Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

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«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

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«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

28 novembre 2008

"Impero" e i suoi tranelli - Seconda parte

Toni Negri e la sconcertante parabola dell'operaismo italiano*
di Claudio Albertani



Le disavventure dell’operaio sociale


È nel contesto della crisi dell’operaismo successiva al 68 che bisogna analizzare il pensiero di colui che ne raccolse la staffetta: Antonio Negri. Egli stesso ha narrato più volte il proprio percorso: proviene da una famiglia di umile condizione, si è laureato all’Università di Padova discutendo una tesi sullo storicismo tedesco e, dopo essersi specializzato in Germania e in Francia, ha condotto una brillante carriera accademica che lo ha portato a pubblicare una ventina di libri, oltre a un’infinità di articoli in tutto il mondo. Dalla fine degli anni cinquanta, accanto all’insegnamento, ha intrapreso l’impegno politico, dapprima in ambiente cattolico, in seguito nel Partito Socialista, in fine in ambito operaista(1).
Nella prima fase, fino alla pubblicazione di Classe Operaia, il contributo di Negri non fu decisivo, ma con la fondazione di Potere Operaio, divenne determinante. Il gruppo nacque nell’estate 1969 nell’ambito di una crisi del movimento studentesco sorta perché, nella prospettiva marxista-leninista, le rivolte studentesche avevano senso solo se subordinate all’“egemonia operaia”, cioè alla linea dell’organizzazione. Era quindi urgente creare una direzione politica che fosse in grado di controllarle.
Da parte sua Negri favorì il progetto di dar vita a un partito centralizzato e verticale, molto distante dalle sue attuali idee sulla “moltitudine”. «L’analisi su cui ci basiamo è quella dei classici, di Marx, di Lenin, di Mao; non vi è spazio nella nostra organizzazione per l’irrequietezza e le velleità»; scrisse in un testo che non dà sicuramente spazio a una concezione libertaria dell’autonomi(2).
A differenza di Lotta Continua, gruppo di stampo attivista, Potere Operaio privilegiava un’elaborazione teorica che si fondava su una rielaborazione delle posizioni dei Quaderni Rossi e di Classe Operaia. La novità era che la soggettività non risiedeva più nella classe, ma, come nella migliore tradizione leninista, nell’avanguardia comunista; cioè in Potere Operaio. Il proposito era quello di centralizzare e radicalizzare gli antagonismi spontanei per trasformarli in azione insurrezionale contro lo Stato.
Ancora una volta il progetto fallì. La serie di lotte operaie cominciata all’inizio degli anni sessanta entrò in una fase discendente. Uno degli ultimi colpi di coda fu l’occupazione della FIAT Mirafiori (a Torino) che, nel marzo 1973, chiuse in Italia l’epoca dei grandi scontri fra operai e capitale. Come eredità rimase lo Statuto dei Lavoratori, un pacchetto di norme sindacali favorevoli alla classe lavoratrice sottomesso negli anni successivi a costanti ritocchi e, a poco a poco, ridotto a un guscio vuoto.
Nel resto del decennio, i conflitti sociali non diminuirono, ma il loro centro di gravità non era più nelle fabbriche. Mentre le principali formazioni extraparlamentari entravano in crisi (Potere Operaio si sciolse nel 1973, Lotta Continua nel 1976), nasceva una miriade di piccoli gruppi attorno al motto: “prendiamo la città”. Alcuni di tali gruppi si dettero il nome di “indiani metropolitani”, altri quello di “proletariato giovanile”. Occupavano edifici, aprivano centri sociali, fondavano riviste, avviavano progetti di comunicazione alternativa, creavano associazioni femministe ed ecologiste.
Questi gruppi, la cui base stava tanto nelle fabbriche come nei quartieri, cominciavano a lasciarsi alle spalle le vecchie concezioni del partito chiuso e del dirigismo leninista, per cercare soluzioni alternative nell’organizzazione di spazi di convivenza e di scambio sociale autonomi dalla legalità dominante. Per sottolineare la loro indipendenza politica, usavano sigle in cui compariva la parola  “autonomia” – per esempio: “Proletari autonomi” o “Assemblea autonoma” – così, ben presto, furono conosciuti come l’“area dell’autonomia operaia”(3)
Da parte sua, Negri interpretò la nuova fase con un trionfalismo militante che era l’opposto ideologico del pessimismo di Tronti (e della sua “autonomia del politico”). Non c’era riflusso: il rifiuto del lavoro taylorista aveva ormai abbattuto i muri che separavano la fabbrica dal territorio. La produzione capitalista mobilitava adesso l’intero processo sociale riaffermando in tal modo l’importanza del lavoro produttivo.
In questa situazione, l’operaio massa “usciva” dalla fabbrica per spostarsi sul territorio, la fabbrica diffusa, diventando operaio sociale, il nuovo soggetto del quale il nostro autore cominciò a proclamare la “centralità”. Tecnici, studenti, maestri, operai, emigranti e squatter, finivano così nello stesso sacco, senza analisi delle loro differenze, specificità e contraddizioni.
Nella prospettiva di rovesciare le categorie di Marx, Negri introdusse la categoria di autovalorizzazione (la stessa che, senza spiegazione alcuna, riappare un quarto di secolo più tardi in Impero)(4). Di cosa si tratta? Mentre la valorizzazione capitalistica si basa sul valore di scambio, l’autovalorizzazione – caposaldo dell’edificio teorico di Negri – si fonderebbe sul valore d’uso, e i nuovi bisogni proletari. Generalizzando sul territorio – la fabbrica diffusa – le pratiche di autovalorizzazione, l’operaio sociale doveva adesso lottare per il “salario garantito”.
Il nucleo del conflitto (e dell’analisi) si spostava così in direzione dello Stato. Negri riteneva che lo Stato keynesiano – che chiamava Stato-piano – avesse inscritto le conquiste della rivoluzione d’ottobre nel cuore dello sviluppo capitalistico, trasformando il “potere operaio” in una “variabile indipendente”.
A partire da quel momento, la lotta principale si giocava sul terreno dell’autovalorizzazione e, non essendovi più riproduzione di capitale fuori dallo Stato, la “società civile” cessava di esistere e rimanevano soltanto, uno di fronte all’altro, i due grandi contendenti: proletari e Stato(5).
Nonostante l’apparente coerenza, questo ragionamento si basava su un’interpretazione errata del concetto marxiano di valore. Secondo Negri, il valore d’uso esprime il radicalismo operaio, la sua potenzialità soggettiva, in quanto antagonista del valore di scambio. È, in un certo senso, il lato “buono” della relazione. Tuttavia, dal punto di vista della critica dell’economia politica, tale impostazione risulta priva di senso.
Come spiega Marx nel primo capitolo del tomo I del Capitale, il valore d’uso non è affatto una categoria “morale”, bensì la base materiale della ricchezza capitalista, la conditio sine qua non dell’accumulazione. Se in qualche momento del processo di circolazione, i valori d’uso non si convertono in valori di scambio, cessano d’essere valori e quindi limitano e condizionano il processo di valorizzazione.
Una della fonti di Negri era Agnes Heller, la nota esponente della scuola di Budapest, che aveva messo al centro della propria riflessione su Marx il concetto di bisogni radicali. Tuttavia la Heller faceva attenzione a non scivolare nell’apologia dei bisogni immediati. Scrisse, infatti:


La riduzione del concetto di bisogno al bisogno economico è una espressione dell’estraniazione (capitalistica) dei bisogni, in una società in cui il fine della produzione non è la soddisfazione dei bisogni, ma la valorizzazione del capitale, in cui il sistema dei bisogni è fondato dalla divisione del lavoro e il bisogno compare soltanto sul mercato, nella forma di domanda solvibile(6).


Negri cadde in tale apologia, discostandosi dal marxismo critico e dimenticando che non è possibile combattere un mondo alienato in maniera alienata. L’autonomia, inoltre, non si dispiega nella situazione immediata di classe. Nella società del capitale, l’autonomia è progetto, tendenza o, per meglio dire, tensione che si configura come realtà pratica solo in fugaci momenti di rottura come il ’68 in Francia e il ’77 in Italia.
Torniamo a Negri. Contrariamente a ciò che pensa il nostro autore, il comunismo non è «l’elemento dinamico e costitutivo [...] dello sviluppo capitalistico(7), ma una società completamente differente senza potere dello Stato, né feticismo mercantile.
E il partito? «[...] nella mia coscienza e nella mia pratica rivoluzionaria non so cancellare il problema del partito» scriveva, aggiungendo: «[...] noi possiamo, dobbiamo cominciare la discussione sulla costituzione della dittatura comunista»(8)
Secondo colui che si considerava il Lenin italiano, il partito esisteva in embrione ed era l’Autonomia Organizzata (con lettere maiuscole, per distinguersi dalle varie “autonomie” con la minuscola), il complesso di organizzazioni semiclandestine e di servizi d’ordine militarizzati che, spinti dalla repressione statale, praticavano la lotta armata nell’intento di “diffondere” e “ricomporre” l’antagonismo di massa(9).
Quello che successe fu un disastro totale. Il sogno di prendere il potere si infranse rapidamente contro le secche della realtà. A partire dal 1977 - ultima grande stagione creativa del “laboratorio Italia”- il Partito Comunista si alleò con la Democrazia Cristiana che era al governo. La repressione entrò in una nuova fase, distruggendo tutto ciò che si muoveva oltre la sinistra parlamentare, e annullando la differenza fra terrorismo e protesta sociale.
È in questo contesto che l’Autonomia Organizzata - o, meglio, alcune delle sue organizzazioni che, oltretutto si trovavano spesso in opposizione reciproca(10)- e le neostaliniste Brigate Rosse perseguirono il sogno assurdo di un attacco al “cuore dello Stato” (come se lo Stato avesse un cuore!). Il sogno si trasformò presto in un incubo che alla lunga finì per travolgere anche il ricco e complesso tessuto dell’autonomia con “a” minuscola dove vigeva una concezione molto più articolata dello scontro sociale(11).
Ancora nel 1978, in occasione dell’assassinio di Aldo Moro ad opera delle Brigate Rosse – uno degli errori più nefasti e gravidi di conseguenze negative mai commessi da un gruppo rivoluzionario – Negri, pur manifestando il suo dissenso, scriveva che il fatto positivo dell’azione era aver imposto al movimento la “questione del partito”(12).
Il tragico epilogo avvenne il 7 aprile 1979 quando Negri e decine di militanti furono incarcerati sotto la falsa accusa di essere gli ideologi delle Brigate Rosse. Avrebbero trascorso fra i due e i sette anni dietro le sbarre, designati dalla meschinità del potere quali vittime sacrificali sull’altare della pace sociale(13).
Nel 1980, con l’ultimo tentativo di occupare la fabbrica Mirafiori, si chiuse simbolicamente un lungo periodo di conflitti sociali durante il quale – caso unico nella storia europea – lotte operaie, movimenti studenteschi e nuove visioni di vita avevano marciato fianco a fianco in un formidabile intento di liberazione collettiva(14).


Le gesta della moltitudine


Nei decenni successivi Negri continuò a leggere i movimenti sociali non per quello che sono, ma come verifica delle proprie tesi, scrivendo libri spesso oscuri, e cambiando idea molte volte sullo stesso tema – ad esempio sulla lotta armata o sul leninismo(15) senza mai azzardare la minima autocritica.
Da Foucault, Deleuze e Guattari, il nostro autore aveva ereditato una marcata avversione alla dialettica(16) Già nello studio sui Grundrisse - frutto di un seminario svoltosi a Parigi - scriveva che «l’orizzonte del metodo marxiano non è mai investito del concetto di totalità»; piuttosto «esso è caratterizzato dalla discontinuità materialistica dei processi reali»(17) in modo tale che il materialismo si assoggetta alla dialettica.
Negri considera la società capitalistica un campo di forze in lotta costante. Tuttavia, a differenza dei post-strutturalisti francesi, lui pensa che il motore dei processi sociali sia la separazione o, meglio, l’antagonismo sociale.
All’indagine spetta il compito di identificare l’antagonismo determinante, studiarne le tendenze e portarlo all’esplosione. Subito dopo, l’analisi si sposta verso un nuovo campo, lo ridefinisce e così di seguito(18) Il capitale non è più inteso come contraddizione in atto (Marx), ma come la progressiva affermazione di un soggetto conosciuto in anticipo.
In Spinoza. L’anomalia Selvaggia, scritto in carcere, Negri chiarì il suo progetto: proseguire la costituzione materiale del soggettivismo radicale in Occidente, creando una frattura tra la filosofia del potere e quella della sovversione. Con Spinoza si inaugurava una tradizione “anomala”, che proseguiva con Machiavelli e Marx, opponendosi all’asse dialettico incarnato nella triade Hobbes-Rousseau-Hegel(19). Negri ravvisava in Spinoza una critica anticipata della dialettica hegeliana, nonché la nascita del materialismo rivoluzionario.
All’orrore stalinista del Diamat, Negri opponeva un nuovo orizzonte ontologico che si reggeva sulla categoria spinoziana di potenza. Tale interpretazione presenta una indubbia originalità, ma ignora le critiche mosse cinque decenni prima al marxismo sovietico dai comunisti di sinistra (ad esempio Karl Korsch, o, più recentemente, Maximilen Rubel) secondo cui il materialismo marxiano non è una filosofia né un’economia, ma la teoria rivoluzionaria del proletariato in lotta.
Secondo questi autori, il movimento dialettico non ha mai espresso una legge della storia universale, né tanto meno una scienza, ma «la logica specifica di un oggetto specifico», il capitalismo, un sistema sociale opaco fondato sul «feticismo»(20).
È nel libro su Spinoza che appare per la prima volta il concetto di moltitudine, ossia, il nuovo soggetto globale che, poco a poco, prenderà il posto dell’operaio sociale fino a diventare, quasi due decenni più tardi, l’eroe indiscusso di Impero(21).
Come nasce la celebrata moltitudine?(22) Agli albori della modernità Hobbes e i cosiddetti filosofi della sovranità chiamarono così i gruppi umani prima di costituirsi in popolo, ovvero, prima di accedere alla civiltà(23). La “moltitudine” era dunque qualcosa di puramente negativo, che rimandava a un insieme di uomini, indistinto e selvaggio, non ancora organizzato nello Stato. Come sempre, Negri rovescia il concetto, facendolo assurgere a fondamento imprescindibile di una “democrazia radicale”(24).
La moltitudine contemporanea sarebbe, così, la forma dell’esistenza sociale e politica dei “molti”, “l’insieme aperto”, che si pone quale alternativa alla triade popolo-volontà generale-Stato. Mentre il popolo tende all’identità e all’omogeneità – spiega Negri – la moltitudine supererebbe i confini della nazione che, di fronte alla crisi dello Stato, risulterebbe il soggetto plurale di un nuovo potere costituente aperto, inclusivo e post-moderno(25).
In quanto alle alterne fortune di questa nuova categoria, mi pare utile citare l’opinione di Juan Goytisolo:


Si è scritto molto ultimamente riguardo al concetto di moltitudine, opposto a quello di massa o di popolo. Con tutti i miei rispetti per tali intuizioni sociologiche, devo confessare che la parola moltitudine mi sembra indicata soprattutto per riferirsi alle code che si formano alle prime di certi colossal o all’inizio dei ribassi dei grandi magazzini(26).


Al di là dell’ironia, sorgono alcune domande. Come giustifica il nostro autore questo salto repentino dal XVII secolo ai nostri giorni? E inoltre: come si è prodotto il passaggio dall’operaio sociale alla moltitudine? Negri non ama la storia e non risponde, però cerca di dare spessore teorico alla nuova creatura, avvalendosi di Marx da un lato e della ricca letteratura che accompagna la rivoluzione informatica dall’altro. Con la crisi del fordismo, spiega Negri, la classe operaia industriale ha perso la propria posizione centrale nella società. Oggi una parte consistente della forza-lavoro è impegnata nel lavoro immateriale, ossia nell’insieme delle attività destinate alla manipolazione dei simboli, allo sviluppo delle competenze tecnico-scientifiche, all’elaborazione dei messaggi e ai flussi di comunicazione(27). Poco a poco – continua Negri – il sapere sociale accumulato diviene preponderante rispetto al tempo socialmente necessario.
Non ho molto da obiettare a tali affermazioni basate sul famoso “Capitolo sulle macchine”, presente nei Grundrisse. Lì Marx precisa che, con lo sviluppo della grande industria, la creazione di beni «[...] non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende invece dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione»(28). E aggiunge:


Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte di ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura e, quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso. Il plus-lavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo(29).


Questi brani molto citati di Marx sono oscuri e, al tempo stesso, visionari. Oscuri perché non è molto chiaro il significato dell’affermazione: «crolla la produzione basata sul valore di scambio». Vuol forse dire che il capitalismo finisce, superato dal proprio sviluppo? O che risolve l’antagonismo operai-capitale? Non credo, però il problema resta aperto. Ma sono anche visionari in quanto ci forniscono strumenti interessanti per leggere il presente e, in particolare, la rivoluzione informatica. In questa fase - prosegue Marx - i prodotti industriali diventano


[...] organi del cervello umano creati dalla mano umana; capacità scientifica oggettivata. Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata e, quindi le condizioni del processo vitale stesso sono passate sotto il controllo del general intellect e [sono state] rimodellate in conformità ad esso(30).


