Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

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«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

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«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

31 dicembre 2008

Fawda



[Tratto da Guerra Sociale, aprile 2002]

"Ricordiamoci in che modo gli altri popoli ci hanno trattato e come ci trattano ancora dappertutto, come stranieri, come inferiori. Guardiamoci dal considerare e dal trattare quale cosa inferiore ciò che ci è estraneo e non abbastanza noto! Guardiamoci dal fare noi quello che ci è stato fatto".
Martin Buber, 1929
   
Nel momento in cui scriviamo queste righe, tutto il mondo guarda ai fatti che insanguinano il Medio Oriente trattenendo il respiro. Non sappiamo se, nel momento in cui leggerete queste righe, la tensione provocata dall'occupazione militare dei territori palestinesi da parte delle truppe israeliane sarà ancora così alta, o se la pressione delle cancellerie internazionali sarà riuscita a raffreddare i bollenti spiriti militaristi del governo Sharon.
Ciò che sappiamo, ciò che ci preme dire, non può esaurirsi nei facili atteggiamenti umanitari della condanna e dell'indignazione. Di fronte a quanto è accaduto, a quanto sta accadendo e a quanto si sta preparando in quei luoghi apparentemente lontani, proviamo solo ripugnanza per chi vive nell'angoscia che la sacralità della basilica di Betlemme possa venire profanata, nella preoccupazione che la divina mangiatoia possa essere lordata dal sangue arabo; o per chi taccia di antisemitismo tutti coloro che protestano contro l'operato dello Stato israeliano, come se quest'ultimo fosse sinonimo di popolo ebreo; o per chi pretende la nostra commozione per la mancanza di luce e viveri a un palestinese aspirante capo di Stato rinchiuso nel suo bunker, circondato dai suoi nemici-rivali; o per chi cerca di mettere sullo stesso piano la violenza indiscriminata della disperazione e la violenza indiscriminata delle istituzioni, al fine di giustificare la seconda come forma di difesa dalla prima; o per chi, semplicemente, non vede l'ora che tutto questo finisca per poter continuare a rifornire di carburante la propria automobile senza spendere troppo.
Ammettiamolo. Nell'apprendere le notizie che arrivano dai territori palestinesi, la parola che ci esce continuamente dalla bocca non è quella che ci viene per prima in mente. Tutt'al più la nostra lingua dice sterminio - distruzione o soppressione spietata e talvolta metodica di un gran numero di persone - mentre il nostro cervello pensa genocidio - metodica distruzione di un gruppo etnico, razziale o religioso, compiuta attraverso lo sterminio degli individui e l'annullamento dei valori culturali. Il genocidio è molto più dello sterminio. Ma questo è un termine che in qualche modo ci rifiutiamo di usare, perché un suo utilizzo in un contesto simile minerebbe alle fondamenta molte delle certezze su cui abbiamo costruito il nostro mondo, la sua quiete e la sua prosperità.
Come possiamo chiamare genocidio quello che sta intraprendendo il governo Sharon, dopo esserci detti e ripetuti tante volte che il genocidio è una atrocità del passato, frutto del peggiore oscurantismo, che non può trovare legittimità in una democrazia occidentale moderna (come è, in fin dei conti, quella di Israele)? E poi, essendo stati vittime del genocidio compiuto dai nazisti, avendo subìto infami persecuzioni, come possono oggi gli ebrei che si riconoscono in Israele indossare i panni dei carnefici e fare ad altri ciò che in passato sono stati costretti a subire?
Tutto ciò si scontra con le nostre sicurezze, con il nostro bisogno di ordine, con la nostra stringente logica da ragionieri che determina la nostra quieta esistenza da ragionieri. La tranquillità del nostro sonno e dei nostri affari lo esige, la propaganda statale lo conferma: non c'è nessun genocidio in corso nei territori palestinesi, c'è sola una caccia senza quartiere nei confronti di crudeli terroristi che, per tragiche quanto fatali circostanze, si sta ripercuotendo duramente anche nei confronti della popolazione civile. Ma, se le cose stanno così, che dire del numero tatuato sui prigionieri palestinesi, agghiacciante riproposizione di una delle più nauseanti pratiche naziste? Che dire della distruzione di case e interi villaggi, anche questa praticata un tempo contro gli ebrei (nello specifico, dai soldati inglesi)? Che dire di tutti quei morti - bambini, donne, vecchi - che non possono rientrare di certo nello stereotipo mediatico del terrorista fanatico inneggiante alla guerra santa? Come si vede, non ci sono molte alternative di fronte al massacro in atto: o il silenzio del consenso, al tempo stesso risultato e garanzia della pace sociale, o l'interrogativo del dissenso. Ma questo interrogativo, se portato fino in fondo, fino alle sue estreme conseguenze, che cosa ci riserverà? Saremo in grado di ascoltare le risposte?
Se pure il genocidio nazista nei confronti degli ebrei è stato il primo ad essere condannato giuridicamente, tuttavia non è stato il primo ad essere perpetrato. La storia dell'espansione colonialista occidentale nel XIX secolo - che ha portato alla creazione di grandi imperi da parte dei maggiori e più potenti Stati europei - è innanzitutto una catena di sistematici massacri di popolazioni indigene (il maggiore dei quali è stato il genocidio delle popolazioni amerinde avvenuto dopo il 1492).
In poche parole, il genocidio è una arma da sempre impiegata dagli Stati. E sarebbe un grosso errore pensare che il ricorso allo sterminio di massa da parte dello Stato potesse avvenire solo in tempi passati, quando l'ambizione di conquistare nuovi mercati economici spingeva le teste coronate europee a lanciare i propri sudditi in avventurose imprese al di fuori dei propri confini. In realtà, sebbene durante l'espansionismo coloniale la pratica del genocidio risultasse più facilmente visibile, essa si verificava - come avviene tuttora - anche all'interno dei confini che uno Stato si era dato, nel corso della sua costituzione così come del suo consolidamento.
La storia degli Stati Uniti è in tal senso esemplare. Anche i gloriosi e democratici Stati Uniti sono nati da un genocidio, quello dei nativi americani, compiuto da un esercito mandato a proteggere coloni di origine europea in nome di una "libertà" ottenuta distruggendo villaggi e trucidando intere popolazioni di indiani (scatenandone naturalmente la resistenza che, a volte, assunse toni feroci anche contro la popolazione civile). Tutti sappiamo come è andata a finire: il governo statunitense si è impadronito di tutto il territorio un tempo posseduto dagli indiani, mentre ai pochi sopravvissuti è stato concesso di vivere in anguste ed insalubri riserve, storditi da svariati generi di consumo degli occidentali, ridotti a fenomeno folcloristico e ad attrazione turistica.
Gli stessi Stati europei, prima di conoscere la relativa omogeneità odierna, hanno dovuto fare i conti con la resistenza di numerose minoranze etniche. Se la questione basca o quella irlandese sono ancora di una certa attualità, è solo perché la lotta di questi popoli è riuscita a prolungarsi fino ai giorni nostri.
Ma cos'è che rende lo Stato intrinsecamente genocida? È la sua pretesa di costringere in una sorta di fittizia unità ciò che di fatto è separato. La soppressione delle differenze rientra nel naturale funzionamento della macchina statale, la quale procede sistematicamente all'uniformazione dei rapporti sociali: lo Stato non riconosce individui diversi fra loro, ed in quanto tali unici, ma solo cittadini uguali davanti alla sua autorità, perciò identici. Uno Stato si può dire costituito, e proclamarsi detentore assoluto ed esclusivo del potere, solo laddove e quando la popolazione sulla quale esercita il proprio dominio parla la sua lingua, rispetta le sue leggi, segue le sue usanze, usa la sua moneta, pratica il suo credo religioso. Quando questa riduzione, questa omologazione, non può essere imposta con metodi formalmente "pacifici", lo Stato esercita la violenza. Attraverso il genocidio lo Stato non fa che portare a termine l'eliminazione dell'Altro, momento indispensabile per imporre la propria autorità e realizzare così l'unità che gli è necessaria.
Se già nell'antichità lo Stato era genocida, le cose non sono di certo cambiate con l'avvento del capitalismo, il quale, fondato sulla ricerca continua del profitto, tende a spostare sempre in avanti i propri confini. La tanto denunciata globalizzazione, cioè il capitalismo transnazionale che sta trasformando l'intero pianeta in un unico immenso ipermercato, ne è un perfetto esempio. Al giorno d'oggi, anziché sterminare fisicamente le popolazioni indigene, si preferisce convertirle culturalmente, dopo averle sottomesse economicamente e politicamente: laddove è possibile, al genocidio si preferisce l'etnocidio. La società capitalista non è solo il più formidabile meccanismo di produzione mai creato dall'uomo, è anche la più terrificante macchina di distruzione e livellamento. Cultura, società, individuo, spazio, natura...: tutto viene sfruttato, tutto deve essere sfruttato. Ecco spiegato perché lo Stato non dà tregua a organizzazioni sociali che abbandonano il mondo alla sua tranquilla improduttività originaria. Il fatto che immani risorse giacciano non sfruttate è intollerabile per la cultura occidentale, che nel corso della storia ha imposto alle altre culture il consueto dilemma: o incamminarsi sulla strada della produttività oppure sparire.
La civiltà del capitale destruttura e distrugge tutte le forme sociali non-capitaliste, imponendo ovunque il modello del cittadino atomizzato - fondamento della democrazia - incapace di possedere una esistenza sociale al di fuori della mediazione astratta ed omologante del denaro, del lavoro e dello Stato. Se oggi i soldati israeliani si comportano con i palestinesi più o meno nello stesso modo in cui sessant'anni fa i soldati tedeschi si comportavano con gli ebrei non è perché, come vorrebbe una becera propaganda antisemita, ebrei e nazisti si assomigliano tra loro, ma perché in tutte le epoche i soldati si assomigliano. È compito dell'esercito distruggere tutto ciò che potrebbe causare la rovina dello Stato. Hitler riteneva che gli ebrei rappresentassero una minaccia per la Germania, e per questo li voleva sterminare. Sharon pensa che i palestinesi costituiscano una minaccia per Israele, e per questo li vuole sterminare. Ieri il problema non era il popolo tedesco, ma il suo Stato. Oggi il problema non è il popolo ebreo, bensì lo Stato di Israele. Domani, se le cose dovessero ipoteticamente rovesciarsi, il problema non sarà il popolo palestinese, ma il suo Stato (che, se ne avrà la possibilità, cercherà probabilmente di sterminare gli ebrei). In altre parole, non si riuscirà mai a trovare una soluzione al conflitto ebraico-palestinese finché si rimarrà all'interno delle logiche istituzionali, delle mediazioni politiche, dei trattati fra Stati.
Dopo gli attentati dello scorso 11 settembre - giacché nell'immaginario del mondo occidentale il "kamikaze arabo" incute lo stesso terrore che alla fine dell'ottocento suscitava lo "scotennatore pellerossa" - il governo di Israele ha deciso di approfittare della situazione che si è venuta a creare per fare un ulteriore passo in avanti verso la soluzione finale della questione palestinese. Se gli Stati Uniti, in nome della lotta al terrorismo arabo, bombardano l'Afghanistan, perché mai Israele, in nome della lotta al terrorismo arabo, non potrebbe radere al suolo i territori palestinesi?
Si capisce meglio come i governi occidentali non possano che pendere a favore dello Stato israeliano. Come impedirgli di fare ciò che loro stessi hanno fatto (contro i nativi americani, contro gli amerindi, contro gli abitanti delle Indie, contro i neri africani, contro gli algerini, per non parlare delle belle abissine con le loro faccette nere)? Come proibirgli di fare ciò che loro stessi stanno facendo? Come possono i governi occidentali condannare lo Stato ebraico dopo tutto quello che i loro predecessori hanno fatto agli ebrei?
