…
A ben guardare, lo schema è identico a quello che gli “antimperialisti” applicano, mutatis mutandis, alla questione palestinese. Dopodiché, se si vuole, da un punto di vista psicologico, tutto è “comprensibile”: il palestinese disperato e plagiato da qualche capo popolo di Hamas, che si fa saltare su un autobus provocando una strage, come il soldato israeliano che, per difendere i “suoi compatrioti”, fa il suo lurido mestiere…
Sempre a proposito della questione palestinese, vi segnalo i due testi seguenti:

http://mondosenzagalere.blogspot.com/2008/12/fawda.html
http://mondosenzagalere.blogspot.com/2008/12/riproponiamo-qui-di-seguito-una-serie_30.html

Ciao,
F.

21 luglio 2009

Detour. La canaglia a Genova.



[Il testo che segue costituisce l'Introduzione a Detour. La canaglia a Genova, raccolta di documenti e volantini della/sulla rivolta di Genova 2001, che è possibile scaricare sul sito dello Spazio di documentazione "Il Grimaldello"

“Il mondo capitalista o sedicente anticapitalista organizza la vita sul modello dello spettacolo… Non si tratta di elaborare lo spettacolo del rifiuto ma di rifiutare lo spettacolo”.

E’ passato un anno dalle giornate del G8 e il cosiddetto movimento antiglobalizzazione si appresta a celebrare l’ennesima scadenza ricordando le giornate di un anno fa soltanto per la repressione poliziesca e per la morte di Carlo Giuliani. In pochi sembrano pensare – e nessuno osa dire – che se la polizia ha represso duramente, è stato soprattutto perché si era creata una situazione che le era sfuggita di mano, e che Carlo Giuliani è stato ucciso brutalmente – rispetto ai modi molto più raffinati con cui il dominio uccide e lobotomizza quotidianamente e tanto più tristemente milioni di suoi simili – perché quel giorno, assieme ad altre migliaia di persone, aveva avuto il coraggio di ribellarsi. Il lamento e la celebrazione del lutto odierni sono gli strumenti per fare in modo che si continui a passare sotto silenzio quello che ha fatto e fa tuttora male a tutti, tanto ai fedeli servitori dell’ordine del mondo quanto ai suoi supposti contestatori.
Prima del G8 era logico ritenere che nulla di interessante sarebbe potuto accadere: la logica dell’appuntamento e la costruzione di una trappola militare, nonché il monopolio mediatico delle lobbies sinistre (tute bianche, social forum, cattolici, ambientalisti e rifondati) nella gestione della “protesta” ufficiale e concordata facevano pensare che nessun contenuto interessante avrebbe potuto trovare sfogo a Genova. In questa situazione qualcosa è invece accaduto: l’organizzazione spettacolare dei professionisti della contestazione concordata è stata rifiutata da migliaia di persone che hanno deciso di fare a modo loro e di contestare realmente il potere che si manifestava attraverso l’organizzazione dello spazio urbano e la massiccia presenza poliziesca, attaccando direttamente entrambe.
Se la lettura dei testi scelti e proposti restituisce in modo già esauriente (a partire dal testo di Montaldi sull’eredità genovese del ’60) lo scacco che è stato dato agli “opportunisti di sinistra” (magra consolazione, potrebbe dire più d’uno), ci sembra invece opportuno insistere subito sull’unico aspetto,f inora totalmente ignorato, carico di potenzialità costruttive: migliaia di persone si sono impadronite di interi quartieri di Genova (Foce, Marassi, San fruttuoso e parti di Albaro e Castelletto), liberando le vie dal dominio capitalista.
Il dibattito post-G8 nell’ambiente “antagonista” si è esaurito nel difendere lo spirito anarchico del cosiddetto black bloc dalla ridicola accusa di essere un esercito di infiltrati e poliziotti e nel legittimare moralmente l’azione diretta. Questa doppia operazione difensiva non ha permesso di rilanciare i contenuti delle giornate genovesi oltre la denuncia della feroce repressione poliziesca. Detto quanto sia poco interessante filosofeggiare non solo sulla moralità dell’atto distruttivo (su cui poche persone di buon senso hanno da ridire), ma anche sulla stucchevole distinzione tra l’incendio di un auto proletaria o di una borghese o il saccheggio di un megastore invece che di una piccola bottega (e qui le remore aumentano da parte di chi non vede nel capitalismo un sistema di relazioni sociali concrete così oppressivo da meritare un attacco senza mediazioni), vale invece la pena sottolineare il pericolo strategico e politico di un nichilismo che non sa superarsi. Gesto carico di significato e potenzialità quando compiuto da un casseur di periferia nel flusso della vita quotidiana come rifiuto per la vita di merda a cui è destinato, l’atto distruttivo diventa “spettacolo del rifiuto” - che già quarant’anni fa era stato identificato come una delle trappole più subdole tese dal recupero capitalista sulle forme di vita - quando viene proposto da un militante politico in occasione di un summit internazionale, circondato da telecamere e giornalisti.
Se il progetto radicale è quello di ritagliarsi uno spazio all’interno degli appuntamenti fissati dal dominio e gestiti dai contestatori da esso addomesticati per praticare l’azione diretta contro i “simboli” del capitalismo, non resta che riconoscere lo scacco e andare altrove, ricordando come già negli anni Sessanta, nell’Amsterdam dei Provos, le agenzie di viaggio fossero arrivate al punto di organizzare finte guerriglie urbane a cui far partecipare i turisti, e sottolineando che le vere forme contemporanee di sovversione vanno cercate nelle insurrezioni popolari che hanno scosso l’Albania pochi anni fa, e che perdurano in Cabilia e, in parte, in Argentina.
Se Seattle aveva avuto un valore per il carattere di novità che la protesta sociale aveva avuto dopo decenni di apatia totale, tutte le tappe seguenti dell’antiglobal tour avevano costituito un rapido e progressivo scadimento nella rappresentazione spettacolare della protesta. Nonostante in molti abbiano voluto fare di Genova una tappa simile a quelle di Praga, Nizza e Goteborg, semplicemente aumentata nella quantità dei suoi effetti (maggior numero di manifestanti, di vetrine distrutte e di botte della polizia), essa è stata invece ben altro, un salto di qualità. L’azione diretta sfugge alla trappola dell’estetica del nichilismo e si trasforma in occasione di costruzione di situazioni di rivolta e di libertà reali quando scavalca il muro della militanza per aprirsi alla partecipazione gioiosa di altri manifestanti, di abitanti, di passanti e di curiosi nella costruzione di spazi e di momenti di vita collettivi.