Ciò che io capisco è che le contraddizioni della produzione industriale si estendono adesso all’ambito del lavoro che la letteratura sociologica chiama “immateriale”. Negri ha ragione quando afferma che, in tali condizioni, il problema del soggetto rivoluzionario si pone in modo nuovo. A mio avviso, venendo meno la centralità della fabbrica, si moltiplicano i luoghi potenziali dell’antagonismo e, contemporaneamente, scompare qualsiasi nozione di “bisogno”. Perché allora introdurre una categoria come quella di moltitudine che, per definizione, appiattisce le differenze?
C’è di più. Negri, interpretando le affermazioni di Marx in modo unilaterale, sembra sostenere che il capitalismo si è già estinto come modo di produzione e che sopravvive come pura forma di dominio o “dispositivo di controllo”(31).
Non soddisfatto, strizza l’occhio a tutte le utopie tecnologiche, dalla “fine del lavoro” ai miti della società post-industriale e alle antropologie del ciberspazio. «Nelle espressioni della sua potenza creativa, il lavoro immateriale sembra quindi esprimere virtualmente un comunismo spontaneo ed elementare»(32). In base alla sua interpretazione, il comunismo non nasce più dall’antagonismo né dal rifiuto collettivo della cooperazione capitalistica, ma, al contrario, dalla sua massima diffusione grazie alla scienza o alla tecnica.
In tal modo, Negri finisce per avvallare i luoghi comuni del neoliberismo: il nuovo federalismo, l’Unione Europea e persino “l’imprenditorialità comune” del Veneto, «[...] tutti coloro che hanno messo al servizio del comune, fatica ed intellettualità, forza-lavoro e forza- invenzione »(33).
Il cerchio si chiude: l’operaismo di Negri sfocia in un’apologia delle forze produttive molto simile a quella che Panzieri aveva combattuto all’epoca del primo operaismo quasi quarant’anni prima. Proprio come in Tronti, svanisce ogni principio di una concreta autonomia fondata sull’azione indipendente dei soggetti sociali in lotta. In tale modo i due avversari di un tempo tornano a stringersi la mano(34).
Può suscitare ilarità il fatto che, alla fine di Impero, Negri e Hardt celebrino san Francesco come la figura simbolo del nuovo militante(35). Secondo il Vocabolario della Lingua Italiana Zingarelli, si definisce militante «qualcuno che esercita la milizia». Nei movimenti sociali attuali, si preferisce la parola attivista, che è meno violenta e che rimanda all’azione diretta.
Le azioni festive dei giovani (e neanche tanto giovani), che dai giorni di Seattle tolgono il sonno ai potenti della terra, hanno poco a che vedere con la “militanza”(36). Al contrario le guida una volontà ludica di “invertire la prospettiva”, di porre fine alla politica tradizionale e di dar vita a nuove forme comunitarie.
Non è per niente casuale che i principali seguaci di Negri, i cosiddetti Disobbedienti (precedentemente Tute Bianche ed Associazione Ya Basta) siano causa di grande confusione nel movimento anti-globalizzazione. Essi mi ricordano la parte peggiore della vecchia sinistra, sommata al peggio dell’attuale politica postmoderna di tipo mediatico. Radicali all’estero (in Messico si fecero espellere con gran clamore nel 1988), si piegano a qualsiasi compromesso in Italia; pacifisti convinti, stilano deliranti dichiarazioni di guerra senza assumere le conseguenze di ciò che predicano (e calunniando gli altri); zapatisti dichiarati, inseguono incarichi elettivi...
Ma questo è un altro discorso. Riguardo al tema di cui ci stiamo occupando - l’efficacia del concetto di moltitudine - dobbiamo precisare che l’insieme dei cambiamenti subiti dal capitalismo negli ultimi decenni ha dissolto qualsiasi centro di gravità delle lotte antisistema. Lo stesso marxismo è solo una delle tante teorie di cui si possono avvalere i nuovi movimenti per armarsi dal punto di vista concettuale. Altre possono essere: l’anarchismo, le cosmovisioni tradizionali, la teologia della liberazione... inoltre, ormai, la storia non si fa unicamente in Occidente.
Oggi i movimenti sociali sono plurali per definizione. Cosa hanno in comune gli indigeni del Chiapas con gli operai della FIAT, gli agricoltori ecologisti francesi con i ribelli argentini, i contadini di Karnakata con i cyberpunk delle metropoli postmoderne? Molto, senza dubbio, come spiega, per esempio, il comandante Mister del Ejército Zapatista de Liberación Nacional (EZLN):


I governi pensano che noi indigeni non sappiamo nulla del mondo. Invece lo conosciamo bene. Siamo informati dei piani di morte che essi ordiscono contro l’umanità e delle lotte dei popoli per la liberazione. Conosciamo perfino il Giappone. Sappiano tutto ciò perché conosciamo uomini e donne di molti paesi che sono giunti nei nostri villaggi e che ci hanno parlato delle loro lotte, dei loro mondi e di ciò che fanno. Abbiamo viaggiato grazie alle loro parole e abbiamo visto ed conosciuto più terre di qualsiasi intellettuale(37).


Bisogna assolutamente rifare questo mondo, che non ci appartiene. Ogni individuo, ogni movimento, ogni comunità in lotta cerca l’incontro facendo in modo di mantenere una prospettiva autonoma e un’identità propria. Questo mi sembra un passo importante. Non è un caso, per esempio, che nei movimenti indigeni americani si parli sempre meno di interculturalità e sempre più di multiculturalità; mentre il primo concetto impone una sintesi, il secondo conserva tensioni e particolarità.
Negri critica - credo a ragione - il concetto di popolo. Abbiamo certamente bisogno di concetti nuovi per valutare le differenze. Tuttavia, perché abbattere queste stesse differenze annullandole in un’astrazione filosofica vecchia di tre secoli?
Esattamente come il suo predecessore, l’operaio sociale, la moltitudine è una forzatura. Alla fine del tragitto, Negri torna al peccato originale dell’operaismo italiano: la ricerca sempre rinnovata di una qualche “centralità”, il feticcio del lavoro produttivo, il capovolgimento della realtà, e l’incapacità di uscire dall’orizzonte della fabbrica. Il risultato è un soggetto senza storia e una forma senza contenuto, ultimo adattamento dell’antica credenza secondo la quale è sempre la classe operaia a incalzare il capitalismo.


Epilogo. Fine dello Stato-nazione?


Nonostante la proclamata antipatia per il pensiero dialettico, l’impalcatura teorica di Negri è sempre rimasta di stampo hegeliano(38). Sia in Impero, che nelle opere precedenti è sottintesa una teleologia necessaria, un movimento circolare e un lieto fine, sempre implicito nell’inizio.
Nel testo scritto in collaborazione con Hardt, leggiamo che le rivoluzioni del XX secolo non sono state affatto sconfitte, «[...] ma che hanno rinnovato e trasformato i termini della lotta di classe, secondo le condizioni di una nuova soggettività politica»(39). In altre parole, hanno preparato l’avvento della realtà ultima del nostro tempo, appunto l’impero, e del suo rivale imprescindibile, la moltitudine.
Così come lo Spirito del mondo si manifesta nella storia saltando da una parte all’altra del pianeta, l’epifania dell’impero si incarna in tappe e in figure emergenti che, in ogni momento, le conferiscono caratteri distintivi.
Se l’epopea inizia nel laboratorio di Spinoza, la Costituzione statunitense sarebbe uno dei suoi momenti fondamentali. Perché mai? Perché, secondo gli autori, essa si fonda «[...] sull’esodo, sui valori affermativi e non dialettici, sul pluralismo e la libertà»(40). Riaffiora qui l’antico amore operaista per gli Stati Uniti, farcito adesso di alcune (infelici) considerazioni di Hannah Arendt sulla rivoluzione americana(41).
Francamente qui è difficile contenere lo sdegno. Noam Chomsky - uno dei migliori analisti degli Stati Uniti, che Negri ha accusato a più riprese di essere un “moralista”- dice in proposito parole chiare e prive di ambiguità: «la Costituzione di questo paese non è altro che una creatura concepita per tenere a bada la marmaglia, onde evitare che, neanche per errore, il popolaccio possa avere la cattiva idea di diventare padrone del proprio destino»(42). In realtà la Costituzione americana offre un chiaro esempio dell’elevato grado di coscienza antipopolare e antidemocratica dei suoi creatori. Ingenuità? Opportunismo? Tecnica di mercato? O forse l’anarchico Chomsky dà una lezione di marxismo al bolscevico Antonio Negri?
Un’altra delle fantasie neoliberali sostenute dagli autori di Impero, è che lo Stato-nazione starebbe per estinguersi.
È curioso che Negri, grande ammiratore di Lenin e inoltre vecchio stratega della conquista del potere statale, se ne esca ora con un simile sproposito(43).
Fra le poche proposte pratiche di Impero, vi sono le due campagne per il salario sociale (rifrittura del vecchio “salario garantito” di Potere Operaio) e la cittadinanza globale, vale a dire, salario e documenti garantiti a tutti, indipendentemente dalla nazionalità, dalla classe e dalla condizione sociale. Senza discutere il senso e l’opportunità di tali rivendicazioni, segnalo un paradosso: se lo Stato-nazione non esiste più, a chi si rivolgono Negri e Hardt? All’Onu?
In realtà, il processo evolutivo dello Stato-nazione è assai contraddittorio. Da un lato, l’ondata di privatizzazioni ne ha intaccato la capacità distributiva (e la credibilità), distruggendo gli spazi pubblici; dall’altro, incrementando la conflittualità, ne ha aumentato in progressione geometrica le funzioni repressive.
Cosicché, quello che abbiamo oggi, non è lo Stato alleggerito di cui parlano i neoliberali avvallati da Negri, ma una sorta di keynesismo di guerra (warfare economics) che divora risorse pubbliche togliendo entrate ai poveri per darle ai ricchi, in una scala sociale prima sconosciuta(44).
Per questo motivo è sempre vivo lo spettro di una guerra imminente o contro gli Stati “canaglia” (Irak, Corea, Libia, ecc.), oppure contro nemici interni, e perfino contro un solo individuo, come nel caso di Bin Laden. E sembra che ne avremo per molto: almeno trent’anni secondo dichiarazioni della Casa Bianca.
La conclusione è che, sia in economia che in politica, la funzione dello Stato-nazione continua a essere imprescindibile per il capitalismo: questo non potrebbe sopravvivere neppure una settimana se quello cessasse di fornire non solo garanzie politiche e militari, ma anche consistenti risorse economiche.
Il caso degli Stati Uniti è significativo: basti pensare agli astronomici sussidi agricoli o alle misure di appoggio al settore del trasporto aereo dopo l’11 settembre. La pratica dei sussidi agricoli, diciamolo pure, è stata condannata come illegale persino dall’ Operation and Maintenance Center (OMC), senza che i dirigenti statunitensi siano neppure arrossiti! È superfluo dire che l’appetito di sovvenzioni di questa classe non dà segni di calo.
E che dire dell’imperialismo? Come sempre, la riflessione di Negri parte da inquietudini legittime. Sono d’accordo sulla necessità di rivedere le vecchie teorie.
Il punto di partenza dovrebbe essere riconoscere che tutti gli Stati sono potenzialmente imperialisti – e che lo sono sempre stati – sebbene i rapporti di forza fra loro cambino di continuo(45).
Subito dopo è necessario ammettere che, oggi, nessuno Stato si trova nella condizione di competere con gli U.S.A. da nessun punto di vista: militare, economico, politico o culturale. Questo fa sì che venga meno una delle principali caratteristiche dell’imperialismo classico, così come lo analizzava, per esempio, Rosa Luxemburg (o lo stesso Lenin), ossia, l’esistenza di un certo livello di competizione per la conquista di mercati, territori o materie prime(46). Dopo la caduta del blocco sovietico, nessuno Stato, o regione politica, è riuscita a contrastare il potere degli U.S.A.
Come possiamo definire questa nuova realtà? Impero? Imperialismo? Il nome non ha molta importanza, sempre che sia chiaro che un solo paese, gli U.S.A., sta imponendo un sistema planetario di Stati vassalli, organizzato in sovranità limitate, che ironicamente assomiglia molto a quello che, per decenni, l’Unione Sovietica impose ai suoi satelliti(47).
Tale sistema presuppone Stati deboli all’esterno – ovvero malleabili e sensibili alle necessità degli USA.-, ma forti all’interno, ossia, repressivi e capaci di imporre quelle stesse necessità ai propri subordinati. Negri ha in parte ragione quando critica i difensori della sovranità, ma soltanto nel senso in cui la sovranità non è, né può essere, un valore in se stesso. Come precisa Chomsky, la sovranità può essere un valore unicamente nella misura in cui accresce la libertà e i diritti degli esseri umani(48).
Il nuovo ordine fa proprio questo: porre fine ovunque ai diritti acquisiti in decenni di lotte sociali. L’intento, ovviamente, continua a generare attriti e disagi, in particolare – anche se non soltanto – fra le “classi pericolose” di un mondo sempre più afflitto dalla povertà, dall’insicurezza e dai problemi ambientali.
Gli zapatisti del Chiapas, i piqueteros argentini, gli indigeni di Ecuador e Bolivia, così come i movimenti sociali in Brasile e Venezuela, mostrano gravi sintomi di crisi nel retro-cortile stesso dell’impero. In Europa il vento di Genova 2001 non ha ancora smesso di soffiare e si moltiplicano le manifestazioni contro la guerra.
Le rotture, quando ci sono, nascono come uno ya basta generalizzato, e non grazie ai partiti politici i quali, salvo rare eccezioni, accettano l’ordine costituito anche se sono di sinistra.
Siamo dunque molto lontani dall’impero decentralizzato e deterritorializzato, che descrivono i nostri autori. Gli eventi dell’11 settembre e la successiva politica dell’amministrazione Bush dimostrano una volta ancora, il fallimento del loro modello teorico: la reazione americana è quella di uno stato imperialista che cerca, in tutti i modi, di adattare il pianeta ai propri interessi.
Bisogna aggiungere che questi rigurgiti “sovranisti” degli Stati Uniti hanno messo a disagio il nostro autore. Questi, dapprima ha interpretato la caduta delle torri gemelle come un affare interno all’impero, qualcosa che “gli appartiene”, in seguito si è corretto sostenendo che saremmo di fronte a una reazione imperialista contro l’impero (!)(49).
Hardt ha confermato la seconda versione in un recente articolo in cui esorta «le élites globali [ad agire] nel proprio interesse come rete imperiale decentrata, arrestando così il processo di trasformazione degli Stati Uniti in un “potere imperialista secondo il vecchio modello europeo”»(50). Strano appello di questi profeti della moltitudine.
La realtà è ben diversa. «Oggi – sostiene lo storico post comunista Eric Hobsbawm – così come durante tutto il XX secolo, assistiamo ad una totale assenza di un’autorità globale effettiva, capace di controllare e risolvere contese armate. La globalizzazione si è fatta strada in quasi tutti gli ambiti – economico, tecnologico, culturale e anche linguistico -, eccetto che in uno: quello politico-militare. Gli Stati territoriali continuano a essere le uniche vere autorità»(51).
Proclamare, in maniera trionfalista, la fine dello Stato non aiuta certo ad eliminarlo. È una cattiva teoria, perché non è utile all’azione. Può sembrare una banalità, ma è necessario riaffermarla quando veniamo a sapere che i compagni della rivista «Rebeldía» si sentono parte di «una sinistra, non disposta ormai a perdere tempo nella disputa di un potere nazionale che non esiste più»(52).
Andiamo! Una cosa è dire, come fa John Holloway - e prima di lui gli zapatisti, e molto prima i libertari di tutte le tendenze -, che non si può cambiare il mondo “prendendo” il potere statale, e un’altra, ben diversa, è dichiarare che il potere nazionale non esiste più(53). Chi invia i carri armati in Chiapas? Chi arma i paramilitari? Chi sta dietro al Plan Puebla Panamá?(54) Il famoso apparato decentralizzato e deterritorializzato? No! Un potere nazionale con nome e cognome: lo Stato messicano (sostenuto chiaramente dal capitalismo globale).
Gli Stati-nazione; sono i nostri nemici e anche nostri interlocutori. Non possiamo far finta che non esistano. E non possiamo abbassare la guardia: dobbiamo fare pressione su di loro, provocarli, incalzarli. Talora dovremo scendere a compromessi e lo faremo con autonomia. Gli zapatisti hanno dimostrato che ciò è possibile. E sebbene i risultati non siano soddisfacenti, essi, a differenza di altri, hanno conservato la dignità.
Il nostro cammino, il cammino dei movimenti per l’umanità e contro il neoliberalismo, non è facile. Oltre che di radicalità teorica e pratica, abbiamo bisogno di duttilità, pazienza e di una buona dose di pragmatismo.
Occorre ripeterlo una volta di più? Il capitalismo e lo Stato-nazione, i due mostri creati dall’Occidente, sono arrivati insieme e stanno per scomparire insieme. E, se non sapremo seppellirli in un mare di risate, rimarranno con noi ancora per molto, come il dinosauro del racconto di Tito Monterroso.