Nessun impedimento, nessuna condanna, quindi, solo inviti alla moderazione e blande critiche. Alla peggio, l'applicazione di qualche sanzione: "se sterminate un popolo, si potrebbe magari sospendere temporaneamente l'importazione dei vostri pompelmi". Ma poiché il tentativo di genocidio dei palestinesi è in corso e nessuno può ignorarlo, ai vari governi occidentali non resta che una strada da percorrere. Salvare la Palestina trasformandola in Stato, offrire ai palestinesi lo stesso risarcimento offerto agli ebrei dopo la seconda guerra mondiale. Che un governo stermini fino all'ultimo esponente una popolazione non sottomessa è cosa giustificabile ed ampiamente giustificata dalla ragione di Stato: la storia, come abbiamo visto, abbonda di esempi analoghi. Ma nel mondo contemporaneo non è consentito il cannibalismo fra Stati (il che spiega la fretta dimostrata da Sharon di "sgomberare" definitivamente i territori occupati... dai palestinesi). Se vogliono sopravvivere, insistono i democratici occidentali, i palestinesi devono diventare simili a loro. Bisogna aiutarli in modo che anch'essi abbiano il proprio parlamento, la polizia, la magistratura, le fabbriche, i centri commerciali, i McDonald's, il campionato di calcio, la televisione con tante belle soap-opera e, perché no?, magari il proprio Festival della canzone.
"Due popoli, due Stati" è l'aberrante slogan che sta circolando in questi giorni, come panacea del conflitto in corso. In questa maniera i palestinesi si trovano fra l'incudine ed il martello: o spariscono dalla faccia della terra soccombendo sotto il bastone dell'esercito israeliano, o si convertono alla civiltà capitalista mangiando la carota delle diplomazie statunitense ed europee. In entrambi i casi, il risultato non cambia: i palestinesi non possono scegliere da soli come vivere.
È qui che entra in scena Arafat, il leader dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che da accorto politico sta lavorando da decenni alla costituzione di uno Stato palestinese. Malgrado l'odio che nutrono nei suoi confronti i dirigenti israeliani (ed anche alcuni arabi) e l'ostracismo di quelli statunitensi, Arafat continua ad avere un ruolo centrale nel percorso verso la normalizzazione. Non a caso tutti i governi del mondo hanno invitato Sharon a non toccarlo. Hanno ragione. Così come un padrone illuminato preferirà sempre discutere con dei sindacalisti piuttosto che vedersela con un'orda di scioperanti arrabbiati, allo stesso modo i dirigenti occidentali più intelligenti preferiscono trattare con un borghese illuminato come Arafat piuttosto che con una banda di scalmanati ribelli alla ragione moderna. Nonostante tutto, egli rimane il leader della sola organizzazione capace di inquadrare la popolazione palestinese in rivolta.
L'Olp trae la propria forza dalla sua natura ambigua. Con le sue armi, la potenza finanziaria della diaspora palestinese, i suoi appoggi internazionali ed i suoi uffici alle Nazioni Unite, l'Olp è un embrione e una caricatura dello Stato, con tutto ciò che questo comporta di sordidi appetiti, di lotte tra funzionari e, nelle zone che amministra, di oppressione diretta e di repressione feroce dei dissidenti. Ma essa è anche l'organizzazione politica al cui interno - non essendosi ancora costituita in Stato-Nazione - i rapporti umani conservano il segno di un'antica solidarietà. Un suo dirigente, che nel futuro Stato palestinese non sarà null'altro che un politicante avido di potere, riesce a mantenere ancora oggi un rapporto diretto con i combattenti che si riconoscono in lui. Ciò che è vero per l'Olp lo è ancor di più per l'organizzazione che si è data sul posto la popolazione: i quadri dei comitati popolari sono il più delle volte costituiti da militanti usciti dai diversi partiti o simpatizzanti dell'Olp, ma l'insieme dei compiti (sorveglianza dei movimenti dell'esercito, approvvigionamento, prime cure mediche...) viene svolto da tutti, giovani e vecchi, uomini e donne, e la mistica della morte in battaglia serve da cemento.
Malgrado sia vista con diffidenza dagli stessi ribelli palestinesi, e sempre più dopo l'arresto di numerosi estremisti come segnale di buona volontà lanciato verso l'opinione pubblica occidentale, l'Olp rimane tuttavia il punto di riferimento identitario centrale per la popolazione palestinese.
Per noi, nemici di ogni Stato e di ogni patria, è facile cadere nella tentazione di opporre radicalmente il sollevamento delle masse palestinesi alle trattative ed anche alle azioni armate condotte dai vari gruppi legati all'Olp, cioè distinguere il popolo palestinese dai racket che pretendono di rappresentarlo. In realtà è innegabile che la rivendicazione nazionalista occupa il cuore dei ribelli palestinesi, così come è difficile nascondersi che le azioni militari più eclatanti hanno contribuito a creare, in tutta la popolazione ed in particolare fra i più giovani, quella mistica del martirio che ha contribuito ad eccitare gli animi e a generalizzare quel coraggio che si è potuto vedere all'opera nella prima intifada (quella delle pietre), e che ora nutre la seconda. Ciò non toglie che l'esistenza di una simile mistica è, al tempo stesso, uno dei segni più evidenti dei limiti di questa rivolta di stampo nazionalista dall'anima sociale.
Si può comprendere come lunghi decenni di tirannia e la mancanza di ogni prospettiva di vita possano trasformarsi in amore per la morte in battaglia. Ma comprendere non significa condividere. L'atto di farsi esplodere in mezzo ad un supermercato, non porta solo al suicidio di qualche singolo combattente, porta al suicidio dell'intera lotta dei palestinesi per la libertà. Oltre ad essere eticamente ripugnante, è tatticamente deleterio.
Non siamo fra quelli che affermano che il suo errore è di scatenare la repressione dell'esercito israeliano, che non ha certo bisogno di simili pretesti per manifestare la propria violenza, né di fare fallire le trattative di pace, poiché non ci può essere pace laddove regna l'oppressione; è piuttosto quello di annullare e mistificare le ragioni della lotta palestinese, che sono universali malgrado le bandiere e i testi sacri in cui vengono avvolte, dietro alla rabbia della disperazione. La disperazione è cieca, capace di forza inaudita ma priva di sbocco. Il terrorismo palestinese - a differenza di quello israeliano, espressione di potere - è sinonimo di impotenza, nell'immediato perché non è in grado di distruggere lo Stato israeliano, in prospettiva perché finirà con l'allontanare la solidarietà dei ribelli sparsi per il mondo, compresi quelli presenti in Israele. Quando fanno strage fra i passeggeri di un autobus o fra i frequentatori di un mercato, quei palestinesi non colpiscono affatto lo Stato di Israele, bensì la popolazione. Dando corpo ad una violenza indiscriminata, non fanno che confermare le accuse di antisemitismo che viene loro attribuito, rinchiudendosi sempre più in un vicolo cieco nazionalista.
Ottenebrati da un comprensibile odio, centinaia di palestinesi sono pronti a morire senza domandarsi né come, né perché, né contro chi, né per che cosa. La cecità sui metodi rende ciechi anche sulle finalità della lotta, per cui si diventa o soldati dell'esercito palestinese (Olp), o devoti al Partito di Dio (Hezbollah), oppure strumenti di uno sceicco e del suo ardore (Hamas). Ciò non è dovuto affatto ad una presunta "natura" degli arabi, considerazione che vorrebbe celare il suo razzismo - gli arabi, si sa, sono reazionari! - dietro al riconoscimento delle differenze culturali.
La Palestina è stata per secoli un crocevia di popoli, luogo dalle mille culture che sapevano coabitare senza sbranarsi a vicenda. Se è diventata la terra del fanatismo più oltranzista, è perché questa situazione rispondeva a determinati interessi. E mentre una ragazza di sedici anni va a farsi saltare in aria, i leader politici e religiosi che l'hanno indottrinata aspettano di riscuotere questi interessi, frutto anche del suo sacrificio. Il terrorismo palestinese finisce dunque per essere funzionale solo allo Stato: a quello israeliano perché gli consente di demonizzare i palestinesi, a quello futuro palestinese perché invoca il proprio riconoscimento come unico mezzo per scongiurare il terrore.
Tra il potenziale di rivolta contro l'insieme di un mondo che ha prodotto le insopportabili condizioni di esistenza dei palestinesi, e gli sforzi di strappare, a partire da questa rivolta, una nicchia all'interno di questo mondo (lo Stato palestinese), esiste naturalmente una linea di frattura.
Ma questa linea è sottile ed in continua modificazione. Si snoda all'interno delle organizzazioni di base, dei gruppi sociali, dei momenti di lotta ed attraversa gli stessi individui, i loro pensieri, i loro sentimenti e le loro attività. Ma per adesso, inutile nasconderlo, questa frattura non ha molte possibilità di verificarsi, vista la mancanza di movimenti sociali non-nazionalisti a cui collegarsi. A pesare è soprattutto l'assenza di ogni prospettiva di lotta comune con gli sfruttati israeliani. Sarebbe un errore infatti pensare ad Israele come ad una società omogenea e monolitica. In realtà, la sua struttura è fortemente differenziata.
Dietro alla bella retorica sull'unità del popolo ebraico, si nasconde ad esempio la divisione fra ebrei sefarditi ed ebrei askenaziti (per non parlare degli israeliani arabi, all'ultimo gradino della piramide sociale). I primi sono quelli originari dai paesi del Mediterraneo, e costituiscono le fasce più povere della popolazione, i secondi sono quelli originari dall'Europa occidentale e dagli Stati Uniti, e costituiscono l'elite politica ed economica. A quale di queste due classi appartengono i coloni ebrei che attualmente vivono sui confini dei territori occupati e che sono i più esposti alle rappresaglie palestinesi? Sono ebrei sefarditi, naturalmente. Come nei secoli passati il colonialismo serviva egregiamente agli Stati europei anche come metodo per stornare le tensioni sociali presenti al loro interno, creando una valvola di sfogo esterna, così oggi lo Stato di Israele trova la sua unità nazionale nella lotta contro i palestinesi.
Finché gli sfruttati ebrei e quelli palestinesi non riconosceranno la loro reciproca condizione, cioè non si riconosceranno tra di loro, la lotta di entrambi risulterà monca, priva della possibilità di incidere in senso rivoluzionario nel conflitto in corso. Quanto a noi, nell'affermare la nostra solidarietà con gli oppressi palestinesi, non abbiamo alcuna intenzione di romanticizzare la loro condizione bensì di mostrare ciò che c'è di universale nella loro resistenza e opporre al pacifismo che vuole una dolce transizione verso il silenzio eterno dei mercati, la guerra sociale contro tutti coloro che sostengono il genocidio dei palestinesi (lo Stato di Israele in primo luogo, i cui interessi non sono poi così lontani da noi) o il loro civile addomesticamento istituzionale (tutti gli altri Stati, compreso l'Olp).
Come si vede non si tratta affatto di sostenere lo Stato palestinese. Non vogliamo scoprirci un giorno solidali con antiche vittime divenute carnefici, con un capitalismo nazionale che opprime per proprio conto i proletari, con dirigenti che furono compiacenti nei confronti dell'intifada poi trasformatisi in burocrati sfruttatori e torturatori. Non vogliamo sostenere uno Stato palestinese che, seguendo l'esempio di quello israeliano, tragga dal costante ricordo delle sventure del passato la giustificazione delle sue atrocità future. La questione quindi non è quella di costringere lo Stato di Israele a rispettare i diritti dei palestinesi, né di sostenere la costituzione di un nuovo Stato, quello palestinese; bensì di cominciare a praticare la diserzione, il rifiuto, il sabotaggio, l'attacco, la distruzione di ogni autorità costituita, di ogni potere, di ogni Stato.
Che la Chiesa di Betlemme venga pure rasa al suolo, se questo servirà a liberare i palestinesi; che Arafat crepi di fame e di sete, se questo segnerà la fine dell'autorità palestinese; che la disperazione si scateni con rabbia, se saprà indirizzarsi sull'esercito israeliano; che le nostre automobili rimangano ferme in mezzo alla strada, se questo sconvolgerà la nostra rassegnata complicità con il genocidio in corso. Che la questione ebraico-palestinese che accende gli animi in Medio Oriente diventi la questione sociale capace di divampare in tutto il pianeta, se questa è la sola possibilità di farla finita con la schiavitù imposta ovunque dal denaro e dal potere.
Amici di Al-Halladj