Questo è esattamente quanto è successo a Genova il venerdì 20 luglio (e non il giovedì né il sabato). I pochi black bloc che credono alla propria esistenza in quanto organizzazione e stabiliscono la relativa ortodossia militante si sono lamentati o se ne sono addirittura andati da Genova alla fine della giornata perché troppi cani sciolti non vestiti di nero hanno disertato la contestazione dei “simboli” del capitalismo. Questi perfetti progettisti di quel “rifiuto dello spettacolo” di cui lo spettacolo stesso fa richiesta non hanno capito che ciò che attrae le persone in una situazione di rivolta è una contestazione reale e immanente della vita quotidianaA Genova l’azione devastatrice non è mai stata fine a se stessa ma parte integrante di un movimento di appropriazione e godimento dello spazio urbano da parte di migliaia di persone in un clima tutt’altro che violento e parossistico (e chi non c’era lo può verificare da molti resoconti e filmati).
In realtà, come è stato fatto notare da più parti, il black bloc non è una organizzazione ma una tattica di strada, ed in quanto tale ha avuto un ruolo decisivo durante il venerdì 20: scegliendo volontariamente di disertare la trappola mediatica della zona rossa e lo scontro diretto con la polizia, e inoltrandosi in quartieri popolari affollati non solo di manifestanti ma anche di curiosi, lo spezzone “nero” ha funzionato da detonatore per la liberazione di quegli spazi. Dalle 12 alle 19 di venerdì 20 luglio, ovvero dalle prime azioni all’incrocio tra Corso Torino e Corso Buenos Aires fino agli ultimi focolai di scontro in via Donghi, buona parte della Genova centro-orientale è stata in mano ai rivoltosi, che hanno costretto la polizia ad azioni di contenimento e hanno attaccato i dispositivi di oppressione della vita quotidiana. Nell’arco di quelle lunghissime sette ore del venerdì non solo gli spezzoni di corteo antagonisti – quello più corposo che da Piazza Paolo da Novi è arrivato a Manin, via carceri di Marassi, e quello più piccolo ed avventuroso che ha raggiunto Piazzale Kennedy per poi percorrere tutto il lungomare fino a Boccadasse e ricongiungersi, attraversando Albaro, alla coda del corteo delle tute bianche – ma migliaia di persone hanno attraversato un territorio improvvisamente trasfigurato, dove tutti i segnali che quotidianamente ci ricordano il nostro dovere di sottomissione non avevano più senso (insegne commerciali, carreggiate automobilistiche, segnali stradali, ecc.) e le strade, vissute normalmente come percorsi obbligati di una vita preconfezionata, sono divenuti lo spazio di possibili avventure, i luoghi dove si costruiva la storia individuale e collettiva di quei momenti. Da tempo una città dell’occidente capitalistico pacificato non veniva liberata per così grandi spazi e per così lungo tempo da una canaglia di facinorosi.
Nonostante sia ormai da cinquant’anni al fedele servizio del capitalismo, l’urbanistica – organizzazione degli spazi urbani come funzione dei bisogni dell’economia – viene costantemente sottovalutata e trascurata tra gli obiettivi del mondo da contestare. Ma chi pensa che la "globalizzazione" non sia solo un sistema che aumenta la disparità economica tra una parte del mondo ricca e felice ed un’altra povera e triste, bensì un altro nome per definire quel totalitarismo dell’Economia sull’uomo che rende insopportabile la vita quotidiana di tutti, anche e soprattutto di noi “ricchi”, dovrebbe ricordarsi di quanta frustrazione, alienazione e oppressione passino attraverso l’organizzazione capitalista dello spazio urbano. La sistematica distruzione di ogni possibilità di aggregazione sociale e di piacere reale (non quello alienato indotto dal consumo), financo quello di circolare liberamente per le vie, è la causa principale della rassegnazione e della tristezza di milioni di persone, nonché dell’incapacità di saper creare quotidianamente forme di pensiero politico e di azioni di conflitto contro il dominio. Quando l'orizzonte della nostra vita quotidiana è fisicamente rinchiuso in una gabbia senza uscite – una città dove si esce di casa e ci si sposta solo per lavorare e consumare – la trappola capitalista ha successo. Lì finisce ogni possibilità di riscatto rivoluzionario perché “tutte le chiacchiere sulle rivendicazioni parziali non bastano a cancellare un attimo di libertà vissuta”. Quello che spesso neanche la sinistra radicale capisce è appunto che qualsiasi pretesa rivoluzionaria – per quanto fine – non può prescindere dalla sperimentazione concreta della libertà e solo la dimensione intrinsecamente sociale della città, la condivisione dello spazio, può permettere di superare l’impasse della libertà individuale non condivisa, per rilanciarla su un piano politicamente sovversivo.
Per tutti questi motivi, venerdì 20 luglio è stato un giorno di rivolta. Aver condiviso con migliaia di persone l’esperienza fisica e mentale di una nuova dimensione dello spazio urbano; aver respirato, sia pure per poche ore, l’atmosfera di un potenziale mondo alla rovescia, le cui strade non sono più i binari che portano sempre negli stessi posti, ma i terreni di avventure e di sorprese: tutto ciò è benzina sul fuoco che brucia coloro che non si rassegnano alla sopravvivenza. L’aver esperito la libertà nelle strade diventa automaticamente la base di una rivendicazione politica senza compromessi: la rivoluzione della vita quotidiana. Per le persone che sentono queste cose, il venerdì di un anno fa a Genova rimane un dies signanda albo lapillo, non un lutto da celebrare, ma una festa da rinnovare.
Soltanto un’inflazione di situazioni simili, e mai nessun tribunale, potrà rendere giustizia alla lotta e alla morte di Carlo Giuliani.