Ottobre 2002 – giugno 2003.


* La prima parte di questo lavoro è apparsa sul n.4 di Collegamenti Wobbly del luglio-dicembre 2003.


Note:
(1)  Cfr. A.Negri, Du retour. Abécedaire biopolitique, Calmann-Levy, Paris 2002. Consultare anche l’intervista del 13 luglio 2000 nel CD-rom allegato a AA. VV., Futuro anteriore. Dai ‘Quaderni Rossi’ ai movimenti globali: ricchezze e limiti dell’operaismo italiano, Derive-Approdi, Roma 2002.
(2) A.Negri, Crisi dello stato-piano. Comunismo e organizzazione rivoluzionaria, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 57.  
(3) Uno dei raggruppamenti più conosciuti di quest’area era il “Collettivo di via dei Volsci”, a Roma, che presto avrebbe fondato Radio Onda Rossa, un’emittente del movimento che esiste ancora. Un altro era “A/traverso”, gruppo guidato a Bologna da Franco Berardi, ex-militante di Potere Operaio. “A/traverso” fondò l’emittente Radio Alice, che avrebbe avuto un ruolo di spicco nella rivolta del marzo 1977.
(4) Negri ha sviluppato il tema dell’autovalorizzazione in Il dominio e il sabotaggio. Sul metodo marxista della trasformazione sociale, Feltrinelli, Milano 1978. Si veda anche M.Hardt – A.Negri, Empire, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 2000, tr. it., Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, a cura di A. Pandolfi, Rizzoli, Milano 20022, p. 377 (309) [fra parentesi le pagine dell’edizione inglese].
(5) Cfr. A.Negri, Proletari e Stato. Per una discussione su autonomia operaia e compromesso storico, Feltrinelli, Milano 1976, p. 30. La questione dello scioglimento della società civile nello Stato riappare in M.Hardt – A.Negri, Impero, cit., pp. 40; 306-307; 313. (6)A.Heller, La teoria dei bisogni di Marx, a cura di P.A.Rovatti, Feltrinelli, Milano 1977, p. 26.
(7) A.Negri, Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui ‘Grundrisse’, Feltrinelli, Milano 1979, p. 194. 
(8) A.Negri, Il dominio e il sabotaggio, cit., pp. 61; 70.
(9) Negli anni settanta, in Italia, vi erano decine, e forse centinaia, di gruppi che praticavano la lotta armata. Oltre alle Brigate Rosse, si possono menzionare i Nuclei Armati Proletari (NAP), Prima Linea, Mai più senza fucile, Azione Rivoluzionaria e Proletari Armati per il Comunismo.
(10) È importante ricordare che non è mai esistito in Italia un gruppo chiamato “Autonomia Operaia”. Negri dirigeva una delle molte organizzazioni che appartenevano all’area dell’autonomia operaia.
(11) Il bilancio della lotta armata è tragico: fra il 1969 e il 1989, ben 4087 militanti furono processati per atti collegati al tentativo di sovvertire l’ordine costituzionale. Di essi, 224 sono ancora in carcere e 130 beneficiano di un regime di semilibertà. Altri 190 sono profughi e un centinaio si trova rifugiato in Francia con uno status non ufficiale. La violenza politica interna causò 380 morti (128 attribuibili alla sinistra, un centinaio alla destra e gli altri alle forze di repressione) e circa 2000 feriti. Secondo dati ufficiali, l’area sovversiva contava più o meno 100.000 persone. Si veda AA. VV., Progetto Memoria. La mappa perduta, Edizioni Sensibili alle foglie, Roma 1994 e C.Bermani, Il nemico interno. Guerra civile e lotta di classe in Italia (1943-1976), Odradek, Roma 1997. (12)Cfr. «Rosso», maggio 1978. La rivista si pubblicava a Milano ed era l’organo dei Gruppi Gramsci.
(13)Dopo due anni di prigione, Negri uscì grazie all’elezione come deputato nelle liste del Partito Radicale. Nel 1983, se ne andò in esilio in Francia. 
(14) Negli anni ottanta e novanta l’ipotesi di un operaismo libertario fu mantenuta in vita nella riflessione di alcuni periodici come «Primo Maggio», «Collegamenti-Wobbly» e «Vis-à-Vis».
(15) Si veda, per esempio, A.Negri, Trentatré lezioni su Lenin, Manifesto Libri, Roma 2004 (l’originale è del 1972-73). Nell’introduzione, scritta nel settembre 2003, l’autore accenna alla sua “relativa ingenuità” di allora, presentandosi adesso come un critico della tradizione leninista.
(16) Cfr. M.Hardt – A.Negri, Impero, cit., pp. 131; 139.
(17) A.Negri, Marx oltre Marx, cit., p. 55.
(18) Cfr. ibidem, pp. 24-25.
(19) Cfr. A.Negri, Spinoza, Derive-Approdi, Roma 1998, p. 394. Questa edizione comprende: L’anomalia Selvaggia (1980), Spinoza sovversivo (1985) e Democrazia e eternità in Spinoza (1994), i principali testi spinoziani di Negri.
(20)K.Korsch, Karl Marx, a cura di G.Bedeschi, tr. it. di A. Illuminati, Laterza, Bari 1969, p. 101.
(21) Cfr. A.Negri, Spinoza, cit., p. 35.
(22) Ho cercato, invano, una spiegazione soddisfacente del concetto di “moltitudine” nell’opera di Negri. Sembra che il compito di chiarirlo sia spettato a un suo allievo. Si veda P.Virno, Grammatica della moltitudine. Per un’analisi delle forme di vita contemporanee, Derive-Approdi, Roma 2002. 
(23) Cfr. N.Bobbio - M.Bovero, Sociedad y Estado en la filosofía moderna. El modelo iusnaturalista y el modelo hegeliano-marxiano, FCE, México 1994, p. 94.
(24) Cfr. M.Hardt - A.Negri, Il lavoro di Dioniso. Per la critica dello stato post-moderno, Manifesto Libri, Roma 1995, p. 27.
(25) Cfr. M.Hardt – A.Negri, Impero, cit., p. 107.
(26) L.Goytisolo, «El País», 7 giugno 2003.
(27) Si veda M.Lazzarato - A.Negri, Lavoro immateriale e soggettività, Derive-Approdi, Roma 1992, n.0 e cfr. M.Hardt - A.Negri, Impero, cit., pp. 271-275 (290-294).
(28)K.Marx, Lineamenti fondamentali della critica della economia politica (Grundrisse) 1857-58, a cura di E. Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1983, p. 400 (592) [fra parentesi indico le pagine dell’edizione tedesca].
(29) Ibidem, p. 401 (593).
(30) Ibidem, p. 403 (504).
(31)Cfr. M.Turchetto, Dall’operaio massa all’imprenditorialità comune. La sconcertante parabola dell’operaismo italiano, nel sito citato: http://www.intermarx.com/.
(32) M.Hardt – A.Negri, Impero, cit., p. 275 (294).
(33) A.Negri, Lettera dal Carcere di Rebibbia, Roma 10/9/97, messo in rete da Tactical Media Crew [lista ecn.org].
(34) In Il lavoro di Dioniso, cit., pp. 29-30, Negri confessa di aver accettato la teoria di Mario Tronti sull’autonomia del politico. Invece in Impero ci fa sapere che «l’autonomia della politica è arrivata alla fine» [cfr. M.Hardt – A.Negri, Impero, cit., p. 288 (307)].
(35)  Cfr. M.Hardt – A.Negri, Impero, cit., pp. 381-382 (413).
(36) Le prime critiche alla figura del militante risalgono al 1966 e si devono alla Internationale situationniste. Si veda De la misère en milieu étudiant, tradotto in circa venti lingue. 
(37) Si veda Discursos zapatistas, manifestazione svoltasi a San Cristóbal, Chiapas, il primo gennaio 2003, http://chiapas.indymedia.org.
(38) La constatazione è di Maria Turchetto in L’impero colpisce ancora, in http://www.intermarx.com.
(39) M.Hardt – A.Negri, Impero, cit., p. 365. 
(40) Si veda H.Arendt, On revolution, Vicking Press, 1996, soprattutto il capitolo III. Negri aveva già fatto l’apologia della costituzione americana in Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, SugarCo, Milano 1992 (riedizione: Manifesto libri, Roma 2002). 
(41) Citato in A.A.Boron, Imperio. Imperialismo. Una lectura crítica de Michael Hardt y Antonio Negri, Clacso, Buenos Aires, maggio 2002, p. 110 [tr. mia, N.d.T.]. Il lettore interessato ad approfondire il tema può consultare i primi capitoli di H.Zinn, A people’s history of of the United States. 1492 – Present, Harper Collins Publishers, New York 1999.
(42) Nel tentativo di contentare Dio e il diavolo, Negri formula la domanda: «come porre il leninismo dentro questa nuova condizione della forza lavoro? [...] Quale produzione di soggettività [sarà necessaria] per la presa del potere, oggi, da parte del proletariato immateriale?». E risponde: «[...] Lenin andava [...] riproposto “oltre Lenin” [...], [verso] “la democrazia assoluta” [...] della moltitudine».
(43) Cfr. A.Negri, Che farne del Che fare? Ovvero il corpo del General Intellect, in Posse. Politica. Filosofia. Moltitudini, Manifesto Libri Edizioni, Roma, maggio 2002, pp. 123-133; qui citato dal sito:
http://www.rekombinant.org/fuga/modules.php.  
(44) Si veda al proposito il pacchetto di Bush (gennaio 2003) in aiuto degli speculatori finanziari, che prevede una riduzione di 300 miliardi di dollari a titolo di imposte sui dividendi azionari. 
(45)Uno degli errori di Lenin fu credere che l’imperialismo fosse semplicemente una “tappa” del capitalismo, quando in realtà era inscritto nella sua logica sin dall’inizio.  
(46)Cfr.S.Cappello, L’imperialismo da Disraeli a Bush, in «Collegamenti-Wobbly» No. 2, nuova serie, Pisa, Italia.  
(47) Cfr. T.Pulsinelli, Sobre el señor y los vasallos. Estados Unidos en el atardecer del neoliberalismo, in http://www.lafogata.org/02inter/8international/sobre.htm.  
(48) Si veda N.Chomsky, Socioeconomic Sovereignity, conferenza tenuta ad Albuquerque il 26 febbraio 2000 (contenuta in Rogue States, Pluto Press, London 2000). Al volo, segnalo che questo intenso lavoro di una ventina di cartelle dice sull’impero più di Negri e Hardt nel loro voluminoso libro.  
(49) Cfr. A.Negri, Du retour, cit., pp. 185; 209; intervista a «Il Manifesto», 14 settembre 2002. 
(50) M.Hardt, Folly of our masters of the universe. Global elites must realize that US imperialism isn’t in their interest, in «The Guardian», 18 dicembre 2002.  
(51) E.Hobsbawm, La guerra y la paz en el siglo XX, in «La Jornada», México, 24 marzo 2002. 
(52)«Rebeldía», editoriale del No. 1, México, D. F., novembre 2002.  
(53) Cfr. J.Holloway, Cambiar el mundo sin tomar el poder, Universidad Autónoma de Puebla, Puebla, 2002. In evidente mala fede, molti commentatori hanno voluto mettere Holloway e Negri nello stesso sacco.  
(54) Questi esempi riguardano il Messico perché la versione originale del testo è stata pubblicata in quel paese (Ndt)

27 novembre 2008

Classi, fantasmi e postmodernità. Istruzioni per l'uso.

di Roberto Finelli


[Questo testo é tratto dal n.8 della rivista Vis-à-Vis - Quaderni per l'autonomia di classe, Massari, 2000 ed é reperibile in formato .pdf sul sito della medesima]

Si dice che di fantasmi non ce ne siano più. A dire il vero è un gran peccato, perché come sa bene chi frequenta Freud e Shakespeare, il fantasma è spesso legato al desiderio, alla fantasia, all’altra faccia di quello che gli esseri umani più conformisti e più noiosi chiamano la realtà. Il significato di “fantasma” ha infatti rimandato più volte, nella storia della cultura dell’umanità, non all’illusione, quale sinonimo di assenza e vuoto di realtà, ma all’immaginazione, quale capacità di vedere nella realtà il mondo immaginario che paradossalmente la anima e le dà vita.
Del resto da quando sono miserevolmente crollati i regimi autoritari e sciagurati dell’Est europeo, anche quel fantasma del comunismo che dal Manifesto del 1848 aleggiava sull’Europa e da lì sul mondo intero, sembra sia andato definitivamente in pensione. Non perché ci sia molto da dolersene. Anzi, all’opposto. Proprio l’esautoramento di quell’esperienza storica in cui molti di noi non si sono mai, nemmeno per un attimo, riconosciuti, può consentire, se si ha il coraggio di esplicitarne tutti i princìpi che ne sono stati alla base (sul piano della concezione filosofico-antropologica della persona umana, su quello dell’organizzazione economica e politica, su quello del respiro culturale), di liberare e di rimettere in circolazione il concetto di comunismo: purché cioè questo sia purificato da tutto il moralismo, lo spirito gerarchico, la mortificazione del proprio sé, che ha manipolato generazioni di militanti e sia sempre più coniugato con quello spirito dionisiaco, con quello spirito dell’Übermensch , attraverso cui Nietzsche descriveva una vita umana capace di individuazione e realizzazione del proprio sé. Ma in attesa che un’intera epoca storica e il susseguirsi di varie generazioni metta a tema, articoli, specifichi, sperimenti un tale comunismo dionisiaco, tornando ad assegnare pienezza e nobiltà di senso a tale termine, c’è solo da constatare che tutta la fantasia che prendeva senso da tale termine s’è per ora, e presumibilmente per moltissimi anni avvenire, volatilizzata, lasciando dietro di sé solo la legge, tetra per altro e anch’essa assai noiosa, del principio di realtà.
Eppure, a ben vedere, c’è ancora oggi almeno un fantasma che gode di buona salute e gira per il mondo, anzi si viene facendo proprio, in questi anni, sempre più invasivo e presente. Un fantasma che, proprio come vuole la fantasmatologia più rigorosa, è assolutamente invisibile e la cui esistenza viene dedotta solo indirettamente dagli effetti e dai sintomi che la sua presenza assente produce nel mondo reale.
Per uscir fuori della metafora – ma, vedremo, non troppo, perché la metafora qui coincide con la cosa stessa - il fantasma in questione, questo è il nostro convincimento, è il capitale, così come si realizza nel periodo storico che stiamo vivendo e che molti oggi vogliono definire come “postmoderno”.
Per inseguirlo nella sua identità e andarlo a cacciare dove presume di essersi nascosto e celato agli occhi di tutti, abbiamo preferito usare la formula letteraria delle tesi, più agile a dipanare i vari momenti del percorso e più utilizzabile, in questo nostro tempo di rapinosa velocità del vivere, come un vademecum invece per andare adagio(1) e solo così carpire le tracce dell’avversario.

Tesi I

Il “postmoderno” è generalmente concepito come la conclusione della modernità e come il passaggio a un’altra epoca della storia e della vita sociale. Società postindustriale o società dell’informazione, della fine delle classi e delle grandi e sistematiche visioni del mondo, della fine del lavoro manuale a favore di quello intellettuale e spirituale, la società postmoderna è definita e dipinta generalmente come eterogenea ed altra dalla modernità(2). La tesi che qui si sostiene è, invece, che il postmoderno sia il compimento del moderno nel senso della sua più piena realizzazione: e specificamente che la caratteristica essenziale e più evidente di tale realizzazione consista in un processo che definiamo come la diffusione nell’intera realtà sociale e individuale di un soggetto astratto, ossia più sinteticamente come lo svuotamento del concreto da parte dell’astratto.
Tale soggetto astratto e impersonale è il capitale, come è stato teorizzato da Marx, quale ricchezza non antropomorfa - ossia solo quantitativa -, che ha come proprio fine costitutivo l’espansione tendenzialmente inesauribile e non limitabile della sua quantità: come, cioè, ricchezza che piega alla sua accumulazione l’intero mondo qualitativo dei valori d’uso e dei bisogni umani. Affermare questo significa porre come soggetto della storia contemporanea una mera quantità : una quantità cioè talmente astratta dal mondo delle qualità, che le uniche differenze qualitative che albergano in essa sono quelle appunto quantitative. E significa distinguere il capitale dal capitalista: giacché una cosa è il capitale come soggetto tendenzialmente infinito (in quanto pura quantità in rapporto di continua accumulazione con se stessa) e un’altra cosa sono i capitalisti, quali soggetti finiti nel tempo e nello spazio, che di quel primo soggetto si fanno rappresentanti e interpreti, nel mondo differenziato e qualitativo della produzione e vendita dei valori d’uso. Così il capitale, nel suo essere quantità pura destinata a un’accumulazione infinita, istituisce un piano di realtà astratta e sovrasensibile che va ontologicamente distinto - ma non opposto - all’agire psicologico del capitalista, in quanto soggetto umano contestualizzato nello spazio e nel tempo.