30 dicembre 2008

Florilegio sulla Palestina

[Riproponiamo qui di seguito una serie di interventi apparsi, all’inizio del mese di aprile del 2002, sulla mailing list "Movimento”]


“… questa non é la guerra di una potenza imperiale contro i popoli, ma fra Stati sulla pelle dei popoli, di più quello palestinese, un po' meno quello israeliano, meno ancora quello americano, meno ancora quello svizzero. Se continuiamo a parlare di paesi, di americani, di inglesi, di italiani invece che di esseri umani, per quanta buona volontà mettiamo, parliamo la lingua del nemico, nella quale le cose della rivoluzione non trovano voce”.

Paolo Ranieri

* * *

DA UN INTERVENTO DI PAOLO RANIERI
[...]
La “causa palestinese”, diciamolo una buona volta, per metà é un'invenzione e per metà una porcheria.
I palestinesi, intesi in tal senso gli arabi di Palestina, perché gli israeliani sono palestinesi pure loro da parecchi decenni, vengono sfruttati da tutti: stati arabi, sinistre europee, stato d'Israele, leader locali, in passato l'Urss, un tempo i britannici, quasi sempre gli Usa, e così via, per tenere in vita una guerra continua, in cui tutti costoro trovano di che guadagnare, in potere e in danaro.
Dal 1948 tutti costoro si fanno la guerra sulla pelle dei palestinesi, incitandoli a resistere, a battersi, a reagire, a farsi saltare in aria, e prima a dirottare aerei, ammazzare civili. La loro sorte é fra le più disgraziate di quest'epoca, che non lesina in disgrazie. Se un discorso potrebbe forse salvarli, o avrebbe potuto salvarli tempo fa, poteva essere quello di una rigorosa e radicale non-violenza.
Questa strada é stata sempre boicottata da leader israeliani del tipo di Sharon, ma altrettanto dalle diverse leadership palestinesi e arabe, e per molti versi anche da buona parte del fronte militante di solidarietà con la Palestina nel mondo (quelli di "A-a-a-al Fatah vincerà!").
Io trovo pazzesco e questo sì, ben poco amico della gente che vive lì e muore lì, solidarizzare con una lotta come quella dei kamikaze, dando fiato a una pratica antiumana e mortifera.
Se uno pensa che é meglio morire che continuare così, si faccia pure saltare; ma abbia la compiacenza di non mandarci altri, e di non fare il tifo da lontano per chi lo fa. La battaglia di Palestina é una battaglia spettacolare e, come buona parte dello spettacolo dei giorni nostri, una battaglia con veri morti e vero sangue.
Non é un caso che vi siano accorsi spettacolisti di un sacco di paesi a inseguire i riflettori fino in mezzo ai traccianti e alle mine.
Io credo che ciò che urga per la Palestina e per il mondo, sia una diserzione di massa, e a tale diserzione, che é diserzione dalla guerra dello spettacolo, ma pure dallo spettacolo multimediale della guerra, io invito. E non é che dico che ho ragione perché tanti stanno a casa: verifico, come tutti, che i più stanno a casa. E ipotizzo che sia perché non si sentono coinvolti, perché pensano che per loro non ci sia nulla da fare.

* * *

UNO SCAMBIO TRA “PAOLOPUNX” E PAOLO RANIERI
PaoloPunx: Quando si spara sulle ambulanze, si fanno morire dissanguati i feriti, si freddano con un colpo alla testa i prigionieri, si spara e si abbattono le case di civili come forma di ritorsione, qual'è la differenza tra questi atti ed il nazismo?
Paolo Ranieri: Nessuna. Ma va detto che anche sparare sui passanti con armi automatiche, mettere bombe dentro ristoranti e discoteche e autobus, peggio se in forma suicida, appartiene al medesimo ordine delle cose. Questa d'altronde non é una novità: un'iconografia della Resistenza fessa e interessata ci ha abituati a contrapporre gli spregevoli combattenti di Salò che morivano e uccidevano per opporsi all'invasore americano e al suo alleato, il vile badogliano, ai fulgidi combattenti partigiani che morivano e uccidevano per opporsi all'invasore germanico a al suo alleato, il vile fascista.
La differenza vera e unica con i fascisti, quelli di un tempo e quelli di oggi, consiste nel battersi per un altro mondo, dove stati, nazioni, bandiere e religioni siano solo un grottesco e inverosimile ricordo di tempi segnati dalla barbarie. I combattenti per l'affermazione di un'identità, di un diritto, di un'esclusività, sono tutti sostanzialmente identici. Anche se, certo, il coraggio di chi attacca solo un carro armato ci può suscitare un moto di solidarietà che il pilota del cacciabombardiere o il lanciatore di missili non ci ispirano proprio.
Ma, di fatto, sono composti della medesima merdosa materia prevaricatrice ed autoritaria, e solo il diverso successo li rende apparentemente diversi. Gli ebrei assassini di oggi sono gli eredi degli ebrei perseguitati d'un tempo, e i cinesi perseguitati ed offesi per secoli sono i carnefici del Tibet, e i vietnamiti, i russi, i cubani, i tutsi, gli hutu...chi si batte per una nazione, attuale o futura o passata é sempre un integrale nemico dell'umanità, prima di tutto la propria.
Cessi infine ogni solidarietà con qualsiasi lotta di liberazione nazionale, con qualsiasi discorso sui diritti dei popoli, sui diritti collettivi; basta con gli appelli all'Onu, alleanza di tutti gli stati per opprimere (perfino la Svizzera ha ceduto) tutti i viventi!
Bruciamo le bandiere, prima fra tutte il porco tricolore; liberiamo le nostre città dalle carogne in uniforme, come tanti compagni in tanti paesi, in Grecia, in Argentina, in Palestina, un po' dappertutto,con alterno successo, cercano di fare.
Ciò che davvero sorprende non é la così modesta solidarietà con l'Intifada, ma che non ci sia un'Intifada in ogni parte del mondo, in ogni villaggio, dovunque la merce e la legge opprimono e alienano.
PaoloPunx: La scusa del terrorismo da combattere è la stessa con cui i nazisti giustificavano i massacri, le rappresaglie, le fosse ardeatine, ecc. ecc. Eppure, nonostante l'evidenza, tutto è lecito, deprecabile, ma lecito! Il rispetto dei diritti umani, le convenzione come quella di Ginevra, le risoluzioni dell'ONU, sono atti vuoti, quando l'impero deve mostrare il suo volto feroce!
Paolo Ranieri: Cioé sempre: tutta quella roba é stata e sempre sarà carta igienica
PaoloPunx: Eppure molti di noi si sono chiesti: com'è possibile che un popolo come quello ebraico che ha subito, come e più di altri (gitani a parte), le ingiurie del nazismo, possa riprodurre ed utilizzare le stesse tecniche dei loro passati carnefici? Perché si é costituito in uno stato. Anzi a giudicare dalle presa di posizione di molte comunità ebraiche, ad iniziare da quella di Roma, si rivendica proprio in nome delle passate persecuzioni una sorta di eterna autorizzazione a fare qualunque cosa, a compiere qualunque atto, e chi non è d'accordo è tacciato di antisemitismo filonazista.
Paolo Ranieri: d'altronde i palestinesi non pretendono, in quanto oppressi, di essere giustificati in azioni che non si possono che definire terroristiche, intese cioè a seminare il terrore fra la popolazione civile - un proposito che può apparire interessante solo per uno stato o per chi aspiri a diventarlo, per chi , comunque, desidera, che la gente si sottometta?
PaoloPunx: Bene questi signori sono RAZZISTI, pensano che la loro sia la razza eletta (da Dio), schiacciano le altre etnie con spregio, per loro le vite dei palestinesi non valgono nulla. Questi signori sono NAZISTI, usano gli stessi metodi del terzo Reich, massacrano, non rispettano nessuno, il culto della sopraffazione ed occupazione militare anima i loro cuori, si sentono invincibili, giustificano qualunque azione in nome della rappresaglia contro il terrorismo! A giudicare dagli ultimi avvenimenti viene quasi da pensare che il problema tra ebrei e nazisti fosse dettato semplicemente dalla concorrenza!
Paolo Ranieri: in parte, anche in senso parecchio profondo, si può ben dire, certo: ma bada che quel che dici di ebrei e tedeschi, o di sionisti e nazisti (cerchiamo di fare paragoni fra enti simili, dai!), vale per tutte le nazioni e tutte le ideologie proprietarie della storia e della geografia. I popoli esistono unicamente per affermare la loro identità opprimendo e perseguitando altri popoli. La pretesa di possedere un a terra, di avere con essa un rapporto privilegiato, é l'essenza del fascismo. Nota bene che il concetto di nazione, quale oggi ci tocca conoscere, nasce nella stessa epoca, con i medesimi argomenti e ad opera delle medesime forze che scatenano il capitalismo.
PaoloPunx: Eppure il più grande errore che si potrebbe fare è quello di finire anche noi per giudicare tali persone dall'appartenenza ad una razza! Io non ho nulla contro persone di etnia ebraica, ma considero razzisti e nazisti sia SHARON che la maggior parte delle comunità ebraiche (o per lo meno i loro portavoce)
Paolo Ranieri: va detto che la maggioranza degli ebrei della diaspora non si considerano appartenenti ad alcuna comunità, e gli israeliani credo si facciano rappresentare da Sharon più o meno quanto noi ci consideriamo rappresentati da Berlusconi Sono governanti, ed agiscono sfruttando e distorcendo le forze del loro stesso popolo, sono i suoi primi nemici. Come Arafat d'altronde, per i palestinesi.
(…)
PaoloPunx: Considerare tutti gli italiani berlusconiani o tutti i tedeschi del 1935 dei nazisti sarebbe veramente sciocco, così come considerare tutti gli ebrei dei nazisti sionisti; però proprio coloro che si dicono tanto preoccupati della rinascita dell'antisemitismo oggi ne sono i principali responsabili. Quello che a me preoccupa è l'assordante silenzio degli ebrei nei confronti di questi atti oggettivamente nazisti. Così sembra che tutti siano d'accordo, rivendicando un triste primato: gli unici che possono fare i nazisti siamo noi, perché siamo stati perseguitati dai nazisti..Ora è evidente che ciò che sta accadendo in Palestina goda di un evidente appoggio del governo USA e che le truppe imperiali utilizzate nelle recenti guerre "umanitarie", nonostante le violazioni di risoluzioni ONU e di diritti siano ben più gravi che in precedenza, rimangano in caserma o peggio preferiscano scorazzare altrove (Afghanistan, Iraq, ecc.). Sarebbe un dramma se anche noi pensassimo di risolvere il problema con un bell'intervento militare multinazionale (imperiale). Quello che invece dovremmo praticare è un sano boicottaggio dei prodotti israeliani, meglio ancora dei capitali che vengono trasferiti dagli Usa e dalle varie lobbie ebraiche allo Stato di Israele per sanarne i bilanci di guerra, chiedendo....
Paolo Ranieri: al governo italiano?
PaoloPunx: ...anche l'immediata interruzione di ogni rapporto diplomatico commerciale con Israele ed il disconoscimento di quello Stato, perlomeno fino al totale ritiro dai territori occupati durante la guerra dei sei giorni!
Paolo Ranieri: non sei l'unico a operare una distinzione stramba fra l'occupazione del 1948, riconosciuta legittima, a fronte di una pretesa illegittimità dell'occupazione del 1967; in effetti, non c'é una vera logica a far questo, salvo che uno sfoggio (ma con chi? stati e individui non comunicano fra loro) di moderazione
PaoloPunx: Quelli che oggi si nascondono gridando all'antisemitismo sono in realtà complici di un fottutissimo stato nazista e perlomeno dovrebbe avere il buon gusto di tacere!
Saluti e baci Paolo Punx
Paolo Ranieri: In sostanza, gli stati sono tutti razzisti, nazionalisti e socialisti - proprio come i nazisti: non sempre per esprimersi necessitano di carri armati e cacciabombardieri. Se la popolazione é quieta bastano, ad esempio, i carabinieri. Ma se vai a vedere i nostri centri di detenzione, vedi la faccia vera dello Stato. O un carcere, o un manicomio. La questione é semplice, dove esiste legge, non esiste libertà: che la legge l'abbiano votata i disonesti che hai eletto tu (come in Italia), o che ha eletto un altro (come tocca ai palestinesi) o un monarca (come in Arabia Saudita) o una cosca di pretacci (come in Vaticano o fra i Talebani), non cambia nulla. Ogni volta che incontriamo un poliziotto o un militare, in qualsiasi parte del mondo, ricordiamoci che abbiamo di fronte un collega dei massacratori di Betlemme, di piazza Tien An Men, di Genova. Per trovare nazisti non occorre andare a Tel Aviv: sono sotto le nostre finestre a pattugliare il mondo…
Paolo R.