Luglio 2002

20 luglio 2009

Genova, 1960

Il significato dei fatti di luglio  

di Danilo Montaldi (1960)


[…] I fatti di luglio sono stati giudicati da buona parte della stampa nazionale come “un tentativo rivoluzionario da parte di teddy-boys e di masse esasperate” e questa opinione è stata ripresa anche da certi “uomini di sinistra” preoccupati che non venisse loro attribuita la responsabilità degli avvenimenti, dato che veniva orchestrata la campagna come se si fosse trattato di un tentativo di colpo di Stato comunista.
I fatti di luglio non sono stati “un tentativo rivoluzionario”; sono stati un’azione di difesa, ma svoltasi questa volta su un piano di classe. A Genova i giovani, i lavoratori, hanno inteso difendersi con i propri mezzi, con i propri metodi, non hanno questa volta delegato nessuno, hanno applaudito i discorsi dei dirigenti politici quando questi hanno parlato di lotta; ma nello stesso tempo non hanno aspettato che arrivasse l’ordine dall’alto (che non sarebbe arrivato, come non è arrivato); hanno stabilito nell’azione una propria, profonda unità; e hanno tratto, infine, un insegnamento dall’azione condotta.
Si è parlato quindi di teddy-boys e di masse esasperate. Ma anche questo è un giudizio interessato. I ragazzi di Genova che hanno bruciato le camionette della Celere erano dei giovani che sanno quello che fanno; sono operai e studenti che hanno maturato un profondo disprezzo nei confronti del potere che grava su ogni momento della loro vita di giovani.
I fatti di luglio sono la prima manifestazione di classe della nuova generazione cresciuta nel clima del dopoguerra: da parte della classe dirigente non sono stati risparmiati mezzi perché i giovani rimanessero imbrigliati nel sistema, ma i fatti di luglio hanno dimostrato che i giovani rifiutano questo sistema.
Sempre, da parte borghese e opportunista, quando avvengono fatti di piazza si parla di “masse esasperate”. I borghesi per ovvie ragioni; e gli opportunisti lo fanno per semplificare, così, il problema, e per dimostrare che senza la loro guida illuminata non si risolve niente. Ma i lavoratori, se sono di qualcosa “esasperati” è di sentirsi trattati nel lavoro, nella vita pubblica, nei partiti, nei sindacati, come gente che va costantemente guidata. Questa volta hanno voluto guidare loro stessi la lotta e l’hanno portata sul proprio piano, di classe.
Si sono mossi i lavoratori della Liguria, dell’Emilia, del Piemonte, i lavoratori dell’area cosiddetta evoluta del Paese, dove ugualmente il potere borghese non si è risparmiato in 15 anni per intralciare l’urto di classe del proletariato; entro quest’area il livello di vita dei lavoratori, grazie alle lotte passate, è piuttosto elevato nei confronti del resto [del territorio] nazionale, ed è in quest’area che viene praticata la politica del neocapitalismo tendente a risolvere la lotta di classe in termini di consumo e di benessere. Entro quest’area ci sono isole “privilegiate” dove tale politica ha funzionato per anni; tuttavia è stato proprio da quelle isole che è partita la risposta di piazza. Non erano lavoratori, quelli scesi contro la polizia nelle giornate tra giugno e luglio, esasperati dalla fame e dalla miseria; non erano lavoratori in preda all’elementare bisogno del pane; sono operai industriali, cui il lavoro non manca, i quali hanno dimostrato che quando cessa la fame e la miseria non cessano i motivi per mettersi contro l’attuale società, le classi che la governano, e la polizia che la difende.
Situata dunque su questo terreno, la difesa dei lavoratori e dei giovani che ha avuto inizio da Genova è stata in Italia la manifestazione politica più notevole degli ultimi anni proprio per le modalità nelle quali si è svolta e per le qualità classiste dei suoi protagonisti: i lavoratori delle zone industriali.
Ai fatti di luglio la borghesia nazionale, che già cantava da anni vittoria contro una classe operaia che si sarebbe appagata di alti salari, frigoriferi e ferie pagate, ai fatti di luglio la “generosa” borghesia nazionale ha reagito facendo sparare sui lavoratori. Ai fatti di luglio gli opportunisti, che in nome del “progresso raggiunto” escludevano che si potesse ancora ricorrere all’agitazione di piazza e cercavano di convincere tutti che soltanto in Parlamento possono essere condotte azioni efficaci, ai fatti di luglio gli opportunisti hanno reagito cercando di diminuire la portata degli avvenimenti affinché non gliene venisse attribuita la responsabilità.
Nei fatti di luglio i lavoratori, i quali sanno perfettamente che non si dà alcun progresso reale senza il loro diretto intervento sul terreno sociale, i lavoratori hanno detto no non soltanto al potere borghese ma anche agli opportunisti: a Genova è stata capovolta anche l’automobile della Camera del Lavoro dalla quale si lanciavano appelli perché l’azione venisse fermata, a Roma un burocrate del PCI che faceva opera crumira di “convincimento” ne è uscito con la testa rotta, altrove si sono verificati scontri tra lavoratori e sindacalisti che volevano rimandare tutti a casa, dovunque l’interessata indecisione dei partiti di sinistra e del sindacato è stata criticata dai lavoratori e dai giovani.
Di tutti questi fatti va condotta un’analisi che possa liberarne l’interno significato politico. 

[da “Quaderni di Unità Proletaria”, Cremona, 1960]

16 luglio 2009

Note su vertici e contro-vertici


Lo sbirro di movimento Luca Casarini si intrattiene con il suo omologo Giuseppe Grasso, dirigente della Polizia di Stato, incaricato di garantire l'ordine pubblico durante il vertice dei ministri degli esteri europei tenutosi a Riva del Garda nel settembre 2003.