Tesi II

Questa concezione della modernità come istituita su un soggetto astratto e non antropomorfo, che come tale (cioè come principio organizzatore di un’intera epoca storica) fa per la prima volta la sua apparizione nella storia, non è mai stata definita da Marx in modo esplicito e sistematico. Essa va estratta dai testi marxiani e condotta a coerenza e fatta valere contro fasi e teoremi antropocentrici del pensiero dello stesso Marx: rappresentati essenzialmente dall’umanesimo dell’alienazione, proprio dei Manoscritti del ’44, e dal paradigma dello sviluppo storico fondato sulla contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione. Entrambi questi teoremi muovono infatti da una metafisica del soggetto umano che, con la sua prassi (lavoro), sarebbe potenziale e incondizionato dominatore della natura e della storia e che, invece, per divisioni intestine al genere umano aliena la sua produttività in relazioni sociali che lo espropriano e lo limitano. La teoria del capitale, nella nostra interpretazione, è all’opposto costruita come un processo senza soggetto umano, perché,per distinguere da subito la nostra tesi da concezioni strutturalistiche alla Althusser che hanno messo a tema “processi senza soggetto”, nella società moderna in cui la ricchezza viene prodotta capitalisticamente v’è senza dubbio alcuno un soggetto che, pur non essendo costituito da soggetti, è il valore-lavoro nella sua astrazione dal mondo naturale e umano e nella circolarità illimitabile della sua accumulazione. Tutto ciò presuppone ovviamente che sia il capitale a dare vita, nel senso pieno del temine e della sua diffusione attraverso l’intera società moderna, al denaro e non viceversa, come ha voluto una pervicace lettura storicistico-evoluzionistica che pretende di spiegare la complessità partendo dal semplice e che trova in Engels il suo primo ingenuo assertore.
Del resto, l’opera matura di Marx subisce un paradossale effetto di autofraintendimento scientifico messo in atto proprio dal suo stesso autore. Perché, come Freud ha sempre voluto dare alla sua attività di teorico e clinico una legittimazione desunta dai parametri della concezione positivistica e meccanicistica della scienza, mentre in effetti inaugurava con la sua opera un campo dell’esperire per nulla riducibile a canoni quantitativo-deterministici - e dunque apriva una contraddizione tra l’innovazione teorico-pratica cui dava luogo e la riflessione epistemologica con cui pretendeva concettualizzarla e formalizzarla - così il Marx della Critica dell’economia politica troppo disinvoltamente e continuativamente ha concepito il senso della sua ricerca sul Capitale secondo l’impianto umanistico dei suoi primi scritti di contenuto prevalentemente filosofico-antropologico. Trovandosi così a giustapporre un’ontologia sociale, qual è il sistema del Capitale, istituito sulla categoria della ricchezza astratta e dei suoi processi di metamorfosi, con una filosofia politica della storia fondata sul soggetto umano produttore e la storia delle classi che dalla sua repressione e divisione derivano. E’ Marx, cioè, che per primo ha continuato a legittimare epistemologicamente un contenuto ontologico, istituito su quel principio assolutamente nuovo nella storia degli uomini che è l’accumulazione di pluslavoro astratto, con una forma convalidante e veritativa che deriva dal primato di un soggetto poietico e dal procedere ineluttabile delle sue scissioni e ricomposizioni. E questo autofraintendimento ha consegnato, insieme all’enorme ricchezza della sua opera, ai suoi successori. Ma altra cosa è l’astrazione del pluslavoro capitalistico, che rimanda alla separazione assoluta della forza-lavoro dalla proprietà e dall’uso dei mezzi di produzione, e altra cosa l’ alienazione dell’umanesimo giovanile di Marx che rimanda alla separazione tra uomo e uomo, ossia tra uomo e genere umano.

Tesi III

Questa fondazione del capitale, istituita non su soggettività umane ma sulla centralità e sulla forza ontologica dell’astrazione, è confermata dal circolo del presupposto-posto: cioè dal metodo peculiare, d’origine hegeliana, che Marx adotta - si ripete senza assunzione esplicita - per l’esposizione antisoggettivistica del sistema di realtà costruito sul capitale. Come ho già sostenuto in altri miei scritti(3) questo metodo è costruito sul circolo, per cui ciò che all’inizio necessariamente appare come un’ipotesi soggettiva dell’osservatore che compie la ricerca, in tanto si dimostra invece verità oggettiva e reale, in quanto è il risultato della prassi sociale maggioritaria e dominante. Il presupposto è vero, cioè non vive solo nella mente di un soggetto, solo se è posto dal lavoro e dalla prassi dei membri di un intero corpo sociale. Per questo lo definiamo come il “circolo del presupposto-posto” o anche come il “circolo di teoria e prassi”: circolo che originariamente concepito da Hegel, prima sul piano fenomenologico-sistematico di una teoria della soggettività dialettica, poi su quello di una Soggettività speculativa che s’articola attraverso la categoria della negazione assoluta, viene riformulato e originalmente trasferito da Marx in quel contesto, non assoluto, ma storicamente delimitato che è la società moderna in quanto istituita sull’accumulazione di capitale.
Così l’astrazione del valore-lavoro - anziché rimandare a una generalizzazione logico- mentale che ridurrebbe il lavoro astratto a concetto e a criterio di misura solo convenzionale ed esterno rispetto alla realtà oggettiva, differenziata e molteplice, dei concreti valori d’uso - si mostra essere un’astrazione reale, un’astrazione, cioè, che sta nelle cose e non nelle idee attraverso cui gli uomini pensano le cose, solo quando il dominio onnipervasivo del capitale nel processo produttivo e la “sussunzione reale” conducono la forza-lavoro, nella pressoché totalità dei processi produttivi, ad erogare lavoro sempre meno progettuale e concreto e sempre più codificato e astratto. Di conseguenza, per tale spessore di realtà oggettiva e pratico-sociale, il lavoro astratto è contemporaneamente il centro di senso del Capitale di Marx e il centro di senso della storia sociale del capitalismo: potendosi leggere tutta la storia della modernità dal punto di vista economico, appunto, essenzialmente come la storia dell’ortopedia e della normalizzazione della forza- lavoro, obbligata ad erogare un lavoro il cui senso è sempre più determinato in modo dominante dalla quantità temporale della prestazione.
Entra così nella storia, con il capitale come accumulazione di valore-lavoro astratto, per la prima volta come soggetto e principio della struttura e della riproduzione sociale, un’astrazione reale. E proprio in ciò consiste la peculiarità della rivoluzione epistemologica di Marx: nell’aver sottratto l’astrazione a un ambito di economia utilitaristica solo logico-mentale, come ha sempre affermato l’empirismo, o a un ambito di attingimento della realtà spirituale e metafisica, come in genere ha teorizzato il razionalismo scolastico e idealistico, e nell’averne fatto invece un principio di organizzazione della realtà storico-sociale e materiale-naturale .
Infatti, dalla prospettiva dell’astrazione reale la storia della modernità viene sintetizzata e conchiusa tra i due estremi della sussunzione formale e della sussunzione reale della forza-lavoro: in un processo cioè di trasformazione dell’uso della forza-lavoro che conduce quest’ultima, dalla primitiva espropriazione giuridica del plusprodotto, all’incapacità persino di mettere in moto e di utilizzare i mezzi di produzione. La storia della modernità è così storia di una costante innovazione tecnologica, la quale, se dal punto di vista del rapporto tra i molti capitali è legata alla loro reciproca concorrenza, dal punto di vista del capitale considerato nella sua totalità nel confronto con la forza-lavoro, è legata alla progressiva regolamentazione “scientifica” dell’uso di quest’ultima. E’ infatti l’ uso della forza-lavoro a stabilire, com’è noto, nel pensiero di Marx, il confine tra ciò che è regolato dal diritto e ciò che invece è regolato dal dominio: dominio volto appunto, attraverso l’evoluzione dei sistemi uomo-macchina, a garantire lo svolgersi di un processo lavorativo sempre più conforme a procedure oggettive e rigidamente codificate. Taylorismo e fordismo, all’inizio del ’900, ne rappresentano la forma archetipica, approfondita e perfezionata per tutto il secolo, nel cui orizzonte grande fabbrica e parcellizzazione delle mansioni, processo produttivo organizzato secondo catena di montaggio e trasmissione gerarchica e verticale dei compiti costituiscono le caratteristiche essenziali di un’organizzazione del lavoro il cui fine, riguardo alla forza-lavoro, è il controllo e la regolarizzazione della sua corporeità: ossia l’eliminazione di ogni movimento e di ogni postura che non sia funzionale al processo produttivo.

Tesi IV

Il postmoderno nasce quando oggetto del dominio del capitale sulla forza-lavoro cessa di essere il “corpo” e comincia ad essere la “mente” . Quando cioè, funzione fondamentale del processo produttivo, per quanto concerne la forza-lavoro è la subordinazione e l’omologazione della coscienza. Sia che si tratti infatti di erogazione di energia lavorativa alla macchina informatica, sia che si tratti di partecipazione alle procedure della cosiddetta “qualità totale”, ciò che è in gioco nella sussunzione reale della forza-lavoro al capitale non è più la materia ma lo spirito del lavoratore. L’intelligenza di questi, la sua capacità di scelta, la sua intera complessità emozionale-intenzionale è ciò che infatti ora serve al capitale, da quando l’automazione unita all’informatica espelle forza-lavoro manuale e richiede forza-lavoro mentale, e da quando la filosofia dell’azienda richiede un lavoro riflessivo, capace cioè di assumere il proprio costante miglioramento a oggetto di se stesso. In particolare, la macchina informatica richiede una forza-lavoro mentale a sé particolarmente subalterna ed omogenea, essendo la sua caratteristica fondamentale quella di collocare una serie enorme d’informazioni al di fuori del cervello umano e di dar luogo così a una mente artificiale, di cui quella umana diventa solo funzione e appendice.
Almeno appare esser tale nel lavoro salariato o nel lavoro autonomo appaltato al capitale, laddove è ampliamento di memoria a disposizione di un soggetto elaboratore e creativo solo nel caso di lavori privati e ad alto contenuto di professionalità. Così la macchina dell’informazione, applicata a processi produttivi capitalistici, istituisce un sistema macchina-forza-lavoro che richiede erogazione di lavoro astratto: cioè di lavoro che, privo di coscienza del senso complessivo delle informazioni che organizzano e comandano il processo produttivo, immette risposte ed elaborazioni già predeterminate e precodificate. In tal modo, mentre il lavoro astratto tayloristico-fordistico è conseguenza di una occupazione totale del corpo da parte dell’automatismo macchinico, la quale pure lascia libera nella ripetizione dei movimenti la mente, nel nuovo lavoro astratto è la mente che viene occupata e pervasa da un codice e una semantica che non hanno nulla a che fare con il corpo della forza-lavoro in questione.
In una condizione non patologica e scissa dell’essere umano – qual è certo non quella vissuta dalla forza-lavoro messa in opera dal capitale - il senso del vivere e dell’agire è dato fondamentalmente da una relazione, in cui il corporeo-emozionale, compresente ma irriducibile al mentale, rappresenta la fonte mai esauribile dell’attività interpretativa ed elaborativa della mente: in una costituzione verticale del senso che s’integra con quella orizzontale derivante dal nesso del medesimo individuo con le altre soggettività(4). Nel nuovo tipo di lavoro, invece, il sistema macchina informatica-forza-lavoro richiede una separazione radicale, opposta a quella del lavoro taylorista-fordista, della mente dal corpo: separazione che consegna la mente umana a una semantica decorporeizzata e anaffettiva. Del resto, la sintassi del linguaggio informatico, costruita sulla logica binaria dell’alternanza tra il sì e il no, riproduce ed elabora il mondo della vita secondo una forma astratta, perché priva di contrasti e contraddizioni. L’esclusione cioè del sì dal no, che sta alla base della sintassi informatica, impedisce d’esprimere l’ambivalenza che strutturalmente connota l’esperienza emotiva e proprio per questo può essere principio di un mondo informatizzato, il cui orizzonte è quello della certezza analitica, anziché quello dialettico e multiverso dell’esperienza concreta. L’astrazione del nuovo lavoro mentale è perciò quella di una mente la cui attenzione e cura, astratta dal senso e dal fondamento della corporeità , è tutta assorbita da un universo di immagini e simboli alfa-numerici, attraverso la cui apparente neutralità ed oggettività si dispone il senso e il comando di un’organizzazione del processo produttivo volto, come sempre, alla valorizzazione. L’informazione, in un processo di lavoro capitalisticamente strutturato non è mai solo descrittiva, ma è sempre anche prescrittiva: ordina cioè un codice di senso predeterminato che sottrae alla forza-lavoro in questione, per quanto complessa sia la sua funzione, capacità autonoma d’innovazione e di creazione di senso.
A questa teorizzazione del nuovo lavoro mentale, come conferma della teoria marxiana dell’astrazione reale, si oppongono tutte le concezioni che nella descrizione dei nuovi processi economici parlano di “riscossa della varianza e dell’indeterminazione”(5), cioè di quelle visioni che, accanto alla permanenza di modalità fortemente astratte e standardizzate, sottolineano la funzionalità e la diffusione di saperi sempre più concreti, circostanziati e non omologabili tra di loro, come mezzi indispensabili per affrontare la sempre maggiore complessità, articolazione e relazione del mondo economico contemporaneo. I contesti di produzione e di mercato nell’economia postfordista divengono, in un’organizzazione a rete, sempre più complessi e differenziati: dunque non standardizzabili e affrontabili attraverso automatismi, ma tali che nella loro continua variazione e differenza rimandano, per essere affrontati e risolti, alla complessità e all’elasticità proprie solo dell’esperienza e della mente umana. C’è bisogno perciò di un sapere sempre più contestuale e concreto, che immetterebbe secondo questi teorici, nell’economia moderna, una fortissima tendenza verso l’individualizzazione, riducendo di gran lunga la validità scientifica del modello marxiano dell’astrazione reale, il quale ha potuto avere senso esplicativo del reale solo per quanto concerne il capitalismo ottocentesco, ma che già con l’organizzazione fordista si mostra insufficiente a spiegare la complessificazione del sapere e dell’esperienza che la grande fabbrica con i capi, con i tecnici, con i managers, nel suo rapporto con i servizi ad essa connessi, pone in essere. Ma, si dice, è in particolare con il postfordismo che aumenta l’efficacia del lavoro e del sapere concreto rispetto al modello standard del comportamento: ora è necessario ricontestualizzare costantemente l’astratto nel concreto, per dare alla produzione, alla distribuzione, alla vendita, al marketing, all’innovazione tecnologica e commerciale quel grado di elasticità, costante adattabilità, capacità penetrativa che la nuova struttura del mercato richiede. «Dagli anni sessanta inizia la stagione della maturità e poi (con gli anni settanta) del declino del paradigma fordista. I sevizi, legati ai contesti assai più della manifattura, diventano l’asse portante del capitalismo industriale, e il mezzo decisivo del confronto competitivo. Le piccole imprese e i distretti, facendo valere esperienze di learning by doing uniche, distintive, mostrano quanto siano importanti i contesti (culturali, territoriali, personali) nella produzione di valore. Le stesse grandi imprese cessano di usare schemi centralizzati, per disseminare sul territorio intelligenze strategiche autonome (businnes units), cui si dà mandato di costruire dal basso il contesto di relazioni più appropriato con l’esterno (outsourcing, alleanze, contrattazione aziendale, negoziazione con la pubblica amministrazione»(6).
Chi ragiona in questo modo non mette sufficientemente a fuoco la mutazione antropologica che le nuove tecnologie basate sull’informatica stanno progressivamente producendo e il tipo di soggettività “concreta” che mettono in campo. E’ una soggettività che viene legata al capitale secondo il nuovo feticismo organizzativo, sempre meno da rapporti di comando e dominio e sempre più da strategie di implicazione e partecipazione. Il suo nesso con i “padroni” è sempre meno di subordinazione-imposizione e sempre più di appartenenza e identificazione. Ma soprattutto muta il suo modo di percepire la realtà , in quanto ogni presunto dato concreto della sua esperienza è fin dall’inizio percepito secondo un linguaggio formale-numerico, che gli sottrae ogni dimensione qualitativo-emozionale e lo traduce invece in un contesto quantitativo-calcolante. Così se già l’identificazione con l’azienda, grande o piccola che sia, con l’esigenza cioè del profitto e della sua accumulazione, produce già una profonda limitazione dei modi possibili di esperire il mondo, si torna a dire, è la natura della stessa tecnologia informatica che fa del lavoratore presuntivamente concreto, per quanto autonomo e decentrato esso sia da una struttura centralizzata, un soggetto essenzialmente calcolante che percepisce ed elabora il mondo secondo trame e connessioni di senso quantitative, ossia già provviste di un elevatissimo grado di standardizzazione e di riduzione qualitativa. Non si parte dal concreto per giungere poi all’astratto, non si parte da un’esperienza di vita che solo successivamente potrebbe essere formalizzata e automatizzata, come vogliono i teorici del postmoderno quale presunta epoca della riscossa della varianza e dell’indeterminazione, ma da un concreto che fin dall’inizio è percepito e valutato secondo parametri astratti di quantificazione e di matematizzazione, in cui il mondo della vita, cioè le relazioni tra uomini ed uomini e tra uomini e mondo vivente, cede la scena a una rappresentazione atomistica ed infinitamente moltiplicata di individui e di cose.