* * *

DA UN INTERVENTO DI FABRIZIO
A mio avviso faremo ben poca strada se continueremo a valutare la cosiddetta questione palestinese soltanto in termini “etici” o “umanitari”. Condivido appieno quanto si è detto circa l'incompatibilità tra una prospettiva di "liberazione nazionale” e un’autentica lotta di liberazione dal dominio e dallo sfruttamento.
Se la prima, infatti, richiede il sacrificio di sé, della propria autonomia individuale, in nome della sacralità religiosa di una "causa" che trova la propria legittimazione in astrazioni e costrutti ideologici, quali i concetti di popolo, nazione, razza etc.(il gesto disperato del kamikaze che si fa saltare in aria è soltanto la variante più estrema di tale sacrificio), la seconda, invece, é la pratica attiva della propria libertà e delle proprie passioni, non tollera capi né autorità, è lotta contro ogni forma di dominio, contro ogni gerarchia etc.; essa acquista carattere universale perché distrugge tutte le identità parziali preesistenti: è lotta di liberazione dell'intera umanità.
Astraendo dalla oggettiva disparità delle forze in campo, la logica che muove lo Stato israeliano e i proto-Stati costituiti dall'Anp o dalle altre organizzazioni politico-militari palestinesi, è perfettamente speculare: è la logica mortifera del dominio e dello sfruttamento! Non è difficile capire che ci troviamo di fronte a due opposti terrorismi (di Stato), le cui vittime sono indistintamente tutte le popolazioni coinvolte: i palestinesi, massacrati dai carri armati e dai cacciabombardieri israeliani, così come gli israeliani, dilaniati dagli uomini-bomba che si fanno saltare nelle discoteche e nei ristoranti.
Vittime di questa situazione sono in primo luogo i proletari, palestinesi, israeliani e di ogni altra parte del mondo, che, stretti nella morsa delle identità nazionali, religiose razziali etc., si scannano a vicenda, mandati al massacro dalle rispettive borghesie nazionali (Al Fatah e Hamas che cosa rappresentano, se non la borghesia nazionale palestinese?).
Per evitare di appiattirsi su posizioni nazionaliste, come fa larga parte della sinistra sedicente rivoluzionaria, è necessaria un'analisi materialistica puntuale, che vada oltre il livello simbolico-ideologico delle identità, e tenga conto di tutti gli attori e gli interessi in campo, delle dinamiche sociali e di quelle economiche, e infine dell'oggettivo intrecciarsi - a incasinare ulteriormente il tutto - di conflitti inter-imperialistici e lotta di classe. Questo sforzo critico costituisce sempre un passaggio ineludibile, se si vogliono individuare le forme di lotta più adeguate, da un punto di vista di classe, a un dato contesto.
Detto questo, mi rendo conto del carattere sostanzialmente “onanistico” del discorso, considerato che noi tutti ben poco possiamo incidere sulla specificità della situazione palestinese - se non, appunto, abbandonando ogni atteggiamento da "tifoseria" e praticando qui ed ora il conflitto e la sovversione sociale. Vedrò, comunque, di abbozzare alcune considerazioni (non mi sono mai interessato in modo specifico alla “questione palestinese”, quindi perdonatemi eventuali inesattezze).
Lascerò da parte l'analisi del ruolo svolto, negli ultimi 50 anni, dagli americani e dagli europei, il cui interesse al controllo geopolitico di un'area strategica, in primo luogo dal punto di vista dell'appropriazione delle risorse energetiche, è evidente. E' interessante soltanto notare, en passant, come Stati Uniti e Unione Europea non siano esattamente in sintonia riguardo alla "questione palestinese". Che si tratti, in barba alle tifoserie negriane, di un malcelato conflitto tra opposti imperialismi? Sta di fatto che l'adozione dello slogan "due popoli, due stati", da parte di svariati governi e diplomazie europee, dovrebbe indurre quantomeno qualche sospetto.
D'altra parte, sarebbe interessante, per comprendere quali interessi siano effettivamente in gioco, sapere, ad esempio, da dove provengono le armi e i finanziamenti che alimentano l'attività politico-militare delle organizzazioni nazionaliste palestinesi.
Ma passiamo ad aspetti della faccenda che sono senz'altro di maggiore interesse. Credo che si possa ravvisare nella politica omicida che lo stato di Israele ha adottato nei confronti delle popolazioni arabe di Palestina, sin dalla sua costituzione nel 1948, qualcosa di molto simile a quanto il vecchio Marx definiva i "metodi dell'accumulazione originaria del capitale".
L'espropriazione delle terre e le deportazioni hanno di fatto prodotto un enorme serbatoio di forza-lavoro a bassissimo costo. Prima della "seconda Intifada", su 4 milioni di profughi palestinesi circa 500.000 lavoravano in Israele, per la maggior parte ai gradi più bassi della gerarchia salariale (per tacere degli infimi "costi di riproduzione" di questa forza-lavoro, considerato che le popolazioni dei campi profughi non sanno nemmeno cosa siano servizi sociali e “welfare state”). La stessa militarizzazione dei “territori” - veri e propri bantustan in cui i palestinesi vivono segregati in condizioni di estrema miseria - e le politiche volte allo sviluppo degli insediamenti dei coloni, si pongono l’obiettivo palese di impedire lo sviluppo di una economia (capitalistica) palestinese e di mantenere alcuni milioni di proletari in uno stato di dipendenza estrema e, quindi, a totale disposizione dell'apparato economico israeliano.
Anche ammesso che si giunga alla costituzione di uno Stato autonomo e di una economia nazionale palestinesi (esito che non escluderei a priori, sul lungo periodo, vista la complessità degli interessi imperialistici in gioco), come ci si può illudere che la borghesia locale, rappresentata da Arafat e soci, elargirebbe gratuitamente ai proletari migliori condizioni di vita e di lavoro? Come si può supporre che essa si manterrebbe in qualche modo autonoma rispetto a questo o a quell'imperialismo? E anche in questo caso, che cosa cambierebbe dal nostro punto di vista, che è quello della rivoluzione sociale?
Questa guerra, oltre ai massacri, alle distruzioni, agli attentati suicidi, porterà, in generale, ad un deciso peggioramento delle condizioni di esistenza di tutti i proletari: sia di quelli israeliani sia (se possibile) dei loro più sfortunati omologhi palestinesi. Mi sembra incredibile come gli effetti esiziali che la guerra inevitabilmente produce a danno degli sfruttati - e che in tanti sono pronti a denunciare, quando i conflitti hanno come protagonisti i governi imperialisti americani ed europei – divengano ora invisibili agli occhi dei più. Misteri dell'ideologia...
Quando parliamo dell'opportunità di disertare questa guerra, non facciamo che rilanciare quell'opzione antimilitarista che dovrebbe essere patrimonio di tutti i rivoluzionari! Disertare, per i proletari palestinesi, non significherebbe affatto accettare passivamente la propria sorte ma, al contrario, uscire dalla passività dell’alienazione capitalista, per praticare finalmente una lotta autenticamente liberatoria. E in ogni caso, ammesso che ci si voglia porre come obiettivo, quello "parziale" di un semplice miglioramento delle proprie condizioni di sopravvivenza, questo avrebbe ben poco a che spartire con la costituzione di un nuovo Stato e di una nuova patria.
Saluti
Fabrizio