[Consideriamo il testo che segue ancora attuale, malgrado la volatilizzazione del cosiddetto Movimento dei movimenti e la scomparsa dalla scena dei suoi  ormai impresentabili leader, di cui il fallimento del recente contro-vertice aquilano non segna che un'ulteriore conferma. - Lmjf]

* * * 

Note su vertici e contro-vertici

L’illusione di un centro

Il capitalismo è un rapporto sociale e non una cittadella di potenti. È partendo da questa banalità che si può affrontare la questione dei vertici e dei contro-vertici. Rappresentare il dominio capitalista e statale come una sorta di quartier generale (si tratti del G8, del WTO o di qualsiasi altro organismo simile) è funzionale a chi vorrebbe opporre a quel centro direttivo un altro centro: le strutture politiche del cosiddetto movimento, o meglio, i loro portavoce. Insomma, è funzionale a chi propone semplicemente un cambio di personale dirigente. Questa logica, oltre ad essere riformista nell’essenza e nelle finalità, risulta collaborazionista e autoritaria nei metodi, in quanto porta a centralizzare la contestazione. Di qui l’interesse, per questi sinistri oppositori così ansiosi di farsi ascoltare dai “padroni della terra”, di investire soldi e battage politico sui vertici in cui sempre più di frequente si danno appuntamento i potenti con le loro comparse. Che nel corso di quei vertici si formalizzino semplicemente decisioni prese altrove non turba certo i vari rappresentanti dei social forum: del resto, anche la loro opposizione è del tutto formale, consistendo per lo più in seminari a pagamento in cui si dimostra che il neoliberismo ha torto e l’umanità ha ragione, oppure, per i più vivaci, in qualche performance combattiva opportunamente concordata con la polizia. D’altronde, come potrebbe essere reale una contestazione sovvenzionata dalle istituzioni, rappresentata da consiglieri comunali e parlamentari, e protetta dagli storici affossatori del movimento operaio (ci riferiamo ai servizi d’ordine affidati alla Cgil in collaborazione con gli sbirri)? Il paradosso è che si chiama la gente in piazza in nome di un altro mondo possibile, nell’intento però che... non succeda assolutamente nulla. Ogni volta che una folla più o meno oceanica si sposta placidamente, sorvegliata a vista, si grida che è una grande vittoria del movimento. Eppure questi pacificatori sociali sanno benissimo che la loro capacità di porsi come interlocutori delle istituzioni non dipende tanto dal numero di persone che portano in piazza (milioni di manifestanti contrari all’ultima aggressione militare contro l’Iraq non hanno gran che impensierito i governi coinvolti nella guerra), bensì dalla forza di mediazione e di repressione che riescono a mettere in pratica – o a giustificare – contro ogni ribellione sociale. Infatti, se si parla tanto di vertici e contro-vertici, se i rappresentanti dei social forum sono accolti ai tavoli delle trattative e lusingati dai mass media, è solo perché, a Seattle per la prima volta e poi in altre occasioni, qualcosa è successo: migliaia di compagni e di giovani poveri hanno attaccato le strutture del capitale e dello Stato, hanno rovesciato i piani polizieschi dell’urbanistica aprendo spazi di comunicazione e si sono scontrati con i servi in divisa. Senza questa minaccia sovversiva – segno, assieme alle tante esplosioni insurrezionali che hanno scosso gli ultimi anni, dell’epoca in cui siamo entrati – i padroni non saprebbero che farsene dei vari Casarini ed Agnoletto. Non è successo forse qualcosa di simile con i sindacati? Ascoltati e foraggiati dal capitale nei periodi di grande conflittualità sociale con lo scopo di dividere, demoralizzare e denunciare i proletari rivoltosi, sono stati messi in soffitta in tempi più recenti; per questo ora sono costretti a far di nuovo la voce grossa contro quegli attacchi padronali da loro stessi giustificati e sanciti.
I portavoce “disobbedienti” devono allora distinguersi dai cattivi, dagli estremisti, dai violenti (cioè da chi pratica l’azione diretta) e dare visibilità politica agli altri. Da una lato, quindi, gli slogan dei vari social forum risultano perfettamente adatti ai borghesi illuminati: tassazione del capitale finanziario, regole democratiche e trasparenti sul commercio globale, più Stato e meno mercato, consumo critico, banche etiche, pacifismo, eccetera. Dall’altro, quella che vendono con le loro “mobilitazioni democratiche” è una merce pregiata: l’illusione di far qualcosa contro le ingiustizie del mondo. I contro-vertici sono, in tal senso, un ghiotto spettacolo. I pochi cattivi repressi e i buoni ascoltati nelle loro giuste rivendicazioni: fine della favola?
Il dominio sa che non è così semplice. Le proposte disgustosamente realistiche dell’opposizione addomesticata non hanno nulla da dire a milioni di poveri parcheggiati nelle riserve del paradiso mercantile e repressi dalla polizia. Una piccola riprova si è avuta a Genova: solo durante gli scontri e i saccheggi dei supermercati i giovani dei quartieri proletari si sono uniti agli altri insorti. Mentre le tute bianche con le loro kermesse apparivano ai loro occhi come dei marziani e dei buffoni, questi esclusi da ogni racket politico hanno capito al volo il linguaggio della rivolta.