Tesi V

Il principio-base da cui muovere per spiegare la natura della società postmoderna rimane dunque, secondo la grande intuizione di Marx, l’uso manipolatorio della forza-lavoro (anche se intesa come nuova forza-lavoro mentale). Ma esprimersi nei termini di uso della forza-lavoro significa nello stesso tempo rifiutare ogni concezione neopositivistica dello sviluppo tecnologico e della sociologia del lavoro. La macchina non è strumento neutrale, come per altro lo stesso Marx ha più volte (soprattutto nelle opere prima del Capitale) contraddittoriamente e ingenuamente teorizzato, ma va sempre considerata come elemento sistemico del sistema più generale macchina- forza-lavoro: nel senso che le macchine sono strutture a doppia uscita, una in relazione ai materiali e agli oggetti che vengono elaborati, l’altra in relazione al soggetto umano che interagisce con le sue funzioni. La macchina (compresa la nuova macchina informatica) va intesa perciò come sistema produttivo di oggetti e contemporaneamente come sistema produttivo di soggettività . Viceversa, vedere la macchina, non come sistema connesso all’uso della forza- lavoro, ma solo come strumento di lavoro, cioè come elemento di mediazione e di facilitazione tra soggetti produttori ed oggetti prodotti, significa far propria una concezione neutrale e progressista della tecnologia, considerata solo come oggettivazione della scienza. In tal caso, il processo di produzione del capitale esclude da sé ogni dimensione del dominio, del conflitto tra forze e gruppi umani, e diventa uno dei luoghi per eccellenza del progresso scientifico, con la sua logica oggettiva e impersonale, dove valgono non le leggi che regolano i comportamenti umani, ma le leggi che regolano nella loro obiettività i processi naturali. Al contrario, come insegnano le pagine migliori di Marx nel Capitale (contro la componente ingenuamente positivistica dello stesso Marx), la tecnologia, anziché scienza naturale ed oggettiva, è scienza umana, sociologica,dato appunto che suo oggetto, in una produzione di natura capitalistica, è la regolazione e la normalizzazione di funzioni umane correlate a funzioni automatico-macchiniche(7).
Invece, l’applicazione sempre più intensa dell’informatica ai processi produttivi, con la progressiva sostituzione di forza-lavoro materiale con forza-lavoro mentale, è l’innovazione che produce maggiormente l’ideologia e il feticismo della riduzione e dell’ identificazione della tecnologia con la scienza(8). Ed è proprio qui, né poteva essere altrimenti, cioè nella produzione di tale feticcio, che trova la sua origine la trasformazione contemporanea del capitale in mero fantasma. Se infatti il capitale, secondo la definizione marxiana, è un sistema complesso di relazioni e di passaggi, di una lunga serie di mediazioni, il suo farsi fantasma consiste nel sottrarre alla vista, nel far scomparire questa sua natura complessa e composita, per offrirsi solo nella semplicità della sua realtà più immediatamente percepibile e visibile, di un normale processo di lavoro in cui uomini si servono, attraverso la scienza, di macchine per produrre cose. Il farsi fantasma del capitale consiste dunque, se è lecito usare espressioni di quello Hegel che è stato il padre di Marx, nel togliersi della mediazione nell’immediatezza: nell’occultare cioè, attraverso l’ideologia scientistica della tecnologia, tutta la propria e più profonda struttura complessa, nella superficie della sua realtà più evidente e spettacolare, qual è quella di un processo produttivo ormai organizzato secondo la razionalità, l’efficienza e la giustizia della scienza.
La dottrina del capitale come produttore di feticismi è del resto, com’è noto, esplicitamente di Marx. Ma il limite di Marx è stato quello di aver limitato il feticismo alla sola sfera della circolazione, di non averlo portato come concetto interpretativo fondamentale anche nella sfera della produzione. Il feticismo teorizzato da Marx si limita infatti al solo orizzonte delle merci, a quel mercato cioè in cui le merci, con il movimento dei loro prezzi, occultano i rapporti tra gli uomini che ne costituiscono invece il vero fondamento. Il postmoderno si può comprendere invece, solo analizzando il carattere intrinsecamente feticistico della produzione contemporanea e dell’organizzazione del lavoro che le è propria. Attraverso la riduzione della tecnologia a scienza, il processo di estrazione di plusvalore e di valorizzazione del capitale si spegne, infatti, dietro l’evidenza di un processo di lavoro che è il più razionale e scientifico che si possa concepire.
L’astrazione del nuovo lavoro mentale è il fulcro di questo processo feticistico di occultamento. Le macchine informatiche, abbiamo detto, mettono in gioco la mente e non il corpo della forza-lavoro. Appaiono dunque aver necessità non più della fatica della forza-lavoro e del suo sfruttamento, ma della partecipazione intelligente ed attiva della sua mente. L’intelligenza, si sa, data la sua natura immateriale non è padroneggiabile e manipolabile come il corpo; al contrario essa appartiene a ciò che v’è di più personale e meno omologabile in una soggettività. Dunque, per definizione, intelligenza e mente non possono essere facoltà automatizzate e strette in una relazione subalterna rispetto ad una macchina. La coscienza e la sua libertà sono le proprietà più intime e meno riducibili ad altro dell’essere umano. Ed è perciò necessario che con la diffusione delle nuove tecnologie e con l’informatizzazione dei processi produttivi venga messo in gioco un nuovo tipo di lavoro, che veda sempre più attivo lo spirito dell’operatore, con l’intervento delle sue capacità intellettuali, delle sue conoscenze e dell’intera sua formazione. La funzione del lavoro da manuale si fa spirituale ed appunto, in tale farsi spirito del lavoro, il capitale perde tutte le attribuzioni che gli erano state assegnate dal Capitale di Marx. Il nuovo lavoro mentale annulla il concetto di lavoro alienato ed astratto. Il lavoro, dopo più di un secolo di grande industria e di fordismo, torna ad essere concreto. Nel suo farsi spirito sta la causa reale dell’annichilirsi e del farsi ormai fantasma del Capitale di Marx.
Ma, com’è evidente, a base di questa valutazione della nuova organizzazione del lavoro si pone una teoria presupposta dell’essere umano come libertà e irriducibile originarietà. Noi al contrario pensiamo che la mente, il pensiero, la coscienza non identifichino nessuna libertà originaria della persona, tanto da poter essere invece ambiti potentemente occupati ed agiti dalla colonizzazione e dalla scissione di fattori egemonici esterni. Il mito di un soggetto individuale e collettivo presupposto, con il valore incoercibile della sua libertà, alla violenza e al dominio di qualsiasi rapporto sociale, cosicché, dato un rapporto sociale opprimente, inevitabilmente ne sarebbe conseguita una rivoluzione riappropriatrice, è un’altra delle credenze idealistiche che ha profondamente inficiato il pensiero di Marx e da esso s’è diffusa alle varie versioni del marxismo: caratterizzando in particolare la mitologia dell’operaismo irrazionalista (lontano dalla fecondità dell’operaismo panzieriano), la quale ha sempre preteso d’interpretare il presente a partire da un’identità prometeica, coesa e fortemente presupposta a qualsiasi rapporto sociale, della soggettività alternativa. Per noi invece il soggetto, individuale e collettivo, non può mai essere presupposto, ma deve sempre essere posto, deve essere cioè il risultato di un processo di costruzione e d’identificazione che sottragga i ceti subalterni e gli individui che ne fanno parte al dominio ideologico cui una parte significativa del loro sapere e del loro immaginario inevitabilmente soggiace, dati i rapporti di forza esistenti non solo sul piano della produzione materiale, ma anche su quello della produzione ideale e culturale. Il soggetto alternativo all’esistente non si trova già dato, ma è solo l’esito di una trasformazione di sé che si dà nella prassi stessa di trasformazione, in ogni luogo ed a qualsiasi livello di vita sociale, delle asimmetrie e dei rapporti di potere dominanti, quale che sia il loro contesto in questione, economico, politico, affettivo, familiare, ricreativo-culturale.
Come la soggettività non può mai essere presupposta, a meno di non cadere in un’antropologia spiritualistica, così non può essere anticipatamente e a priori attribuita all’essere umano un’astratta libertà . Quest’ultima, infatti, non significa una pretesa capacità del soggetto umano di essere iniziatore e principio d’azione, indipendentemente dalla catena di cause e d’influenze determinanti in cui ogni atto si colloca, bensì l’espansione e la progressiva articolazione della sua propria esperienza, per cui le prospettive dell’agire, da un campo assai ristretto e angusto, quando non unico, si allargano in una molteplicità di poter essere che offrono al soggetto una pluralità di percorsi tra cui scegliere quello preferibile.
Rinunciare al marxismo e all’idealismo del soggetto presupposto consente dunque di rinunciare alla credenza della semplicità, libera ed originaria, della coscienza umana e di fare i conti con l’antropologia più avveduta delle scienze umane contemporanee, dalla psicoanalisi allo strutturalismo linguistico, che ben più di umanesimi spiritualistici ci possono far comprendere quanto un Io numerico-calcolante, scientistico-matematizzante, oggettivante-manipolante possa facilmente dominare nella coscienza del singolo, a discapito di un’Io la cui identità riposa invece nel rapporto con l’altro e con le emozioni del proprio mondo vitale. Solo la complessità, e non la semplicità, di struttura della coscienza, il suo nesso con l’inconscio, la sua dipendenza dagli stereotipi linguistici e comportamentali della cultura dominante ci possono cioè far comprendere come nel nuovo nesso lavoro mentale-macchina dell’informazione possa, anzi debba, entrare in gioco un soggetto assai prossimo ad un oggetto, la cui mente è sempre più addestrata a controllare o ad inserire e ad ampliare connessioni di senso tra informazioni, secondo modalità già predeterminate, che non ad intervenire originalmente per trasformazioni e innovazioni di senso. A conferma appunto che il nodo di fondo della cosiddetta new economy non è il rendersi indipendente della ricchezza dalla fatica dell’uomo, ma il variare della forma e della qualità dell’astrazione secondo cui il lavoro e la fatica continuano ad erogarsi e a costituire la sostanza della ricchezza e della sua accumulazione.
Non a caso del resto, la distruzione progressiva della scuola pubblica in Italia, condotta coscientemente nell’ultimo ventennio dal ceto politico, si è riassunta essenzialmente nell’eliminazione da essa di ogni traccia dello storicismo, cioè della cultura fondata sullo studio della storia, che le aveva assegnato la riforma di G. Gentile e nell’assimilazione a un modello educativo di tipo anglosassone, basato (nel migliore dei casi) su un sapere prevalentemente pragmatico-informatico. Tale abbassamento disastroso del livello culturale della gioventù italiana, favorito e accompagnato dal degrado abissale della televisione pubblica, è condizione indispensabile ed oggettiva per la formazione del nuovo tipo di forza-lavoro oggi richiesto dalle nuove tecnologie.

Tesi VI

Che l’essenza del postmoderno consista nell’approfondimento della valorizzazione capitalistica è ulteriormente dimostrato dal fatto che la diffusione del processo di astrazione concerne non solo il valore d’uso della forza-lavoro ma tutti i valori d’uso nella loro generalità.
Concerne cioè non solo il processo di produzione ma anche quello di consumo. E’ il fenomeno della moltiplicazione quantitativa delle merci, a fronte di un loro inaridimento qualitativo che sottrae loro sempre più corpo e contenuto e ne fa tendenzialmente mere silhouettes: forme enfatizzate e seducenti nella loro figura di superficie, ma capaci di offrire utilità e consistenze di poca durata. Nella società postmoderna l’offerta di beni, sia materiali che spirituali - essendo sempre più solo occasione della valorizzazione del capitale, piuttosto che mezzo di soddisfazione dei bisogni degli esseri umani - riduce il mondo a una progressiva desensibilizzazione e anestesia qualitativa, traducendolo in una congerie di beni sempre più vuoti di sapore e contenuto, di rapida seduzione e consumo, sempre più ripetitivi e sostituibili: come gli stessi esseri umani che, erogatori di lavoro astratto, sono anch’essi sempre più fungibili e intercambiabili nelle varie funzioni della produzione e dei servizi. L’onnipervasività del capitale nella vita postmoderna si manifesta dunque anche in ciò, nello svuotamento del valore d’uso da parte del valore astratto e, più in generale, nella estroflessione e superficializzazione della realtà, che appare sempre più quale un caleidoscopio di individui e cose: figure di mera spazialità senza tempo , forme senza contenuto e radici, tutte concluse nella loro vivida e suggestiva esteriorità proprio perché nel cuore profondo della produzione c’è, all’opposto, solo tempo senza spazio, ossia valore che deve essere solo accumulazione di tempo di lavoro.
Da questa dilatazione dell’astratto nel concreto, estesa fino al momento del consumo e tale da coinvolgere la totalità dei soggetti, deriva la messa in questione del soggetto in quanto tale. L’Essere ricercato dalla tradizione metafisica della filosofia - nel senso di ciò che, in una prospettiva fortemente antisoggettivistica, costituisce il principio d’integrazione e di totalizzazione della realtà - nel moderno e tanto più nel postmoderno diventa infine reale e coincide con l’accumulazione dell’astrazione capitalistica che, per la sua natura illimitabile, tende a penetrare di sé ogni esperienza e a farsi perciò principio di totalità. Il postmoderno è l’epoca della occupazione e della colonizzazione mercantile-capitalistica di ogni sfera del mondo della vita, sia del mondo della natura che del mondo degli esseri umani.
Così, se nella società moderna al singolo poteva parere di essere ancora soggetto del proprio consumo al di là dello spossessamento vissuto nell’ambito della produzione, oggi, con la radicalizzazione del postmoderno, accade che il singolo perda anche questa parvenza di soggettività e di libertà, avendo a che fare anche nella sfera del privato più personale con la potenza dell’impersonale e dell’astratto. Più propriamente il postmoderno si caratterizza come il tempo in cui viene meno la differenza tra sfera del “pubblico” e sfera del “privato”. Il mito del liberalismo e dell’illuminismo - di una soggettività di per sé autonoma e presupposta libera alle relazioni della società e della storia - mostra così tutta la sua apparenza e, nella sua demistificazione, intensifica la verità della tesi marxiana di una storia fatta non da soggetti individuali, ma dai rapporti di proprietà e di diseguaglianza tra le classi.
L’individuo, nell’età postmoderna, per questa espropriazione della propria sensibilità corporea estesa e generalizzata finanche nella sfera del consumo, si avvia ad essere un soggetto strutturalmente vittima, per rifarsi a un concetto di J. Lacan, di “forclusione”, ossia di radicale esclusione del soggetto dalle proprie stesse emozioni: nel senso di vivere in una condizione non tanto di alienazione, spostamento, proiezione e deformazione delle proprie emozioni, quanto proprio di nessun contatto con esse. Cioè di essere sostanzialmente privo del rapporto interiore e verticale con il proprio corpo emozionale, privo cioè di quel senso interno su cui, come aveva concepito Kant, è incentrata la dimensione della temporalità: l’individuo postmoderno si avvia così a percepire il mondo più attraverso lo spazio - maggiormente legato alla sensibilità esterna - che non attraverso il tempo.
Per tale motivo, un’altra delle caratteristiche peculiari della postmodernità è l’assenza di senso e di profondità della storia . Dove prevale la superficie e la seduzione della forma sullo spessore del contenuto, la realtà perde ogni sistematicità di nessi e si fa valere solo la giustapposizione di figure, ciascuna di volta in volta più appariscenti delle altre, la storia diviene solo un magazzino, un deposito di eventi, personaggi, stili, da cui estrarre materiale depositato e accumulato, per ricostruire a proprio piacimento il volto sia del passato che della propria contemporaneità(9). La storia cede così il passo alla fiction e alla soap opera, dove ciò che viene meno è la connessione causale degli eventi nel tempo e, alla ragionevolezza ricostruibile del senso, si sostituisce la superficialità della ricostruzione ad effetto. Infatti, lo spazio senza tempo è uno spazio privo di gerarchie, dove la sinistra non si distingue dalla destra e il centro dalla periferia: perché non si danno più né centri, né asimmetrie e scale di valori. Così nella metropoli postmoderna al centro urbano si sostituisce il centro commerciale, anzi la pluralità dei centri commerciali, dove la gente s’incontra e si ammassa non come un insieme di persone volte alla conoscenza reciproca, ma come un insieme di compratori-consumatori, il cui unico rapporto è con il mondo sgargiante e colorato delle merci esibite. L’indistinzione commerciale dello spazio, già proprio delle città americane, diventa modello archetipico e, nella sua omologazione, riproduce l’universo delle merci unificato e omologato dall’astrazione del valore. La colonizzazione del mondo della vita da parte dell’astratto, sempre più diffuso e totalizzante, conduce dunque a una mutazione antropologica, per la quale cambia il modo di percepire e di sentire del singolo(10).
La diffusione dell'astratto e la sua generalizzazione a principio dominante sia nel mondo della produzione che in quello del consumo, sia nell'agire interindividuale che nello spazio intrapsichico, appare dunque come la caratteristica di fondo dell'organizzazione capitalistica della vita, nella postmodernità. Tale generalizzazione dell'astratto e tale sua colonizzazione dell’intero ambito del concreto implica che l’astrazione reale sia a principio:

1.  della produzione delle merci e della ricchezza economica propriamente detta;
2.  della produzione e riproduzione dei rapporti sociali, a muovere dalla relazione sociale fondamentale tra capitale e forza-lavoro;
3. della produzione ideologica dell’immaginario, la cui funzione precipua in tale contesto è quella di occultare e dissimulare la realtà dei due ambiti precedenti.