27 dicembre 2008

Erotismo e pornografia in carcere

Intervista radiofonica a Riccardo d'Este


Riccardo:
Francamente, in tutta la mia vita, la pornografia mi è sembrata come qualcosa di sporco, da rigettare. Poi succede che, ovviamente per volontà non mia, finisco in galera e la mia sessualità va a finire nella pornografia. A un certo punto compri Le Ore e gli altri giornali pornografici e lì vedi che questa pornografia non è poi così falsa, nel senso che in modo abnorme rappresenta alcune cose che tu desideri. In concreto, quando vedi la signorina che si becca tre cazzi in bocca, probabilmente è anche un tuo desiderio di vedere questo, cioè probabilmente non lo faresti mai, ma l'idea in qualche modo ti coinvolge e soprattutto lì, nell'impotenza. In galera non puoi farlo! Allora lo proietti.
La pornografia che cos'è? è semplicemente un assurdo ideologico? Io non sono così convinto. Oppure è un qualcosa di desiderato e non praticato? Voglio dire che nella pornografia viene esasperato, quasi in modo ridicolo, qualcosa che tutti noi sentiamo.
Ciascuno ha un problema grosso che è quello della sua sessualità. Io, che mi eccito pensando che la mia donna faccia i pompini o scopi con un altro, senza volere assolutamente che mai ciò succeda, perché questo diventerebbe in qualche modo negativo per la mia identità, lo riverso nella pornografia e lì vedo la signorina che fa i pompini a Giuseppe, a Giovanni e a Marzio. Quindi la pornografia è una valvola di sfogo.
Quando sei in galera sogni tutto! - perché non puoi avere niente - e trovi la sintesi geniale. La sintesi geniale è che vorresti fare tutte le cose possibili e immaginabili. Quando esci dalla galera non puoi fare tutte le cose possibili e immaginabili! Perché ci sono dei limiti oggettivi quali la gelosia e il comportamento degli altri.
La pornografia ha questa capacità, perché di ciò si tratta, di esprimere quello che tu non esprimi, che tu non hai il coraggio di esprimere perché nessuno ha il coraggio di esprimere fino in fondo i suoi tumulti interni sessuali. La pornografia te li fornisce.
Io ricordo Cicciolina che si prendeva tre cazzi in bocca. La cosa detta così fa evidentemente ridere.
È una cosa buffa tre cazzi in bocca, senza senso, non ha nessun senso! Nel contesto erotico, cioè che lei era capace di beccarsi tre cazzi in bocca...

Aurifex:
Ma come si erano posizionati i tre?

Riccardo:
Erano allineati!

Aurifex:
Ma non contemporaneamente!

Riccardo:
Sì, certo, contemporaneamente! Se siamo in tre qua ce la fa anche Roberta!

Roberta:
Nei tuoi sogni!

Riccardo:
Ma tecnicamente non è impossibile! Uno qua (indica la parte interna sinistra della bocca), uno qua (indica la parte interna destra della bocca) e uno qua (in mezzo agli altri due). Davvero ci si arriva!
La mia prima risposta era sul ridicolo, la seconda era che non mi sarebbe dispiaciuto essere in questo giro! Nel giro dei tre! La terza risposta, la più interessante, secondo me, è che ciò in qualche modo mi coinvolgeva: la donna-troia, i molti cazzi in bocca... cioè la pornografia gioca su questo piano che è, a mio avviso, un piano sbagliato e che però ti coinvolge, che ce l'hai dentro! È una malattia che tu hai dentro.
Per finire penso che la pornografia sia assolutamente essenziale. Sicuramente la mia fidanzata, che è qui presente, direbbe che no, mai si farebbe mettere una banana nella fica, però secondo me sì. Secondo me c'è qualcosa nella psiche umana che vuole la trasgressività, almeno per il sesso, e la trasgressività è un po’ normale; cioè alcune cose che puoi fare altre che non puoi fare: il cambio delle coppie, le ammucchiate ecc. tutte cose, diciamo la verità, poverine e la pornografia è quello che le rappresenta.
Il desiderio pornografico - e ho desideri pornografici, abbiamo desideri pornografici - esiste perché non riusciamo ad avere desideri liberati.

Roberta:
In che rapporto vedi la pornografia e l'erotismo?

Riccardo:
Credo che l'erotismo sia un qualcosa che, tutto sommato, ciascuno esprime. L'erotismo è la voglia di succhiare una tetta o il cazzo che ti tira, qualcosa di fisiologico. La pornografia no. La pornografia è laddove c'è l'assenza e la sostituisci con la presenza. Mi spiego. Quando mi facevo le seghe in carcere non me le sarei MAI potute fare vedendo la Cuccarini piuttosto che la Carrà, però in una situazione pornografica, immaginandoti in quel contesto, ci riuscivo. La pornografia è la sostituzione dell'erotismo. Laddove l'erotismo non c'è per motivi svariati, cioè dove non riesce a esprimersi in quanto tale, la pornografia ne è la sostituzione.

Aurifex:
Fuori dal carcere hai ritrovato una sessualità normale?

Riccardo:
Dopo che hai vissuto quella sessualità frastornata, deviata, fuorviata ecc. è difficile che tu ritorni a quella normale, nel senso che tutti i tuoi fantasmi erotici vissuti nel carcere, in qualche misura li trasporti fuori. È chiaro che questo ha un suo tempo, e con il tempo le tue follie erotiche, pornografiche vanno discendendo.
Per fare un esempio, uscito dalle prigioni, con le varie signore o signorine con cui ho avuto rapporti... beh... insomma... per me era molto interessante - anche perché era nella cultura pornografica - pisciarsi addosso. Passato un certo tempo può essere interessante, curioso, erotico, ma non è decisivo. Lì invece sei sottomesso dalla pornografia. La pornografia ti ha fatto credere che alcuni gesti erotici siano quelli che poi, a loro volta, ti danno la "soddisfazione" - per ridere si dice la soddisfazione - e mimi questo, lo fai. È chiaro che quando ti liberi da questo tipo di costrizione, perché in qualche misura sei più normale, questo non diventa così importante; diventa bello quando è un gioco erotico ma ininteressante se non lo è, mentre invece lì, nel gioco pornografico, lo è.
Penso che la pornografia abbia questo aspetto infame, di farti credere che un piacere lo sia in quei modi lì. Il piacere è vero che c'è anche in quei modi lì. Cioè il pompino: buona e santa cosa. Però se tu lo estranei e lo vedi come un gesto pornografico non è la stessa cosa. Lo stesso gesto materiale visto in una chiave pornografica e in una chiave erotica è una cosa completamente diversa.
Sono a favore della pornografia fintanto che può aiutare l'erotismo e sono assolutamente nemico quando è rappresentazione, cioè quando taglia le palle all'erotismo.

[Fonte: intervento trasmesso durante la seconda puntata di THE ATROCITY EXHIBITION, in onda su Radio Kamasutra Centrale (Bologna), lunedì 7 novembre 1994. Tratto da Filiarmonici]

Carcere: il coraggio necessario per abolirlo

di Riccardo d'Este (1990)



«Un, due, tre ... liberi tutti!» (Formula rituale di un gioco, il "nascondino")

Il proposito di abolire il carcere, nonché ogni forma di prigionia, è senza dubbio saggio, nobile, ammirevole e, soprattutto, radicalmente umano. Personalmente, posso e voglio definirmi un abolizionista e senza ombra di dubbio. Purtroppo, però, quando ci si addentra nella questione nei suoi aspetti teorici e, com'è necessario, in quelli pratici e propositivi, ci si accorge di aver messo la mano in un nido di vipere, tutte altrettanto seppure diversamente mordaci, o, se proprio va bene, di avere di fronte un gioco di scatole cinesi. Un problema rimanda ad un altro, un'ipotetica soluzione ne azzanna un'altra, tuttavia non meno ipotetica, e via andando.

Non è un caso che:

1) le ipotesi abolizioniste (del carcere) siano state a lungo estranee alla teoria, spesso scaduta in ideologia, che si è pretesa rivoluzionaria; per limitarci all'Italia, la frazione sedicente rivoluzionaria, comunista o anarchica che si definisse, ha sempre preferito aggirare la questione attraverso formule tutto sommato sloganistiche (dall'immondo "fuori i compagni dalle galere, dentro i padroni e le camicie nere" - che riproponeva, anzi esaltava, la natura della segregazione carceraria, limitandosi a cambiarne il segno meramente politico - al più generoso "da San Vittore all'Ucciardone, un solo grido: evasione" - mentre sappiamo che di evasioni ce ne sono state assai poche ed in congiunture particolari e che comunque non poteva essere, questa, una soluzione che aspirasse alla necessaria generalità; passando attraverso al "...tutte le carceri salteranno in aria", quando, in verità, le poche - in costruzione - che sono saltate parzialmente in aria sono state tutte condotte a termine, con enormi vantaggi per gli appaltatori e nessuno per i detenuti);

2) all'interno del movimento abolizionista, pur assai esiguo ed in specie in Italia, ci siano delle differenze di sostanza che coprono quasi l'intero arco delle opinioni: da chi ritrova disutile il carcere per le nostre società (magari parzialmente e dunque deputandolo solo come luogo di contenimento dello "zoccolo duro" della devianza, comune o politica che sia) a chi lo riprova per ragioni essenzialmente etiche, umanitarie; da chi propone e si propone soluzioni "alternative" maggiormente compatibili con le culture e le società moderne, a chi esalta, diremmo stirnerianamente, solo l'individuo (anzi, bisognerebbe scrivere l'Individuo) sottolineandone l'u/Unicità e, dunque, abolendo società e comunità - almeno nei concetti, visto che in pratica è ben altro affare;

3) le ipotesi abolizioniste, ed i movimenti che ne sono conseguiti, siano state per lo più - tranne casi eccezionali - avanzate da "esperti", "specialisti" del settore; il che, è ovvio, non le squalifica di per sé, ma ci dà in certo modo la temperatura della discussione: come quasi sempre avviene per la malattia, di essa si occupano soprattutto i malati medesimi e chi se ne interessa "professionalmente" o "scientificamente"; acutamente T. W. Adorno notava, in Minima moralia, come i malati non sappiano parlar d'altro che delle loro malattie; possiamo aggiungere che i professionisti non sanno parlar d'altro che delle loro professioni.