Un soffio d’ imprevedibilità

Non c’è dubbio che a Seattle e a Genova, così come più recentemente a Salonicco, si è manifestata una critica senza mediazioni al dominio e a tutti i suoi falsi nemici. Malgrado la scadenza fosse stata fissata dai padroni, la gestione della piazza da parte dei riformisti è saltata. Diciamo questo pur essendo stati fra i compagni che sostenevano che Genova è dappertutto: che se il dominio e lo spossessamento sono in ogni parte della società e nella vita quotidiana, l’attacco non ha bisogno di appuntamenti fissati dal nemico. Abbiamo trovato interessante la pratica di chi, disertando la messinscena della “zona rossa” da violare e la trappola dello scontro frontale con la polizia, si è mosso con agilità colpendo e scomparendo (egregio, in tal senso, l’assalto al carcere di Marassi a Genova). Questo potente soffio di imprevedibilità, questo “federalismo” sovversivo delle azioni e dei gruppi, ha segnato un’importante rottura con la logica di chi centralizza il nemico per centralizzare (e rendere simbolica) la lotta. Riteniamo tuttavia che essere là dove il nemico non ti aspetta, lontani dalle scadenze, sia la prospettiva migliore. I contro-vertici, anche nei loro aspetti più interessanti, limitano questa prospettiva. Inoltre, senza nulla togliere, ripetiamo, alle esplosioni di Seattle e di Genova, ci sembra che rincorrere simili scadenze stia diventando un cliché, per di più divoratore di energie: finito un contro-vertice se ne prepara un altro. Sono sempre più i mass media a fissare le scadenze, al punto che, se molti rivoluzionari hanno manifestato, ad esempio, contro la guerra in Iraq, quasi nessuno è riuscito ad esprimere una qualsiasi solidarietà pratica agli insorti d’Argentina o d’Algeria. Si presta spesso più importanza a scontri che coinvolgono quasi esclusivamente dei “militanti” rispetto ad autentiche sommosse sociali e di classe.
Sappiamo benissimo qual è il motivo per cui molti compagni vanno ai contro-vertici: l’azione diretta diffusa e lo scontro generalizzato con gli sbirri è possibile solo in situazioni di massa. Essendo la prospettiva di attaccare altrove estremamente minoritaria, solo in situazioni molto allargate si può sperimentare una certa guerriglia di strada. Altre azioni si possono realizzare in qualsiasi momento, in nulla incompatibili con certe pratiche di piazza durante i contro-vertici. Eppure crediamo che alla lunga una simile pratica limiti l’autonomia di analisi e di azione (di fronte a quanti conflitti sociali siamo rimasti a guardare?), trasformandosi suo malgrado in una sorta di versione estremista all’interno del carrozzone disobbediente. Senza contare che sarà pure il caso di chiedersi come mai il potere pubblicizza così tanto vertici in cui si sanciscono decisioni già prese. Tutto ciò ci sembra un grande terreno di studio e di sperimentazione di tecniche di contro-sommossa da parte della polizia. Una sorta di trattamento omeopatico: il dominio si inocula a piccole dosi il virus della sovversione per rafforzare i propri dispositivi immunitari in vista di contagi sociali più vasti. Deve sapere come si muovono e come si organizzano i cattivi, e con quali buoni è possibile dialogare affinché nulla cambi realmente.

Un esperimento a cielo aperto

Ma i vertici costituiscono soprattutto un altro tipo di sperimentazione: vedere qual è il grado di vessazioni che la popolazione è disposta a sopportare. Portando nel “ricco Occidente” un pezzo di Palestina, con i suoi check-point, con le sue zone rosse permanenti e i suoi blindati ad ogni angolo, il dominio sta informando i suoi cittadini che, fino a prova contraria, sono tutti delinquenti; che nulla è abbastanza sicuro per l’apparato poliziesco e tecnologico; che l’urbanistica è la continuazione della guerra sociale con altre armi. Più di sessant’anni fa Walter Benjamin scriveva, nelle sue Tesi sul concetto di storia, che «lo stato di eccezione nel quale viviamo è la regola». Se questo è vero, dobbiamo capire cosa lega un lager per immigrati senza documenti agli stadi in cui vengono affastellati i rifugiati di guerra, certi quartieri popolari presidiati dalla polizia alle varie Guantanamo sparse per il mondo, alcune operazioni di sfollamento assolutamente sproporzionate rispetto agli scopi dichiarati (interi quartieri evacuati per disinnescare qualche ordigno della prima guerra mondiale) ai razionamenti di energia elettrica eseguiti senza preavviso – stile Ventennio – dall’Enel. Fin qui si tratta di esperimenti riusciti, che confermano quanto scriveva un compagno negli anni Settanta: quello del capitale è un popolo di stoici. Stravolgono la viabilità, mettono telecamere ovunque, installano antenne nocive sui tetti delle case, criminalizzano sempre più comportamenti: nessuno fiata.
I vertici sono la rappresentazione concentrata di tutto questo, la sospensione giuridica di ogni diritto. «Cosa succede?», si chiede il cittadino medio, costretto ad un insolito tragitto per andare a fare la spesa. «Niente, sono i no global», gli risponde la signora al supermercato. Intanto gli privatizzano persino l’acqua potabile, mentre la polizia è dovunque.
Ma proprio perché si tratta di una rappresentazione concentrata di una situazione quotidiana, costante e diffusa deve essere la critica pratica del controllo sociale, ad esempio attraverso la distruzione di telecamere e di altri sistemi di sorveglianza elettronica. È importante realizzare mappature sulla collocazione degli apparecchi di controllo, diffondere la loro conoscenza e sostenere teoricamente la necessità di attaccarli.

Il nuovo grugno del dominio

Il potere è sempre più sfacciato. Da una parte, i padroni sanno che le attuali condizioni sociali, sempre più all’insegna della precarietà e della dipendenza dalla merce, possono essere imposte solo attraverso il terrore: tale terrore si manifesta all’esterno sotto forma di guerra, all’interno sotto forma di paura del futuro (ad esempio di rimanere senza lavoro) oppure attraverso la repressione di fasce sociali sempre più ampie. Dall’altra, decenni di pacificazione sociale – in cui ogni ignominia è passata per la semplice ragione che non si è fatto nulla per impedire quella precedente, in un’accelerazione inaudita dell’abiezione – hanno dato al dominio un’arroganza senza precedenti. L’abbiamo vista al lavoro, ad esempio, a Genova, nei pestaggi, nelle torture, nell’assassinio di Carlo Giuliani. E continua. Il nuovo questore di Trento è Colucci, questore a Genova durante il G8, carogna patentata. Sarà lui a gestire il vertice dei ministri degli esteri dell’Unione europea che si terrà a Riva del Garda, fra il 4 e il 6 settembre prossimo [2003, ndr]. Capito il messaggio? Un comitato trentino “per la verità e la giustizia” non ha trovato nulla di meglio che invitarlo ad un pubblico confronto.