La colonizzazione completa del valore d'uso da parte del valore astratto conduce infatti, abbiamo visto, alla messa in scena di quell’effetto ideologico fondamentale nella società postmoderna che è l’effetto simulacro: l’estenuazione cioè del contenuto di realtà e la conseguente sovradeterminazione della forma. Scompare ogni distanza, nelle cose e nella società, tra interno ed esterno, tra essenza ed apparenza, e tutto tende a ridursi al suo volto di superficie - il salario non è più il costo della forza-lavoro ma il prezzo del lavoro, il profitto è la remunerazione del rischio e dell’intelligenza dell'imprenditore, l’interesse la giusta remunerazione del denaro preso a prestito, e così via.
È conseguente, quindi, che cultura del simulacro significhi egemonia di una visione fondata sulla rappresentazione più superficiale dell’esperienza e sui dati più esteriori del senso comune, e disposta perciò ex ante a interpretare il reale, non come un complesso di relazioni, della cui trama, soprattutto oggi nella società postmoderna, appaiono essere effetti e funzioni i singoli, ma come invece l’interagire di enti presuntivamente semplici, quali ad una cultura della mera visione e rappresentazione non possono non apparire individui e cose, assunti nella loro presenza immediata e indipendentemente da ogni consapevolezza della loro genesi e fungibilità rispetto ad orizzonti più complessi. Il postmoderno produce cioè un feticismo che non è più quello classicamente marxiano (di rapporti tra soggetti umani che appaiono oggettivati in rapporti di cose), anch’esso troppo segnato dal mito umanistico del rovesciamento di soggetto e predicato, bensì è quello della dissimulazione di rapporti asimmetrici tra classi sotto l'apparenza di relazioni simmetriche tra individui, tutti considerati come sostanzialmente eguali nella loro autonomia e libertà di persona. É il feticismo di una società che, schiacciata nella sua superficie, subisce un profondo effetto di autodistorsione e percepisce e rappresenta se stessa come un enorme ammasso, non strutturato da una logica unitaria, di merci, astratte dai loro processi genetici di lavoro, e di individui, astratti dai loro processi genetici di classe. 

Tesi VII

La superficializzazione del mondo, l’isterilimento dell’interno e la sovradeterminazione dell’esterno, conseguenti alla catastrofe ed alla estenuazione del valor d’uso, trasformano profondamente anche la sfera della politica, giacché ne esauriscono ogni dimensione di rappresentanza, curvandola e traducendola nel verso di una mera rappresentazione.
Infatti nella società moderna , in quanto istituita sulla visibilità delle classi, il partito politico rimanda, sia pure con molte mediazioni, ancora agli interessi del gruppo sociale di cui è appunto rappresentante nelle istituzioni dello Stato. Non che le istituzioni politiche del moderno non producano rappresentazioni ideologiche, come quelle dell’interesse generale della Nazione o quella del cittadino liberamente autonomo e capace di voto. Ma accanto a tale funzione dell’immaginario collettivo e individuale, mettono comunque in campo una rappresentanza dei contenuti di vita, distinti quando non opposti, dei vari gruppi sociali articolati secondo la loro appartenenza al mondo economico reale. Con la società postmoderna , invece, ossia con la fine apparente di una società strutturata secondo distinzioni economiche di classe, gli individui, privi di qualsiasi identità e relazione collettiva, si percepiscono come singolarità assolutamente atomistiche. E tanto più sono perciò obbligati a recuperare una loro possibile identità comunitaria, attraverso pratiche solo simboliche e compensative: simbolizzazioni e compensazioni che proiettano su figure e personaggi della politica una sovradeterminazione di senso che ne dilata in modo spettacolare personalità e funzione.
Del resto, quando la struttura relazionale dell’individualità viene rimossa a fronte di una autorappresentazione fondamentalmente irrelata e autocentrata della soggettività, il rimosso non si annulla ma ritorna attraverso scissioni e proiezioni. Così, le istituzioni e i personaggi della politica-spettacolo assumono un fulgore di universalità che non ha nulla a che vedere con la rappresentanza democratica e il governo di un bene comune, ma solo con la sovradeterminazione d’universalità di cui vengono riempite le loro silhouettes, a compenso della sottodeterminazione relazionale e comunitaria di cui vivono i singoli nella vita reale.
Alla “fantasmizzazione” del capitale, al suo rendersi invisibile a motivo della diffusione della sua intrinseca e strutturale astrazione, corrisponde dunque la “spettacolarizzazione” della politica, il trapasso epocale della democrazia dalla tipologia europea alla tipologia americana.
In quest’ultima, infatti, data l’accettazione indiscussa del modello capitalistico di produzione e distribuzione della ricchezza, le differenze tra le formazioni ed i leaders politici sono solo accidentali, di forma appunto e di maggiore o minore presentabilità e visibilità personale. La politica, cioè, diviene l’arte della rappresentazione del singolo anziché della rappresentazione dell'universale e di ciò che è comune: una scena dunque fondamentalmente noiosa, che genera strutturalmente indifferenza e assenteismo, e nella quale le differenze di sfumature contano assai di più che non le differenze teoriche ed emotive che nascono dal confronto di diverse visioni del mondo e di diverse configurazioni dell’essere sociale e personale.

Tesi VIII

La diffusione dell’astratto e la sua generalizzazione a principio dominante, sia nel mondo della produzione, che in quello del consumo, sia nell’agire interindividuale che nello spazio intrapsichico, appare dunque come la caratteristica di fondo dell’organizzazione capitalistica del vivere nella cosiddetta postmodernità. L’effetto simulacro, intrinseco a questa estenuazione del “concreto”, conduce alla radicalizzazione sempre più estesa del feticismo, come struttura intrinseca di deformazione dei fenomeni della vita sociale.
Nella coscienza più diffusa e di massa della nostra contemporaneità scompare ogni distanza, nelle cose e nella società, tra interno ed esterno, tra essenza ed apparenza e tutto tende a ridursi al suo volto di superficie. Ora più che mai il salario non è più il costo della forza-lavoro, bensì è il prezzo del lavoro, il profitto è la remunerazione del rischio e dell’inventività dell’imprenditore, l’interesse il giusto reddito del denaro dato in prestito: e così via. E cultura del simulacro significa appunto empirismo del senso comune, con la sua riduzione del mondo, non a una trama di relazioni di cui sono effetti e funzioni i singoli, ma all’interagire di enti presuntivamente semplici, quali individui e cose, in una tessitura di rapporti essenzialmente atomistica. E’ il feticismo di una società che, schiacciata nella sua superficie, subisce un profondo effetto di autodistorsione ed è condotta a percepire e a rappresentare se stessa come un “enorme ammasso” (non strutturato da una logica unitaria) di cose-merci, astratte dal loro processo genetico di lavoro, e di individui, astratti dai loro processi genetici di classe.
L’interpretazione del postmoderno come radicalizzazione del moderno, nel senso qui proposto di svuotamento del concreto ad opera dell’astratto, spiega per altro perché l’ideologia culturale dominante contemporanea sia l’ideologia ermeneutica: la tesi cioè della rinuncia a qualsiasi visione forte del mondo, centrata sulla distinzione di “essenza/apparenza” o di “inconscio/conscio” o di “significato/significante” e la rivendicazione, invece, di un pensiero debole che si conchiude nel circolo di soggetti che interpretano azioni e documenti di altri soggetti: in una implicazione reciproca tra explicans ed explicandum, che non permette attingimenti definitivi e oggettivi di verità, ma rinvia a un confronto mai esauribile di esegesi e di opinioni.
In effetti, a base della leggerezza del pensiero debole e del suo rifiuto di ogni ontologia sia metafisica che storico-sociale sta, a nostro avviso, in modo più o meno implicito, un pensiero assai forte: la tesi che l’essere sia null’altro che linguaggio , ossia il convincimento che la realtà sia costituita essenzialmente da una rete di informazioni-comunicazioni, espresse attraverso molti piani simbolici, ma di cui quello più rilevante ed esaustivo appare essere quello costituito da significanti linguistici(11). La modernità , si dice in tale prospettiva, è stata l’epoca della grande produzione materiale, l’epoca dell’incontro sul piano del lavoro tra uomo e mondo materiale, mai, rispetto al passato della storia dell’umanità, così ricco e fecondo di trasformazioni: ma appunto un’epoca, si aggiunge, il cui scenario era costituito, insieme alle grandi concentrazioni produttive, di naturalità e materialità e di una bisognosità umana strutturata su pulsioni ed esigenze essenzialmente fisico-corporee. E sono proprio tali caratteristiche a far rientrare il moderno ancora in un tempo della penuria, che dai primordi dell’umanità giunge appunto, includendola nel suo ambito, all’economia capitalistica fondata sul fordismo-taylorismo e sulla distribuzione di massa dei beni materiali.
Il postmoderno concluderebbe invece la storia della grande penuria e inaugurerebbe, risolto definitivamente il problema dei bisogni materiali, una fase della storia in cui il bisogno fondamentale sarebbe di genere linguistico-comunicativo: un piano cioè dell’esperienza in cui, come già si diceva, ciò che genera il senso non è più la dinamica del corpo ma la dinamica di un universo simbolico per sua natura dematerializzato e autorefererenziale. E’ il linguaggio cioè che si attesta, con la catena delle sue connessioni, come il tessuto che dà continuità e integrazione alla realtà: il linguaggio che dall’infinità delle sue possibili combinazioni, trae l’inesauribilità e l’illimitatezza della sua generazione di senso. Perché il linguaggio, in un mondo in cui la materialità e la corporeità vengono meno, diventa autoreferenziale, producendo un universo di segni il cui senso viene rimandato dall’uno all’altro, senza che vi sia più la possibilità di trovare un correlato extralinguistico alla catena dei significanti. La realtà del postmoderno sarebbe così intrinsecamente ermeneutica, ossia costituita da un comunicare e un interpretare che non ha fine, perché, liberatosi dal peso e dalla presunzione di un mondo oggettivo al di là della percezione e denominazione umana, può e deve ridiscutere costantemente sul senso, mai concluso, dei termini e delle categorie della propria visione interpretativa.
Così, ciò che è effetto della generalizzazione all’intero pianeta del sistema di produzione del capitale, ciò che è conseguenza di una dilatazione sempre più estesa, orizzontale e verticale insieme, di una ricchezza che è mera quantità e soggettività non antropomorfa, viene letto invece come scarto antropologico: come passaggio e maturazione da un’antropologia condizionata dal bisogno e da una datità naturalistica, a un’antropologia che valorizza solo l’artificiale e il simbolico e la cui inesauribilità creativa può anche garantirsi con la fede in un essere, che privo di ogni identità definita, si manifesta occultandosi.
Dalla tesi che l’Essere è linguaggio e che la realtà sia essenzialmente informazione, deriva del resto la celebrazione del nuovo processo lavorativo a forte base automatica e informatica come ambito di un agire ormai anch’esso solo, o comunque prevalentemente, comunicativo: e perciò l’ideologia del nuovo produttore, come soggetto affrancato dal peso di una prassi legata al mondo materiale ed in pari tempo partecipe, creativamente, di un “ general intellect” generale e comune, in cui il suo lavorare con informazioni ormai si risolverebbe.
Non a caso, del resto, il mito del general intellect è sempre stato uno dei concetti più usati e abusati del marxismo operaista, che dovendo autonomizzare e anticipare comunque l’esistenza di un soggetto antagonista, rispetto ai condizionamenti e al peso della struttura economica capitalistica, ha approfittato di alcune delle pagine più tristemente produttivistiche e positivistiche di Marx, per celebrare lo spontaneo unificarsi delle menti subalterne, attraverso una supposta trasparenza immateriale ed infinita della mente, in una comunità d’intellettualità, scientificamente alternativa. Alla base di tale mitologia dell’Intelletto e del soggettivismo prometeico che la connota, sta la rimozione radicale del marxismo dell’astrazione reale. Ed è proprio la rimozione di una visione del sistema del capitale come fondata sull’astrazione reale a far sì che vengano proiettati, in uno spazio produttivo svuotato dalla valorizzazione che invece lo sostanzia, filosofemi ideologici propri dell’ermeneutica e della linguistica post-strutturale: il cui scopo è di nuovo quello di annullare la realtà specifica della produzione di capitale e di generare l’immagine sublimata di una dematerializzazione dello spazio produttivo, vista come alleggerimento delle funzioni lavorative e come liberazione del lavoratore.