Tutto ciò detto per amor di verità, bisogna comunque tentare di cacciare la mano in questo nido di vipere o, se si preferisce, dissacrare l'apparente magia delle scatole cinesi.

La prima questione che si pone è la seguente: è possibile, oppure no, abolire il carcere? Immediatamente ne segue una sorta di schieramento. Per un "radicale", se è possibile, allora significa che questa abolizione è nell'interesse della società presente, che peraltro egli vuole combattere, cambiare o distruggere, e dunque non vale troppo la pena di occuparsene; lo faranno comunque altri e, in ogni caso, questa "abolizione" sarebbe soltanto spettacolare, mentre verrebbero rinnovate e rimodernate le forme di controllo sociale e perciò di prigionia in senso ampio. Per un "riformista", se è veramente impossibile, è piuttosto utile mettere mano a delle modificazioni che, da un lato, lascino fuori dal carcere quanti più possibili e, dall'altro, "ammorbidiscano" le condizioni di quanti dentro ci restano.

Il "radicale" rischia di disinteressarsene, se non attraverso vaghe e fumose dichiarazioni di principio, affaccendandosi, nel frattempo, in altre faccende e lasciando mano libera ai professionisti del "problema", aspettando un momento catartico x o y o z, in cui tutto si risolverà e che, onestamente, pare del tutto improbabile, almeno sotto questa formulazione. Il "riformista", quale che sia la sua indole e natura, rischia di contribuire alla perpetuazione ad aeternum di carceri, leggi ecc., attraverso il loro addolcimento, la loro modernizzazione, e soprattutto di accettare quella che per molti versi sembra essere una tendenza sociale: da un lato, le "misure alternative", per chi ha commesso reati lievi o è stato condannato a pene spropositate (com'è stato in Italia nel periodo della cosiddetta emergenza, che peraltro si rinnova costantemente, con sempre nuovi soggetti/oggetti) ed ha già scontato una parte sufficiente (?) della pena o per chi si è ravveduto e corretto o, infine, per quelli che non sono ritenuti socialmente pericolosi (l'omicida della moglie/marito ha incommensurabilmente più possibilità di ottenere dei "benefici" che non il rapinatore/trice; va da sé non è che uno si sposi tutti i giorni e pochi giorni dopo si liquidi il coniuge, mentre il rapinatore può averci preso gusto, aver constatato che in cinque minuti poteva passare da una condizione di miseria ad una di relativa abbondanza e, dunque, essersi preso il vizietto); dall'altro lato, il "bagno penale" per chi, per una qualche ragione, viene considerato irrecuperabile, a cui, sostanzialmente, viene applicata una pena di morte differita; non paia strano questo concetto di bagno penale, di Cayenna moderna, perché questo già avviene, nelle carceri speciali di tutti i paesi (non soltanto nell'Italia convulsa e percorsa da molti fremiti sociali, ma altrettanto nell'ordinata e tranquilla Svezia) e soprattutto perché questo, e da anni, è stato paventato da lucidi "democratici sinceri" (a ciascuno il suo) che, proprio per essere rotelle dell'ingranaggio, si sono resi conto di dove la macchina tende ad andare; non deliri estremistici, quindi, né paranoie di detenuti in vena di protagonismo, ma franche osservazioni di "operatori" non del tutto ottenebrati dal mestiere.

Come sempre, tra due errori non se ne può scegliere uno e privilegiarlo, benché, per quanto a me attiene, veda con occhio assai più sospettoso, data la mia indole selvatica, l'attività del preteso riformatore che non la passività del sedicente radicale.

Ma senza troppe ciance, è realistico o irrealistico ipotizzare l'abolizione delle carceri? Per il momento, lasciamo la domanda in sospeso, affermando però che è un gran bene che si cominci ad interrogarsi su questa possibilità (e, d'altronde, il comunismo è possibile, fuori e contro gli squallidi esempi del cosiddetto socialismo reale? E l'anarchia, al di là delle chiacchiere - ed a dispetto di esse - di coloro che si chiamano anarchici? E l'acrazia, di cui i più non conoscono neppure il significato terminologico?). Non solo. E' essenziale che si formi una cultura - nemica di tutte le culture stereotipe - che ponga come uno dei suoi centri, dei suoi "soli", il progetto dell'abolizione di ogni carcere.

Di corsa, quasi trafelato, arriva il secondo problema: è possibile l'abolizione del carcere senza il parallelo e contemporaneo disuso delle leggi, dei codici, delle sanzioni? E' evidente che è il carcere a spiegare i codici e non viceversa. Salta agli occhi che un corpus giuridico che non avesse alcuna applicazione pratica, sarebbe un mero esercizio ideologico o letterario. L'articolo di legge vale perché presuppone una pena, e la pena vale perché vi sono delle concrete forme di sua attuazione. Al ladro si può mozzare la mano o lo si può incarcerare per un certo tempo, ma, in qualsiasi società, non si può affermare che il ladrocinio è reato ed è immorale e non prescrivere alcuna sanzione per chi, alla faccia dei consigli morali, lo compia allegramente e, per giunta e disgrazia, si faccia acchiappare. Il carcere è sicuramente un fenomeno storicamente determinato e, dunque, in quanto tale, soggiace alle leggi della storia: può anche scomparire, ma non può eclissarsi la sanzione - non il suo mero concetto, bensì la sua concreta pratica - e, pertanto, senza dubbio siamo obbligati ad affrontare la grande questione: che senso ha qualsiasi legge, che autorizzi o vieti checchessia?

Un pensiero abolizionista coerente non può limitarsi a preconizzare l'abolizione di ogni carcere "formale" (diremmo murario) ma deve proporsi anche la soppressione di quelle forme di carcere immateriale, diffuso, che comunque rimandano alla prigionia ed al controllo sociale. Affinché ciò sia realistico, vanno dismessi il concetto di sanzione penale e soprattutto la sua materializzazione pratica. L'abolizione di ogni codice penale sembra, quindi, essere nel contempo la premessa e la conclusione di un'ipotesi abolizionista del carcere. Ma tutto ciò è realmente proponibile, vale a dire ci si può "seriamente" lavorare sopra? Voglio dire: al di là dei vagheggiamenti collettivi o soggettivi, il cui massimo esempio resta tuttora l'appello di Sade, Francesi, ancora uno sforzo..., contenuto in La philosophie dans le boudoir, che rimane un testo effettivamente scandaloso non per i multipli e molteplici accoppiamenti sessuali ed orgiastici, quanto piuttosto per questa invettiva e per la filosofia che vi è sottesa. In altre parole, oltre le utopie, di cui "abbiamo bisogno" ma che del pari risultano "ripugnanti" perché smascherano il totalitarista che è in noi, per la ragione semplice e sufficiente in sé che, quale che sia il sistema di governo che regge l'utopia in questione, esso è sempre presieduto da un dittatore assoluto: l'«autore», come scrive pregnantemente T. M. Disch, nella società storicamente determinata - l'attuale, compresi i suoi potenziali sviluppi - ha senso l'ipotesi di abolire non solo le carceri, ma ogni forma di prigionia; non solo tutte le prigionie, ma le sanzioni penali che le determinano; non solo le sanzioni penali ma le leggi da cui necessariamente discendono?

La risposta non è affatto scontata. Infatti si può tranquillamente asserire che no, non è molto probabile e forse nemmanco possibile. Ma, con altrettanta tranquillità, si può sostenere che sarebbe necessario. E, ciò che è necessario, quando assume la coscienza della sua necessità, diventa possibile, addirittura probabile.

Ma una simile questione ci porta ancora più lontano. E, come sempre, si creano gli schieramenti. Da quello gradualista ("iniziamo ad eliminare gli effetti più nefasti di questo sistema") a quello estremista ("non si possono modificare degli aspetti di questa società senza rovesciarla completamente"); da quello "neoilluminista" ("è necessario che la società nel suo complesso si renda conto del disastro mentale, sociale ed ecologico a cui va incontro, e si fornisca degli antidoti") a quello "ipersoggettivista", che sussume neoleninismi, neobakuninismi e neostirnerismi secondo queste varianti: «va imposta la ragione della Storia, da parte di alcuni organizzati in nome di tutti», «è solo la collettività che può decidere, ma essa va indirizzata da chi si è reso conto delle esigenze generali», «è solo l'individuo che deve prendere coscienza della sua singolarità e, con ciò stesso, non sottomettersi più ad alcun ordinamento costituito, comunque alienante».

A mio personale avviso, c'è del vero e del falso, sia pure in mescolanze diverse, in tutte queste proposizioni. Ma nessuna mi soddisfa. Così, se è evidente che solo una trasformazione radicale della società può consentire una trasformazione radicale del Diritto, non è altrettanto evidente quale sia la società realmente umana a cui aspirare né quale Diritto essa debba concepire ed assumere; e neppure che una società, storicamente intesa, sia necessaria e, quindi, che sia necessario un Diritto.

D'altronde è assai arduo, anche teoreticamente, ipotizzare una società che sia del pari una a-società, una comunità, quale che sia, che non si dia delle leggi o delle regole per la convivenza dei molti e che, dunque, non presupponga, almeno concettualmente, dei trasgressori; ed è assolutamente ridicolo costruire un castello ideologico fondato su idee del tutto improbabili come quello della "bontà intrinseca dell'uomo" (quando sappiamo che ogni uomo è il precipitato di determinate composizioni sociali) o della "forza della Natura e della sua capacità di autoregolamentarsi", quando, se vogliamo essere onesti, manco sappiamo più cosa voglia dire natura, al di là delle elegie nostalgiche, però assai moderne ed amministrative, tinte di verdognolo.

Credo che questa società vada scossa dalle sue fondamenta - economiche, sociali, ambientali, mentali, strutturali - e che questa trasformazione radicale la si possa metaforizzare come non il rovesciamento di un guanto (comunque protezione da qualcosa, seppure con il segno rovesciato).

Credo, peraltro, che un'associazione societaria, come si è storicamente determinata, non sia inevitabile, mentre è impossibile prescindere, anche in via ipotetica, da comunità umane, di soggetti, in qualche modo in rapporto tra di loro o "federate".

Credo, infine, che queste comunità possano fare a meno di leggi nella misura in cui esprimono una effettiva dialettica tra le diversità.

Ma tutto questo è di là da venire e la vecchia talpa sembra stanca di scavare. Eppure il carcere materialmente esiste. Ed è un problema non da poco per chi vi è rinchiuso, per chi si guadagna il salario della vergogna amministrandolo, per chi lo teme ed anche soltanto per ogni persona sensata, umana e di buon gusto.