Piogge acide e foglie di fico

I ministri degli esteri che si incontreranno a Riva tra il 4 e il 6 settembre dovranno raggiungere una sorta di piattaforma comune da presentare al vertice del WTO di Cancun, in Messico, dal 10 al 14 settembre. Il tema è quello dell’Accordo Generale sul Commercio dei Servizi (in inglese GATS) che prevede, appunto, la liberalizzazione a livello mondiale dei principali “servizi pubblici”. Tra le tante decisioni in corso, la più scandalosa è sicuramente quella della privatizzazione dell’acqua, la quale potrebbe diventare una realtà per i 144 paesi membri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Si tratta di un processo avviato da tempo, visto che sette multinazionali si contendono da decenni la concessione di imbottigliare l’acqua minerale e negli ultimi anni anche quella di gestire gli acquedotti. Anche il “Tavolo trentino per un’Europa sociale” insiste sulla privatizzazione dell’acqua, e sulla sua scarsità a causa dell’inquinamento, quale emblema del neoliberismo più sfrenato. A parte le consuete lamentele sull’aspetto non democratico di questi accordi (come se quello che fanno i singoli governi fosse soggetto invece a chissà quali dibattiti pubblici...; inoltre, non erano le istituzioni statali a doverci salvare dal mercato selvaggio?), ciò che è altrettanto scandaloso, nei discorsi di questi riformisti, è lo scarto fra l’ampiezza del disastro che denunciano e le soluzioni che propongono.
Da una parte accennano a cause quali l’industrializzazione dell’agricoltura, la concentrazione delle popolazioni in città sempre più gigantesche, l’inquinamento prodotto dalle fabbriche, lo spreco d’acqua potabile per i macchinari industriali o per le coltivazioni destinate agli allevamenti intensivi di animali, insomma l’essenza stessa del sistema tecno-industriale; dall’altra propongono... nuove leggi, regole trasparenti, persino la partecipazione dei cittadini, sotto forma di Bot, alle s.p.a. che privatizzano l’acqua. Ci sono paesi interi in cui, grazie alle meraviglie del progresso, il collasso del sistema bancario lascerebbe le campagne senz’acqua; e questi cittadini fieri di esserlo vogliono altre leggi. Un po' come se, di fronte ad un acquazzone di piogge acide, si suggerisse di coprirsi il capo con foglie di fico biologiche. Le proposte dei vari social forum, ragionevoli secondo la razionalità politica e mercantile, sono semplicemente dementi dal punto di vista concreto e sociale. Non si tratta di denunciare un mondo in sfacelo, bensì di strappare lo spazio per resistere e il tempo per attaccare. Non è solo una questione di quanto si è radicali in piazza. Il punto è che vita si desidera, quanto si è sottomessi materialmente e spiritualmente ad un ordine sociale sempre più disumano e artificiale o, viceversa, per quali rapporti si è pronti a battersi.
Non c’è bisogno di andare a Riva per opporsi al racket dell’acqua. I responsabili diretti di questa mercificazione assoluta (ad esempio le grosse ditte che imbottigliano l’acqua minerale) sono a due passi da noi, sempre. Se i civilizzati non sono in grado nemmeno di difendere l’acqua che bevono – o almeno di capire che altri lo facciano in modo chiaro e diretto –, possiamo andare tutti a dormire. Anche in questo caso, è una lunga catena di dipendenze e vessazioni che oggi ci presenta un conto esorbitante. Solo dall’autonomia verso la società industriale di massa e dall’aperta rivolta contro lo Stato che la difende potrà nascere qualcosa di diverso.
Lo stesso vale, ad esempio, per la questione dei brevetti, compresi quelli sul codice genetico. Di fronte all’entrata del capitale nel corpo umano è semplicemente idiota pretendere leggi di tutela opportune. Il delirio tecno-scientifico, che consiste nel voler trasformare la natura e gli uomini in una sorta di variabili di un computer, ha superato da tempo la soglia del non-ritorno: ogni illusione di riformare una scienza interamente al servizio del dominio è solo una lugubre presa in giro. Le azioni avvenute in più paesi contro le coltivazioni transgeniche o contro i laboratori privati e statali che sperimentano sul genoma umano hanno ben dimostrato che la critica della ragion mercantile non ha bisogno di scadenze spettacolari.
Più in generale, ciò che si definisce eufemisticamente globalizzazione sarebbe impensabile senza la base materiale fornita dall’apparato tecnologico. Pensiamo semplicemente a quelli che ci vengono presentati come i fattori principali dello sviluppo e dello scontro economici e militari: l’energia e l’informazione. Quello che può sembrare un Moloch inattaccabile è in realtà una gigantesca rete formata da cavi, antenne, centraline, tralicci e ripetitori facilmente colpibili.

Riva è dappertutto

Sarà la Cgil ad occuparsi del servizio d’ordine durante il contro-vertice di Riva. L’uscente questore di Trento ha precisato – giustamente – che più i manifestanti si faranno poliziotti, meno ci sarà bisogno di questi ultimi.
Dopo lunghe trattative tra social forum e questura (gestite ovviamente dai leader nazionali), sembra che a Disobbedienti e soci il Comune metterà a disposizione un palazzetto fuori Riva, concedendo loro il diritto di manifestare (sempre fuori dalla cittadina, in strade deserte) per la domenica. Riva sarà chiusa, il che significa per gli sbirri bloccare semplicemente tre strade di accesso. Il commissariato del governo ha ordinato di vietare o sospendere ogni manifestazione (comprese quelle culturali e sportive) in più di venti Comuni del Trentino. La polizia vuole strade libere, la popolazione deve capire che il Grande Fratello non è solo una trasmissione televisiva. E noi?
Riprendiamo un filo che viene da lontano. Günther Anders scrisse, negli anni Cinquanta, «Hiroshima è dappertutto» e, negli anni Ottanta, «Chernobyl è dappertutto». Alcuni ribelli al mondo tecnologizzato dissero negli anni Novanta «Mururoa è dappertutto» (all’epoca in cui il governo francese sottoponeva quell’isola del Pacifico ad esperimenti nucleari assassini), altri compagni ripeterono due anni fa «Genova è dappertutto». Perché la rivolta esploda senza confini e contro ogni spettacolo, perché l’Apparato aspetti un nemico che non c’è e sveli ancor più il suo carattere totalitario, diciamo Riva è dappertutto. Non saremo in piazza contro il vertice dell’Unione europea, perché con le lotte di questi anni e con quelle che verranno abbiamo voluto e vogliamo battere altre strade. Perché seguendo la logica «stavolta è vicino a casa mia» non si esce dal cerchio, dal momento che i vertici si svolgeranno sempre vicino a casa di qualcuno. Perché il conflitto reale è altrove. Ci sono altri modi per opporsi alla blindatura delle città e delle vallate in cui si vive, modi alla portata di tutti. Vogliamo liberarci dalla dittatura del Numero e dai suoi adoratori. Sappiamo che è una prospettiva che forse darà pochi risultati nell’immediato, ma è decidendo noi come, dove e quando colpire, e difendendone con fermezza le ragioni, che faremo avanzare l’insubordinazione individuale e sociale.