Tesi IX

Assai diverso dal paradigma comunicativo e più attento nel considerare le trasformazioni che in questi anni hanno investito il processo lavorativo capitalistico appare essere infine il paradigma cognitivo (o più propriamente il paradigma del cosiddetto capitalismo cognitivo): ossia l’ipotesi che cerca d’intrecciare lo studio dei processi di sviluppo e di accumulazione del sapere con quelli della produzione e dell’accumulazione di capitale.
L’analisi del capitalismo cognitivo muove anch’essa dal riconoscimento che l’affermarsi della tecnologia informatica, non solo negli ambiti del lavoro direttivo, tecnico e impiegatizio, ma anche nei processi di trasformazione materiale dei prodotti, implica una sempre più vasta estensione di attività lavorative, da concepirsi quali attività di natura simbolico-comunicative, e che, rispetto a ciò, uno dei temi ideologici più diffusi che accompagnano la cosiddetta rivoluzione informatica sia l’assunto che il lavoro umano, ormai liberato da funzioni ripetitive ed esecutive, sarebbe finalmente in grado di attingere uno stato di profonda creatività. A questa identificazione del lavoro informatico con una realizzazione sempre più ricca della soggettività, la teoria del capitalismo cognitivo oppone la constatazione di processi opposti che vanno nel verso di un’alienazione sempre più intensa di un’esperienza ideativa legata comunque alla produttività e al profitto. «Si racchiude in una dizione complessa quale “critica dell’economia politica dei processi cognitivi” l’idea che il fulcro dell’attuale assetto del modo di produzione stia nell’espropriazione - di cui il lavoro umano sempre più è fitto oggetto - delle finalità, nonché delle modalità di decisione, di controllo e di riproduzione, del sapere, dei processi cognitivi che lo presiedono, delle pratiche comunicative ed informative  che  lo  coordinano  e  lo  distribuiscono»(12).    L’esercizio  del   pensiero  nel  processo  di lavoro informatico, si sostiene infatti, si deve svolgere all’interno di campi e regole limitate e predeterminate. Cosicché, se è vero che il nuovo tipo di lavoro mette in gioco quella risorsa umana della soggettività che nella produzione taylorista era considerata come un residuo solo negativo da reprimere ed eliminare, tale valorizzazione del fattore umano avviene, si afferma, in contesto predefinito quanto a possibilità di scelta e non meno polverizzato quanto al senso e alla finalità complessiva dell’operare. «L’organizzazione delle attività nella forma capitalistica storicamente vigente, forte di formidabili strumenti di frantumazione, di dissociazione e di controllo dell’attività psichica, si impadronisce del lavoro, delle sue risorse, sia quando esso è esposto manifestamente ad alto grado di stereotipia, ripetitivo, standardizzato (se ne parla in termini di “sottocarico” di lavoro mentale), sia quando è costretto a processi innovativo-creativi incanalati anch’essi in attività stereotipate e ripetitive»(13). Né la teoria del capitalismo cognitivo si trattiene dall’esplicitare il vero contenuto della personalizzazione e della partecipazione, verso cui costantemente sollecita la nuova filosofia della produzione e che, al di là dell’apparenza, si rivela essere un processo profondo di desoggettivazione e di autosfruttamento, messo in atto da un’introiezione di ruoli e di funzioni che ben esprime quale livello di scissione e di colonizzazione interna possa raggiungere la mente umana.
Ma ciò che genera profonde perplessità, riguardo a questa impostazione, è la tesi che la conoscenza in quanto tale, il sapere in quanto tale, siano divenuti la forza produttiva per eccellenza del capitalismo contemporaneo e che l’accumulazione del capitale vada interpretata essenzialmente nel verso di un’accumulazione di conoscenze. Ossia, più specificamente, la tesi che la smaterializzazione del processo produttivo stia conducendo, più che a una generica e ovvia diffusione di attività intellettuali e comunicative, al fatto peculiare della diffusione del “lavoro riflessivo”: quale lavoro che assume a oggetto se stesso. «Il fulcro dei mutamenti sta nel fatto che il processo lavorativo si configura come la gestione strutturata dei cambiamenti organizzativi del processo lavorativo stesso. In altri termini, il lavoro opera su se stesso. Il contenuto dell’attività lavorativa è vieppiù la modalità (e la modifica della modalità) della (propria o altrui) attività lavorativa»(14). Il cambiamento costante dell’organizzazione della produzione e del lavoro diverrebbe ormai l’oggetto vero e proprio del lavoro. Oggetto prevalente della produzione sarebbe il controllo e la gestione organizzata della propria incessante modifica: in una sorta di adeguamento al modello della mente e del pensiero umani, capaci per definizione di autoriflessività e di riorganizzazione costante del proprio sistema di senso. La produzione, si dice, è ormai essenzialmente conoscenza ed è conoscenza nel senso specifico di un’autoriflessione che tende a tradurre la quota di funzioni e di informazioni ineliminabilmente concreta e non ancora formalizzata presente in ogni processo lavorativo, in un sistema di conoscenze e informazioni razionalizzate e formalizzate, pronte ad essere tradotte in funzioni automatiche.
Così, posto che la mente sia definibile essenzialmente come luogo di produzione di conoscenze attraverso la traduzione del particolare e del concreto nell’astratto di codici e significazioni universali, il capitalismo cognitivo identifica, sembra senza residuo alcuno, l’attività produttiva con l’attività della mente e da tale mentalizzazione del produrre deriva la sua tesi di fondo che oggi il capitale è soprattutto produzione e accumulazione di conoscenze.
A questa equiparazione tra capitale e conoscenza va contrapposta l’argomentazione che l’astrazione reale che Marx pone a base della sua analisi del Capitale e del processo di costituzione della società moderna non è l’astrazione logico-mentale, che è propria dei processi conoscitivi. Qui va ben tenuta presente la ferma distinzione, al di là della sua rigida teorizzazione strutturalistica, che Althusser ha sempre posto tra pratica teorica e pratica economica, o molti altri filosofi più in generale (basti pensare a B.Croce) tra teoria e prassi.
Infatti in genere s’identifica l’astrazione logico-mentale come la capacità di raggiungere e formulare l’universalità di un concetto o di una legge scientifica, attraverso un processo di separazione conoscitiva del generale dal particolare; rilevando nel molteplice ciò che è costante e invariabile, al di là delle differenze, e provandosi nell’assegnare a quella struttura generale e costante dell’esperienza una sua codificazione quantitativa, esprimibile nel linguaggio della matematica. L’astrazione del capitale invece, anziché nella separazione di universale e particolare propria della formalizzazione scientifica, consiste nella separazione del processo di lavoro dalla forza-lavoro e nella produzione di un’energia lavorativa fondamentalmente inintenzionale, perché priva del senso e della finalizzazione del processo di lavoro nel suo complesso.
L’astrazione conoscitiva, per altro, non caratterizza solo il sapere scientificamente formalizzabile, ma è una costante dell’esperienza umana, nel senso che già l’esperienza linguistica utilizza una capacità astraente e universalizzante di simbolizzazione rispetto a contenuti di rappresentazione sensibile, determinati e particolari (come ben illustra Hegel, nel capitolo sulla «coscienza sensibile», all’inizio della Fenomenologia dello Spirito). L’astrazione è cioè una caratteristica strutturale della mente umana, connessa se non coincidente con la sua capacità di simbolizzazione. E in questo senso si può dire che l’astrazione coincide positivamente con la capacità stessa di pensare, in quanto l’astrazione primigenia che fa nascere la mente in ogni essere umano consiste proprio nella possibilità di allontanarsi dall’urgenza e intensità coattiva delle pulsioni corporee e di costituire quell’uno in due - cioè mente che pensa in primo luogo il proprio corpo - che è il soggetto umano in quanto soggetto incarnato e concreto.
Ma appunto l’astrazione della mente, in quanto capacità di connettere l’individuale e l’universale, il piano della sensazione-percezione e quello del simbolico, è una funzione trascendentale dell’esperienza umana, cioè struttura il vivere della persona indipendentemente dal variare della storia e dei modi di produzione. E la stessa capacità di far scienza e di esprimere l’accadere del mondo secondo leggi di costanza, formalizzabili matematicamente, la si può considerare ormai, al di là dei suoi inizi nella storia delle civiltà e dell’innegabile variare storico dei suoi paradigmi, una costante della vita degli uomini e delle società (a meno di non cadere in teorizzazioni assai ingenue sulle funzioni astraenti della mente, come è capitato a Sohn Rethel che, proiettando sulla Grecia dell’antichità classica la realtà della società capitalistica moderna, ha preteso di dedurre la genesi del pensiero astratto dal denaro e dal circuito della circolazione mercantile).
Al contrario, l’astrazione del lavoro astratto è una realtà storicamente circoscritta al solo spazio storico della società capitalistica e tale da connotare, per altro, solo la piena maturità del modo capitalistico di produzione. E il lavoro della mente non va confuso e indistinto con il lavoro mentale. Perché nel primo caso il soggetto umano entra in un rapporto, non di scissione e contrapposizione, ma di distanziamento e simbolizzazione con il proprio corpo emozionale, trovando in tale distante adesione alla propria affettività la fonte mai esauribile (proprio perché costituita da un rapporto tra due) del senso del proprio vivere. Mentre, nel secondo caso, la persona umana è radicalmente scissa e astratta dalla propria corporeità nonché, in pari tempo, scissa e astratta dal proprio mondo-ambiente, in cui e con cui la sua corporeità dovrebbe interagire: dato che, come s’è detto, l’identità della persona umana si costituisce nella compresenza di un rapporto verticale di senso (della mente con il proprio corpo) e di un rapporto orizzontale con il proprio mondo esterno. E appunto l’astrazione del nuovo lavoro astratto mentale si costruisce sulla sospensione del rapporto orizzontale - dato che nell’epoca della sussunzione reale la forza-lavoro è privata del mondo-ambiente (mezzi di produzione), sia quanto a proprietà che quanto a possesso, essendone espropriata finanche della capacità di usarne - e, insieme, sulla sospensione del rapporto verticale, perché per definizione, abbiamo visto, il lavoro mentale sussunto al capitale è utilizzazione produttiva delle capacità di attenzione e di intenzione della mente, indipendentemente dall’affettività. Ma tutto ciò rimanda a una visione che colloca l’origine del senso dell’esperienza mentale e della sua capacità di verbalizzazione nella corporeità, e che nell’adesione distante, mai unificabile compiutamente, tra mente e corpo trova una definizione della simbolicità che appare assai lontana dalla concezione del senso elaborata dalla teoria del capitale cognitivo.
E’ l’indistinzione di fondo tra conoscenza e lavoro mentale sussunto al capitale che costituisce dunque, a parere di chi scrive, il fraintendimento di fondo dell’ipotesi del capitale cognitivo e che ne motiva la riformulazione, anch’essa, sembra, molto ingenua, della teoria del valore-lavoro di Marx, secondo la quale a una sostanza del valore delle merci costituita dalla quantità di tempo di lavoro, si dovrebbe sostituire una sostanza del valore, imperniata sullo scambio comunicativo e sulla quantità di informazioni binarie presenti in ogni prodotto informatico.
Certo, d’altro canto, è innegabile l’esistenza di un lavoro riflessivo, dedicato alla riorganizzazione e alla risistematizzazione dei processi lavorativi. Ma non si può scambiare la parte per il tutto, dilatando la funzione di questo tipo particolare di lavoro a caratteristica invece ormai generale dell’attività lavorativa. Anche perché, in questa enfatizzazione di un circolo conoscitivo che traduce il sapere concreto in un sapere astratto e formalizzato, si rischia di cadere, malgrado le dichiarazioni contrarie, in una concezione dell’informazione come scissa da quel nesso strutturale con la macchina dell’informazione, il cui nesso, s’è detto, costituisce il punto di partenza indispensabile per l’analisi del nuovo lavoro mentale, quale lavoro che elabora sì informazioni, ma solo nel senso di istruzioni e scelte tra alternative già precostituite e predeterminate del cui insieme quel lavoro è parte e funzione. Ed è ovvio, in tal caso, che una teoria dell’informazione scissa dalla macchina dell’informazione sia incline a presentare il conoscere come un processo autonomo, non condizionato da logiche esterne, ma capace di una logica essenzialmente autoriflessiva.
Teoria dei sistemi e paradigma dell’autopoiesi concorrono così a porre al centro della produzione sociale della ricchezza un’estensione e una generalizzazione della concezione fichtiana dell’Io e della teoria gentiliana del pensiero come atto puro. Ma l’ informazione non è mai neutra o neutrale, com’era ben noto a Wittgenstein: dipende dal contesto pratico di vita in cui il suo senso sempre si radica. Scindere l’informazione dalla macchina dell’informazione e quest’ultima dal nesso sistemico che la lega all’esercizio del lavoro mentale astratto conduce infatti a rimuovere l’implicazione d’istruzione e comando che l’applicazione dell’informatica all’ambito della produzione comporta.