Perciò si ha da intervenire concretamente, ciascuno secondo le sue conoscenze e possibilità. In quanto a me, so per esperienza diretta e certa che un carcere dove si torturi è peggio di un carcere speciale, che questo è peggiore di un carcere normale, che tra le carceri normali ci sono vari gradi di sopportabilità, che gli arresti domiciliari o la semilibertà ecc. sono meno peggio del migliore carcere normale, e via dicendo. La considerazione, peraltro assai fondata, che siamo tutti sottoposti al controllo sociale ed espropriati di gran parte di noi stessi o che viviamo in una sorta di mega-prigione sociale, con comportamenti e percorsi autorizzati o vietati, non toglie nulla alla materialità dei fatti. Né si può attendere la fatale rivoluzione o la presa di coscienza singola, ma generale, degli individui, o sperare che le istituzioni si spoglino, per merito di consiglieri acuti ed umanitari, delle loro funzioni, prima tra tutte quella della regolamentazione sociale e della sanzione.

Vanno invece individuate delle forme per battagliare a tutto campo. In una battaglia di tale respiro storico e concettuale, un movimento che si pretenda abolizionista deve saper coniugare le schermaglie giornaliere con l'obiettivo di fondo (vincere la guerra). Se mi batto per la concreta abolizione delle carceri speciali, devo esercitare la massima attenzione affinché questo non si trasformi in una esaltazione delle carceri normali, più "morbide". Se lotto per un'estensione il più possibile progressiva ed egualitaria dei "benefici" (dagli arresti domiciliari alla semilibertà ecc.), non devo mai perdere di vista il mio obiettivo, che è l'abolizione della prigionia e del controllo sociali e della sanzione penale che vi sta a monte. Insomma, dobbiamo reimpadronirci nel sociale e nel culturale di quell'arte della guerra che ha avuto in Sun-Tse e in von Clausewitz i massimi espositori. Sia il "riformismo" che l'"estremismo" non vanno da nessuna parte. L'uno perché diventa ancilla regni o, più volgarmente, ruota di scorta dell'esistente; l'altro perché gode nel condannarsi all'impotenza, dentro uno spirito sacrificale (di sé e di terzi) di cui non è difficile rintracciare la matrice socratico-cristiana. (Socrate rifiutò di fuggire dal carcere per non violare delle leggi che peraltro riteneva ingiuste, in quanto assumeva la necessità delle leggi in quanto tali; l'imbonitore di Nazareth pretese che fosse dato a Cesare quel che, apparentemente, era di Cesare e a Dio quel che era, suppostamente, di Dio, scegliendo la testimonianza sulla croce alla ribellione aperta; questi sono due fondamenti della nostra cultura, che vanno radicalmente rimessi in discussione in tutte le loro sfumature, anche quando appaiono lontane dall'origine, ma, in realtà, non hanno rotto l'obbrobrioso cordone ombelicale con loro).

Terra terra, là dove siamo e non abbiamo mai smesso di essere, è importante praticare una cultura abolizionista, esprimere ovunque l'importanza della libertà, battersi contro ogni forma di sopraffazione, di negazione, di morte annunciata e differita, nell'universale quanto nel particolare, e viceversa. Io diffido di chi vuole abolire le galere ma, intanto, non fa niente affinché chi ci sta dentro non ne sia strangolato od asfissiato: lì vedo avvoltoi alla ricerca di cadaveri da esibire come ridicoli simboli e poveri stendardi.

Il movimento abolizionista (ABOLIRE IL CARCERE) ha da essere capace di pratica quanto di teoria - e all'inverso - dialetticamente. Mai mi si sentirà dire che, in Italia, la legge di riforma detta Gozzini sia giusta e bella, anzi sempre da me si sentiranno delle critiche radicali. Nello stesso tempo faccio quel poco che posso affinché tutti i detenuti ne usufruiscano il più possibile e, se vi sono spazi effettivi, essa venga "migliorata", il che vuol dire s/peggiorata.

Mai nessuno mi vedrà in campo a favore delle "riforme", ma sempre mi si vedrà in azione affinché le "riforme" già promulgate vengano estese al massimo.

Abolire il carcere è un processo, nel quale l'astuzia, l'intelligenza, il realismo e l'utopismo vanno saviamente combinati, affinché siano un vero cocktail esplosivo.

Per concludere non posso che citare Jonathan Swift (I viaggi di Gulliver) verso il quale ho un perenne debito di intelligenza e di piacere.

«Sempre era in me il presentimento che un giorno o l'altro avrei recuperato la mia libertà, sebbene mi fosse impossibile immaginare in che modo, né far progetti con la minima speranza di successo».

Riccardo d'Este

Torino, luglio 1990

[Testo già pubblicato in: Abolire il carcere, ovvero come sprigionarsi, Nautilus, Torino, 1990]

24 dicembre 2008

Sull'Alta Velocità in Italia

di R.D’Este e C.Barbieri


[Il testo presente é tratto da Treni ad alta nocività, Nautilus, Torino, 1993 e costituisce la Premessa allo scritto ivi contenuto, Nota sull'Alta Velocità in Italia]


Viaggiando con le spalle
via dagli occhi schizzano
pali proietti sparuti
rovi mitraglianti
ringhiere e pah scritte
pah pah numeri segnati
pah bersagli, bersagli
pah.
Giorgio Cesarano, Romanzi Naturali, Milano, 1980

La Nota che segue potrà forse apparire tecnica o addirittura specialistica, ed ingiustamente, poiché siamo nemici dichiarati di ogni specialismo e di chi lo esercita. Ma, in effetti, si sono voluti fornire dei dati reali, in modo che il probabile, prossimo avvento dell'Alta Velocità ferroviaria in Italia non solo non ci trovi impreparati, ma addirittura senza elementi di conoscenza. Ed onde evitare, nel contempo, che la più che legittima indignazione che da più parti già si manifesta e sempre più si manifesterà venga cavalcata dai Signori dell'Ambiguità che, mettendo in rilievo questo o quell'aspetto isolatamente, di fatto rendono tollerabile l'intollerabile ed annacquano così il buon vino della protesta.
Perciò, oltre ai dati ed alla disamina di progetti, fatti, conseguenze, ci è parsa necessaria questa premessa così come una conclusione provvisoria.
Vogliamo sottolineare essenzialmente tre aspetti forti:
1) L'Alta Velocità fa parte del modo complessivo di considerare l'uomo come una merce, ideologia e pratica fondative della società del capitale e tanto più evidente nella presente società che si può definire come neomoderna.
2) L'Alta Velocità attiene ad uno stile di sopravvivenza imposto dalla società riproduttiva mercantile e non trova alcuna giustificazione nella pretesa utilità collettiva o, addirittura, nel risparmio di risorse sociali o, scadendo nel ridicolo, nella sua proclamata funzione ecologica.