alcuni anarchici roveretani 
6 agosto 2003
[Tratto da Guerra Sociale]

14 luglio 2009

Sull'uso della violenza

di Jean Barrot (1973) 

Cari compagni,

l’approccio “marxista” solito è senza dubbio non rivoluzionario (intendo pseudomarxista). La grande maggioranza della gente di estrema sinistra dichiara di condividere appieno la necessità di una azione armata e di una guerra civile in futuro. Per loro si tratta di un mero principio. Non si deve soltanto dire: se vuoi la pace preparati per la rivoluzione, ma anche se vuoi la rivoluzione preparati per la guerra, la guerra civile.

E’ così facile finire nel delirio che non si è mai troppo prudenti trattando questo argomento. D’altro lato la tendenza di molti gruppi politici che si rifiutano di prendere sul serio il problema va denunciata come reazionaria.

Io credo che il più delle volte i cosiddetti rivoluzionari si riferiscano alla violenza da un punto di vista puramente politico, nel senso in cui Marx ha tanto attaccato la politica: per esempio nel suo articolo del 1844 sul Re di Prussia e la riforma sociale. Il fine della politica è di cambiare il sistema di governo, non i fondamenti della società; cambiare il modo di far funzionare il sistema non il sistema stesso. Se analizziamo i gruppi della sinistra, trotskisti, maoisti o anche anarchici, noi vediamo che la loro prefigurazione di una società futura non è molto diversa da quella in cui viviamo ora. Chi porta davvero avanti il programma comunista? Chi  di loro discute davvero dell’abolizione della produzione  e del consumo, dell’abolizione delle scienze economiche e dell’economia stessa come campi separati?

Ciò che essi vogliono è un capitalismo controllato democraticamente dove i lavoratori sarebbero apparentemente i nuovi gestori… naturalmente attraverso la mediazione dei loro rappresentanti. A fatica chi fa parte di gruppi “rivoluzionari” intende la rivoluzione come l’emergere di nuovi rapporti sociali, per i quali la base materiale già esiste. Quelli che sostengono ufficialmente queste tesi, le interpretano abitualmente nel senso che un tale mutamento è possibile ora e deve cominciare ora. Questo è chiaramente un totale rifiuto della rivoluzione come si scopre nella controcultura e altrove.

Tutto questo deve risultare un po’ confuso, ma è importante realizzare che l’uso della violenza nella rivoluzione e anche prima dipende dal programma sociale della rivoluzione.

Fondamentalmente, il contenuto del movimento è quello di sempre ma la strada che percorre sarà differente. Al tempo di Marx, il proletariato doveva ancora sviluppare le forze produttive, al giorno d’oggi deve solo trasformarle, renderle “comuniste”, per così dire. Ai tempi di Marx, come nel 1920, c’era ancora una importante frazione piccolo-borghese della popolazione anche in paesi come la Germania. Il partito poteva solo mostrarsi come un corpo separato, come una organizzazione formale. Il suo compito era prima di tutto sconfiggere lo Stato e il suo esercito e solo allora iniziare a trasformare la società. Ora la trasformazione comunista della società può cominciare subito ed è già parte della pura azione militare. Noi dobbiamo rendere la borghesia e lo Stato, gli organi dell’economia capitalista, completamente superflui, distruggendo l’economia e sostituendola con il comunismo. Dal nostro punto di vista la lotta militare include ora armi sociali che non esistevano cinquanta anni fa o che esistevano ad un livello molto inferiore.

D’altro lato, dal punto di vista del capitale, lo Stato è diventato molto più efficiente di quanto sia mai stato. Certamente conoscete War without end di M. Klare. Sebbene tratti soprattutto dei conflitti nelle aree sottosviluppate, fornisce utili informazioni circa la strategia dei grandi stati capitalistici che si stanno preparando per la guerra civile nel mondo avanzato (naturalmente sono comprese URSS e Cina: il tipo di reazione cinese di fronte all’insurrezione di Ceylon è stato esemplare).

Lo Stato sa ciò che le sinistre ignorano, cioè che la trasformazione comunista è possibile ed è un concreto pericolo per la sua esistenza. Esso tenterà di isolare gli elementi rivoluzionari con l’aiuto delle organizzazioni ufficiali del movimento operaio (sindacati, partiti comunisti, socialisti, laburisti e gran parte dei gruppi della sinistra extraparlamentare). La sua strategia consisterà probabilmente nel separare le aree rivoluzionarie le une dalle altre. La sua tattica finale prevede la distruzione sistematica di queste aree, in modo da prevenire un ulteriore sviluppo del comunismo, attraverso la distruzione delle sue condizioni materiali: industria, energia, trasporti, etc.

Lo Stato non esiterà a radere al suolo queste aree se necessario, usando gli stessi metodi usati durante la Seconda Guerra mondiale (che, come la Prima, fu imperialista sotto tutti i punti di vista). Prima di giungere a questo livello di repressione, tenterà di spezzare il movimento rivoluzionario usando le sue “truppe scelte”.