Tesi X

La scommessa teorica di queste tesi è dunque che si possa continuare a interpretare le trasformazioni della postmodernità con la concettualizzazione che del moderno ha fatto Marx, a patto che si assuma in tutto il suo significato la definizione possibile del capitale come “astrazione in processo”. Il cuore dei processi di smaterializzazione del postmoderno continua a stare, secondo questa ipotesi, nel rapporto capitale-forza lavoro, in quanto rapporto mediato da un’astrazione reale.
Per altro, non v’è alcun dubbio che l’introduzione del computer e dell’informatica costituisce un’altra fase della rivoluzione industriale. Le nuove tecnologie legate allo scoperta del microprocessore non solo modificano profondamente il rapporto macchina-forza-lavoro ma consentono, com’è noto, una trasformazione radicale nel trasferimento, nella velocità e nella qualità di comunicazione delle informazioni. Così, oltre ad avere una grossa ricaduta sulla ricerca scientifica in generale, e in particolare sull’apertura dei campi enormi della genetica umana e della nuova biologia animale e vegetale, esse consentono sul piano più direttamente economico la
trasformazione, di portata profondissima, dell’attività produttiva da una struttura centralizzata a una struttura di rete, con un ampio orizzonte di dilatazione spaziale. Introducono nuove forme di commercializzazione, eliminando tutta una serie di gradi dell’intermediazione. Consentono spostamenti enormi, in tempo reale come si ama dire, di denaro e capitale finanziario che alimentano il boom dell’interesse e dell’investimento rivolto alle borse e ai mercati monetari, contribuendo ancor più a quella che si ama definire l’autonomizzazione del capitale finanziario dal capitale produttivo.
Eppure, si continua a ripetere, il convincimento di fondo che guida queste tesi è che per spiegare questa innovazione non vi sia bisogno di un nuovo paradigma interpretativo. La posta in gioco fondamentale di ogni innovazione tecnologica è, in un’economia capitalistica, l’aumento della produttività dei propri lavoratori. E sicuramente l’introduzione delle nuove tecnologie dell’informazione è volta, e sarà volta sempre più, a creare unità economiche di dimensioni più piccole, più elastiche e versatili, all’interno delle quali la vecchia struttura del processo gerarchico viene sostituita da un’interiorizzazione del comando attraverso una partecipazione impersonale ad un processo “in rete”. Così come l’economia a rete consente fenomeni assai estesi di riduzione delle dimensioni delle unità economiche, come anche di espansione di attribuzione di lavori in appalto. Tutto ciò si traduce in un aumento della produttività dei lavoratori, la quale, almeno così è per chi scrive, continua a costituire l’unica fonte che aggiunge valore all’economia e ad essere l’unica chiave che spiega la crescita dell’economia reale. Anche la cosiddetta new economy, l’economia digitale, l’economia dei beni immateriali continua perciò a ruotare intorno alla chiave di volta della produttività dei lavoratori. E infatti, uno degli eventi di maggior rilievo che stanno accompagnando quest’ultima rivoluzione industriale è non a caso proprio l’aumento, in intensità e in quantità, della giornata lavorativa. Rovesciando un trend storico-economico ormai secolare, volto alla riduzione dell’intensità e della quantità del tempo di lavoro, la nuova organizzazione informatica dell’economia rivoluziona la giornata lavorativa, colonizza e mescola sempre di più nella mente del lavoratore, anche attraverso consenso ideologico di quest’ultimo, il tempo di vita al tempo di lavoro e attraverso questo uso intenso e dilatato del tempo aumenta enormemente la produttività.
Queste sono, in conclusione, le tesi, esposte in modo alquanto schematico e apodittico - va detto - che sembra possibile argomentare, a muovere dalla prospettiva del marxismo dell’astratto, quando ci si confronta con le tematiche del postfordismo e del postmoderno, quali la dematerializzazione del mondo e l’inaugurazione di un’epoca in cui verrebbe meno la centralità moderna del lavoro e tutto ciò che con la fatica attiene al corporeo. Tali tematizzazioni, sollecitate da ispirazioni facili alle rotture storiche radicali e alle discontinuità assolute, appaiono guardare solo alla superficie delle cose e rimuovere il principio fondamentale proprio della logica di Hegel e di Marx, per cui si può dare scienza solo distinguendo e articolando la duplicità di piani del reale espresso dal nesso essenza-fenomeno. A mio avviso, per quanto s’è detto, la centralità del lavoro, malgrado lo sviluppo enorme dell’automazione e delle nuove tecnologie informatiche, non è venuta meno. Stiamo “ solo” passando dalla centralità del lavoro manuale a quella del nuovo lavoro mentale: passaggio epocale di tecnologie ed antropologie, il quale però non altera l’orizzonte del modo di produzione capitalistico all’interno del quale si svolge. La fatica rimane a fondamento del sistema economico, anche se è fatica della mente e non del corpo, e in quanto fatica rubata e non pagata rimane il cuore dell’accumulazione di capitale, la quale, se non fondata sulla fatica, rimarrebbe creatio ex nibilo. Così l’attuale riduzione delle forze lavorative nei paesi capitalistici avanzati sembra corrispondere più alle difficoltà legate al passaggio da un uso della forza-lavoro ad un altro, che non a una estinzione radicale ed edenica di questo uso.
Contemporaneamente certo non va sminuita la profondità della trasformazione che il modo di produzione capitalistico sta attraversando, e con esso tutto il nostro modo di vita. E’ evidente che il nuovo lavoro mentale implica una nuova alfabetizzazione, l’apprendimento cioè da parte della popolazione lavorativa di una nuova lingua, che è quella della macchina informatica. E già solo questo processo di con-versione da abilità manuali a competenze linguistico-informatiche s’accompagna ad esperienze certo non indolori per tutti quei settori della forza-lavoro che, per diversi motivi, sia soggettivi che oggettivi, non riescono a realizzare questo passaggio. Ma ciò, insieme al decentramento produttivo, all’obsolescenza della grande fabbrica, alla saturazione del mercato di molte produzioni tradizionali, concorre a spiegare le difficoltà di una trasformazione economico-sociale, che, per quanto estesa nel tempo e nello spazio, va definita, rispetto all’estensione di lunga durata propria del concetto di «modo di produzione», come storico- congiunturale e non storico-strutturale.
Il modo di produzione capitalistico rimane qualitativamente il medesimo rispetto ai suoi meccanismi strutturali di funzionamento. Ciò che in esso invece maggiormente muta, in quantità e in qualità, è l’identità e la centralità della classe operaia classicamente intesa. La sostituzione del lavoro mentale al lavoro manuale, con il superamento della distinzione tra “colletti blu” e “colletti bianchi”, tende a produrre una sostanziale omologazione tra proletariato tradizionale e lavoratori complessivamente definiti come lavoratori dei servizi. Probabilmente ciò implica anche il superamento o comunque la riformulazione del nesso tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo e la dilatazione del lavoro produttivo (di plusvalore e di capitale) a molti settori tradizionalmente concepiti come ambiti improduttivi della circolazione e della distribuzione del reddito. Non è più produttivo solo il lavoro che è salariato dal capitale e contemporaneamente produttore di beni materiali, ma un ambito ben più vasto di ceti lavorativi, la cui intelligenza e attenzione mentale è resa funzionale ai programmi della macchina dell’informazione.
Questa dilatazione del lavoro subordinato al capitale e questo superamento della parzialità della classe operaia tradizionale costituisce il piano storico-sociale nell’ambito del quale va maggiormente ridefinito il problema della soggettività. Infatti, se da un lato tale processo fa venir meno l’aporia su cui si è consumata la storia moderna del movimento operaio (ossia su come potersi fare la classe, che è parte in quanto funzione subalterna al capitale, tutto), dall’altro, propone in termini ancora più radicali il problema dell’emancipazione di una soggettività subalterna attraverso l’elaborazione delle sue forme di falsa coscienza. Giacché la dilatazione del lavoro mentale si accompagna, come s’è detto, all’approfondimento verticale della colonizzazione della mente, da parte di un’organizzazione tecnologica che almeno per ora, proprio per il mito della fine della fatica e di un lavoro ormai spirituale e “creativo”, è accompagnata da un forte entusiasmo e consenso ideologico.
Senza dimenticare per altro che l’introduzione e la diffusione della tecnologia informatica, o comunque il ruolo crescente della tecnologia nella produzione, sta delineando la formazione di un mercato del lavoro essenzialmente tripartito, la cui articolazione facilita l’aumento del grado di sfruttamento e di subordinazione del lavoro. Tre sembrano infatti essere oggi le fasce fondamentali, secondo le quali tende a dividersi la popolazione attiva, almeno nei paesi altamente sviluppati: 1) una élite di lavoratori dipendenti, ad alto livello di qualificazione e con forte motivazione lavorativa (a cui vanno aggiunti managers e lavoratori autonomi del ceto medio-alto), lautamente retribuiti e fortemente garantiti sul piano contrattuale, nonché in forte concorrenza tra loro; 2) una fascia di colletti bianchi e colletti blu, indispensabili al funzionamento produttivo e dei servizi, che si estende da una forza-lavoro sufficientemente garantita sul piano normativo e salariale, a una forza-lavoro sempre meno garantita da contratti fissi ed esposta nel futuro a condizioni di lavoro sempre più flessibili (che giungeranno fino a forme di lavoro pseudo- autonome, giornaliere, a domicilio, con contratti a termine, con remunerazioni precarie). Questa fascia di popolazione lavorativa, sottoposta al suo interno a una forte tensione di slittamento verso forme di lavoro sempre più elastiche, è quella che subisce lo sfruttamento più intensificato; 3) una fascia di giovani di prima disoccupazione, di donne e uomini con bassi livelli di qualificazione, di disoccupati espulsi dal processo produttivo, da utilizzare, con salari appena superiori al minimo di sussistenza, all’incremento più o meno volontario del “terzo settore” costituito dall’assistenza marginale ai bambini, agli anziani, ai malati nonché dalla cura contenitrice della disgregazione ambientale.
All’astrazione che la produzione di merci fondata sulla produzione e riproduzione di capitale porta e generalizza nel mondo-della-vita, l’ideale e l’utopia del comunismo non possono, com’è ovvio, opporre universalizzazioni e socializzazioni astratte. Giacché, altrimenti, confermerebbero, come appare evidente, proprio quell’astrazione della vita che pretendono di combattere. Eppure paradossalmente e sciaguratamente è proprio quanto è accaduto nella tragedia del cosiddetto “comunismo reale”. La socializzazione proposta dall’oligarchia al potere nei paesi dell’Europa dell’Est è stata drammaticamente astratta, spesso più astratta e repressiva della vita reale, di quanto non accadesse nel capitalismo d’Occidente. La parola d’ordine di quella socializzazione è stata infatti, unica e sola, quella dell’eguaglianza.
Ma l’eguaglianza senza la differenza, senza la valorizzazione cioè dell’individuo nel suo valore di singolarità irripetibile e non omologabile a nessun’altra, è appunto una terribile astrazione.
Così, il comunismo dell’Est è crollato perché il suo difetto d’origine stava nel semplicismo mortificante della sua antropologia, la quale con il tema ossessivo dell’eguaglianza non riscriveva creativamente ma rimuoveva e rifiutava, appunto astrattamente, quanto la cultura occidentale, dal pensiero greco attraverso il cristianesimo fino al Rinascimento e all’Illuminismo, ha scoperto e teorizzato sul valore del soggetto individuale e sulla non omologabilità della sua esistenza. E l’origine prima di questa antropologia dell’egualitarismo astratto sta proprio in molte delle pagine di Marx che, spacciate per materialistiche, sono invece intrise di un profondo spiritualismo ed aristocraticismo. La tesi marxiana del soddisfacimento prioritario ed eguale per tutti dei bisogni materiali, quale condizione fondamentale della libertà comunista, è infatti a ben vedere legata a una visione svalutatrice della corporeità e della natura , secondo la quale si può avere una libertà autenticamente umana solo se liberi appunto dai bisogni legati alla corporeità e alla materialità. Per cui solo se affrancati dalla cura della vita fisica e dal lavoro che essa implica (o almeno solo se garantiti tutti nell’eguaglianza della distribuzione del lavoro necessario alla riproduzione fisica e proporzionalmente a questo nell’eguaglianza della distribuzione dei beni) si può passare dal regno della necessità al regno della libertà, ossia alla vera emancipazione della creatività umana e al comunismo inteso come emancipazione di ciascuno nell’emancipazione di tutti. Pur se nella schematicità estrema di queste note va cioè affermato che spesso, dietro il cosiddetto materialismo di Marx, si cela una concezione aristocratica della vita umana, secondo cui si è liberi solo se si è liberi dal bisogno del corpo e da quello del lavoro. Con la conseguenza, che ne hanno poi ricavato i teorici e gli oligarchi del comunismo reale, che condizione prioritaria ed irrinunciabile del comunismo doveva essere l’eguaglianza materiale: non conta se fornita attraverso una disciplina e istituzioni autoritarie, giacché la realizzazione del suo fondamento comunque avrebbe garantito di per sé lo sviluppo e la maturazione della nuova società.
Almeno da tanta tragedia storica abbiamo imparato che il comunismo o è eguaglianza che si coniuga con la differenza, o è socializzazione che si coniuga con individuazione, oppure è totalitarismo, in quanto potere e presunzione dei pochi di dirigere e disciplinare in modo omogeneo e indifferenziato l’agire dei molti. E di conseguenza il comunismo o è senza violenza e senza avanguardia manipolatoria, oppure è ripetizione dello schema tradizionale del potere di una classe di oligarchi e di privilegiati di disporre del destino dei più. Così la sciagura immane e devastante del comunismo del ’900 ci insegna almeno una cosa: che cosa il comunismo non deve essere.
Ma per restituire dignità e senso a questa parola, per tornare a farla coincidere con ciò che di comunitario, relazionale, costruttivo e collaborativo ci può essere nella vita umana stessa, per ricominciare insomma a sapere che cosa il comunismo positivamente possa essere(15), dobbiamo verosimilmente cominciare a pensare il comunismo come quella condizione limite di una socialità matura, in cui l’eguaglianza stia a significare che a ciascuno vengano offerte le possibilità, pari a quelle di tutti gli altri, per esprimere il suo più proprio ed ineguagliabile sé. Che cioè eguaglianza e ineguaglianza (nel senso positivo di differenza individuale) non debbano stare una dopo l’altra, come ancora pensa l’antropologia semplicistica di Marx, ma che debbano giocare insieme, l’una come condizione strutturale e contemporanea all’altra.
Ci vorranno molti anni, almeno il lavoro di una generazione oltre la nostra, una profonda rivoluzione culturale, una grande capacità intellettuale, non individuale ma collettiva, di sintetizzare e comporre diverse e assai molteplici competenze, per ridare dignità di senso e utilizzabilità da parte dei più alla parola “comunismo”, dopo la sciagurata esperienza del ’900, consumata non solo all’Est ma anche all’Ovest con la complicità dei Partiti Comunisti che intenzionalmente e con totale responsabilità politica e culturale l’hanno a accettata, legittimata e valorizzata. Ma per rimettere sulla scena della storia e dell’emotività degli esseri umani il fantasma del comunismo, come fonte di contrappunto e di insidie per il capitale come fantasma, quello che si tratta di rifiutare è appunto una concezione mitica del comunismo come palingenesi totale della storia e come instaurazione dell’uomo nuovo. Questa visione religiosa, e perciò necessariamente repressiva e autoritaria, del comunismo, oltre ad essere stata la cornice ideologica del comunismo reale del ’900 e di tutti coloro che lo hanno sostenuto, ha le sue radici proprio in quel tanto di spiritualismo che offusca ancora la mente, per altro geniale, di Karl Marx: nella sua concezione prometeica del genere umano, capace di sviluppare ininterrottamente nel corso della storia e malgrado le contraddizioni sociali la propria creatività e le proprie forze produttive, nella valutazione della natura come mero oggetto e serbatoio presuntivamente inesauribile della manipolazione tecnica dell’uomo, nella fede acritica e presupposta nel trionfo di ciò che lega e accomuna su ciò che divide e contrappone. In una antropologia, si ripete, semplicistica e ingenua che vede il comunismo come il genere umano unificato, capace con la sua intelligenza comune e programmatrice di risolvere tutti i bisogni dell’essere umano, di espellere dalla cornice organica del suo orizzonte la presenza del male, che sarebbe di origine solo storico-sociale, e di garantire così lo sviluppo poliedrico e multiverso di ciascuno.
A tutto ciò bisogna contrapporre un comunismo laico, istituito non sull’onnipotenza bensì sul senso del limite: un comunismo cioè che affida alla responsabilità comune (ma i modi sono tutti da determinare) la gestione di alcune (si badi alcune e non tutte) questioni relative all’esistenza e alla riproduzione della vita umana(16). Dove appunto, per comunismo laico, si intende un’organizzazione di relazioni sociali che, superata la produzione di beni a mezzo di capitale, eviti asimmetrie ed estremismi nel campo del potere economico, culturale e politico, che eviti dunque le diseguaglianze di potere all’interno delle relazioni umane: ma che non pretenda di farsi carico e risolvere i problemi dell’esistere legati alla condizione naturale-finita dell’essere umano. La nascita, la morte, il corpo, il piacere e il dolore legati ad essi, il nesso corpo-mente, l’ambivalenza strutturale dell’emotività divisa tra pulsioni di vita e pulsioni di morte, sono “esistenziali”, strutture permanenti del vivere umano, che non possono essere risolti e superati dal comunismo, come da qualsiasi altra organizzazione storico-sociale.
Per questo, condizione imprescindibile perché possa riprendere una riflessione seria e pacata sull’ammissibilità e la dignità di senso sul comunismo è che venga superata, in un’ottica di profonda trasformazione dell’esistente, ogni teorizzazione del soggetto come soggetto presupposto. Non c’è un soggetto presupposto, in una sua presunta autonomia e forza, alla storia e al suo divenire, come da decenni ripetono i molteplici teorici dell’operaismo in tutte le sue possibili versioni di prometeismo proletario. In questa trappola soggettivistica è del resto caduto lo stesso Marx, quando ricavava dalla sua teoria giovanile dell’alienazione del lavoro l’inevitabile riappropriazione, da parte del soggetto alienato, della sua originaria soggettività: dato che un soggetto originariamente ricco non patisce oltre un certo grado la sua compressione ma, come un meccanismo a molla, se troppo compresso alla fine riconquista con uno scatto improvviso la sua posizione iniziale.
Il soggetto non è da presupporre, e così la sua libertà, in qualsiasi modo la si pretenda di fondare, da Rousseau a Kant a Sartre. Il soggetto è da porre, da costruire. E mai da altri, per non ricadere nella delega al partito, ma sempre da se stesso e dalla sua prassi di vita. A partire ovviamente dall’astrazione del mondo della vita e in primo luogo dagli erogatori del nuovo lavoro astratto mentale. Alle forme astratte della vita e del lavoro vanno opposte tutte le possibili relazioni della concretezza, che aiutino quel soggetto a ricomporre la contraddizione, che geneticamente appartiene alle classi subalterne, tra prassi di vita e coscienza di tale prassi. Con un’unica condizione da presupporre a tutto ciò: che ogni possibile forma alternativa di concretezza e di collaborazione abbia come imperativo categorico la confutazione e la lotta permanente contro ogni asimmetria di potere e contro ogni attitudine manipolatoria e di sfruttamento dell’altro, che nel seno stesso di quel soggetto tornerà inevitabilmente a sorgere. Il comunismo, come affermava Franco Fortini, può essere concepito solo attraverso la metafora di una condizione di pedagogia generalizzata. E pedagogia generalizzata significa che ciascuno è in pari tempo maestro ed allievo di tutti, che ciascuno cioè impara dall’esperienza umana di ciascuno, senza eccezione alcuna, in una condizione di reciprocità nella quale si inaugura una definizione nuova di ricchezza, consistente, più che nell’accumulazione di beni, nel confronto dialogico e non repressivo- manipolatorio dell’alterità.


Note:

(1)  Su questo tema cfr. F.Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari, 1996 e dello stesso autore Paeninsula. L’Italia da ritrovare, Laterza. Roma-Bari, 1998.
(2)  Cfr. su ciò J.F.Lyotard , La condizione postmoderna, tr. it. a cura di C.Formenti, Feltrinelli, Milano, 1985, e dello stesso autore The postmodern condition, in After philosophy: end or trasformation?, Mitt Press, Cambridge (Mass)- London, 1989, pp. 73-94.
(3)  Rimando al mio testo Astrazione e dialettica dal romaticismo al capitalismo. Saggio su Marx, Bulzoni, Roma 1987, nonché ai saggi Some Thoughts on the Modern in the Works of Smith, Hegel and Marx, in “ Rethinking Marxism”, Summer 1989, n. 2, pp. 111-131; Dal paradigma del lavoro al paradigma della forza-lavoro. Sulla trasformazione dei concetti di storia e dialettica nel Marx della maturità , in AA.VV., Trasformazione e persistenza, Franco Angeli, Milano, 1990, pp. 63-81; Logica analitica e logica sintetica, in “ Trimestre”, 1996, XXIX/1-2, pp. 13-27; R.Bellofiore – R.Finelli, The marxian monetary labour theory of value as a thery of exploitation, in Marxizn Economics: A Reappraisal, vol.I, a cura di R.Bellofiore, MacMillan, Basingstoke, 1998.
(4)  Anche qui rimando al mio saggio Al di là di una logica del sì e del no , “ Psicoterapia e istituzioni”, IV, 1998, n.1, pp. 61-76. Ma sul problema del nesso mente-corpo, in riferimento alla questione del “senso”, cfr. in particolare A.B.Ferrari, L’eclissi del corpo. Un’ipotesi psicoanalitica , Borla, Roma, 1991, e dello stesso autore Adolescenza. La seconda sfida, Borla, Roma, 1994.
(5)  Cfr. E.Rullani, La conoscenza come forza produttiva: anatomia del postfordismo, in L.Cillario-R.Finelli, Capitalismo e conoscenza. L’astrazione del lavoro nell’era telematica , Manifestolibri, Roma, 1998, pp.140.
(6)   Ibidem.
(7)   Cfr. G.Frison, Babbage e gli inganni del paradigma della divisione del lavoro, “ Quaderni di storia dell’economia politica”, III, 1985, n.2, pp. 49-79, e dello stesso autore Smith, Marx and Bechmann: division of labour, Technology and Innovation, in H-P. Müller - U.Troitzsch, Technologie zwischen Fortschritt und Tradition, Peter Lang, Frankfurt a.M.- New York 1992, pp. 17-40.
(8)  Tale identificazione appare essere il limite di fondo, accanto a una comprensione profonda, per altro, dei processi di mediazione reale della società contemporanea come tali, che scompaiono e si annullano alla vista, del libro di F.Soldani, Sistemi di conoscenza e potere nella società capitalistica , Antonio Pellicani editore, Roma, 1997.
(9) Cfr. F.Jameson, Postmodernism, or, The Cultural Logic of Late Capitalism, Duke University Press, Durham, 1991, tr. it. parziale Il postmoderno , o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti, Milano, 1989.
(10) Su questo tema cfr. M.Perniola, Del sentire, Einaudi, Torino, 1991, e dello stesso autore Sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino, 1994.
(11) Cfr. R.Luperini, L’allegoria del moderno, Editori Riuniti, Roma, 1990, pp. 11-13.
(12) L.Cillario, Il capitalismo cognitivo. Sapere, sfruttamento e accumulazione dopo la rivoluzione informatica, in AA.VV., Trasformazione e persistenza, Op.Cit., p. 134.
(13) Ibid., p. 155.
(14) Ibid., pp. 137-138.
(15) Cfr. su ciò la breve ma densa riflessione di R.Luperini, Essere comunisti oggi, in “ L’ospite ingrato”, Annuario del Centro Studi Franco Fortini, Anno II, Quodlibet, Macerata, 2000, pp. 105-109. 
(16) Su questo tema rimando al mio saggio Il comunismo laico di Franco Fortini, in AA.VV., Uomini usciti di pianto in ragione, Manifestolibri, Roma, 1996, pp. 61-69