3) L'Alta Velocità è segnata sin dall'inizio da un preciso carattere amministrativo e di classe, non solo per i vantaggi economici che ne ricaveranno le ditte appaltatrici dei lavori (di Stato e/o private), ma anche per il suo significato ed utilizzo sociale.
Esaminiamo partitamente questi tre assunti.
1) La velocità, ancorché ammantatata di illusione e di mito (si vedano, per esempio, le esaltazioni del futurismo storico e letterario), da sempre riguarda soprattutto la sfera della circolazione delle merci. Dal punto di vista della veicolazione delle merci stesse e della loro espansione riproduttiva, appare utile che un determinato stock di materie prime, di semilavorati o di merci prodotte nella località A raggiunga nel più breve tempo possibile le località B, C, D eccetera onde venir ulteriormente lavorate o semplicemente immesse nel mercato, per il consumo, e ciò ovviamente senza alcun criterio di discrimine riguardo alla qualità delle merci suddette. La velocità, in altre parole, crea del valore aggiunto, inerente proprio alla velocità impressa ai prodotti stessi, ciò che si può definire come valorizzazione dei prodotti all'interno del processo circolativo. Ma, a partire dall'epoca del dominio transnazional-capitalista ed interstatale, l'uomo stesso viene configurato pienamente come merce e, dunque, la velocità di spostamento lo valorizza come valorizza qualsiasi altra merce. Va da sé che le merci hanno un valore commerciale variabile, e così gli uomini. Perciò se non è troppo grave che, per esempio, le derrate alimentari giungano in Somalia in tempi relativamente lunghi, e magari in parte avariate, così non è molto grave che il proletario o il proletarizzato o il neoproletario impieghi una quantità non irrilevante di tempo per trasferirsi da casa al posto di lavoro e, semmai, la soluzione più "razionale" potrà essere la progressiva domesticizzazione del lavoro, che viene già brillantemente sperimentata in Giappone e, peraltro, nelle carceri di tutto il mondo, e bisogna riconoscere che l'Italia, almeno dal punto di vista progettuale, non è certo in fondo alla coda a quest'ultimo riguardo. Ma l'esempio più evidente ci viene dal danaro, che non solo è stato fondamento del capitale finanziario, ma che è anche a fondamento del capitalismo neomoderno (riproduttivo). Il danaro, attraverso il sistema bancario e creditizio, si muove in tempo pressoché reale (seppur del tutto fittizio, ovviamente), con la tecnica degli accrediti, degli spostamenti dei conti, dei bonifici eccetera, sicché il trasferimento di somme da Parigi ad Hannover o da Roma ad Hong Kong, e viceversa, avviene in tempi brevissimi, telematica adiuvante. Da tempo è finita l'epoca, e l'epopea, delle diligenze cariche di dobloni o delle navi gonfie di lingotti d'oro. E, se non fosse per la congenita impossibilità del capitale di uniformare gli uomini ed il pianeta, il danaro come sostanza (materiale) potrebbe essere tranquillamente scomparso da tempo. Ma vi sono delle merci meno "essenziali", cioè meno immateriali, che hanno bisogno di un determinato tempo di trasporto. L'Alta Velocità è stata studiata esattamente per questo, seppure in uno spazio territorialmente delimitato (è ovvio che, per l'Italia, anche le ipotesi più audaci di Alta Velocità debbono limitarsi alla circolazione nell'Europa continentale e con una funzione germanocentrica). Gli uomini, abbiamo detto, vengono considerati alla stregua delle merci. È ovvio, quindi, che il tempo di un manager o di un grand commis che debba spostarsi da Torino a Lyon o da Napoli a Milano valga molto di più di quello del lavoratore che si deve spostare da Bussoleno a Torino o da Roma a Civitavecchia. L'Alta Velocità è concepita per il trasporto di queste merci privilegiate. Infatti, se l'aereo è e resterà fondamentale soprattutto per la merce uomo (e quindi ovunque nelle città aeroportuali sono stati studiati raccordi autostradali, superstrade, bretelle a scorrimento veloce eccetera per far raggiungere nel minor tempo possibile, seppure al prezzo della devastazione di interi territori, il centro della città, o località "importanti" non fornite di aeroporto o le zone di affari), esso si dimostra insoddisfacente per le brevi distanze, a causa degli ingorghi che il sistema stesso ha creato e determina. L'Alta Velocità sopperisce, almeno in parte, a questa contraddizione. L'uomo che "conta" (cioè il cui lavoro conta) avrà così delle corsie preferenziali anche via terra. Questo fa parte della concezione capitalista ed antiumana per cui il tempo è danaro e il danaro lo si guadagna con il tempo. L'uomo nella sua accezione più precisa e nel contempo più universale, ne è escluso se non come mero burattino. E parliamo di quell'uomo (e lo siamo tutti) che ha bisogno del suo tempo, per cui il viaggio è comunque un'avventura, che deve conoscere i luoghi che attraversa ed impadronirsene attraverso una presa di coscienza e di conoscenza. Senza alcun dubbio, quindi, ed a dispetto di tutte le frasi ad effetto parasimbolico utilizzate, l'Alta Velocità è interna alla concezione della riproduzione allargata di sopravvivenza. Concezione antiumana.
2) Se abbiamo detto dell'uomo merce, più o meno di "valore", bisogna contestare anche le pretese sciento-tecnologistico-neoumaniste dei fautori dell'Alta Velocità. L’utilità collettiva che spesso viene issata come stendardo si dimostra falsa anche ad una prima e superficiale disamina. Se è vero, com'è vero, che il signor X, prendendo un treno ad alta velocità (TAV) per percorrere la tratta Milano-Napoli, può risparmiare qualche ora, è altresì vero che questo ha ben poco a che vedere con l'utilità collettiva o, per essere più precisi, con il risparmio collettivo, cioè globale, di tempo (concetto già di per sé assai discutibile, perché è ormai evidente a chiunque che non è più questione di guadagnare o di risparmiare tempo, bensì di conquistarlo, di reimpadronirsene). Jean Robert, in un saggio la cui prima edizione risale al 1980 (edizione italiana: Tempo rubato, Como, 1992), dimostra con dovizia di dati e di analisi, riguardo ai raccordi anulari, alle bretelle autostradali, alle superstrade urbane eccetera, come il tempo risparmiato da alcuni (per esempio, coloro che devono raggiungere in fretta un aeroporto o da lì il centro urbano) sia in realtà rubato alla gran parte degli altri, per i molteplici disagi che si creano per la collettività a causa della costruzione di queste strade cosiddette a scorrimento veloce. Per maggiori informazioni, rimandiamo a quel testo che, se è sicuramente critico rispetto alla realtà automobilistica ed urbana e fornisce una massa di dati non trascurabile, non ha pretese "rivoluzionarie" (Robert è sostanzialmente un seguace di Ivan Illich). Il discorso è analogo, se non più accentuato, per le reti di TAV. I conti da fare non sono troppo complicati. I vantaggi, intesi come "risparmio di tempo", riguarderebbero, ad essere ottimisti ed al massimo, non più di 40-50 000 persone sul territorio italiano, che, se può sembrare un numero ragguardevole, ed infatti va preso con le molle poiché viene fornito dagli stessi fautori dei TAV, è incommensurabilmente più basso rispetto agli spostamenti usuali, quotidiani (a questo proposito si veda la Nota nonché il già citato J.Robert) Computando le brevi, le medie e le grandi (ancorché improbabili) distanze il "guadagno" medio di tempo può essere valutato in circa 1 ora e dunque, come "risparmio" collettivo, in circa 40-50 000 ore. Ma come si riesce a valutare la perdita di tempo di tutti gli altri? (E, comunque, e lo ripetiamo quasi ossessivamente, questo criterio di tempo non può essere proprio degli uomini ma soltanto delle merci. Far l'amore tre ore al giorno, invece che due ore alla settimana, come sembra essere statisticamente "provato", va considerato come una "perdita" o come un "guadagno" di tempo? E trascorrere ore passeggiando o viaggiando alla deriva o in osteria, invece che lavorando, come va considerato? È evidente anche al più stupido degli stupidi "esperti" che la valutazione del tempo - "perso" o "guadagnato"- dipende dal senso che si da al tempo, alle sue finalità.) In ogni caso, quando ci riferiamo a "tutti gli altri" intendiamo:
*) coloro che, viaggiando su treni locali, e venendo progressivamente ridotti o soppressi questi servizi, saranno costretti a viaggiare in automobile o comunque su gomma;
*) coloro che usano abitualmente i treni "normali" i quali, evidentemente, verranno rallentati dalla preferenzialità concessa ai TAV;
*) coloro che devono attraversare passaggi a livello o che in qualche misura vedono il loro cammino sviato dal numero maggiore di binari e, comunque, dalla preferenzialità data ai TAV;
*) coloro che, abitando in prossimità del percorso dei TAV, dovranno percorrere abitualmente lunghi giri per raggiungere località magari distanti, in linea d'aria, non più di un chilometro e quindi "normalmente" raggiungibili a piedi o in bicicletta;
*) coloro che, usufruendo di treni "normali", dovranno sostare più tempo nelle stazioni, sempre per la già detta preferenzialità concessa ai TAV;
*) coloro che troveranno ancor più intasate le strade locali ed urbane (ed in ciò vanno comprese le aree di parcheggio) per il maggior flusso di uomini merci e, com'è probabile, di merci tout court (di minor "valore") su strade ed autostrade per le ragioni sopra esposte.
Senza indulgere ad alcuna demagogia, si può tranquillamente sostenere che il tempo perso dalla collettività (o rubato ad essa) sarà dalle 10 alle 20 volte superiore, al minimo, a quello "guadagnato" dai fruitori dei TAV. Cade così, e farsescamente, ogni discorso sulla pretesa utilità sociale dell'Alta Velocità.
Riguardo alla funzione ecologica dei TAV, sostenuta da alcune parti, e tutte interessate, non riprenderemo qui argomenti già sviluppati sinora (come il maggior traffico automobilistico, per esempio) né quelli che vengono svolti nella Nota. Ci interessa piuttosto un ragionamento che attiene al metodo stesso, ed assai disinvolto, con cui viene usato ed abusato il concetto di ecologia. Può apparire convincente sostenere che un TAV inquina meno del traffico automobilistico e via così. A parte l'inconsistenza fattuale di simili affermazioni, dato che aumentando il traffico automobilistico "laterale" cresce anche la diffusione di biossido di carbonio e che l'inquinamento acustico prodotto dai TAV è tutt'altro che di poco conto, vi è una notevole "dimenticanza" da parte dei fautori sedicenti ecologisti dei TAV: il territorio che viene letteralmente sventrato e trasformato dal passaggio dei TAV, il tipo di microeconomia e di abitabilità locale che risulta stravolto (e, sia chiaro, questa è solo una constatazione di fatto e non una difesa nostalgica del passato, spesso piuttosto miserabile), il ritmo di esistenza delle persone "attraversate" dai TAV. Il fatto è che nella gran parte delle impostazioni ecologistiche, o sedicenti tali, siano esse di matrice interessata economicamente (un esempio su tutti: la Fiat che rivendica il suo voler costruire auto "pulite") o ideologicamente (le varie associazioni che si pretendono ambientaliste) gli uomini, nella loro realtà materiale, corporea e sociale, vengono assai spesso dimenticati. L'inquinamento dell'ambiente viene frequentemente citato, e non saremo certo noi a dispiacercene, ma il degrado dell'esistenza umana nei suoi rapporti sociali sembra quasi trascurato, forse perché la risoluzione del problema implica prese d'atto assai più radicali delle chiacchiere pseudo-naturalistiche. In concreto: i TAV pensati in Italia modificherebbero, o modificheranno, non solo il territorio ed il paesaggio, ma, attraversando zone ad alta densità di popolazione (Lombardia, Piemonte, Emilia, Toscana eccetera) modificherebbero, o modificheranno, lavori e costumi di vita degli abitanti. Niente di male, tutt'altro, se questo andasse verso una progressiva liberazione degli abitanti di quei territori, anche solo come "guadagno" di tempo o come "risparmio" di energie. Ma ciò non è, come si è visto. Anzi, si tratta di una maggior oppressione mentale, economica, ambientale. Dunque, le argomentazioni riguardo alla funzione ecologica dei TAV sono del tutto inconferenti o, come pensiamo, false. A meno che non si abbiano, ed è probabile, dei punti di vista diametralmente opposti sull'ecologia e sulle possibilità degli uomini.

3) L'AV, si è detto, è segnata da un carattere amministrativo e di classe. L'elemento amministrativo è così implicito e palese che pare quasi inutile spendervi troppe parole. L'amministrazione delle merci, sotto specie circolativa e per il valore incorporato nella velocità, è evidente in una società in cui la circolazione tende addirittura a prevalere sulla produzione diretta. Ma per le merci uomini il discorso non è molto diverso. Se nella società capitalista classica, per non parlare delle società precedenti (assai legate al territorio o alla terra stessa), gli spostamenti erano relativamente limitati, nella società contemporanea lo spostamento dell'uomo è un elemento fondativo del processo di valorizzazione, si tratti di lavoro, di affari, di vacanze eccetera. Poiché oggi tendenzialmente si riproducono, con successive modificazioni, le stesse merci è proprio sul piano della circolazione che si produce valore, ancorché, evidentemente, fittizio e drogato. Ma sono gli uomini a dover intervenire, come organizzatori e controllori, in questo processo. La merce uomo deve spostarsi rapidamente per superare in velocità il processo lavorativo medesimo, nonché quello circolativo, of course. Il mercante neomoderno che si fa produrre le scarpe a Taiwan deve essere più rapido dei medesimi produttori di scarpe, onde controllare il processo, e anticipatore del commercio stesso, in quanto egli è veicolo e stimolatore della circolazione. L'alta velocità, nella fase neomoderna, sta all'amministrazione come il semplice trasporto delle merce uomo stava alla grande fabbrica.
Il carattere di classe dell'AV non è dato soltanto dal fatto che questo tipo di treni verrà usato essenzialmente da imprenditori, manager, dirigenti e ricchi vari e non da "viaggiatori normali" o dai proletarizzati, ma soprattutto per la sua funzione, cioè per l'adeguamento al ruolo delle singole figure sociali. Se, per esempio, il tal conduttore televisivo preferisce muoversi in treno invece che in auto, e certo non gli manca né l'auto né l'autista né, dati i tempi, la scorta, non è tanto perché ha i quattrini e può pagarsi il biglietto, quanto piuttosto perché il suo ruolo all'interno della riproduzione spettacolare esige una presenza rapida, come rapidissima dev'essere l'intossicazione spettacolare. Per divisione di classe non ha da intendersi, quindi, semplicemente la stratificazione economica e/o gerarchica, ma piuttosto la ripartizione dei compiti e dei ruoli nella società capitalista neomoderna e nel suo corrispettivo politico, lo Stato. In Italia, in specie, il TAV funzionerà soprattutto per gli amministratori, pubblici e privati, per i gestori della politica come dello spettacolo propriamente detto, dei commercianti di merci o di idee (nonché di merci materiali e di idee materializzate) e, forse, di taluni curiosi o frettolosi. La sua destinazione indica bene il nuovo interesse di classe. Se, per esempio, l'Orient Express veniva prevalentemente usato da viaggiatori ricchi ma ancora curiosi, i TAV saranno usati da merci uomini che, se potessero, si sposterebbero da un luogo ad un altro alla velocità della luce, dunque non viaggiatori né tanto meno curiosi. Questo è ciò che intendiamo per carattere di classe.