Se consideriamo il problema da un semplice punto di vista materiale, la superiorità del capitale è schiacciante: la nostra sola speranza risiede in una sovversione generalizzata, e pur tuttavia coerente, al punto che lo Stato venga attaccato da ogni versante. Credo, però, che non si possano delineare ora quadri generali di tal fatta. Ci sono, invece, cose che possono essere fatte sin da subito. Prendiamo l’esempio dei Tupamaros o dei Baader: sembra che essi abbiano scelto la lotta armata per dare una specie di scossa alla società e, se si vuole, perché non sopportavano più di usare i metodi di lotta tradizionali. Questa seconda ragione non costituisce un errore: proprio non potevano fare altro. Erano stanchi e disgustati da questo mondo. Io non li critico per questo elemento “irrazionale”. Si deve però ammettere che questa tendenza confina con la pazzia. Non ho niente contro la pazzia; chi viene definito “pazzo” è solo un individuo prodotto dalla nostra società e non adatto ad essa. Questa società elimina gli elementi sovversivi anche conducendoli alla pazzia.

Questi gruppi, d’altra parte, hanno dato anche l’avvio alla lotta armata con il fine di far muovere il proletariato. Speravano di indurlo a sollevarsi. Ma si trattava di una pura illusione, tipica della politica. La mentalità politica tenta sempre di agire prima sugli altri, di organizzarli, di forzarli a fare qualcosa, mentre essa si colloca al di fuori del movimento sociale.

Il nostro compito è politico solo fino al momento in cui esso si compie con la distruzione del potere politico. Il principale compito dei comunisti non è quello di “organizzare” gli altri. I comunisti si auto-organizzano insieme agli altri e si impegnano nei compiti che emergono dai loro stessi bisogni personali e sociali, immediati e teorici.

Questo principio, sfortunatamente, è ancora espresso in una forma molto stentata. Ciò che vorrei sottolineare è che il nostro obiettivo principale non può essere l’agire sulla coscienza della gente in modo da cambiarla. C’è un’illusione di fondo nella propaganda, sia essa fatta attraverso testi scritti o azioni. Noi non dobbiamo convincere nessuno; possiamo soltanto esprimere ciò che si sta compiendo. Non possiamo creare un movimento nella società; possiamo soltanto agire all’interno del movimento di cui facciamo parte.

Trattando la questione militare, è valido lo stesso principio. E’ ovvio che bisogna esplicitare il programma militare della rivoluzione, con scritti, opuscoli, etc. A livello pratico, molte cose devono essere fatte. Ma esse devono sempre riguardare realtà che, in un modo o nell’altro, si trovano già sotto attacco o che provocano risentimento o, ancora, che si trovano in attiva contraddizione, per quanto piccola possa essere, con il movimento reale. Farò un esempio: se qualcuno è stato particolarmente nocivo per gli operai (un capitalista, un pezzo grosso), non ne segue necessariamente che lo si debba attaccare personalmente come se fosse un simbolo. Questo può risultare utile o dannoso, a seconda della situazione. Sarebbe infantile pensare che il proletariato capisca il significato del gesto e cambi concordemente idea o tendenza. Questo avverrà solo nel caso in cui il proletariato sia già impegnato in un’azione violenta di qualche tipo. Altrimenti, questo attacco finirà inevitabilmente per rafforzare lo Stato.

D’altro lato, se una minoranza organizza una azione contro l’esercito, contro un decisivo aspetto della sua funzione e del suo futuro ruolo controrivoluzionario, questo potrebbe avere un suo peso, sebbene, al momento attuale, nessuna forza sociale sembri lavorare contro l’esercito nei nostri paesi. Una attività di questo tipo aiuterà a mostrare, anche solo a poche persone, che i rivoluzionari sono già in guerra contro l’esercito. La condizione affinché ciò accada, sta nella nostra abilità a spiegare il significato dei nostri atti, che richiede almeno una certa capacità di comunicare. Al momento attuale noi siamo molto deboli, voi e noi. La sinistra ufficiale e l’estrema sinistra hanno il monopolio della comunicazione. […] Mi rendo conto che ciò che sto scrivendo è molto astratto. Tenterò allora di esprimere il mio approccio da un diverso punto di vista.

Uno dei vantaggi del capitale è rappresentato dal fatto che la popolazione, proletariato incluso, non immagina nemmeno lontanamente quanto lo Stato possa andare lontano nella guerra civile. Molti eventi futuri li sorprenderanno. E’ estremamente utile mettere in evidenza fin d’ora i tratti fondamentali della futura guerra civile. Ci piacerebbe molto entrare in contatto con elementi radicali (e persino “liberali”) presenti all’interno dell’esercito. All’inizio tali attività possono sembrare del tutto estranee allo stato attuale del movimento sociale. Ma questo non significa nulla: ci sono molti operai radicali che si pongono già ora la questione militare.

Io non credo che le Angry Brigade, Baader e gli altri “abbiano sbagliato”. Essi sono stati vittime di un tipo di delirio, dove la logica interna della violenza e l’isolamento sociale hanno partorito violenza e isolamento sociale. Io ho solo espresso punti di vista parziali. Comunque, niente di valido può essere fatto se non riusciamo a collegare la nostra attività con ciò che già possiamo sapere circa la futura rivoluzione.
Respingo l’autodistruzione. Ogni compiacenza su questo punto è irresponsabile e criminale.
Dovete aver avuto notizie delle agitazioni sviluppatesi in Francia, sulla questione della ferma militare, nei licei e nelle università.

Potreste difficilmente immaginare l’approccio ideologico dei gruppi trotskisti e maoisti (il partito comunista è naturalmente nazionalista, come è sempre stato dal 1934). Pochi giorni fa ho letto un opuscolo maoista che chiedeva il controllo popolare dell’esercito! L’estrema sinistra si rifiuta di dire: fine del servizio militare, dal momento che essa crede che l’esistenza di un esercito composto di militari di leva sia perlomeno un po’ più democratica e popolare rispetto a un esercito di volontari. I più radicali arrivano a dire: basta con l’esercito. Ma nessuno ha detto una parola a proposito della guerra civile. Se si entra nei dettagli, le cose vanno anche peggio. Questo è il motivo che ci ha indotti a scrivere un pezzo così dogmatico: almeno si stabilisce il principio che la questione militare è un aspetto necessario della rivoluzione. E’ persino divertente vedere che anche i rivoluzionari più sinceri cadano in un atteggiamento così ingenuo a questo proposito.

Vi prego di vedere in questa lettera soltanto una lettera, e non un testo vero e proprio.

Fraternamente,
Jean Barrot